chips e salsa ottobre 2009

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Dopo Internet, siamo pronti QUELLA CONNESSIONE D’OTTOBRE di Francesco Paternò

Primavera 1995: il manifesto pubblica il secondo ciclo di Chips&Salsa, cinque fascicoli sulle tecnologie della comunicazione, che – insieme alla precedente serie dedicata al computer – si sarebbero tramutati di lì a breve nell’omonimo libro. A quasi 15 anni da quell’uscita in edicola, riproponiamo un pezzo con cui Franco disegnava due possibilità per la rete del futuro, che per lui, in quel contesto, era il futuro immediato del 1999: più in là – scriveva – sarebbe stato impossibile spingere lo sguardo in maniera realistica. Eppure, a rileggerlo oggi, ci tocca smentire la sua eccessiva prudenza. I due scenari prospettati da Franco ancora oggi convivono in un delicato equilibrio. (Totem)

di Franco Carlini

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ue panorami alternativi delle reti e della comunicazione globale di domani. Non servono i profeti per immaginarli. Basta spingere un po’ la fantasia, estrapolando il presente quotidiano. Con ottimismo (scena 1) e pessimismo (scena 2). La data è stata messa ipoteticamente al 1999.

come «tecnologia di relazione»: divertimento, relazioni private, affari, tutto. Ma anche come «tecnologia di libertà». Perciò è un normale e diffuso luogo di conoscenza, di scambio di idee, di formazione di proposte, di controllo e influenza sulla politica e sui rappresentanti eletti. La rete così diffusa ha eliminato la necessità dei sondaggi, dove qualcuno proponeva le domande e gli altri, il campione, erano chiamati a dire la loro su quattro scelte pre-definite. Le idee comuni nascono piuttosto dal gran sobbollire della rete stessa, proprio come nel nostro cervello ogni pensiero non è altro che la configurazione assunta in un certo istante da una popolazione di cellule cerebrali. Sembra una gran confusione, ha l’apparenza del rumore, ma da lì emergono le novità e gli stati d’animo, singoli e di gruppo.

Scena 1/Una presa di libertà 1999: la rete è di tutti, frequentata da tutti. È uno strumento di comunicazione tanto normale quanto lo erano telefono e televisione a metà del ventesimo secolo. Dal punto di vista tecnico tutti i problemi Scena 2/La chiacchiera proibita di ristrettezza di banda sono superati. Signifi1999: la rete è spezzata in molti sotto-domini. ca che in ogni casa, anziché il cavo del telefono Le comunità originarie di Internet si sono con i due fili di rame, arriva un cavo coassiale. progressivamente ritirate in nicchie ecoloQuesto, nella strada sottostante, si aggancia, giche: i ricercatori da una parte, che ancora per mezzo di appositi convertitori, a «tubi» più grossi, a fibra ottica. In questo modo sul cavo possono viaggiare le telefonate normali (che continuano a essere molto comode e apprezzate), le videotelefonate, i programmi televisivi e tutte le attività interattive sulla rete. A metà degli anni ‘90 la barriera a entrare su Internet era costituita non solo dal costo delle attrezzature, ma anche dalla complessità dei software con cui aggirarsi in essa. Valeva l’analogia con le prime automobili, che solo un meccanico poteva usare, conoscendone ogni dettaglio e sapendo dove mettere le mani se qualcosa girava storto. Oggi, nel 1999, si guida l’auto e si chiama al telefono senza bisogno di saperne alcunché, e altrettanto avviene per le passeggiate telematiche. I software di navigazione: Mosaic e Netscape, targati 1993-94, furono un bel salto in avanti rispetto ai comandi astrusi dell’Internet prima maniera, ma rappresentavano ancora una certa barriera sociale e culturale. Ma da allora ne sono stati realizzati altri, ancora più facili e immediati nell’interfaccia e, con loro, una pluralità di agenti software nascosti (i filtri intelligenti) che si muovono per la rete eseguendo i compiti che il loro proprietario ha affidato loro. La «presa telematica» di casa (cavi, terminale domestico, software adeguato) è diffusa ovunque e fa parte dei servizi di base di ogni abitazione, così come lo erano il telefono, la luce elettrica e le condotte dell’acqua. Non è un privilegio per pochi, anche perché la liberalizzazione mondiale delle telecomunicazioni ha prodotto un abbattimento violento dei costi e l’abolizione della famigerata Tariffa Urbana a Tempo; sono nate invece nuove forme di tariffazione: un canone unico forfettario per l’insieme dei teleservizi di base. Culturalmente c’è stata la piena affermazione del diritto a comunicare e non solo a ricevere informazioni. Così si moltiplicano le comunità virtuali: sono piazze e strade, forum di dibattito e gruppi di interesse, forme nuove dell’organizzazione politica e sociale. Le forme sono le più diverse, perché lo strumento è totalmente versatile. Come già avveniva con il telefono, la rete viene usata pienamente

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l primo messaggio arriva interrotto. Il vagito di Internet risale a 40 anni fa – è il 29 ottobre del 1969 – ed è uno scambio fra quattro università statunitensi collegate tra loro su gentile concessione della rete di proprietà del Pentagono. Per entrare nella nostra vita quotidiana, Internet ci mette un po’, ci vogliono gli anni Novanta e da allora nulla è più come prima. Perché Internet corre e modifica. Il sapere, il lavoro, la libertà, il resto del mondo. Al manifesto e ai suoi lettori, Franco Carlini racconta prima di altri che cosa accade. E soprattutto, che cosa potrebbe accadere. Fra le sue migliaia di righe e di parole, pubblichiamo in apertura di queste pagine dedicate ai 40 anni di Internet un suo scenario scritto nel 1995, proiettato al 1999 e attuale nel 2009. Aggiungendo noi un po’ di storia e provando a indagare sui principali cambiamenti che la Rete produce sulla nostra vita on line. A cliccarli, sembrano un insieme di messaggi interrotti, come in quel lontano giorno di ottobre. Solo che oggi sappiamo infiniti.

Può essere molto bello e sociale il futuro della comunicazione. Ma non è detto

I PRIMI 40 ANNI DELLA RETE godono di discreti finanziamenti governativi per le loro attività telematiche; i cybernauti in molte altre parti, spesso in reti a ambito locale, oppure internazionali ma con esili legami e popolazione ridotta. È successo infatti che tutti i principali governi hanno percepito come una minaccia la libera comunicazione elettronica, che sfuggiva a ogni loro controllo. Il punto di svolta è stata la battaglia sulla crittografia, la tecnica matematica che permette di mettere in codice i messaggi elettronici, sì che nessuno possa leggerli, tranne il destinatario. Ora la crittografia è proibita. Ai vari BBS è stato imposto di registrarsi come testate giornalistiche e di accertare senza ombra di dubbio l’identità dei loro abbonati. Moltissimi hanno chiuso, alcuni si sono dati alla clandestinità. D’altra parte la tecnologia microelettronica ha fatto molti progressi nella miniaturizzazione, tanto che un host computer con memorie e tutto ha le dimensioni di una borsa da lavoro, compresa l’antenna per le comunicazioni su rete cellulare. Ma sono anche migliorate tantissimo le tecniche di monitoraggio del traffico telematico, così ai BBS clandestini ci si può collegare solo per pochi millesimi di secondo alla volta. Alcuni figli degli hackers hanno messo a punto una tecnica di trasmissione a micropacchetti per rendere difficili le intercettazioni. La crittografia invece è ammessa, anzi obbligatoria, per le attività commerciali su Internet. Che non si chiama più così ma WTnet, ed è coordinata centralmente dalla World Trade Organization. Ma è conosciuta familiarmente come BBNet, the Big Brother Net. Finalmente si può comprare mutande stando a casa in mutande, davanti al box telematico. Poiché corre soltanto moneta elettronica ed è stata scartata la via di renderla anonima (come era anonima la carta moneta), ogni movimento di e-money è registrato dai gestori commerciali di WTnet. Così è possibile fare proposte di acquisto molto personalizzate a chiunque, sulla base dei gusti dimostrati negli acquisti precedenti. Su ogni spesa effettuata i gestori telematici trattengono una piccola percentuale e questo spiega perché gli accessi alla rete sono addirittura gratuiti per gli utenti che vogliano comprare qualcosa, ma sono invece a pagamento per chi vuole scrivere dei propri testi nelle poche aree di dibattito ancora aperte: dei software contabits provvedono alla fatturazione. I messaggi immessi nei forum sono supervisionati da agenti-filtro (copware) che scartano tutti quelli che contengono parole sgradevoli. L’entusiasmo eccessivo per le privatizzazioni e per la concorrenza è finito attorno al 1996, quando è iniziata una nuova ondata di concentrazioni per aree geografiche. Il gestore telematico più grosso adesso è WOL, World On Line, i cui capitali sembra che provengano dai nuovi finanzieri vietnamiti, la “quinta tigre” del sud est asiatico. Iniziarono con esperienze di turismo virtuale grazie alle quali si poteva viaggiare per il Vietnam da casa propria. In compenso sono praticamente quotidiani i sondaggi telematici. Chi risponde secondo l’opinione che poi risulterà di maggioranza ha diritto ad alcuni minuti di televisione interattiva gratuita e a dei coupons telematici per teleacquisti, offerti dallo sponsor commerciale di ogni sondaggio. In questo modo si incoraggia l’emergere di posizioni nette, bipolari, e si assicura la governabilità: le persone infatti non rispondono più secondo quello che pensano, ma secondo quello che pensano che penserà la maggioranza degli intervistati.

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 LAVORO  L’IMPATTO DEL WORLD WIDE WEB 

di Benedetto Vecchi

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Ecco un oro che non luccica

etslaves, schiavi della rete. L’espressione, nata in una delle tante mailing list fiorite alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, indica ciò che molti sviluppatori di software e web-designer hanno imparato nel loro lavoro. A leggere i loro racconti, raccolti poi in un libro che ha avuto molte ristampe e aggiornamenti (Netslaves, Fazi editore), ci si imbatte in orari di lavoro senza fine; in salari che superano la soglia di povertà per una manciata di dollari, in una precarietà nel rapporto di lavoro che negli Stati Uniti significa nessun accesso alle stock options e nessuna assistenza sanitaria. Storie di vita scritte nel momento in cui la net-economy sembrava un eden dove la forza-lavoro era al riparo da gerarchie e sfruttamento. Che la rete non fosse il paradiso, lo aveva già segnalato la causa avviata sempre agli inizi dell’era della new economy, da parte di alcuni «consulenti» di Microsoft. Questi si erano rivolti a un giudice perché loro, i cosiddetti temps, cioè i lavoratori a tempo determinato, svolgevano le stesse mansioni dei loro «colleghi» perms, ma erano esclusi dai benefits previsti dall’impresa di Bill Gates e Steve Ballmer per i propri dipendenti a tempo indeterminato. Il verdetto del giudice fu salomonico: quei lavoratori avevano ragione, ma la Microsoft aveva tutto il diritto a differenziare il rapporto di lavoro. Sono solo due esempi che evidenziano come il World Wide Web e la produzione di software non siano mai stati quel regno della libertà che le teste d’uovo della net-economy avevano annunciato. La rete era sì un luogo dove la crisi della grande impresa e dell’organizzazione tayloristica del lavoro aveva dato vita a nuovi rapporti di lavoro con caratteristiche certo differenti, ma non era sempre sinonimo di maggiore libertà. Questo non significa che non ci fosse stato un cambiamento, ma che tutto quel che luccicava non era oro. L’assenza di gerarchie e la maggiore autonomia decisionale dei singoli dovevano vedersela con quel lavoro in team dove il controllo della produttività era delegata a quelle relazioni vis-à-vis che si sviluppano all’interno di un ristretto gruppo di persone. I coordinatori dei vati team fissano gli obiettivi e i tempi del progetto o alle parti del progetto che il gruppo deve sviluppare. Tempi, qualità e esecuzione del lavoro era delegato al team, all’interno del quale ognuno doveva controllare gli altri. C’era dunque differenza tra la vecchia organizzazione piramidale dell’impresa e un processo produttivo scandito dal lavoro in team, ma questo non significa certo la dimensione coercitiva del lavoro. E poi c’era sempre l’eterno problema del salario. In una realtà, ad esempio statunitense, questo significava che in passato il movimento operaio aveva legato il salario alla produttività, mentre l’assicurazione sanitaria e la pensione facevano parte di quel welfare capitalism che tanto ruolo aveva avuto negli Usa prima e durante i gloriosi trent’anni di sviluppo economico. Per quanto riguarda la produttività mancavano e mancano parametri «oggettivi» per misurarla. Non potevano essere, nel caso del software, le linee di programma codificate, perché quelle linee dovevano funzionare: una volte «scritte», andavano cioè verificate; e la verifica, le correzioni e la nuova verifica dilatavano sempre i tempi di realizzazione. Ne poteva essere le scadenze assegnate ai singoli per svolgere un dato lavoro, visto che anche in questo caso quella timeline si dilatava, quasi che il tempo previsto per realizzare una parte del lavoro era una convenzione che tutti sapevano sarebbe stata trasgredita. Quindi: come vincolare allora il salario alle performance dell’impresa? La soluzione stava in ciò era stato sempre individuato come la negazione della severa etica del lavoro, cioè il capitale finanziario. Meglio nella sua forma più glamour, la borsa. I dipendenti di molte imprese high-tech attendevano il bilancio di fine anno; e se tutto era andato per il meglio potevano sperare in un buon premio di produzione. Per quelli che invece lavoravano in società quotate in borsa, potevano sperare nel valore accresciuto delle stock options. Quando poi apparve chiaro che oltre al welfare state anche il welfare capitalism era da considerare un residuo passivo del passato, la spe-

Perché la rete e la produzione di software non sono mai stati quel regno della libertà che i guru della net-economy avevano annunciato. Tra nuove relazioni e veri cambiamenti

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ranza di una pensione «tranquilla» era riposta nei fondi pensione, legittimati da una legge ad andare in borsa. Il salario, tanto nella sua forma diretta che indiretta, diventava una variabile dipendente del capitale finanziario. Una tendenza riferita non ai soli Stati Uniti, perché, come un mefitico virus, si è diffusa mutando a seconda dei diversi «habitat» in tutto il capitalismo, da Chicago a Milano, da Tokyo a Parigi. La rete come regno della libertà era quindi una narrazione fiabesca di un’isola che non c’è. Eppure, qualcosa nella produzione high-tech era accaduto. La rete, come il software o la miniaturizzazione dei chip, ha bisogno di innovazione, di idee, di miglioramenti continui. E l’innovazione è esito della cooperazione sociale, delle relazioni informali dentro e fuori il luogo di lavoro. Nasce da condivisione delle conoscenze, che non hanno padroni, ma rimangono di proprietà dei singoli. È questo il motivo che i quarant’anni di esistenza di Internet è stata scandita da continui interventi legislativi in materia di brevetti e copyright, in maniera tale che l’innovazione, le idee diventassero proprietà delle imprese. Il diritto d’autore e i brevetti non servono cioè solo a disciplinare le attività degli «utenti» della rete, ma anche a disciplinare e tenere sotto controllo la forza-lavoro. E quando su Internet irrompe la produzione di software e di contenuti free o open source sono in molti a indicare nella organizzazione del lavoro messa in campo per la produzione del sistema operativo Linux la forma compiuta di un processo produttivo adeguato alla situazione della rete. Divisione del lavoro sempre definita collegialmente, verifica del prodotto delegata alla community degli sviluppatori, definizione di una gerarchia in base al merito. Rimane il problema di come adattarla a una dimensione economia che faccia profitti. Finora, nessuna soluzione è risultata davvero efficace. C’è però un altro elemento che risulta irriducibile a qualsiasi dimensione economica, fosse anche quella del «dono», come viene chiamata la produzione open in rete. In primo luogo, l’indifferenza, meglio l’ostilità a qualsiasi tentativo di «colonizzazione» della rete da parte delle imprese in nome della critica alla gerarchia qualunque essa sia – le discussioni più accese tra le centinaia di migliaia di uomini e donne che sviluppano Linux sono sempre sulla presenza di una gerarchia, seppur definita attraverso un criterio meritocratico - il lavoro come gioco, il desiderio di autonomia e indipendenza dalla imprese. In altri termini, Internet è refrattaria a una completo addomesticamento, come testimonia il pamphlet letterario più corrosivo sul lavoro in rete, quel Microservi di Douglas Coupland dove un gruppo di programmatori abbandona la Microsoft perché considera la società di Bill Gates una sorta di sofisticato regime schiavistico. Né è possibile, come fanno alcuni degli studiosi meno banali del World Wide Web (Pekka Himanen e Manuel Castells), parlare di un’etica hacker del capitalismo senza fare i conti con il fatto che è proprio l’etica hacker a costituire il background culturale della critica all’uso capitalistico della rete. Dal 1969, anno in cui i primi computer sono stati collegati in rete, molti bit hanno circolato su Internet e il lavoro nel web rimane un puzzle di cui sono noti solo alcuni tasselli. E quando la crisi economica si è dispiegata, quel puzzle si è maggiormente complicato, mettendo in discussione ciò che in quarant’anni di esistenza si era compreso. La scommessa da fare è comprendere come il puzzle si è scomposto, perché se si vuole capire il futuro bisogna propria partire non solo dalla concentrazione della proprietà o dalle strategie imprenditoriali di questa o quella multinazionale high-tech, bensì da quella locomotiva che tutto trascina che è appunto il lavoro in rete.

GOOGLE

Come funziona il modello del «20 per cento» di B. V.

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l GooglePlex sorto a poche miglia da Mountain View viene sistematicamente descritto come un campus. Al suo interno c’è la mensa che dispensa di tutto, compresi cibi veganiani o biologici, una grande biblioteca aperta 24 ore su 24, palestre, campi da tennis, di football, piscine, mentre per i pargoli dei dipendenti c’è anche un efficiente e antiautoritario asilo. Ma ciò che colpisce i visitatori è il clima informale tra manager e semplici lavoratori. E, ciliegina sulla torta, la regola interna che permette a ogni programmatore o analista di sistema di usare parte del tempo di lavoro per coltivare progetti personali. È la cosiddetta regola del «venti per cento» che per Google ha rappresentato un filone aureo per quanto riguarda l’innovazione. La leggenda narra che il servizio GoogleNews, la posta elettronica e altri prodotti distribuiti gratuitamente dalla società di Mountain View siano stati sviluppati all’interno della regola del «venti per cento». E altrettanto leggendario il fatto che i fondatori Sergej Brin e Larry Page invitino i propri dipendenti a partecipare alla festa chiamata del Burning Man, dove artisti, hacker, studenti universitari, anarchici e discendente dei freakkettoni si riuniscono a Black Rock nel Nevada per dare vita al dionisiaco happening in cui tutto è consentito fino a quando viene bruciato un uomo di paglia, cerimonia rituale per indicare l’armonia cosmica o la riconciliazione degli umani con la natura. Al di là delle leggende, è un dato di fatto che Google è una delle imprese che più di altre ha fatto propria la cosiddetta etica hacker, cioè quell’invito alla condivisione del sapere e all’egemonia del merito rispetto a altri criteri per definire la carriera come stella polare della propria organizzazione del lavoro. E non è un caso che i lavoratori di Google siano spesso personaggi di rilievo nelle liste di discussione sulla produzione di software open source, come d’altronde «aperti» siano gran parte dei programmi sviluppati a Mountain View, eccetto

PageRank, l’algoritmo del motore di ricerca messo sotto brevetto dall’Università di Stanford il cui utilizzo è gratuito per la società simbolo di Internet in questo inizio millennio. Tutto ciò testimonia che Google è davvero una società «anomala», quasi appunto un campus dove massima è la libertà nel lavoro. Un’anomalia tuttavia po ssibile perché i dipendenti sono pochi – alcune migliaia in tutto il mondo – e perché è riuscita a trovare il modo di fare ingenti profitti – la pubblicità degli inserzionisti – con una «infrastruttura» tecnologica e di software abbastanza snella che relega la produzione di software sempre nel campo della «ricerca e sviluppo». Da qui il fatto che Google è davvero una società innovativa e che è organizzata più che come un campus come un laboratorio di ricerca, dove le gerarchie devono essere ridotte al minimo per lasciare il massimo di autonomia ai lavoratori, che devono sentirsi «liberi» di esprimere al massimo la loro creatività. La domanda a cui ancora non c’è risposta è se il modello di Google possa diventare la norma. I dubbi sono leciti, come è lecito il sospetto che tale organizzazione possa essere mantenuta qualora la concorrenza di altre «imprese totali» diventi una realtà.

Una zoomata dentro Mountain View, per capire il sistema inventato da Brin e Page, oggi vincente. Ma può diventare la norma?


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I PRIMI 40 ANNI DELLA RETE

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La prima volta

Il 29 Ottobre 1969 viene spedito il primo messaggio sulla rete ARPAnet, di proprietà del Ministero della Difesa Usa. Sono connessi 4 nodi universitari. A causa di un crash del sistema, il contenuto del messaggio (la parola «login») arrivò tagliato («lo»).

1971

La prima mail

Nell’estate del 1971 viene inviato il primo messaggio di posta elettronica su ARPAnet. «Non mi ricordo cosa c’era scritto. Qualcosa senza senso, del tipo QWERTYUIOP», ha raccontato Ray Tomlinson che è anche l’ideatore del simbolo @.

1973

Trasferimento file

Non solo brevi messaggi di testo, ma anche invio di documenti più pesanti. Nel 1973 nasce il protocollo FTP (File Transfert Protocol) ancora oggi utilizzato per il trasferimento di file su Internet.

1980

Il primo «virus»

A causa di un errore nell’intestazione di una mail, il 27 ottobre 1980 ARPAnet viene totalmente bloccata. Non si trattava ancora di un virus «maligno», ma furono subito chiari quali potevano essere i potenziali effetti negativi della comunicazione su larga scala.

1981 Minitel

Il governo di Parigi dà vita a un network interamente proprio, Minitel, accessibile attraverso appositi videoterminali. Permette di prenotare biglietti, fare acquisti e consultare l’elenco telefonico. Molti anni dopo, anche in Italia sarebbe arrivato il Videotel.

1982 1979 Newsgroup ed emoticon

L’idea prende spunto dalle bacheche universitarie. Nasce così il primo newsgroup. Una tecnologia che di lì a pochi anni avrebbe attratto molti pionieri della prima internet. Nello stesso anno spunta il primo emoticon.

a destra, una piccola storia (per icone) del trasferimento dei files: dal floppy disk alla connessione Ftp. A sinistra, il primo server di google

Internet

Vengono definiti il Transmission Control Protocol (TCP) e l’Internet Protocol (IP). Nasce così ufficialmente Internet, come rete-delle-reti, che rende possibile l’interconnessione tra diversi network attraverso una serie di protocolli condivisi.

1987 .it

Arriva il primo dominio made in Italy. È «cnr.it», sito del Consiglio Nazionale delle Ricerche. La sede di Pisa del Cnr ancora oggi è responsabile per l’assegnazione dei domini .it

mercato

Crowdsourcing, lavorare sulle nuvole di Nicola Bruno

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essun contratto scritto, neanche uno straccio di co.co. pro. Niente tasse o copertura assicurativa. Il datore di lavoro? È un semplice nickname. E così pure il «dipendente» che, quando ha tempo e voglia, scorre la lista dei «compiti» da svolgere, porta a termine l'incarico e incassa la somma concordata. E poi via, verso il prossimo HIT (Human Intelligence Task - compito di intelligenza umana). Così il colosso statunitense Amazon chiama le offerte di lavoro pubblicate su Mechanical Turk, progetto che dal 2005 porta avanti la scintillante p romessa del crowdsourcing. Ovvero l'outsourcing in versione 2.0: le aziende pubblicano annunci con piccoli compiti da portare a termine (recensire un prodotto, tradurre un articolo, elaborare una stringa di codice) e le masse di utenti sparse in rete cercano poi di portarle a termine. Il tutto senza bisogno di un ufficio nella realtà: si svolge tutto online, tra le nuvole di internet (cloud computing è il termine con cui gli esperti chiamano la nuova infrastruttura di rete che permette di

Niente ufficio, «cloud computing» è il termine con cui gli esperti chiamano la nuova infrastruttura di rete che permette di lavorare direttamente online. E non importa chi siano questi «cloudworker»: basta solo portare a termine nel minor tempo possibile l'incarico assegnato

lavorare direttamente online). Non importa chi siano questi cloudworker, e quali siano le loro competenze. Basta solo portare a termine nel minor tempo possibile l'incarico assegnato. Anche perché la concorrenza è accanita e i compensi non sono proprio eccezionali, anzi. Trascrivere un file audio di 3 minuti viene pagato meno di un euro, per i compiti più gettonati si scende tra i 2 e i 5 centesimi: identificare il soggetto di una serie di immagini; rispondere ad una lista di domande; riscrivere una frase utilizzando sinonimi e contrari. Ma non è solo questo l'ambito in cui il crowdsourcing ha trovato terreno fertile. Nell'industria creativa ormai è sempre più sfruttato con la lusinga: «Sviluppa le tue capacità creative da freelance, facendo soldi e sentendoti parte di una comunità attiva». Peccato, poi, che a fronte del tempo perso a preparare i progetti non sempre si ha la certezza di essere retribuiti: solo i più votati ricevono un premio in denaro, per gli altri niente, grazie di aver partecipato. Con lo stesso metodo anche le grandi multinazionali hanno iniziato a «ingaggiare» gli utenti online. Piuttosto che assumere fior di programmatori, molte corporation hi-tech preferiscono spezzettare i progetti in più «compiti» e poi offrirli «a cottimo» online. Si dirà, niente di nuovo sotto al cielo: i cloudworker sono la versione commerciale del modello di lavoro elaborato nelle prime comunità open-source. Con la differenza che lì erano altre le motivazioni che spingevano a cooperare: costruire un'alternativa al software proprietario, acquistare «reputazione» nell'ambito di una gerarchia meritocratica e no-profit. Motivazioni che trovano ancora un senso nei progetti di crowdsourcing che si iscrivono nel quadro dell'economia del dono (come Wikipedia, ma anche le tante comunità no-profit che organizzano le proprie azioni online). Meno invece quando dietro c’è un’economia di mercato che sogna il grado zero dei rapporti con i propri lavoratori. Sospesi sulle nuvole, pagati poco e male, e senza nessun diritto.

www.totem.to

schema della tastiera «azerty»

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 MAPPE  LA GRANDE CORSA ALLA CONVERGENZA 

Apps e device, la vita appesa lì Q

di Alberto Piccinini

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ui è la televisione...», recitava la preistorica battuta di Eduardo de Filippo, importunato al telefono da un anonimo redattore. «Allora le passo il frigorifero!», rispondeva l’attore. E ricordate l’altra battuta da ufficio sull’ultimo modello di telefonino che «fa anche il caffè?». Oggi c’è poco da ridere. O moltissimo. Con l’application «Barista», scaricabile a soli 2.99 dollari, l’IPhone è in grado fornire l’esatta su videocassetta la tv, blobbando ricetta per la preparazione di un la pubblicità e le televendite nei buon caffè, caffèlatte, mokkacino, tempi morti del nastro magnetico. eccetera. Usando il gps, inoltre, Chi utilizzò segreterie telefoniche un’altra applicazione promette con apposito comando a toni, per di trovare il bar Illy più vicino, o pilotarle da fuori. Chi litigò con – a proposito di frigoriferi – il neregistratori telefonici e cabine a gozio di frutta e verdura fresche gettoni di mezzo mondo. Chi gioa due passi da dove ti trovi. Non cò a ping pong sulla tv e sul prima è escluso che lo stesso i-phone Commodore. Chi si spaccò la testa possa effettivamente pilotare una con il blip blip di un modem a 56k caffettiera o un frigorifero se forquando andava bene. Chi, infine, nito di adeguato hardware oltre rinunciò a tutto questo. E lesse un che di apposita app, sempre che a buon libro. qualcuno interessi mettere in sofA proposito, oggi il confine fitta i vecchi ed efficienti timer. della convergenza digitale si è Seguendo il gioco delle apps, di spostato sui giornali e sui libri. certo uno dei più efficaci partoriti Curiosamente, la galassia Gutendalla mente di Steve Jobs e dei suoi berg è l’ultima toccata da questa collaboratori, adesso ci si può ririvoluzione. Se leggere, scaricare, trovare in mano una chitarra, una mandarsi per email libri e giorbatteria elettronica, un’ocarina, nali in pdf è un’esperienza che al posto dell’i-phone. Un videorisale agli albori di internet, senza gioco o un personal computer. La che per questo fosse in discussiomappa per una scampagnata, un ne l’esistenza fisica e lo spazio di intero apparato di navigazione samercato di giornali e libri, è la crisi tellitare. Un libro o un giornale, la economica a ridisegnare lo scenaradio, la tv. Ma in questo caso anrio. Questa lentezza sembra tradidiamo sul troppo facile. Nato alla re una specie di rispetto ancestrale fine degli anni ’90, con la diffusioper le radici gutenberghiane da cui ne delle linee ad alta velocità e poi tutti veniamo, tanto che se Google con le tecnologie wireless, elevato Books promette di mettere in linea da Apple a vera e propria filosofia le biblioteche, l’arrivo dei lettori tioperativa, imposto a tutti i conpo Kindle segna un curioso passo correnti come terreno di scontro indietro rispetto all’esito finale del fondamentale, il concetto di «conprocesso di convergenza: la creavergenza digitale» domina tutta la zione dell’ultima, unica, definitiva, storia di internet. Storia tortuosa. device, il kubrickiano ma portatile E già piena di fallimenti, se si guarmonolite attraverso la quale tutto da all’abbandono in corso d’opera il possibile – digitalmente parlandegli hardware che promettevano do - sarà fattibile. di accedere facilmente a internet Questa è infatti la vera guerattraverso la televisione di casa, ra per la «convergenza digitale». o di vedere la tv attraverso il telefonino utms. Una troppo grande. L’altro troppo piccolo. Storia di grandi e importanti controversie dal sapore radicale, persino marxista dove meno te lo aspetti, se si pensa alla battaglia infinita sul copyright scatenata con la digitalizzazione e la downloadbilità dei contenuti. Scoprimmo con Napster e gli altri sistemi di p2p che si potevano chiudere le multinazionali discografiche (come effettivamente, in parte, avvenne), mettere il pepe al culo ai cinema e ai distributori di dvd. Lo streaming ci ha fatto abbandonare in un angolo la radiolina a transitor; youtube ha mandato in soffitta la televisione; skype ha lasciato a impolverarsi in un angolo il fisso, il telefono fisso; il gps da una parte, i social network dall’altra ci hanno fornito alle nostre vite una mappa portatile di scala ed estensione finora impensabile. Chi arriva dal bricolage allegro col quale negli anni ‘70 e ‘80 si eseguivano grosso modo le stesse funzioni, prima tra tutte il furto, non può non tradire un briciolo di nostalgia di fronte alla pulizia delle operazioni di convergenza digitale. E guardare con tenerezza al proprio cimitero di tecnologie che nel frattempo si è disperso chissà dove. Chi registrò su cassetta il suono della radio. Chi archiviò

Musica, pc, telefono, tv. Come ci si avvicina per tentativi all’oggetto che i film di fantascienza degli ultimi quindici anni ci hanno ampiamente promesso

Chi la vincerà? La televisione, il personal computer, il telefonino? Ne l’uno né gli altri, probabilmente. Se Apple continua come abbiamo visto a guidare la corsa, gli altri concorrenti non stanno a guardare. Ci si avvicina per tentativi all’oggetto che i film di fantascienza degli ultimi quindici anni ci hanno ampiamente promesso: coi netbook (tecnologia della penultima generazione dentro un involucro da trashware cinese), gli smartphone (tecnologia dell’ultimissima generazione, che sputa e tossisce alle prese con il sovraccarico di bit), con il touchscreen (che cancella l’ultima protesi alfabetica, la tastiera). È la ricerca di un minimo comun denominatore, di un oggetto finale, appunto. Tutto altro che un compito da designer, e se esistesse ancora la Bauhaus non è detto che se la caverebbe. Avremmo invece bisogno di un anti-designer, di oggetti senza orpelli, ma soprattutto senza altra funzione apparente che la loro portabilità. Infine: la «convergenza digitale» mette in primo piano l’importanza degli users – noi – nel determinare le strade di quel che fu il progresso-tecnologico. Per questo è un processo pieno di strade senza uscita, di cimiteri tecnologici, di cocenti fallimenti. Pensavamo, lo abbiamo pensato da sempre, che il futuro - moltiplicando le possibilità e le funzioni - avrebbe moltiplicato gli oggetti della nostra vita quotidiana. Che avrebbe riempito il mondo di macchine, per lasciarci a schiacciare quattro bottoni sul bracciolo di un divano, guardando la tv e mangiando junk-food. Invece no. Sbagliavamo. È esattamente il contrario. Ma in fondo è lo stesso buon vecchio principio del coltellino svizzero.

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W. W.

1991

World Wide Web

Il Cern di Ginevra presenta il World Wide Web (www). Una «ragnatela grande quanto il mondo» di pagine ipertestuali in cui dominano i link e i contenuti multimediali (testi, immagini, video). Internet si apre alle masse.

1993

Mosaic

Arriva Mosaic, browser pensato per sfogliare le pagine del Web senza troppa fatica. È tempo anche per la prima webcam online (fissa su una tazza da caffé) e del primo quotidiano online (The Tech del MIT).

1994

Motori di ricerca

Due giovani studenti di Stanford (David Filo e Jerry Yang, poi fondatori di Yahoo!) creano la «Jerry’s Guide to the World Wide Web». Una sorta di elenco telefonico per orientarsi nella marea di pagine web. Compare il primo banner pubblicitario.

1995 E-commerce

Grandi speranze per gli affari online: vengono lanciate eBay e Amazon. Negroponte predice l’avvento del Daily Me, il quotidiano ultrapersonalizzato. Le pagine web iniziano a parlare e... cantare in diretta. Nasce la prima radio solo online, l’inglese HK.

1996

Webmail e phishing

schema della tastiera «qwerty»

Viene lanciato Hotmail, servizio di posta elettronico gratuito webbased (poi acquisito da Microsoft). E iniziano i primi casi di truffe online: il 2 gennaio viene segnalata un’operazione di «phishing» (furto di dati sensibili).


I PRIMI 40 ANNI DELLA RETE È possibile navigare in internet dall’automobile (a sinistra in basso) o dal frigorifero di casa (accanto) dotati di connessione wireless e display touch-screen a colori

era digitale

Copyright, 95 anni di lotta e di rivoluzione Gabriele De Palma

S

ono stati anni di lotta e di rivoluzione quelli che hanno accompagnato il copyright nell’era digitale. La trasformazione di tutti i contenuti in codice binario, unita alla capacità di trasmissione dell’internet non potevano certo lasciare immutato il panorama della cultura e della conoscenza, ma la dirompenza con cui si è manifestata la portata della nuove tecnologie ha avuto, tra gli altri, un enorme merito: si è tornati a parlare di diritto d’autore. Un diritto che nell’ultimo secolo si era fatto strada affermandosi prepotentemente nelle aule dei legislatori, ma che era rimasto fuori dalle discussioni dell’opinione pubblica e degli utenti. Ora una materia così delicata per gli equilibri di mercato e così rile-

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vante per la sua ricaduta sul bene pubblico è diventata quasi mainstream, addirittura si è tradotta in programma di nuove compagini politiche, i partiti pirata nati in Svezia e progressivamente nel resto del Vecchio Continente. Tutto è iniziato da Napster, quando nel 1999 Shawn Fanning mette a punto il primo servizio peer-to-peer su larga scala per la condivisione dei file. Prima, ad accorgersi delle continue estensioni temporali per la tutela del diritto d’autore (allungata dai 28 anni di inizio secolo ai 95 anni odierni), erano pochi, e a protestare contro l’inibizione che sull’innovazione possono avere le leggi sulla proprietà intellettuale era stato solo Richard Stallman, fondatore della Free Software Foundation e padre del termine copyleft. Con Napster nel giro di pochi mesi centinaia di milioni di utenti hanno iniziato a scambiarsi le proprie discoteche, trasformate da vinile e cd in file mp3. L’industria si è brutalmente accorta che le cose erano cambiate, che il sistema con cui era diventata florida era basato sull’economia della scarsità (di mezzi, di supporti, d’archivio) mentre il web aveva cambiato paradigma trasformandolo in un’economia dell’abbondanza (e dei costi ridotti per archiviare, spostare, produrre, copiare i contenuti). Da allora è stata guerra aperta, a colpi di infrazioni dei diritti da una parte e di azioni

Diritti in cerca di autore, una battaglia mai terminata. Ovvero, copyfight, la proprietà intellettuale dalla parte del pubblico di repressione verso il file-sharing dall’altra. I tentativi di spaventare gli utenti, di prolungare la tutela e di fingere che l’innovazione non sia avvenuta non hanno sortito gli effetti sperati: gli utenti che condividono sono sempre moltissimi (fino a un paio di anni fa oltre l’80% dei file trasmessi su internet avveniva sul p2p), difficile sorprenderli in fallo a meno di violarne la privacy. Ma non sono stati solo anni di scontro tra posizione estreme e irreconciliabili. Il dibattito ha avuto, grazie soprattutto al professore di legge di Stanford Lawrence Lessig, una dimensione anche ragionevole: con le licenze creative commons sono gli stessi autori a scegliere quanti diritti tenere per sé e quanti lasciarne al pubblico. Forse finora è il frutto migliore di questa guerra che, per quanto segnata dal nuovo che avanza – e a cui dovrà rassegnarsi anche la lobby di musica e cinema – è ben lungi dall’essere www.totem.to terminata.

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di Francesco Piccioni

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arneade, chi era costui?». Il rovello di Don Abbondio cade in un contesto decisamente mutato. Lui non poteva che far ricorso alla sua memoria, ai pochi libri in dotazione o a qualche «sapiente» casualmente di passaggio. Oggi basta digitare il nome dell’antico filosofo greco in un qualsiasi motore di ricerca per trovare oltre centomila citazioni, a cominciare naturalmente dalle principali enciclopedie on line: Wikipedia e Encarta. Rispondenti tra l’altro a due diversi modelli di produzione della conoscenza. Una prima considerazione riguarda la dislocazione della memoria: dal soggetto all’archivio. Si tratta di un trasferimento che ha una sua storia: l’uomo ha fin dall’inizio affidato ai «depositi» la conservazione del suo sapere. E fin dalla notte dei tempi la gestione degli «indici» - le mappe per ritrovare le nozioni immagazzinate - è stata un momento essenziale della conservazione della conoscenza. Mai prima d’ora, però, si era avuta un altrettanto drastico svuotamento della memoria del vivente a favore dell’inanimato. Solo ora si può non sapere assolutamente nulla, se non le procedure per avviare il computer e formulare le richieste, e conservare comunque l’impressione di controllare i processi che preparano le nostre decisioni. Sembra un problema tecnico, ma si tratta di uno sradicamento di portata epocale. Ognuno, infatti, si ritrova a maneggiare informazioni di cui spesso ignora sia il processo di elaborazione, sia il tasso di attendibilità. Ciascuno di noi ha un vita densa di impegni e non dispone di molto tempo da dedicare alla verifica delle nozioni-base (i «mattoni della decisione»). Chi garantisce dunque che una data informazione sia corretta? In altri termini: a chi affidiamo il controllo di verità su quel che usiamo per districarci nel mondo? Non è un problema «nuovo». Anzi, ha ricevuto una formulazione e una sistematizzazione importante all’alba dell’epoca moderna, in pieno fermento illuminista. L’enciclopedia è nata esattamente per rispondere a queste più che legittime domande, allorquando la dimensione del sapere ha sorpassato irresistibilmente i confini della individuale capacità di memorizzazione. La comunità scientifica era l’unico soggetto cui era possibile delegare quel che abbiamo chiamato il «controllo di verità». Un

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 PRODUZIONE  PROCESSI CONTROLLO E CONTROLLORI 

Saperi e memoria ai tempi del digitale

Come la rete ha cambiato il nostro rapporto con la conoscenza. Sogni e paradossi delle nuove enciclopedie on line, da deposito di «tutto» a sintesi perfetta del peggio e del meglio affidamento comunque esposto all’errore individuale, all’evoluzione della conoscenza, allo «spirito del tempo» e quindi alle ideologie dominanti in un determinato periodo o territorio culturale. Il «controllo sui controllori» si è perciò concretizzato per un verso nel ricoscimento dell’infinita perfettibilità dell’opera di immagazzinamento (le revisioni periodiche delle singole voci), per l’altro tramite l’attribuzione di responsabilità individuale o collettiva per quel che veniva distillato e depositato nelle enciclopedie. La regola invalsa è stata quindi precisa: ogni voce andava firmata da una singola persona o da una redazione collettiva. Un modo onesto di riconoscere che «la verità» è una costruzione senza fine, e quindi di «segnare la via», piantando segnali e «facendo i nomi». La conoscenza in rete non possiede più queste caratteristiche. O meglio: in qualche ambito si è conservata questa sana stipulazione, in molti casi no. Questo costringerebbe ogni volta a porsi nuovamente la domanda: chi lo dice? Ma proprio la modalità d’uso della rete trasforma in un impaccio l’autointerrogarsi.

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easy internet café ad amsterdam. Nel 2000 era il più grande del mondo, con 850 postazioni. NELLA PAGINA A FIANCO, «WEB 2,0 COLLAGE» L’UNIVERSO DEL WEB 2.0 DISEGNATO DA A.J. BATAC (www.allanjosephbatac.com)

Il sogno dell’enciclopedia - il deposito di tutto il sapere - ha ricevuto on line una nuova formulazione, sposandosi ideologicamente con l’utopia democratica: ognuno può concorrere. Le due cose, palesemente, non stanno insieme. Il principio democratico permette a chiunque di esprimersi, la formulazione di un asserto scientifico (ossia valido temporaneamente erga omnes) richiede invece competenze non comuni. Episteme e doxa sono alternativi, non convergenti. L’esempio è ovviamente Wikipedia, «l’enciclopedia libera». Quest’opera collettiva riassume in sé il meglio e il peggio del problema della conoscenza totale. Ci dà molta informazione, ma straordinariamente difforme quanto ad attendibilità. Con qualche paradosso non inatteso. È infatti molto attendibile per le voci inscrivibili nelle cosiddette «scienze esatte», mentre è insopportabilmente sciatta in quelle «storiche» o «umane» che dir si voglia. La ragione di questa discrasia è facilmente individuabile nello stesso meccanismo di elaborazione delle singole voci. Come avviene in una qualsiasi discussione da bar, infatti, nessuno si azzarda a dare la «sua versione» della teoria della relatività o della fotosintesi clorofilliana. Ma, proprio come nelle «democratiche» discussioni tra incompetenti, ognuno si sente in grado di dir la propria sulla migliore formazione possibile per la nazionale di calcio o la composizione del governo. Questa irresistibile tensione al

protagonismo dell’ignorante non è ovviamente ignota ai curatori di Wikipedia. Che hanno risolto il problema facendo un passo indietro rispetto al programma originario (la possibilità di modificare ogni voce da parte di chiunque), approdando alla formazione di «gruppi» responsabili di un certo campo di voci,. È un passo nella direzione tipica dell’enciclopedia «classica», ma senza l’individuazione di una «comunità scientifica» universalmente riconosciuta e senza la decisiva attribuzione di responsabilità per quel che viene «depositato». Anzi, proprio sulle voci più controverse (non a caso quelle storico-politiche) è facilmente verificabile come esistano vere e proprie «minicomunità proprietarie» che esercitano un controllo assoluto - e «irresponsabile» sul piano scientifico, quindi solo «ideologico» - dei contenuti. Chiunque provi a «modificare» una singola voce può farne esperienza. Invece del-

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la comunità scientifica abbiamo qui dei «gruppi simpatetici» privi di ogni caratteristica propria della «scienza». A partire dalla competenza certificabile e quindi dalla «firma» sotto ogni formulazione. Specie nelle discipline storiche o umane l’«imparzialità» - in Wikipedia ridotta a impossibile «neutralità» - è stata tematizzata da molto tempo. Come ricorda ad esempio Cesare Bermani, «la sola obiettività possibile per chi fa professione di storico» non consiste nel negare di possedere «una matrice ideale, culturale, politica», ma al contrario nel «dichiararla apertamente», in modo da permettere ai fruitori presenti e futuri di «fare la tara» su quel che si dice. Insomma: chi pretende di esser neutrale non può che essere, sul piano intellettuale, uno che dissimula la propria opinione; un modo di procedere «disonesto». Vale per i singoli individui, ma anche per i progetti collettivi mal congegnati.

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I PRIMI 40 ANNI DELLA RETE vita da chip

Byte in fuga, ci vediamo tra mille anni di Carola Frediani

A

una società liquida non poteva che corrispondere la fragilità dei dati digitali. La loro consistenza vaporosa, l’esistenza effimera, la debolezza con cui affrontano i colpi del destino li fanno assomigliare a certe comete dello star system. Con la differenza però che nelle loro mani abbiamo consegnato gran parte delle nostre vite. La principale fallacia della rivoluzione informatica è probabilmente questa insostenibile leggerezza delle informazioni digitali, che con gli anni non sembra essere affatto diminuita. Anzi, come un palloncino scappato di mano, è finita tra le nuvole. Ne sanno qualcosa quei migliaia di clienti dell’operatore Usa T-Mobile i cui dati immagazzinati attraverso il cellulare sui server di Microsoft si sono volatilizzati in un secondo. Utenti che hanno perso centinaia di contatti, foto vecchie di anni, informazioni finanziarie, contenuti che dovevano essere archiviati da qualche parte sui computer di un’azienda, e che invece si sono squagliati. Come nuvole al sole. È il cloud computing, bellezza, ed è l’ultima tendenza della Rete. Nota ai più per i sistemi di web mail (Gmail & co.), si sta estendendo ormai a qualsiasi servizio dove sia necessario salvare informazioni da qualche parte, rendendo le stesse sempre raggiungibili dall’utente. Grandi e piccole aziende internet si offrono di fare da archivio online, spesso gratuitamente, ma il prezzo da pagare è quello di un ulteriore passaggio di stato dell’esistenza: da liquida a gassosa. D’altra parte, memorizzare contenuti su un Cd non basta a far dormire sonni tranquilli. La conservazione dei dati digitali è infatti una continua rincorsa dietro a siti web che chiudono, server remoti e invisibili che collassano, servizi che s’interrompono, e non ultimo, formati che diventano illeggibili. Un supporto di archiviazione dati – floppy disc, Cd, Dvd – ha una vita sociale di circa dieci anni. Le informazioni devono essere periodicamente trasferite su nuovi sistemi di immagazzinamento: una migrazione digitale che costa tempo e denaro. Conservare e mantenere l’originale di un film ad alta definizione, ad esem-

pio, costa 12.500 dollari l’anno. A complicare ulteriormente la vita si aggiunge l’obsolescenza dei formati dei file: qualcuno l’ha definita una bomba a orologeria. Del resto, perfino la Nasa ha avuto problemi a decifrare quello che era stato salvato sui nastri magnetici negli anni ’70. L’Uk Data Archive – istituto inglese specializzato in conservazione dei dati digitali – si è dato due linee guida, di fatto le due leggi fondamentali dell’archivista contemporaneo: i sistemi di memoria digitali sono intrinsecamente inaffidabili; tutti i formati e i supporti diventeranno in definitiva obsoleti. C’è chi prova a superare il problema cercando l’elisir di lunga vita dei chip: il professor Kuroda, della giapponese Keio University, sta lavorando a una «stele di Rosetta digitale»: un apparecchio di memoria della durata di ben mille anni. Sempre che tra così tanto tempo ci sia qualcuno che riesca ancora a leggerlo.

L’insostenibile leggerezza dei dati digitali. Proliferano servizi per salvare informazioni da qualche parte, rendendo le stesse sempre raggiungibili dall’utente. E grandi e piccole aziende internet si offrono di fare da archivio online, spesso gratuitamente

1997

@ di Bruno Di Marino

Blog

Il giornalista Jorn Barger conia il termine «weblog» per indicare quelle pagine web che raccontano la propria vita online. L’anno successivo sarebbe arrivato il primo blog, si chiamava Open diary.

1998

Google

Spira forte il vento del business, tutti si tuffano sull’e-commerce. Viene lanciato il primo sito di comparazione per gli acquisti online. Nel frattempo in un garage della California apre la prima sede di Google.

1999

Napster

Durante il conflitto tra Serbia e Kosovo prende piede la prima cyberwar tra due stati. Ma la novità dell’anno è un’altra: lo sbarco online di Napster, il primo servizio di filesharing basato sul peer-to-peer. Iniziano le battaglie tra utenti e major.

2000

Bolla delle dot-com

Dopo l’entusiasmo delle dot.com (aziende dalle mille speranze, gonfiate da investimenti speculativi, ma senza un modello di business), arriva il grande botto. Il 10 marzo il Nasdaq tocca il suo massimo storico, per poi perdere posizioni giorno dopo giorno

PAPARAZZI UK, 2009, 7’50”, musica: Lady Gaga,

2001

Wikipedia e il podcasting

In piena recessione prendono piede iniziative orientate all’economia del dono (e non al profitto selvaggio). Jimmy Wales fonda Wikipedia. Dave Winer pubblica il primo file audio via Rss (qualche anno più tardi verrà chiamato podcasting).

2003 Guerra al p2p

Le major del disco iniziano la loro battaglia al p2p. Vengono denunciati 261 individui negli Stati Uniti. Nel frattempo si fanno largo le alternative legali a pagamento: Apple lancia il suo iTunes Store. Ma non è il jukebox celestiale sognato dagli utenti.

regia: Jonas Akerlund, fonte: MTV

Comincia come una romantica storia d’amore, prosegue come una performance post-human e si conclude come un noir il tanto discusso Paparazzi, che ha il tocco inconfondibile e provocatorio di Akerlund. Dopo un prologo dialogato, la popstar britannica viene scaraventata giù dalla balconata della sua lussuosa residenza dal suo uomo, mentre alcuni paparazzi la fotografano con il teleobiettivo. Si ritrova su carrozzina a rotelle con stampelle e protesi d’acciaio. Non manca nulla: ironia, kitsch, senso del macabro (i quadretti con le molteplici finte morti di Lady Gaga), mescolanza di narrazione e clip coreografico, un gusto visivo che oscilla tra certa fotografia e videoarte contemporanea da un lato, e le convenzioni banali del video pop dall’altro. Ma è un lavoro che comunque si lascia guardare.

RAINDROPS UK, 2009, 5’20”, musica: Basement Jaxx, regia: Jess Holzworth, fonte: MTV

Mirror effect, giochi di luce, immagini caleidoscopiche, il tutto per creare un gioco tribal e optical di performer dal corpo truccato-tatuato e con maschere sul volto che, praticamente a seno nudo, affogano in una texture astratta e cangiante. Videoarte e animazione al computer si coniugano in un clip forse non originalissimo ma di notevole impatto percettivo e cromatico, tra le coreografie da Lido e il decadentismo underground stile Kenneth Anger. Il singolo fa parte dell’album Scars del duo londinese.

MOST LIKELY YOU GO YOUR WAY (AN I’LL GO MINE) Usa, 2007, 3’40”, musica: Bob Dylan, regia: Rupert Jones, fonte: youtube.com

2004 Web 2.0

A San Francisco si tiene il primo Summit Web 2.0. Il termine diventerà un mantra per indicare tutti quei servizi nati a cavallo della bolla che mettono al centro l’utente. Nello stesso anno nasce Facebook e Mozilla lancia Firefox, browser open source.

Un uomo ripreso sempre di spalle con una custodia di chitarra nella mano sinistra cammina per le strade di una New York anni ’60, si ritrova ad un raduno hippy degli anni ’70 (Woodstock e dintorni), entra in una chiesa dove c’è un coro gospel, infine cammina nuovamente in una strada con afroamericani che fanno la breakdance (siamo ormai negli ’80). L’uomo è naturalmente Dylan che attraversa i decenni con la sua musica, cambiando di abbigliamento e capigliatura ma senza invecchiare mai. L’immaginario di uno dei più grandi musicisti della storia è sintetizzato in poche sequenze, con un’inevitabile autocitazione (il set di Subterranean Homesick Blues, il protovideoclip diretto da Pennebaker), da Rupert Jones, un regista soprattutto televisivo. Per uno come Dylan, piuttosto restio a girare video dalle sue canzoni, questo Most Likely… è una vera chicca.

BUONANOTTE ALL’ITALIA Italia, 2007, 5’, musica: Luciano Ligabue, regia: Daniele Persica, fonte: youtube.com

schema della tastiera con caratteri urdu

Mancava Ligabue alla lista di cantautori che hanno raccontato e celebrato il nostro paese. Con Buonanotte all’Italia il rocker emiliano canta in maniera sentita e sofferta l’amata e odiata penisola, affidando a Persica il difficile compito di sintetizzare in un video volti e momenti di storia e cultura nazionale. Il regista ci riesce bene sfruttando la scenografia utilizzata da Ligabue per i suoi concerti; su enormi schermi Led scorrono fotografie in bianco e nero con gli italiani più significativi: da Fo ad Eduardo, da Ferrari a Pasolini, da Totò e Peppino ad Arbore-Boncompagni, dalla Pivano a Pavarotti; e avvenimenti drammatici, dall’omicidio Moro all’Italicus al terremoto dell’Irpinia. Il crescendo musicale dell’ultima parte del brano, si traduce nel clip con una serie di fuochi d’artificio riproposti sui vari schermi. Un vero e proprio bombardamento iconografico in un contesto quasi da installazione video che, oltre a renderci un po’ orgogliosi, arriva perfino a commuoverci. Solo l’ultima immagine a colori con le bandiere della pace risulta un po’ troppo retorica.

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I PRIMI 40 ANNI DELLA RETE

2005

 CYBERSPAZIO  MANIFESTI HACKER E LOGICA PROPRIETARIA 

Se la pubblicità batte le ideologie

ctrl

di Benedetto Vecchi

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Il possibile futuro della Rete, le profezie sbagliate, il destino dei pensieri che hanno accompagnato lo sviluppo di Internet, un punto sulle tendenze

a frontiera elettronica è stava definitivamente recintata e i cow-boy della tastiera hanno dovuto conoscere l’umiliazione di una repentina normalizzazione. Questa rappresentazione della rete è molto in auge negli ultimi tempi e annovera studiosi tra loro assai eterogenei che spaziano dai libertari più radicali – lo scrittore Bruce Sterling, ad esempio – ai marxisti in odore di ortodossia, come l’australiano Wark McKenzie, autore di un celebre Manifesto hacker dove invita tutti i lavoratori immateriali a unirsi. Ma al di là dell’eterogeneo consenso che incontra, è una rappresentazione semplificata che ha tuttavia il pregio di registrare i cambiamenti dei rapporti di potere avvenuti nella Rete. In primo luogo, perché presume di individuare i vincitori del grande risiko su chi esercita il controllo del cyberspazio, cioè quelle imprese che in un primo momento hanno guardato a Internet con sufficienza e arroganza, considerandola niente altro che un innocuo gioco di asociali ragazzini brufolosi. Chi potrà infatti mai dimenticare Bill Gates agli inizi degli anni Novanta, quando indicò nel cyberspazio il regno di un effimero miraggio verso il quale andava contrapposto il solido e ricco mercato del software. E di come, in perfetto stile brezneviano, lo stesso King Bill è salito su uno dei tanti palchi dove era chiamato a parlare del futuro per indicare proprio quel bistrattato kindgarden chiamato Internet come uno degli obiettivi strategici di Microsoft. Sembrano passati anni luce, ma l’arte della profezia mal si applica al World Wide Web. Hanno sbagliato previsione un po’ tutti, dal guru della rivista Wired, Kevin Kelly, che discettava sulla rete come mente globale, a Nicolas Negroponte, lo studioso eccentrico del Mit che vedeva il computer prendere il posto della tv e diventare il media universale. Ma se le profezie si sono rivelate sbagliate, diverso è il destino delle ideologie che hanno accompagnato lo sviluppo di Internet. Ideologie che vanno ripercorse almeno per capire se non il futuro, almeno le tendenze contraddittorie e tra loro conflittuali presenti nella Rete. Il punto di partenza è la vision che ha visto nel World Wide Web un luogo dove ogni razionalità economica era respinta con forza da chi la rete la usava per una prassi comunicativa libera dalla colonizzazione mercantile. Anche in questo caso, era un punto di vista alimentato da culture filosofiche e politiche diversificate, per cultori di una concezione olistica di Internet in quanto espressione della «grande madre terra». E al tempo stesso per chi considerava la rete l’hardware funzionale a un’opinione pubblica iperinformata, per esprimere liberamente le critiche al sovrano di turno senza incorrere in nessuno dei limiti della discussione fuori lo schermo (demagogia, ridondanza dei messaggi, impossibilità di stabilire un criterio di verifica di quanto affermato in rete). Una vision che ha successivamente invitato ad abbandonare la rete quando le imprese hanno aperto le prime home page, sperando di trasformare internet nella classica gallina delle uova d’oro. La posizione dell’abbandono della Rete è rimasta inascoltata, visto che centinaia di milioni di persone continuano a usarla per comunicare, giocare, scaricare film e canzoni mostrando molta indifferenza verso chi gridava al tradimento. Fin qui siamo al passato prossimo della Rete, cioè quanto era prossima all’età della ragione. Più interessante sono state le posizioni di chi ha guardato a Internet come il medium, habitat e macchina per produrre manufatti digitali al di fuori di una logica capitalista. Siamo in presenza con le ideologie dominanti all’interno della Rete, sia nella sua versione critica che apologetica del capitalismo. L’elaborazione del gruppo tedesco Oekinux che parla espressamente di «economia del dono» e della possibilità di una diffusione virale di un modo di produzione egualitario e noncapitalista convive ad esempio con le tesi del libertario-liberale Yochai Benkler, che vede nelle peer to peer production la via d’uscita da modelli produttivi ingessati, senza che questo

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30) alias N. 43 - 31 OTTOBRE 2009

Video-sharing

In un garage della California, due giovani smanettoni lanciano un portale per la condivisione di filmati. È subito boom. Google intuisce le potenzialità e un anno dopo rileva YouTube, affermandosi come la nuova potenza del web.

coincida con la fine del regime basato sulla proprietà privato. Allo stesso modo lo studioso Chris Anderson considera il Gratis della rete uno straordinario strumento di marketing virale per le imprese che puntano a fare profitti non solo sulle merci vendute, ma anche sui servizi di supporto agli utenti. Siamo cioè di fronte al nodo gordiano di come rendere produttivi attitudini, modi di produzione che non sempre sono contemplati dai manuali di economia. È questa la tendenza maggiormente presente su Internet, che condizionerà la vita dentro lo schermo se non per i prossimi quarant’anni, per i prossimi due o tresicuramente. Tendenza che deve fare i conti con l’ospite inatteso, la crisi economica che ha determinato, fattore marginale se non irrilevante nei primi quarant’anni di Internet, i primi licenziamenti di massa nel settore hightech. E se agli inizi degli anni Ottanta, l’outsourcing aveva coinvolto solo la produzione di microprocessori, ora è anche la produzione di software che vede una sostanziale riduzione di personale negli Stati Uniti e in Europa, senza che ci sia un aumento significativo nei paesi cosiddetti emergenti (Cina, India, Brasile e, in qualche misura, Filippine). I prossimi anni in Rete saranno quindi all’insegna di piccole e grandi mareggiate, piccoli e grandi sommovimenti. Perché trasformare l’«economia del dono» o la peer to peer production in mezzi per fare profitti è difficile, anche a partire da quale sarà il settore emergente in termini di prodotto. Detto in altri termini: c’è da nutrire molti dubbi che Microsoft assisterà alla crescita dei sistemi operativi open source senza fare nulla. Nel recente passato ha lanciato il programma shared software per mettere a disposizioni parti dei programmi del suo sistema operativo in una grossa operazione di immagine che ha avuto però scarso successo. La Microsoft per molti internauti è ancora simbolo di una logica proprietaria da sempre poco amata. Inoltre, gli ultimi dati del bilancio trimestrale della Microsoft resi pubblici la scorsa settimana testimoniano che a Redmond i sistemi operativi fanno ancora cassa, ma chi porta nuova liquidità sono i prodotti legati ai videogiochi e alle telefonia mobile. Se poi il settore dominante sarà quello dei motori di ricerca, Google ha un vantaggio competitivo che difficilmente sarà eroso facilmente. C’è però un’altra vision, quasi una ideologia in formazione che rimbalza da un nodo all’altro della Rete: tutto su Internet sarà gratis, dalla connessione ai programmi per scrivere, fare calcolo, elaborare immagini e suoni, il business delle imprese è nell’attenzione che riusciranno a strappare ai naviganti. Attenzione stimata in tempo dedicato a un sito piuttosto che a un altro; attenzione stimata nei siti visitati perché segnalati dal fornitore di tutto quanto l’occorrente per stare in rete. Ma qui siamo alla vecchia e cara pubblicità, l’unica certezza nelle piccole e grande ideologie che hanno attraversato la Rete negli ultimi tre lustri.

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2006 Partito Pirata

Alle elezioni svedesi partecipa un piccolo partito, nato per portare avanti le battaglie pro-file sharing. Non è solo una provocazione: di lì a tre anni riuscirà ad eleggere un deputato al Parlamento Ue. A San Francisco nasce Twitter.

2008 Avanza l’Asia

Si capovolgono gli equilibri su internet. La Cina supera gli Stati Uniti per numero di utenti online. Mentre in tutto il mondo crescono le pressioni dei governi per un maggiore controllo sul web. Si moltiplicano i casi di censura e repressione.

2009

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Marketing on-line con «realtà aumentata» per la birra carlsberg: sul sito spagnolo www.carlsberg.es

Realtà Aumentata

Mentre in Svezia vengono condannati i fondatori di Pirate Bay, sul mercato arrivano gli smartphone che uniscono internet, multimedia e tecnologie di posizionamento (Gps). Dopo il web 2.0 è tempo di «realtà aumentata»

[ TIMELINE a cura di Nicola Bruno ]


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