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VIAGGIARE LUNGO CORSI D’ACQUA, VIA ORIGINALE DI RACCONTO. SUL NIGER, TERZO FIUME D’AFRICA, DENTRO UNA PIROGA CHE FA DA TENDA, SULLE ORME DELL’ESPLORATORE CAILLÉ CON META L’ANTICA CITTÀ CAROVANIERA DI GOA

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a contrattazione è feroce, il capitano è inamovibile. “Dodicimila franchi, non uno di meno”. Venti euro per uno spazio angusto su una piroga carica di cemento, l’esperienza confina con il masochismo. Adagiata sul bordo del fiume, la barca di legno - venti metri di lunghezza per quattro di larghezza – è pronta: a bordo una trentina di persone, qualche animale (tre capre e una ventina di galline chiuse in gabbia) e masserizie di ogni tipo. Se si annuncia sfiancante, la traversata ha un sapore vagamente mitico: la meta è l’antica città carovaniera di Gao, sulla riva destra del Niger, seicentocinquanta chilometri e quattro giorni di viaggio più in là. giante: al di là della zona merUna traversata che ripercorcanzie e viaggiatori, c’è la cucina re le orme dell’esploratore fran(un vano in cui è adagiata una cese René Caillé, che nel 1828 grande pentola e qualche attrezvolle raggiungere via fiume la zo). Più in là il motore. In fonleggendaria Tombouctou, dove do, la toilette, un asse sospeso arrivò straziato dalle febbri masull’acqua con un buco al centro, lariche e stravolto dalla fatica. in cui l’intimità è garantita da un La sua barca era a remi, senza sottile telo di plastica. riparo per il sole; quella ormegSeguendo il lento fluire delgiata accanto al molo almeno è le ore, il fiume si inarca quieto: dotata di motore e di una larga le rive, ancora verdi e lussuregtettoia. gianti, brulicano di vita. Frotte Dopo il Nilo e il Congo, il Nidi bambini seguono di corsa la ger è per lunghezza il terzo fiutraiettoria della navigazione, si me del continente: nasce dagli sbracciano in cenni di saluto e altipiani della Guinea Conakry si gettano in acqua. All’approse, dopo aver attraversato gran simarsi di ogni villaggio, piccoparte dell’Africa occidentale, si le imbarcazioni affiancano lo ramifica in un delta frastagliato scafo, proponendo ogni sorta e si getta nell’Oceano Atlantidi prodotti: pesci soprattutto, co. Le sue acque sono mutema anche spiedini di montone, voli: limpide e lucenti in Mali, frutti, bibite dolci in sacchetti di limacciose in Niger e dense di plastica artigianali. Per tutto il catrame e di petrolio in Nigeria, corso del fiume, si commercia, prima di disperdersi tra le onde si vende, si compra. Ogni volta, è del golfo di Guinea. Di tutta la un incrocio di braccia, un balletsua estensione, il tratto in Mali to di merci e denaro che passano è l’unico veramente sfruttato di mano in mano. Il Niger è un per la navigazione. Ma solo sei immenso e variegato mercato. mesi l’anno, da luglio a dicemMan mano che si procede bre. Il resto del tempo, il corso verso nord-est, e ci si avvicina d’acqua si chiude in secca e si al Sahara, il verde lascia spazio riduce a un rigagnolo coperto di all’ogcra del deserto. Dalla terra sabbia. In quel periodo, i viaggi chiara emergono villaggi antisi interrompono, i commerci si chi, le cui case di paglia e argilla fermano e i villaggi sulle sponde cadono in letargo: tagliati fuori dal mondo, aspettano il ritorno della stagione delle piogge. La piroga è una tenda galleg-

Fiumi senza tempo STEFANO LIBERTI

dicembre 2009

si confondono con l’orizzonte. Il fiume sembra restringersi; la navigazione si fa tortuosa, con il timoniere costretto a zigzagare per evitare i banchi di sabbia. Ma ecco che, all’improvviso, si apre uno slargo: il lago Debo sembra un mare. Le rive del Niger si fanno remote, imperscrutabili. La velocità diminuisce: è questo il tratto più pericoloso. È qui che spesso piroghe troppo cariche concludono il loro viaggio in tragedia. Passato il grande lago, la terra si riaffaccia sottoforma di una distesa di sabbia fine. Del verde che circondava le rive, non resta traccia. A bordo intanto le lingue si sciolgono: con il passare delle ore, vite intere si raccontano davanti a interminabili bicchieri di tè. C’è Alassane, un vecchio signore dallo sguardo lucido che espone la sua teoria sul viaggio come messaggio divino. C’è Amadou, che è andato a Mopti a comprare il cemento per la casa che vuole costruirsi a Niafounké. C’è il nigerino Boubacar, che studia a Bamako e torna a Niamey per ritrovare la famiglia che non vede da due anni. E c’è il guineano Blaise, l’emigrante, che mira a raggiungere l’Algeria, il Marocco e di lì via mare l’Europa e che chiede in continuazione informazioni sulla “vita lassù”. Man mano che si discende il fiume, la barca si svuota; le mercanzie vengono scaricate. I passeggeri scendono. Sfilano altri villaggi, altri scafi che viaggiano nei due sensi; altri bambini che salutano dalla rive o donne semi-nude che si lavano all’ombra degli eucalipti. Passano altre ore, deserte e silenziose. Poi la piroga approda a Koriumé, il porto di Tombouctou. Un piccolo agglomerato di casupole e un mercato privo di tutto annunciano la mitica città dei 333 santi, sette chilometri più a nord. Già Caillé aveva espresso tutta la sua delusione scoprendo che il “misterioso centro carovaniero” non era altro che un “ammasso di case di sabbia mal costruite”. Ma dietro le porte di legno massiccio, le vecchie dimore conservano i propri segreti. Al riparo dei muri di fango, le biblioteche con testi antichissimi e le moschee con irti pinnacoli testimoniano i fasti passati. Sotto il vento dorato che trascina la polvere del deserto, Tombouctou non tradisce le aspettative. Dopo alcune ore di pausa, la cattedrale riparte, ormai semivuota. L’ultimo tratto di viaggio, da Koriumé a Gao, è il meno battuto. Nel giorno e mezzo di navigazione che separa la barca dall’antica capitale del regno Songhay, il fiume sembra ormai dettare il suo ritmo: le ore trascorrono lente osservando le acque lucenti, gli stormi di uccelli che volano bassi, il sole al tramonto svanire dietro le sponde, il cielo di notte impazzire di stelle. All’alba, nel chiarore ancora tenue della luna, compare all’improvviso la famosa duna rosa, immensa montagna di sabbia che si adagia sulla riva. In lontananza si vedono le antenne e i tetti di Gao. Mezz’ora dopo, una folla festante accoglie al porto l’ultimo carico umano. Sceso a terra, il guineano Blaise raccoglie il suo zaino e, dopo aver fissato l’orizzonte per misurare l’enorme distanza che ancora lo separa dalla meta, saluta con un cenno di mano: «Ci vediamo tra qualche mese in Europa, insh’Allah».

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e non siete figli dell’infanzia tecnologica, quella che il Monopoli e i soldatini le hanno fatto un baffo, riuscirete a ripescare nei vostri ricordi una barchetta di carta. Sì, proprio quella che si costruiva piegando un foglio bianco o colorato, e poi si metteva a navigare dentro la fontana di un giardino di città. Bene: in questi itinerari festivi di cui vi proponiamo un abbozzo tutto da approfondire, e che hanno il loro denominatore comune nel disegno dei fiumi, la barchetta di carta, o meglio, il foglio con cui costruirla, sarà accessorio indispensabile, souvenir “al contrario”. Da lasciare (sull’acqua) e non da portar via.

TORINO. IL FIUME AL FEMMINILE Il padre di tutti i nostri fiumi scorre con blasonata eleganza a Torino. Ma voi lo dimenticherete, o lo metterete da parte almeno per un giorno, scegliendo di seguire l’altro fiume della città, cui i torinesi hanno assegnato il genere femminile. Si chiama “La” Dora, scorre un po’nascosto nella dimensione della periferia da sempre proletaria e oggi anche multietnica. Nel suo specchio liquido si riflettono case dai tratti popolari e ponti senza storie risorgimentali. Accanto, a due passi, insieme all’immenso e spettacolare mercato di Porta Palazzo (andateci per ascoltare, annusa-

LUCIANO DEL SETTE

re, guardare e comprare), resiste la memoria del lavoro delle fabbriche che non erano la Fiat, testimoniata da edifici divenuti reperti di archeologia industriale, oppure resuscitati a nuova e miglior vita. Via Valprato 68 è l’indirizzo dei Docks Dora, lungo i binari che conducono a Milano. Capannoni e uffici amministrativi cominciarono a prender forma nel 1912, su progetto dell’ingegner Ernesto Fantini, come depositi connessi allo smistamento ferroviario delle merci. Un progressivo e inesorabile abbandono, a partire dalla seconda metà del ’900, li trasformò in tristi fantasmi architettonici. Fino a quando, è storia recente, un’importante opera di recupero ha permesso di farne la sede per locali di musica, studi fotografici, sale di registrazione, laboratori artistici, e anche di un outlet dove vengono proposti capi di abbigliamento anni ’60 e ’70. Così i vecchi Docks sono divenuti centro motore di quella creatività che viaggia soltanto sui

binari della fantasia.

Itinerari festivi attraverso Torino, Milano, Bologna, Pisa e Roma. Come forse non le avete mai viste e come potrebbero essere vissute con un nuovo inizio A cura di Francesco Paternò. Le immagini: in copertina, pescatore sul fiume Obangui nella Repubblica Centrafricana. Pagine 4 e 5, ragazzi sul fiume Isar a Monaco. Pagina 7 il fiume San Juan, nello Utah /foto AP

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MILANO. LE STRADE LIQUIDE DI LEONARDO A Milano l’acqua stretta tra due rive si chiama Navigli, rete urbana nata dal genio di Leonardo. Hanno perso molta poesia, molto fascino e tutto il loro silenzio, i Navigli. Se li sono portati via bar, pub, ristoranti, negozi pretenziosi, mercati antiquari, cancellando anche le insegne e le attività dei piccoli artigiani di un tempo. Però, quando arriva l’inverno, e il freddo fa sparire, insieme ai tavolini dei dehors, il frastuono di moto e parole, qualcosa della magia dei Navigli torna a mostrarsi. Soprattutto sul Naviglio Pavese: 33 chilometri dalla darsena di Porta Ticinese alla confluenza con il Ticino, passando da Binasco e Pavia, 14 conche per il superamento del dislivello. Dal 1965, a quattro secoli dall’inizio della sua costruzione, i barconi mercantili non lo navigano più. Seguire il Pavese è una bella idea, magari la mattina del Primo dell’anno, mentre Milano dorme il più profondo dei suoi sonni. Seguire il Pavese a passo lento nella dimensione cittadina, scavallando da una riva all’altra grazie ai piccoli ponti, e provare a immaginarlo senza il coif-


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feur da taglio Ibiza, il pub Irlanda, la boutique mondi lontani, e avendo magari la fortuna di trovare aperto un bar dove brindare (dipende dall’ora) al nuovo anno con un cappuccino o un prosecco. Poi prendere l’auto e, con altrettanta lentezza, senza che nessun clacson chieda strada, uscire a cercare la campagna della Bassa, con il Naviglio a fianco, scoprendo che la nebbia esiste ancora, e Fellini non aveva tutti i torti cantandone per immagini l’incanto. Far sosta a Pavia è un’altra bella idea.

BOLOGNA. IL TORRENTE NASCOSTO Anche Bologna ha la sua finestrella. Non affaccia sul mare e non è così famosa come quella napoletana a Marechiaro. Guarda il Canale delle Moline, in via Piella, e svela la presenza, nel centro della città, del torrente Aposa. In via Piella c’è la trattoria di Serghei, baluardo di una ristorazione bolognese sempre più avara di sapori genuini. La finestrella si apre proprio lì, testimone di un corso d’acqua che entra fra porta Castiglione e Porta San Mamolo, coperto nel tardo Medioevo da una galleria lunga sette chilometri e dimenticato fino al 1995, quando si resero necessari alcuni lavori di risanamento dell’alveo. L’ingresso al torrente “nascosto” avveniva, allora, da una porta situata nelle cantine di un palazzo al 10 di via dell’Inferno, nome in perfetta assonanza con le tenebre del luogo. Dentro queste tenebre si può decidere di sprofondare per un itinerario festivo decisamente dark. Due accessi al torrente, da piazza Minghetti e piazza San Martino, sono stati infatti aperti ai visitatori. Lungo il tragitto sotterraneo si incontra un ponte romano, rinvenuto durante gli scavi tra il 1914 e il 1921 per ampliare via Rizzoli, al quale era delegato il compito di oltrepassare l’Aposa. Tornati alla luce, il ricordo della ragnatela idrica di Bologna si ritrova nelle targhe di vie che si chiamano del Porto, Rivareno, Val d’Aposa, delle Moline. E via Piella, con sosta sostanziosa da Serghei. Per informazioni e visite: www.uisp.it/bologna, alla voce Vie d’acqua. PISA. LO STUPORE DELL’ARNO Sia detto, pensando a Pisa e senza nulla togliere alla magnificenza del luogo: che palle la Torre! Come se Pisa fosse soltanto questo, e null’altro esistesse fuori dal perimetro del Campo dei Miracoli. Che bella e inaspettata Pisa, invece, quando la si cerca, la si scopre, sui Lungarno, specie quello Pacinotti, con il Ponte di Mezzo, che invitano alla contemplazione e sgranano palazzi antichi color pastello. Vi stupirà la città il cui nome di origini etrusche significherebbe “foce”, a cominciare dall’albergo che consigliamo di prenotare: il Royal Victoria, tre stelle liberty sul Lungarno Pacinotti, prezzi onesti, arredi e richiami d’epoca, cartello nell’ ascensore “Scendete a piedi per visitare l’hotel”. Santa Maria della Spina e San Paolo a Ripa d’Arno sono le chiese del fiume, in cui entrare prima di lasciarsi abbracciare dai portici rinascimentali di piazza delle Vettovaglie, dall’intrico del Bor-

go Stretto, dalle Logge dei Banchi, da altre chiese che portano i nomi di Sant’Antonio, San Sepolcro, San Martino. Lo stupore più grande si chiama, però, piazza dei Cavalieri: qualche turista soltanto, modello Grand Tour, palcoscenico dove l’arte recita il ruolo di indiscussa protagonista. Lo fa, la piazza, con Palazzo della Carovana, sede della Normale di Pisa; con Palazzo dell’Orologio, frutto dell’unione della Torre delle Sette Vie e della Torre della Muda, detta “della fame”, dove il Conte Ugolino della Gherardesca, di dantesca e scolastica memoria (“La bocca sollevò dal fiero pasto”), venne imprigionato con figli e nipoti; ma soprattutto con la chiesa dei Cavalieri di Santo Stefano, che conserva gli immensi stendardi delle navi da parata ai tempi di Pisa Repubblica Marinara, accanto a quelli conquistati nelle battaglie contro la marina turca. Tornando all’Arno, ma con il favore del buio, godetevi dal Ponte di Mezzo, sciarpa e cappotto ben stretti, le luci delle finestre e dei lampioni moltiplicata dall’acqua. Poi centellinate la Pisa della notte, mondo garbato di trattorie, bar, winebar, ristoranti etnici, uniti da un tratto comune: l’onnipresenza ai tavolini di battute feroci rivolte ai livornesi e ai fiorentini.

ROMA. BIONDO TEVERE COLOR NOSTALGIA Il richiamo dell’insegna non potrebbe essere più esplicito: Al biondo Tevere. Il ristorante, sulla via Ostiense, somiglia al miraggio di una Roma che ha perso nel corso del tempo molto di se stessa. Oltrepassato il cancello, un cortile coperto da un pergolato ospita alcuni tavoli. Al fondo, una scalinata, in cima alla quale si apre la sala con la sua grande parete vetrata. Che anno è, che giorno è? verrebbe da cantare sottovoce. Il giorno potrebbe essere uno qualsiasi (salvo il martedì, di chiusu-

ra) di mezzo secolo fa, quando le trattorie e i ristoranti popolari erano precisi e identici al Biondo: tovaglie e stoviglie alla buona, camerieri in camicia bianca slacciata al collo e gilet nero, menu scritto di pugno dal cuoco, vino sfuso, cucina verace. Ma il Tevere dov’è? Appena oltre la vetrata. Scorre sotto l’ampia terrazza che con la buona stagione è sempre affollata di avventori. Se ne va tra due sponde di natura inselvatichita, cespugli folti, alberi disordinati, sullo sfondo la sagoma tonda del gasometro. Qui cenarono insieme, il primo novembre del 1975, Pier Paolo Pasolini, cliente abituale, e Pino Pelosi, il ragazzo di vita che lo avrebbe ucciso a Ostia la notte dopo. Ci arriverete, al Biondo, dopo aver scelto, per la Roma di una vacanza, anche quel tratto dell’Ostiense che inizia dalla Piramide Cestia, duemilacento anni di età, e dal Cimitero Acattolico dove riposano i poeti Shelley e Corso, Antonio Gramsci, l’attrice Belinda Lee, il fisico Bruno Pontecorvo, insieme a un’infinità di nobili e insigni borghesi. Da lì, è un susseguirsi di vie intitolate ad attività scomparse: dei Magazzini Generali, del Commercio, del porto Fluviale, dei Conciatori… Non è bella l’Ostiense, disordine di costruzioni, locali alla moda e bar anonimi, supermercati e negozi, palazzi di uffici. Ma qualcosa si muove, guardando alla trasformazione dei Mercati Generali in una sorta di cittadella dei giovani, alla presenza dell’Università Roma3, alla vita notturna di via Libetta, alla lenta ma costante riconversione delle palazzine fine ’800 che ospitavano piccole industrie. Una cosa, subito, vi muoverà e commuoverà. Negli spazi dell’ex centrale elettrica Montemartini ha trovato collocazione un museo capolavoro. I macchinari che fornivano luce alla città fino agli anni ’50 del secolo passato, restaurati e lasciati dov’erano, fanno da sfondo a meravigliosi pezzi d’arte greca e romana provenienti dai Musei Capitolini, in uno spazio espositivo senza rivali per suggestione e impatto scenografici. Qualcuno ha detto che non basterebbero dieci vite per poter dire di conoscere Roma.

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Soste fluviali, beviamoci su TORINO Aperitivo (a Torino è rito doveroso) al Caffè Rossini, corso Regina Margherita 80/e. Cocktail, ottimi vini, ricco buffet caldo e freddo, ragazzi simpatici, prezzi a dir poco onesti, sempre aperto dalle 17 alle zeroquattro. Si può anche cenare. Tifosi juventini astenersi, qui sono tutti del Toro. Per mangiare: ristorante Al Andalus, via Fiochetto 15, tel. 011/5216496, chiuso il lunedì, carte di credito le principali, 15/25 euro. È il ristorante dell’hammam più bello di Torino. Menu che interpreta con maestria i sapori del Vicino Oriente (falafel, verdure tabulé, couscous di pesce, spezzatino brasato alle prugne), accostando senza stridere alcune proposte dal repertorio piemontese. Ambiente che richiama Marocco e Tunisia, ma senza esagerare. MILANO Pochi i ristoranti sui Navigli che sfuggono alla tentazione di fregiarsi del titolo di tipico e sfornare menu di poco conto, ma soltanto sul piano della qualità. Tra di essi il Ponte Rosso, Ripa di porta Ticinese, tel. 02/8373132, chiuso la domenica a pranzo, carte di credito le principali, 35 euro. Un ingresso accogliente porta a due sale arredate con calda semplicità. Si mangia bene, iniziando con il lardo di Arnad, per continuare con il sartù di riso, la vera cotoletta alla milanese, la parmigiana di melanzane. Gran finale con una calda tarte tatin. Ottima scelta di vini. BOLOGNA L’indirizzo di Serghei è via Piella 12, tel. 051/233533, chiuso sabato, domenica e a capodanno, carte di credito le principali, 30/35 euro. Il meglio della tavola emiliana: dai classici tortellini in brodo alle lasagne al forno, dalle tagliatelle al ragù (come farne a meno?) alla pasta e fagioli. Tra i secondi, l’ossobuco alla bolognese è esperienza mistica come il coniglio alla cacciatora. Spazio doveroso va riservato al dolce di ricotta. Carta dei vini di ottimo livello e dai ricarichi equi. PISA Royal Hotel Victoria, Lungarno Pacinotti, 12, tel. 050/940111, la doppia 100 euro prima colazione inclusa. Un posto dove vorreste arrivare a bordo di una carrozza, o guidando un’auto d’epoca. Stanze ampie, arredate con mobili antichi, ambienti comuni che avvolgono nel loro calore, personale delizioso, sala della prima colazione dove la giornata comincia bene non solo per merito del buffet dolce e salato. Alla voce mangiare, puntate senza esitazioni sull’Osteria del Porton Rosso, vicolo del Porton Rosso 11, tel. 050/580566, chiuso la domenica, 30 euro, menu di Natale 60 euro, menu di capodanno 70 euro, aperitivi e vini inclusi. In fondo a un vicolo accanto al Royal, l’Osteria parla toscano nelle proposte di terra e di mare, basate sulla freschezza delle materie prime e le preparazioni espresso. Decisamente convincente. ROMA Al Biondo Tevere lo trovate in via Ostiense 178, tel. 06/5741172, chiuso il martedì, carte di credito le principali, 25/30 euro. Si mangia alla romana dagli antipasti ai dolci. Tonnarelli alla carbonara, rigatoni all’amatriciana, penne all’arrabbiata, frittura di paranza, saltimbocca, spigola al forno, trippa, tanto per citare. Il Biondo è anche una buona pizzeria.

inserto viaggi • Alias [III]


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Il treno del gusto. Viaggio tra le eccellenze enogastronomiche della R

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li itinerari turistici nel Lazio si snodano attraverso mille sentieri tra la storia e la cultura, dai monti verso il mare, incontrando laghi, rilievi montuosi, rogge e fiumi, che scendono lenti raccontando storie millenarie di uomini, i loro saperi, le loro tradizioni. Tutte le strade portano a Roma, recita un vecchio adagio, eppure dalla Città eterna tutte ripartono nuovamente, desiderose di incontrarsi e dialogare con un territorio straordinario. Raccontare di città antiche come la nostra storia, delle bellezze di una natura che stupisce: così vicina al frastuono della metropoli e al tempo stesso così inverosimilmente incontaminata , o del fascino dei mille capolavori rappresentati dai castelli, dalle abazie, dalle chiese e dalle conturbanti testimonianze della civiltà etrusca, cose celebrate in tutto il globo terracqueo, vorrebbe dire ripetersi, riesporre quadri innegabilmente incantevoli, già impressi però nella memoria dei viaggiatori dell’intero pianeta. Con ‘’Il treno del gusto’’, un progetto interregionale promosso dall’Assessorato al Turismo della Regione Lazio, si intende proporre una griglia di lettura altra rispetto alle dinamiche turistiche abituali, si vuole intercettare e dare visibilità ai bisogni di persone golose e curiose, si desidera sostenere e diffondere qualcosa di ancora poco conosciuto: il turismo enogastronomico nel territorio regionale. Un tesoro che va ad aggiungersi agli attrattori culturali, storici e naturalistici, di una regione viva, dove proprio la cucina e i prodotti della terra possono aiutarci a comprenderne culture e tradizioni, attraverso profumi e sapori in continua evoluzione ma uguali da sempre, gelosamente custoditi da generazioni e offerti al turista con l’accoglienza generosa e l’elevato senso dell’ospitalità che la gente del Lazio sa offrire sempre, a tutti i suoi visitatori.

La cucina romanesca Partendo dalla tradizione enogastronomica di Roma, città da sempre aperta alle influenze ed alle contaminazioni più diverse, il progetto si propone di ricreare i percorsi storici dei prodotti che ne caratterizzano il gusto. La cucina tradizionale romanesca nasce e si sviluppa attorno a tre filoni fondamentali. Il primo germoglia nei pressi del vecchio mattatoio di Testaccio, ed è la cucina del ‘’quinto quarto’’. I lavoranti del macello, le fraschette e le osterie che lo circondano, danno vita ad una cucina straordinaria e schietta, strutturata sulle rimanenze degli animali macellati, dopo la vendita ai benestanti delle parti pregiate, rappresentate dai due quarti anteriori e da quelli posteriori. Il restante ‘’quinto quarto’’ genera quindi una cucina di recupero che ancor oggi esercita un’irresistibile attrazione nei confronti dell’universo sensoriale dei buongustai. La trippa alla romana, caratterizzata dalla presenza della menta romana e da una generosa spolverata di pecorino grattugiato, la coda alla vaccinara, la coratella d’abbacchio (agnello) coi carciofi, le animelle, snobbate dai più ma ricercatissime nella cucina francese (le rinomate ris de veau). Il secondo filone, che cresce all’interno del Ghetto, è quello della cucina giudaico-romanesca, prodiga di preparazioni gustose: dai croccanti carciofi alla giudia agli irresistibili filetti di baccalà, fino alla torta di ricotta e visciole. Una terza fonte di ispirazione si è arricchita con le tradizioni della cucina della campagna romana, patria di carciofi romaneschi, di abbacchi e di formaggi di pecora, e dei Castelli Romani, culla del Frascati e della Porchetta di Ariccia, ma anche di succulente fettuccine, condite con le “regaje” di pollo. Una cucina insomma, famosa in tutto il mondo, incentrata su prodotti poveri ma genuini, che un territorio munifico assembla sapientemente da secoli. La cucina di Roma: gli spaghetti all’amatriciana, i carciofi alla giudia, la coda alla vaccinara, compendia, insomma, niente di più che l’incontro virtuoso con le terre del Lazio, coi suoi prodotti e con le sue tradizioni, culturali e gastronomiche.

E merita un viaggio andarli a riscoprire, vagando tra artigiani che si tramandano antichi saperi, cantine che si rinnovano, nel rispetto della tradizione, feste che evocano riti ancestrali di ringraziamento alla terra, sagre che non dimenticano il ruolo rivestito in passato da prodotti umili, ma di fondamentale importanza per i fabbisogni nutrizionali ed economici di popolazioni e di territori. E di certo non sono solo i dintorni di Roma e della sua provincia a meritare visibilità e fama. Anche se sono particolarmente prodighi di opportunità golose i Castelli Romani, già ricordati nell’antichità da antesignani della cultura del gusto: come Plinio il Vecchio, cantore dei suoi vini e delle sue pietanze, ed è decisamente interessante il percorso di accoglienza che si sviluppa, tra flessuosi fila-

Frosinone e la Ciociaria

Viterbo e la Tuscia

Benedetta da un territorio generoso che fin dalle civiltà preromane ha gratificato i popoli che lo abitavano di una grande varietà di specie, animali e vegetali, la cucina ciociara ha tradizioni e radici antiche. Agricoltura e allevamento hanno valorizzato le caratteristiche dei prodotti locali e la vicinanza con Roma ha raffinato una sapienza culinaria, secolarmente sedimentata, che arriva fino ai giorni nostri, e che ha fatto, durante l’impero romano, per tutto il Medio evo e buona parte del Rinascimento, di questo territorio, la vera dispensa di Roma, per papi, principi, imperatori e gente comune. Il viaggiatore goloso troverà ad accoglierlo una rete di piccoli allevatori, che forniscono capretti e agnelli alla ristorazione del territorio e incontrerà, a Guarcino, il caratteristico prosciutto e gli insaccati tradizionali. E ancora capolavori dell’artigianato caseario, come la Marzolina ed il Gran Cacio di Morolo e l’antico Pecorino di Picinisco, le mozzarelle e le caciottine di bufala di Amaseno. Fragranti prodotti dell’arte bianca: dal pane ciociaro ai dolci da forno, e l’odoroso tartufo di Campoli Appennino, pregiato e ricercatissimo. Ad annaffiare la cucina, ricca di primi che evocano i suoni ed i profumi della memoria, come le caratteristiche fettuccine ed i ‘’fini fini’’, o piatti sontuosi, come il tipico ‘’timballo di Bonifacio VIII’’, che ricorda il Papa Bendetto Caetani, originario di Anagni: un trionfo di carni di manzo macinate, a foggia di polpette, regaglie di pollo, guanciale a fettine, prosciutto, formaggio pecorino, uova, funghi, salse di pomodoro e pasta all’uovo, vini in grande crescita. Tra i bianchi la Passerina del Frusinate, il robusto Cesanese del Piglio, unica D.o.c.g. regionale, tra i rossi.

Una terra ricca di storia e di prodotti unici. Le eccellenze qui certamente non mancano, e sono tante le fermate obbligatorie per il treno del gusto. Sul territorio una fitta rete di ristoranti, trattorie ed agriturismi, custodiscono gelosamente una cucina tradizionale ricca di sapori e di profumi antichi. Di minestre e zuppe che si realizzano con i tipici legumi locali. Il cece del solco dritto a Valentano, i fagioli del purgatorio a Gradoli, le famose lenticchie di Onano. Che dire poi della zuppa di orzo perlato, di quella di funghi, dell’acquacotta alla viterbese? Nell’area di Canino, a ridosso del Lago di Bolsena, un olio DOP antico e generoso, per gusto, quadro odoroso e intensità cromatica della veste, riempie di gioia l’estate di San Martino, e le sue antiche feste, che celebrano, su croccanti bruschette, l’arrivo del frizzante olio nuovo. Vini straordinari consacrano l’espressivo Grechetto, vitigno complesso e longevo, nelle sue interpretazioni più riuscite, con etichette che si contendono ogni anno il prestigio dei migliori riconoscimenti nazionali, e rossi dai pregiati toni olfattivi e dall’imponente struttura, che primeggiano, collocandosi ai vertici qualitativi, non soltanto in ambito regionale. Una DOC particolare celebra il miglior vino dolce del territorio: l’Aleatico di Gradoli, luogo dove le vigne sgomitano con gli olivi ed i noccioli, per contendersi gli spazi e le attenzioni degli agricoltori.


ATLAZIO Agenzia Regionale per la Promozione Turistica di Roma e del Lazio

ASSESSORATO AL TURISMO

Regione Lazio ri e affascinanti ville d’epoca, intorno alla Strada dei Vini dei Castelli Romani. (www.stradeivinideicastelliromani.it ). Ma altrettanta attenzione conquistano prodotti come il carciofo romanesco, non meno delle terre che lo ospitano: dall’affascinante Tuscia alla seducente pianura pontina. Per non parlare poi delle suggestioni cremisi offerte dal Cesanese, vitigno dalla profonda personalità organolettica, (www.stradadelvinocesanese.it) (www.terradelcesanese.it ) protagonista indiscusso di un rinascimento enologico che sta coinvolgendo l’intera piattaforma ampelografia regionale, dalla splendida Malvasia puntinata al Moscato di Terracina. Ma ancora l’olio, gli ortaggi, i formaggi ed i salumi, anche loro cittadini ‘’romani’’ in un senso più ampio.

Rieti e la Sabina

Latina e l’agro pontino

Il treno del gusto

Pensando al reatino, la mente corre ad Amatrice, città che contende a Roma la primogenitura degli spaghetti all’amatriciana, un piatto tipico famoso in tutto il mondo. Eppure di nuovo torna la semplicità, ingrediente fondamentale di molte ricette, a creare una pietanza dal gusto unico, che si vuole ricordare come il piatto dei pastori : non la pancetta ma il guanciale, la guancia del maiale stagionata, con il contributo fondamentale del sapido pecorino, quello, per l’appunto, di Amatrice, una padella di ferro e la pasta, e voilà ecco la gricia. Più tardi il dialogo tra quest’ultima ed il pomodoro trasformerà questa pasta nella meravigliosa amatriciana che delizia, ancora oggi, nasi, palati e spirito dei gourmet più esigenti. Ma il reatino saprà sorprenderci anche con il gusto unico dell’olio sabino (www.stradadelloliodellasabina.com ) con le oltre 100 aziende produttrici, che diffondono il verbo del più attraente condimento mediterraneo, attraverso un in un percorso, non soltanto gustativo, che si snoda in un territorio punteggiato da oliveti secolari. E ancora tartufi, formaggi di origine secolare, come il Cacio Magno, salumi gustosi legati alla tradizione, quando ogni famiglia allevava il suo maiale e la preparazione delle carni era una festa che scaldava stomaci e cuori, squarciando il sipario ghiacciato dell’inverno, e altri prodotti simbolo del territorio, come le patate di Leonessa o le castagne di Antrodoco. Lungo la via Salaria, l’antica consolare che univa Roma all’Adriatico, si attraversano paesi dove ristoranti e trattorie parlano la lingua di una cucina casareccia e leale, ricca di trote, gamberi di fiume, funghi, olio buono e vino, di appagante sincerità.

Il litorale meridionale del Lazio ci riporta alla mente l’incantato promontorio del Circeo e le isole pontine, le spiagge di Sabaudia e di Sperlonga, Formia, Terracina. La cucina marinara la fa da padrona, ed il freschissimo pescato degli azzurri fondali tirrenici permette ancora a ristoranti e trattorie di fregiarsi, come nell’antichità, del titolo di miglior cucina di pesce del territorio laziale. Ma la tradizione, dopo le bonifiche, si è ricreata anche nella coltivazione di ortaggi e frutta, con il carciofo di Sezze che svetta tra i prodotti di qualità del Lazio. E non mancano le eccellenze anche nella trasformazione artigianale dei prodotti alimentari. Famose le mozzarelle di bufala, che rientrano nell’estesa DOP campana, non temendone la concorrenza per immagine e qualità. Tra i salumi l’eccellente salsiccia di Monte San Biagio, caratterizzata dal profumo del coriandolo, ed il gustoso prosciutto di Bassiano. Passi da gigante registra l’enologia pontina, con l’affermazione di cantine encomiabili. Veri fiori all’occhiello del panorama laziale, sia nelle produzioni tipiche, come quella di Cori, patria dell’intenso Nero Buono, che per gli straordinari risultati raggiunti da appassionati e coraggiosi produttori che hanno sperimentato, con crescente successo, le qualità e la capacità di adattamento di uve alloctone. Nelle più importanti guide nazionali, il vino pontino si conferma come frutto di un’area di produzione pregevole. Una citazione particolare merita il Moscato di Terracina, che va affermandosi come prodotto di elevato profilo, dallo straordinario rapporto qualità prezzo. Altre notizie interessanti su www.latinadascoprire.it

Ma questo è solo l’antipasto, si direbbe a tavola. Abbiamo l’orgogliosa coscienza di aver scritto soltanto i titoli dei capitoli che compongono questo goloso e articolato romanzo, che merita di esser letto non a “mozzichi e bocconi”, ma integralmente. Il progetto si propone quindi di esporlo per intero, offrendo a tutti gli strumenti utili per poter visitare aziende e cantine, gustare la gastronomia tipica del territorio, vivere da protagonisti le vendemmie, la raccolta delle olive o degli altri prodotti agroalimentari. Per godere, a pieni polmoni, delle atmosfere di un territorio straordinario che propaga profumi e fascini antichi, che affondano nella notte dei tempi le proprie radici, regalandoci infinite emozioni, perché, come solo le cose autentiche sanno fare, parla alla sensibilità delle persone, ignorando i padiglioni auricolari e passando prima attraverso i cuori ed i sensi della gente, naturalmente.

www.laziofeste.it www.romaincampagna.it www.arsial.it Realizzato con il progetto interregionale Il treno del gusto legge 135/2001 azioni autonome della regione lazio info: www.laziofeste.it e.mail info@laziofeste.it tel 06.488.99.215/7



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GERALDINA COLOTTI

Virgola e a capo “S

ono entrato all’Avana sulla stessa jeep del Che. Un’emozione straordinaria, un mare di folla che ci salutava commossa. Nella mia vita non avevo mai visto una città tanto grande…” Il diciassettenne Harry Villegas, nome di battaglia Pombo, ricorda così il primo gennaio del 1959, il primo giorno di Cuba senza Batista. Il dittatore è fuggito a Santo Domingo, la capitale è in festa. Uomini e donne, sudici e scalzi, stremati da tre anni di conflitto, ballano e cantano sparando in aria con mitra e pistole. La revolucion ha vinto. Cuba non sarà più il lupanare per ricchi turisti, la mecca dei gangster italo-americani a cui era abituato l’ambasciatore Usa, che osserva orripilato dalla finestra. Nei mesi seguenti, il nuovo governo di Fidel Castro inizierà a realizzare il programma di indipendenza e giustizia sociale promesso dal Movimento del 26 luglio: nazionalizzazione di tutti i servizi pubblici controllati dalle compagnie Usa, riforma agraria, casa, lavoro e istruzione per tutti. Il viaggio del giovane Villegas è appena cominciato. Roberto Borroni lo racconta nel libro Pombo, dalla Sierra Maestra a la Higuera: dieci anni con Che Guevara (Negretto editore (www.negrettoeditore.it). Pombo seguirà Guevara nell’avventura “fochista”, nel tentativo generoso e ingenuo di “accendere” nuovi fuochi di guerriglia, creando “due, tre, molti Vietnam”. Scampato alla morte in Bolivia, dov’è caduto il Che, Pombo riesce a tornare in patria fra mille peripezie, passando per il Cile di Allende. Poi, nel 2008, l’autore (ex-Pci ed ex- sottosegretario all’Agricoltura sotto il governo Prodi), gli chiederà un’intervista durante un viaggio a Cuba. Borroni ricostruisce così il contesto e le scelte di Pombo, “un uomo semplice e coraggioso, valente e leale”, oggi generale di brigata delle Forze armate rivoluzionarie cubane. Il 31 marzo del ’65, il Che mette nello zaino tre divise verde oliva, i diari e qualche libro e parte per il Congo. Pombo è con lui: “Non eravamo andati in Congo per combattere – spiega – avevamo il compito di addestrare i guerriglieri congolesi, di fornire aiuto tecnico e tattico. Le rivoluzioni non si possono esportare. Le rivoluzioni le fanno i popoli”. Nel giugno del ’60, Patrice Lumumba, a capo del movimento di liberazione, ha conquistato l’indipendenza dal Belgio ed è stato eletto capo del governo. Ma le potenze coloniali, che non intendono mollare le risorse minerarie, fomentano la rivolta degli alti gradi nell’esercito, foraggiano truppe mercenarie e appoggiano manu militari la secessione della ricca regione del Katanga. Lumumba viene fatto arrestare dal colonnello Mobutu e inviato in Katanga dove sarà

Viaggi di guerra da Cuba al Congo, viaggi “all’origine delle cose che compriamo” e altre infinite pagine da leggere

torturato e ucciso. I suoi riprendono le armi e chiedono aiuto a Cuba, che invia un centinaio di uomini. “Tutti gli uomini liberi del mondo debbono prepararsi a vendicare il crimine del Congo”, aveva detto Guevara in un memorabile discorso pronunciato davanti alle Nazioni unite, nel ‘64. La missione in Congo, però, si rivela un fallimento. Il Che ne ha parlato nei Diari, e Pombo , nel descrivere gli innumerevoli ostacoli a cui dovettero far fronte in Africa, ne conferma i giudizi, pur rivendicando il valore di quel sogno incompiuto. Oggi, per aiutare i popoli nel sud del mondo, Cuba non invia armi, ma medici e maestri, nonostante il blocco economico degli Usa, che dura da 50 anni. Il libro di Borroni, utile e onesto, parla anche di questo. Le vendite del volume serviranno a finanziare i progetti di solidarietà e sviluppo a Cuba della Ong italiana Gvc Onlus- Gruppo Volontariato Civile e dell’associazione “Un bambino come amico”. Anche la vendita del calendario Dias de R_esistencia, dell’associazione Ya Basta, andrà interamente a sostegno dei progetti “di cooperazione dal basso” che l’associazione promuove in Messico, Argentina e Brasile. Giorni di resistenza e di condivisione raccontati dalle fotografie di Simona Granati, che mostrano temi e luoghi del conflitto: dai campi rom al Chiapas, ai centri di detenzione per migranti, da Genova al Kurdistan, al Muro in Palestina... Per richiedere il calendario: moltitudia_yabasta@yahoo.it Nel volume Confessioni di un eco-peccatore (Edizioni Ambiente), Fred Pearce racconta invece il suo “viaggio all’origine delle cose che compriamo”. Per scoprire la provenienza del computer o degli scampi al curry, del telefono o del caffè in tazza, Pearce – giornalista cinquantenne che “scrive di ambiente e sviluppo nel mondo” - ha percorso cir-

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ca 180.000 chilometri e visitato più di 20 paesi. Un buon chilo di anidride carbonica aggiunto al riscaldamento globale per mettere a disposizione del lettore un bilancio attendibile sull’impatto reale della sua “impronta ecologica e sociale”. “Volevo capire – scrive il giornalista – se avrei dovuto vergognarmi dei miei acquisti e del loro impatto sul pianeta o se avrei potuto essere fiero di aver contribuito ad aiutare alcune economie locali sostenendo delle comunità in difficoltà”. Per esempio, in Bangladesh, l’impronta ecologica del commercio di gamberi, destinato ai mercati di tutto il mondo, “è enorme”: invece di “diffondere il benessere”, il business dei gamberi sfrutta il lavoro minorile, allaga i terreni, devasta l’ecosistema e riduce in miseria milioni di persone. “Ho smesso di mangiarli”, dice allora Pearce, senza però andare al fondo dei meccanismi generali che provocano guasti e squilibri, al di là dell’azione del singolo. Il peso della farfalla, di Erri De Luca (Feltrinelli) racconta il viaggio di due solitari fra la montagna e il cielo: l’uomo e la preda. L’uomo è un cacciatore di frodo che ha passato la vita fra i monti, la preda è il “re dei camosci”. Entrambi sono avanti con gli anni, carichi di ferite e di orgoglio, e stanchi. Il camoscio sente l’odore dell’uomo che ha ucciso sua madre, il cacciatore si prepara al duello con l’atteso avversario: l’unico che non sia riuscito a uccidere con la Trecento magnum e la pallottola da undici grammi – un solo colpo - con cui ha sempre abbattuto i camosci. Un romanzo poetico e battente che parla di scelte estreme e di sconfitte, e di universi contrapposti che si specchiano e si sfiorano solo nell’attimo fatale. “Si cresce tacendo, chiudendo gli occhi ogni tanto, si cresce sentendo d’improvviso molta distanza da tutte le persone”. Cita una frase di Erri De Luca (Non ora, non qui) anche Alberto Soana nel suo romanzo d’esordio Alla fine lui muore (edizioni Baku). Un romanzo di viaggio e di formazione ambientato tra Milano e il Marocco fra tornanti in bicicletta, attacchi di panico e muscoli che fanno male. Una storia “quasi noir” che il protagonista riavvolge nel tragitto in ambulanza, mentre uno sguardo lo perseguita dal fondo del burrone. Anche Non dire madre, il romanzo d’esordio di Dora Albanese, edito da Hacca, inizia in ambulanza. Nella barella, “travolta da una montagna di coperte di lana pungente”, la ragazza sta per partorire, “sgraziata e involgarita dall’esasperazione del dolore”. Un romanzo di formazigone al femminile, di storie antiche e identità riflesse, passi incerti o perduti tra i sassi di Matera.

GLI AMORI CHE CI PARLANO Ci sono libri di viaggio e viaggi di libri di un tempo senza tempo. Un classico e una rarità. La seconda capita in “Amori, altopiani e macchine parlanti” di Gianni Morelli (Garzanti editore), che sintetizzare fa male come un mal di pancia notturno. Meglio un accenno o un tratto di matita che viene via con la gomma, assecondando “quella capacità di sognare che hanno solo i visionari”, cui Morelli dedica questo romanzo. L’alba del Novecento, tanto per dare l’inizio di un viaggio che durerà nove anni. Da Manhattan alla Patagonia, passando per la Bolivia e per Cuzco, luoghi remoti che ci vengono proiettati con la nitidezza di una conoscenza vera, mai altra. Passioni, tanto per dare il tema che non finirà, che si chiamino Etta o Clara o Luz. Ma anche fascinazione per Caruso e la sua voce, trasmessa dalla magia dei primi grammofoni, le “macchine parlanti”. Se non bastasse, la saga di Butch Cassidy e Sundance Kid s’intreccia tra carovane e falò senza luna. Il resto è, a piacere. (f.p.)

inserto viaggi • Alias [VII]


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