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Elet
il manifesto autocritica
non finirà più
zero a zero
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i ritorno dal Salone dell’auto di Parigi, possiamo dire che l’auto elettrica è ormai una realtà. Nel senso più pratico e prosaico: in Italia, dalla fine dell’anno, basta spendere circa 36.000 euro o fare un leasing mensile di circa 600 euro e ci si potrà mettere al volante di una macchina non più alimentata con un motore termico. Tre modelli subito, altre due a seguire e poi gli altri (di nomi, prezzi e infrastrutture ne parliamo a pagina 15). Tanti soldi per avere più o meno - per adesso - tre metri e mezzo di macchina che costa quanto una tradizionale Mercedes C o una Bmw serie 3. A Parigi, tutti i costruttori hanno preso impegni, pochi si sono sbilanciati, qualcuno è stato riluttante. Per non far subito nomi, lo stato dell’arte lo si può fotografare con l’aiuto dell’eterno Sun Tzu: «Coloro che elaborano piani intelligenti devono tener conto dei vantaggi e dei danni. Se tengono conti dei vantaggi, i loro sforzi acquisteranno credibilità, se tengono conto dei danni, potranno aver ragione delle asperità». ***** Di ritorno dal Salone dell’auto di Parigi, due o tre impressioni vanno raccontate, prima di dar conto di cosa hanno detto (e non detto) alcuni protagonisti del settore. 1) Ok, i prezzi delle prime macchine a volt sono da aficionados, ma chi ricorda quanto si è pagato per il primo iPhone o il primo notebook? E quanto si è pagato il modello successivo? 2) Manuale per gli utenti, facile facile: 2 euro e mezzo in Italia (dove la luce è mediamente più cara rispetto all’Europa) per un pieno di volt, necessario a percorrere 160 chilometri, contro i 10 euro per la benzina e più o meno i 7,5 euro per il diesel. Costi e autonomia media dichiarati dalle Case. Ma sufficienti per farsi due conti da soli e capire in quanto tempo si recupera il prezzo d’acquisto largamente superiore di un veicolo elettrico rispetto a uno tradizionale. Se poi restaste e a piedi e non sapeste dove attaccare la spina, niente paura: i contratti d’acquisto prevedono l’assistenza del concessionario. Fidarsi, sarà una rivoluzione culturale. 3) Sembra incredibile, ma sia ingegneri che direttori marketing di tutti i costruttori parlano - se interrogati sull’auto elettrica - soltanto di quanti pochi chilometri noi cittadini europei percorriamo al volante ogni giorno. Ma quando mai un venditore ci ha convinto a comprare una macchina con l’auspicio che tanto non la useremo? Da oggi tutto cambia, la nostra vita si svolge in un fazzoletto di asfalto per cui l’autonomia limitata dell’auto elettrica è quasi benvenuta. Insomma: che ci faremmo con un pieno di tensione a bordo da 500 o più chilometri?
4) L’auto elettrica si affermerà sul serio per tanti motivi. Fra i primi, vi abbiamo già detto del nostro fideismo laico in quel che fa Warren Buffett, il celebre finanziere americano che non sbaglia mai un colpo nemmeno in piena grande crisi. Il quale ha investito a occhi chiusi due anni fa sulla cinese Byd (Build your dream), costruttore di batterie per cellulari e ora all’avanguardia quale costruttore di auto elettriche. Oggi c’è il governo della Cina a investire l’equivalente di circa 10 miliardi di euro sul settore e se lo fa Pechino, dove siedono i massimi esperti mondiali di lunghe marce, è sicuro che la cosa è certa. E poi sono passati cent’anni da quando l’invenzione del motorino d’avviamento elettrico ha deciso che l’auto sarebbe andata a benzina. Sarebbe ora di cominciare a prendersi qualche rivincita. 5) L’auto elettrica si affermerà soprattutto attraverso internet. Non alla stessa velocità del mezzo, ma sarà la Rete a dare sprint e visibilità massima al nuovo fine. Del resto, già questo succede con i veicoli tradizionali (attraverso i quali passerà per molto tempo il vero business dell’industria, sia chiaro), ma nel complesso poco in Europa e molto negli Stati Uniti e in Cina. Se nel Novecento l’auto si è sposata con la pubblicità, nel terzo millennnio l’auto si sta sposando con i social media. L’elettrica dovrà soltanto connettersi. La Ford, per esempio, dopo aver lanciato in Cina esclusivamente via internet la normale Fiesta europea e dopo aver usato la rete massicciamen-
te per fare accettare la piccola agli americani, lancerà agli inizi del 2011 la Focus normale appena più grande su 120 mercati mondiali e in contemporanea via Facebook. «Ci rivolgeremo a 500 milioni di potenziali utenti», dice Steve Odell, neocapo di
FRANCESCO PATERNO’
Ford Europe. En passant, la Focus elettrica sarà la prima macchina elettrica del gruppo, vedremo a quanti byte andrà. ***** Di ritorno dal Salone di Parigi, ci è apparso scontato che Renault e Peugeot-Citroen (Psa) abbiano giocato in casa, essendo anche loro le prime macchine a essere vendute sul mercato europeo. Non era scontato però che i due gruppi francesi si presentassero in modo così diverso. Per Citroen e Peugeot hanno preso la parola davanti alla stampa internazionale i direttori dei marchi e non il presidente del gruppo Philippe Varin. Perdipiù, entrambi hanno insistito molto più sull’ibrido che sull’elettrico, cioè sulla tecnologia che si può definire l’avanguardia del nuovo sistema di mobilità, con prezzi più accettabili per i clienti e con un margine più vicino per il venditore. Per la Renault ha parlato invece il numero uno Carlos Ghosn, che oltre a ripresentare i quattro modelli di casa con cui aveva fatto scena l’anno scorso al salone di Francoforte, ha voluto dare con la sua presenza un segno tangibile della scommessa da 4 miliardi di euro di investimenti sull’auto elettrica, «capitolo decisivo della nostra storia». Ghosn non si è limitato a magnificare le sue creature e indicare «prezzi paragonabili a quelli di auto equivalenti con motore termici». Ha lanciato un messaggio in qualche modo sorprendente: ehi, l’auto elettrica è un’auto normale. Siccome ci stava vicino, tiriamo la giacca a Jacques Bousquet, direttore generale di Renault Italia che sta già pensando a come venderla nel nostro paese fra pochi mesi e conferma: «Sì, nessun compromesso, è un’auto normale.
Oggi dimostriamo che si può fare e che esiste». ***** Di ritorno dal Salone di Parigi, l’Italia berlusconiana è avvilentissima anche sull’auto elettrica. Da noi non c’è nessun incentivo specifico all’acquisto o in detrazioni fiscali, come invece accade nella maggior parte dei paesi europei. Parliamo mediamente di 5.000 euro, quelli che permetterebbero ai costruttori di tenere più o meno a vista i conti e un giorno (lontano) di raggiungere il break even. Il problema, se così si può dire, è che il nostro governo ha la testa altrove e che la Fiat, unico costruttore nazionale, ha frenato sull’auto elettrica. Tanto che la prima sarà la 500, arriverà nel 2012 come la maggior parte delle concorrenti ma sarà fatta dalla controllata Chrysler, dove sono più avanti nella tecnologia perché l’amministrazione Obama ci ha messo i suoi soldi. Sergio Marchionne, l’amministratore delegato del gruppo, lo ripete a voce alta in ogni occasione: per lui, questo gran parlare di mobilità a volt porta al «rischio di spostare tutta l’enfasi
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trica,
dei regolamenti europei su questa unica tecnologia», mentre «gli ostacoli a un’ampia diffusione dell’elettrico sono ancora molti». Per cui Fiat va piano e, chissà che si faccia bene a pensar male, aspetta che il governo italiano ci metta dei soldi come in Europa e negli Stati uniti. Gli incentivi non li vogliamo per tutta la vita, dice furbo Ghosn, e Bousquet precisa: al lancio e almeno per i primi cinque anni, il «tempo di beneficiare delle economie di scala nella produzione delle batterie e rendere competitiva questa tecnologia. Poi ci penserà il mercato». Oddio, ils sont fous ces Françaises se pensano, come dicono a voce alta, che per trovare dei soldi da investire nel settore, al governo basterebbe imporre una tassa su chi inquina di più. Bousquet per adesso punta sull’Italia federalista, sulle regioni interessate a sperimentare con i costruttori (da tradurre: pronte a investire) per rendere accessibile la macchina a zero emissioni. E a «zero difficoltà a venderla». Prego? «Le ricerche ci dicono che in Europa come in Italia c’è un 25 per cento di persone mol-
te interessate, un altro 25 per cento favorevole, un altro 25 scettico e un altro 25 non interessato. La metà sono dunque potenziali clienti e noi puntiamo a raggiungere con l’elettrico entro il 2020 solo il 10 per cento del mercato. Metteremo in vendita le nostre vetture a prezzi competitivi. Con o senza incentivi». Nel frattempo è arrivata alla Camera una proposta di legge presentata da Agostino Ghiglia (Pdl), a favore della realizzazione di una rete infrastrutturale per la ricarica e di un incentivo all’acquisto di 5.000 euro, allineato a quel che avviene nel resto d’Europa (per altri dettagli, vedere box in pagina). Toccherà al ministro dell’economia Giulio Tremonti rispondere. La spina, per ora, resta staccata. ***** Di ritorno dal Salone di Parigi, a parte lo scatenato padrone di casa Ghosn, diversi altri numero uno sono venuti per dire che l’auto elettrica è un po’ come la vecchia o il vecchio zio, simpatica ma da prendere con le pinze. Anche se ormai è chiaro per tutti che non finirà più ze-
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ro a zero, per mischiare metafore calcististiche e livelli di emissione. Marchionne, da uomo di finanza, è il più scettico. Perché è evidente che a questi costi e con queste tecnologie, l’elettrificazione dei veicoli è un rischio per bilanci già a rischio. Alan Mulally, il grande capo della Ford atterrato a Parigi per pren-
BONUS 5000 EURO, ASPETTANDO TREMONTI Ecco cosa prevede la proposta di legge a favore della mobilità elettrica presentata a Montecitorio da parte di Agostino Ghiglia (capogruppo Pdl Commissione Ambiente), sottoscritta da 170 parlamentari. Nel programma di interventi strutturati, ci sono: 1)un incentivo di 5.000 euro all’acquisto di veicoli elettrici (bonus a decrescere negli anni parallelamente alla progressiva affermazione del mercato); 2) il finanziamento del 50% dei costi d’infrastruttura delle amministrazioni locali 3) vantaggi fiscali per l’acquisto di veicoli elettrici (sia per clienti privati che per le società) e per l’installazione di infrastrutture di ricarica 4) lo studio di tariffe vantaggiose dell’energia utilizzata per la ricarica; 5) l’obbligo per nuovi edifici ed edifici in ristrutturazione di dotarsi di infrastrutture di ricarica, 6) incentivi per l’installazione di infrastrutture di ricarica negli edifici già esistenti sostegno alla ricerca.
dersi gli applausi dopo aver salvato il marchio dell’ovale blu senza finire in bancarotta e senza accedere ai prestiti della Casa Bianca come hanno fatto Gm e Chrysler, la pensa un po’ come Marchionne. Ma lo dice in maniera più soft e sopratutto ha annunciato 5 modelli (contro l’1 del capo del gruppo italiano).Dieter Zetsche, boss di Daimler, avverte che non ci sarà ritorno sull’auto elettrica per cinque o per dieci anni e che nessuno lo sa davvero quando il mercato assorbirà il 5 o il 10 per cento delle vendite di auto elettriche o ibride. Lo sapremo «solo quando accadrà». Norbert Reithofer, alla guida del gruppo Bmw appena costretto ad abbandonare i suoi programmi sull’idrogeno sui quali era più avanti degli altri, dice infine una verità che non sarà politicamente corretta, che non sarà rivoluzionaria, ma con un grande fondamento: una vendita redditizia di auto tradizionali servirà a finanziare l’auto elettrica. Che sia anche per questo che gli hanno appena rinnovato il contratto per altri cinque anni, senza un battito di ciglia?
Di ritorno dal Salone di Parigi, il racconto dello stato dell’arte sulla nuova propulsione a zero emissioni. Il vantaggio dei costruttori francesi, il ritardo dei tedeschi, lo scetticismo della Fiat, i dubbi degli americani. Un break even nebuloso, l’importanza di Internet per lanciare sui mercati questi modelli. Parola ai protagonisti
Le alleanze
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che non
scintillano «N
ei prossimi 24 mesi, in termini di costruttori di volume, rimarranno un americano, un grande tedesco, un europeogiapponese con probabilmente un’estensione in America, un giapponese, un cinese e un altro potenziale player europeo», aveva teorizzato Sergio Marchionne nel novembre 2008. Gli effetti devastanti conseguenti il fallimento di Lehman Brothers avevano portato il mondo della finanza globale vicino al collasso ed era lecito aspettarsi che anche per l’industria dell’auto nulla sarebbe stato più come prima. La regola del 6x6 di Marchionne - sarebbero sopravvissuti solo sei grandi produttori capaci di costruire ciascuno 5,5-6 milioni di unità l’anno aveva una logica industriale indiscutibile. Ma la storia non ha poi seguito questa direzione. L’accordo Fiat-Chrysler (che Marchionne aveva già in tasca quando parlava del 6x6, attendeva solo che il governo Bush approvasse i prestiti d’emergenza chiesti da General Motors e Chrysler per non fallire entro l’anno) è stato l’unico vero passo nella direzione di un maggior consolidamento. Se i piani Fiat e Chrysler saranno rispettati, l’alleanza Torino-Auburn Hills produrrà un totale di 6 milioni di veicoli nel 2014. Dunque, oggi siamo ancora quattro anni e 2,5 milioni di unità lontani da quella che il manager italo-canadese ritiene essere la soglia di sopravvivenza. Nemmeno nel resto del mondo si sono fatti passi avanti sostanziali verso il 6x6. Alla fine del 2009 praticamente quattro gruppi avevano raggiunto la fatidica soglia dei 6 milioni: Toyota con 7,8, Gm con 7,5, Volkswagen con 6,5 e Renault-Nissan ormai vicina con 5,6 milioni. E inaspettatamente al quinto posto i coreani di Hyundai-Kia, già a cinque milioni l’anno scorso e in forte crescita quest’anno, seppur non parte del 6x6 immaginato da Marchionne due anni fa. Provando a proiettare le vendite del 2010, è probabile che del quintetto di testa, tre costruttori si confermino ben al di sopra dei sei milioni; che Renault-Nissan e Hyundai-Kia si avvicino ancor di più ai 6 milioni e che Ford torni sopra i 5. Alle loro spalle Fiat-Chrysler, Peugeot-Citroen e Honda, tutte nei dintorni dei 3,5 milioni. Che dire allora della profezia di Marchionne due anni dopo? Prima di tutto che la logica industriale è immutata, ma il crollo di grandi mercati come gli Stati Uniti e la Russia sono stati solo in parte compensati dalla sostanziale tenuta dell’Europa e dalla crescita della Cina. Le vendite mondiali l’anno scorso sono scese del 13% a 61,7 milioni di auto e veicoli commerciali, rendendo i già grandi un po’
meno grandi e rallentando la corsa degli inseguitori. La seconda considerazione è che la logica industriale si è scontrata con la logica sociale, che privilegia la difesa dei posti di lavoro alla futura salute dell’industria. Caso emblematico quello degli Stati Uniti, paese simbolo del liberismo economico, che ha iniettato qualcosa come 80 miliardi di dollari – oltre 60 miliardi di euro al cambio attuale – per salvare Gm, Chrysler e molti fornitori. Senza l’intervento del governo, l’America si sarebbe trovata con Gm e Chrysler fallite e 200.000 mila posti di lavoro in meno. Meno drastico ma altrettanto determinate l’intervento del governo francese che, la primavera scorsa, quando accedere al mercato dei capitali era praticamente impossibile o troppo costoso, ha prestato 3 miliardi di euro ciascuna a Peugeot-Citroen e Renault con la richiesta (non formale, causa proteste dell’Europa) di riportare produzione e quindi posti di lavoro nel patrio suolo. Il prevalere di ragioni sociali sulle logiche economiche dell’industria ha quindi rallentato un processo di consolidamento che, non solo nella visione di Marchionne ma anche di molti altri addetti ai lavori, era e rimane invitabile. Vediamo nel dettaglio quanto è successo – ma soprattutto non è successo – negli ultimi due anni. In America sono rimasti due costruttori, Gm e Ford, entrambi smagriti come marchi – vendute Saab, Jaguar, Land Rover e Volvo; chiuse Hummer,
LUCA CIFERRI*
EUROPA, PRODURRE A EST QUANTO CONVIENE? In un’intervista a La Tribune, il presidente di Toyota Europe, Didier Leroy, ha dato alcuni numeri interessanti sul costo del lavoro nelle fabbriche d’Europa. 1) 4 anni fa, i salari in Russia erano inferiori di più del 50% rispetto a quelli dell’Europa occidentale, oggi rappresentano l’80%. 2) Produrre all’est e portare le macchine all’ovest per la vendita, «controbilancia più del 50% dei differenti costi salariali». Insomma, conviene ancora delocalizzare a est?
Saturn e Lincoln - ma in fase di ripresa, seppur non aiutati da un mercato interno che rimane debolissimo. Il grande tedesco, il gruppo Volkswagen, nel frattempo è diventato ancora più grande, annettendosi le sportive di Porsche, i camion di Scania e una quota del 20% di Suzuki. Per il 2018 prevede di essere il primo gruppo al mondo, superando Toyota. L’europeo-giapponese, Renault-Nissan, non si è allargato in America come temeva Marchionne (Fiat dietro le quinte nell’autunno 2008 combatteva un’offerta Nissan per la Chrysler), ma in Russia, comprando un quarto di AvtoVaz, la fabbrica delle Lada. In Giappone, oltre alla Toyota, che ha avuto problemi di qualità ma che comunque per il terzo anno si avvia a confermarsi primo produttore al mondo, e Nissan, che Marchionne considera un unicum con Renault, Honda è in salute e non pare alla ricerca di alleanze o matrimoni. Cambiamenti solo tra i più piccoli: Subaru e Isuzu, uscite dall’orbita Gm, sono diventate – come già Daihatsu – satelliti di Toyota. Rotto il matrimonio con Daimler, Mitsubishi è ancora alla ricerca di un partner, lo stesso per Mazda dopo l’uscita dall’orbita di Ford. La Cina è soprattut-
to un enigma. Dall’anno scorso è il primo mercato al mondo e tra cinque anni è proiettato a rappresentare un quarto delle vendite globali. Le Big Three cinesi, Saic, Faw e DongFeng, per il momento crescono quasi esclusivamente per le joint venture che hanno con costruttori esteri, ma paiono destinate a prosperare. Anche perché, se la crescita del mercato seguirà le previsioni degli analisti, ci sarà spazio per un consolidamento su pressioni dal governo di Pechino, attraverso il quale i grandi costruttori locali ingloberanno i piccoli. Perdipiù, non è stato un grande ma un piccolo cinese, la Geely, a comprarsi la Volvo dalla Ford. E Saic pare intenzionata ad acquisire un 10% della Gm privatizzata, così da cementare ulteriormente il legame già esistente attraverso le varie joint venture con la casa americana. Infine l’Europa. Marchionne immaginava un altro player di volume, ma ce ne sono ancora due: Fiat-Chrysler destinata a 6 milioni nel 2014 ma reduce da 3,45 l’anno scorso, non lontana quindi da Peugeot-Citroen a quota 3,2 milioni nel 2009 e in crescita quest’anno, soprattutto grazie alla Cina. Bisogna però non sottovalutare come l’auto elettrica potrebbe cambiare tutti i punti di riferimento di un’industria ancora basata sul motore a combustione interna. Marchionne è abbastanza isolato – seppur non solo – nell’essere convinto che l’auto elettrica non avrà un impatto significativo nel prossimo decennio. Tuttavia, se questo avvenisse, l’intero paradigma dell’industria di oggi potrebbe cambiare. Già si delineano delle alleanze che puntano soprattutto sull’elettrico, sia tra grandi costruttori, Renault-Nissan con Mercedes, Peugeot-Citroen con Mitsubishi, ma anche Toyota con la piccola Tesla. E se il futuro dell’auto fosse davvero elettrico, la teoria dei 6x6 potrebbe perdere validità. Pur parlando del 2025-2030. *Automotive News Europe
Perché due anni dopo la «profezia» del 6x6 di Marchionne, l’unico vero consolidamento dell’industria dell’automobile è accaduto soltanto per Fiat-Chrysler. Con scenari in movimento (a partire dalla Cina) che potrebbero cambiare con l’auto elettrica
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Design,
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se l’abito
fa il monaco «N
on mi chiederai anche tu come cambiano le forme dell’auto con l’avvento del motore elettrico...», esordisce un designer che conosciamo da abbastanza tempo per riceverne le esternazioni più spontanee. Ha ragione, la domanda oramai è abusata, ma più che legittima, visto che una risposta univoca ancora non c’è. Girando per i padiglioni del Mondial di Parigi, infatti, in tema di auto elettriche si vede davvero di tutto. Da concept car ultra-moderne e fantasiose coma la piccola Kia Pop a modelli ormai pronti per il mercato come le Renault ZE, fino ad un nutrito gruppo di normali vetture di serie esposte sugli stand con tanto di cavo elettrico innestato al posto del bocchettone del carburante – come spiegare, altrimenti, che sotto la normale carrozzeria batte un cuore a tutto amperaggio? La vera novità è che questa volta i visitatori del salone francese trovano esposte «wattures» ordinabili in concessionaria, ad iniziare proprio dalle marche domestiche: Citroën con la C-Zero e Peugeot con la iOn gemelle della Mitsubishi iMiev, e Renault con ben quattro modelli, a cominciare dalla berlina Fluence e dal Kangoo EV, sul mercato già nei prossimi mesi. Questo piccolo elenco basterebbe per mettere in luce la principale dicotomia dell’offerta attuale: vetture nate elettriche nel primo caso, e vetture elettrificate nel secondo. La silhouette di C-Zero e iOn è di fatto già nota al pubblico (il progetto Mitsubishi iMiev è stato presentato in forma di concept nel 2005), ma la novità è ben percepibile per effetto dell’architettura da vera monovolume, compatta negli ingombri e alta per la presenza delle batterie nel pianale. Una sorta di ovetto su ruote che ben si inserisce nel traffico urbano. Renault però ha già pronte per la fine del 2011 e il 2012 lo scooter a quattro ruote Twizy e la segmento B Zoe, dal sapore decisamente inedito anche se la Zoe appare un po’ più tradizionale rispetto a quanto promesso un anno fa a Francoforte dalla versione concept. «Il compito di noi designer è di visualizzare chiaramente il diverso tipo di propulsione», sostiene il responsabile del design del marchio Audi, Stefan Sielaff. «Con l’auto elettrica potrebbe verificarsi un cambio culturale di status symbol, per cui in città farà molto più tendenza essere visti a bordo di un veicolo elettrico». Il pubblico ha voglia di novità e con l’elettrico si aprono nuove opportunità per il mercato. Nell’immaginario collettivo, insomma, l’auto elettrica è percepita come un oggetto futuribile: proviamo allora ad in-
sistere con la nostra domanda ai designer e a stilare così un decalogo dei concetti da tenere presenti quando si disegna un’auto elettrica. Anche se i pareri sono molteplici e a volte contrastanti. - Per un cambiamento radicale ci vuole una nuova architettura del veicolo, attuabile solo con una propulsione interamente elettrica; l’ibrido non consente una riorganizzazione abbastanza radicale degli organi meccanici. - In questa nuova configurazione, gioca un ruolo fondamentale il gruppo riscaldatore, presenza ingombrante che vincola da sempre designer e ingeneri. Solo togliendo il motore dal cofano si può finalmente spostare il riscaldatore più avanti, liberando spazio di fronte ai passeggeri. - In un effetto a catena, l’assenza del motore nel vano frontale rende più semplice rispettare le normative urto pedone (quelle stesse che hanno imposto cofani alti e musi verticali), riducendo lo sbalzo anteriore anziché continuare ad incrementarlo. - Le batterie e altri organi meccanici sistemati nel pianale comportano delle sedute più elevate, caratteristica apprezzata dagli utenti che così non hanno più bisogno di rivolgersi al discusso segmento dei Suv. - Le prese d’aria sul frontale si riducono, perché non c’è più un motore termico che si alimenta d’aria. Però non scompaiono: le batterie sviluppano molto calore ed hanno bisogno di raffreddarsi, quindi gli ingressi per l’aria semplicemente si spostano là dove risultano più funzionali. - La calandra, assicurano i designer, continuerà ad esistere per presidiare l’identità di marca, anche se si trasformerà in un elemento diverso: in alcuni casi si tratterà di una griglia «finta», altre volte il suo contorno sarà semplicemente evocato da un trattamento grafico delle superfici (o da altre soluzioni creative, vedi ad esempio il gioco di Led proposto dalla Kia Pop). - L’aerodinamica perde la sua importanza. Anzi no, sarà sempre più fondamentale. Qui i pareri si dividono tra chi considera l’auto elettrica come un mezzo per spostarsi essenzialmente in città e a basse velocità, e chi in virtù della limitata autonomia delle batterie ritiene fondamentale sfruttare anche
quel po’ di vantaggio che può derivare da un buon Cx. - Sul peso, invece, non ci sono dubbi: deve essere il più possibile contenuto. E tutto ciò che non c’è, non pesa. Resta però da vedere quanto gli abitacoli si svuoteranno di arredi e contenuti, visto che si vuole comunque rendere le elettriche il più possibile attraenti, anche in considerazione del loro prezzo non proprio minimalista. - Sempre per attrarre clienti, c’è chi sceglie la strada della sportività: il mito dell’auto non può vivere di sole city car, insomma, ci vuole anche qualche coupé con un po’ di cavalli e un pizzico di romanticismo in più – vedi Renault con la concept car DeZir (e Tesla nella produzione in piccola serie). - Connessi sempre: è la parola d’ordine delle auto del futuro, tanto più se elettriche. Il côté tecnologico vale almeno tanto quanto il trattamento stilistico. L’interfaccia con uno smart phone è scontata, persino su mezzi con meno di quattro ruo-
SILVIA BARUFFALDI
FERRARI, FLAVIO MANZONI+LAPO ELKANN Flavio Manzoni è tornato in casa Fiat all’inizio dell’anno come designer della Ferrari. E sempre in Ferrari, Lapo Elkann è tornato a collaborare con il gruppo di cui è azionista di riferimento ma da cui era stato espulso nell’ottobre del 2005 dopo un’overdose. Tutto succede prima dell’estate. I due creativi avevano già lavorato insieme fra il 2004 e il 2005, quando Manzoni era il capo design di Lancia e Elkann capo del marketing Fiat. Manzoni ha 45 anni, una carriera iniziata in Fiat, poi tre anni anni da numero due nel gruppo Volkswagen, ora di nuovo in Italia. Lapo Elkann ha 33 anni, si occupa di moda e la testa nell’auto. La Ferrari è servita.
te, come ha mostrato a Parigi la Smart con i suoi progetti di scooter e bici elettrici, tutti dotati di innesto per iPhone. Se davvero l’auto elettrica si affermerà, insomma, i designer avranno un bel po’ di lavoro da fare. Il loro ruolo sarà sempre più determinante, visto che realizzare prodotti marcianti di questo tipo è relativamente semplice - anche un’azienda non automobilistica potrebbe di fatto acquistare motori elettrici e farsi una sua vettura - o non richiede comunque le grandi competenze interne affinate per anni dai costruttori in fatto di motori a combustione termica. «Potremmo di colpo ritrovarci tutti allo stesso livello», osserva ancora Sielaff. Se proprio una base comune ci deve essere, meglio allora puntare sui pianali, uno degli aspetti più onerosi in fatto di investimenti. La proposta, un po’ provocatoria, viene dal direttore del design di Peugeot-Citroën, Jean-Pierre Ploué: «Noi designer siamo dei sarti, magari visionari, però non possiamo fare nulla senza una buona architettura. Oggi non si innova abbastanza perché nessuno può, né vuole, assumersi grandi rischi da solo. Così si rischia l’asfissia. Il salto di qualità si potrebbe avere unendo le forze e sviluppando uno stesso pianale da condividere tra tutti i costruttori a livello mondiale. Non significherebbe avere auto tutte uguali, ma una base ideale per rispondere alle esigenze di mobilità, da vestire con il carattere estetico di ciascuna marca». E poi precisa : «Ma non sono mica comunista, eh?».
Dieci domande ai designer dell’industria delle quattro ruote su cosa cambia o non cambia nello stile delle «wattures». Partendo dai primo modelli e prototipi visti a Parigi. Il parere, fra gli altri, di Stefan Sielaff, a capo di Audi, e di Jean Pierre Ploué, a capo di Peugeot-Citroen
lavoriamo in pi첫 di 70 paesi, per portarvi energia
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A
Reportage da Pechino, dove le biciclette sbiadite come gli hutong sono state sostituite da mezzi elettrici. Per l’equivalente di un euro al mese nei grossi condomini di Pechino si lascia la propria due ruote elettrica protetta e in carica per tutta la notte. Il modello più economico costa 130 euro, non lo ruba nessuno e fa 40 chilometri con un pieno di volt
i semafori ci si guarda con estrema attenzione. In Cina appena si va in giro con qualcosa che si è appena acquistato, la domanda classica è: quanto l'hai pagato? Solitamente con l'intento di poter spiegare, una volta ascoltato il prezzo, cosa si sarebbe dovuto fare per strappare una cifra migliore, più economica. E allora anche in coda ai semafori, in attesa di compiere mirabolanti traiettorie nel traffico della capitale, saltare su un marciapiede, rotolare contromano, tutto senza casco e usando come unico strumento che manifesti la propria esistenza il clacson (stando in Cina non si capisce bene a cosa servono le frecce, i fanali, gli stop), ci si guarda, si osservano le caratteristiche, si scruta il colore e la resistenza delle motociclette elettriche in fila e si torna a chiedere: quanto l'hai pagata? Più indietro ci sono i ciclisti, sbiaditi come le foto degli hutong nei vecchi libri della Pechino che fu, una razza cittadina sempre più in via di estinzione, un nocciolo duro di nostalgici che ancora insiste a pedalare. Ormai sono una minoranza nelle zone riservate alle due ruote a Pechino, perché a trionfare è il modello elettrico. La Regina, come viene chiamata la bicicletta, cambia e si trasforma e diventa scintillante, simile a una moto e silenziosa: elettrica. Sia sotto forma di spartano motorino, sullo stile dei cinquantini che si perdono nella nostra memoria, sia simili a mini scooter giocattolo, leggeri e con i freni di una Graziella consumata dagli anni e dalle cadute, oppure piccole Vespe maggiormente attrezzate di bauli e specchietti: sono questi i nuovi padroni delle piste ciclabili pechinesi. Il modello più semplice, quello che si può lasciare parcheggiato anche senza catenaccio, tanto non lo ruba nessuno, costa circa 1300 RMB, 130 euro. Fa 40 chilometri, lascia pochissimo spazio all'estetica e si può caricare di ogni genere di pacchi. Poi ci sono gli scooter, più trendy e giovanili, anche se sono usati da una massa di consumatori trasversale in termini anagrafici e di appartenenza sociale. Le due ruote elettriche a Pechino sono una svolta in termini di movimento e di risparmio: una simil-Vespa in media costa più o meno 200 euro, fa circa 80 chilometri, raggiungendo i 50 chilometri orari, in discesa e con vento a favore e con un solo conducente a bordo (in Cina non esistono limiti a trovare spazio anche per due o tre centauri improvvisati) e si può ricaricare anche in casa, come un semplice cellulare. La silenziosità – e con essa il pericolo per i tradizionalisti in
sfida e bicicletta - e la clamorosa escalation delle moto elettriche hanno sollevato qualche problema anche nel governo, alla ricerca di una regolamentazione ad hoc, ma il fenomeno ormai appare incontrollabile. Le distanze a Pechino sono impensabili per una mente occidentale, la metropolitana è ottima ma spesso i tempi di percorrenza sono molto lunghi. L'autobus? Meglio lasciare perdere, vista la congestione del traffico: la bici elettrica è di gran lunga la soluzione migliore, consentendo un risparmio di tempo e di soldi (specie di notte, evitando così i taxi) piuttosto cospicuo. In ogni grosso condominio di Pechino, pagando una cifra che va dai 5 ai 10 RMB al mese, un euro, si può parcheggiare il motorino in un luogo sicuro, con tanto di ricarica notturna, così da non doversi portare in casa la batteria il cui peso non è certo indifferente. E poi si sfreccia, senza troppa ripresa, guardandosi e sfidando costantemente le moltissime auto che affollano gli anelli di Pechino. Sulle quatto ruote infatti, la moda non è ancora cambiata, anzi.
SIMONE PIERANNI da Pechino
SMART-MINI, DUE RUOTE E UNA CAPARRA Sono scooter di lusso elettrici, che stanno facendo molto discutere sui blog fra pro e contro, che prima o poi arriveranno sul serio ma per i quali al Salone di Parigi non si accettavano caparre, né prenotazioni. La Smart (gruppo Daimler) ha presentato il suo modello simil-Vespa, parlando di possibile produzione un giorno non definito a un prezzo non annunciato (la metà di una Smart, hanno solo detto, cioè intorno ai 7.000 euro). La Mini (gruppo Bmw) ha risposto portando un suo prototipo, per il quale non ci sono state parole. Nel senso che per adesso, dicono in Mini, rimane uno studio, senza seguiti produttivi e meno che mai senza voci sui prezzi. Si vedrà.
Lo status symbol Il giorno dopo il «Car Free Day» - una specie delle nostre domeniche senza auto nei centri storici - alcuni giornali cinesi ironizzavano pubblicando le foto del traffico congestionato di Pechino: l'auto, per niente elettrica, è ancora uno status symbol duro a morire in Cina. I Suv intasano le città cinesi, in un continuo sfoggio di potere. I campioni sono i macchinoni senza targa, che sgommano, che partono lasciando la frizione solo dopo una sgasata da pieno di benzina alla curva successiva. Tutto questo nonostante la Cina venga ormai considerata una sorta di nuova frontiera per le auto elettriche. Di strada, è il caso di dirlo, ce ne sarà ancora molta da fare. Nonostante gli incentivi, le sperimentazioni e i grandi investimenti cinesi, la situazione nel mondo reale ancora non sembra mutare: sono pochissime le auto elettriche o ibride nelle grandi città. A fare pensare ad un'inversione di tendenza c'è la consueta certezza: se il governo cinese deciderà che il futuro dovrà essere elettrico, si può stare certi che sarà così. Per ora la situazione è ancora embrionale anche se nella sola Shanghai entro il 2020, secondo un piano governativo, saranno circa 100 mila le macchine ibride in circolazione. Il governo offrirà quasi 100 miliardi di yuan per sostenere lo sviluppo delle nuove tecnologie energetiche da parte delle imprese nazionali, lanciando promozioni pilota in 13 città tra cui Pechino, Shanghai, Chongqing, Hangzhou, Wuhan e Shenzhen. Secondo uno studio
della McKinsey, citato recentemente dal Quotidiano del Popolo, entro il 2030 la Cina potrebbe avere un mercato immenso, si parla di un giro di soldi di circa 1.500 miliardi di yuan solo rispetto alle auto elettriche. Si tratta di un sistema, naturalmente: nel maggio del 2010 la Sinopec Beijing Oil Products Company e la Beijing Capital Sci-tech Group Corporation hanno dato vita alla Beijing Sinopec First Division New Energy Technology Company, con l'intento di creare 30 stazioni di ricariche per le auto elettriche, inizialmente a Pechino. Un progetto che sarà esteso a breve a Tianjin, Shanghai e Xian. Nel 2010 ci si aspetta la nascita di centinaia di centri di ricarica in almeno 27 città, con un costo per ogni stazione di 3 milioni di yuan. «Le stazioni di ricarica elettrica sono una nuova opportunità per le compagnie petrolifere nazionali», ha specificato al Beijing Today Lu Qingchun, della Tsinghua University, una delle università più rinomate del paese, quella che ha laureato l'attuale presidente Hu Jintao. «Meglio creare le nuove stazioni, piuttosto che migliorare quelle di benzina, visti i piani del governo che preve-
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il manifesto autocritica
Autopia
la sostenibile
elettrica della Cina
dono solo a Pechino 5mila mezzi elettrici tra bus e taxi entro il 2012». All’Expo di Shanghai, sull’onda dello slogan dell'esposizione universale, «Better city, better life», non si poteva che parlar anche di auto. Riflessioni e prototipi accompagnati come al solito da numeri cinesi e dalla consueta voglia di stupire. All'argomento il governo ha dedicato un padiglione incaricato di presentare l'idea, «Take a drive to 2030», con in esclusiva mondiale la macchina a forma di foglia fabbricata dalla Saic. Si tratta della Leaf, Ye Zi, in cinese (non è la giapponese Nissan Leaf, prima elettrica in vendita alla fine di quest’anno negli Stati Uniti, di cui è stato copiato solo il nome). Una vera e propria «autopia»: grazie a pannelli solari e turbine eoliche avanzerebbe nelle strade con l'energia del vento o del sole. Non solo, perché andando produrrebbe anche ossigeno nell'ambiente circostante. Di certo la Saic – che essendo di proprietà pubblica ha la possibilità di cogliere immediatamente i segnali, anche i più criptici, del governo - ha capito che il mercato ci sarà e per questo ha già messo sul piatto circa
privata in Cina fondata nel 1997 a Hangzhou, e diventata famosa per aver acquistato pochi mesi fa l’europea Volvo per 1,8 miliardi di dollari dalla Ford, nel 2009 ha venduto 30 mila modelli in Cina. Dispone di stabilimenti in Russia, Ucraina e Indonesia: secondo gli osservatori è la più pronta ad invadere anche mercati esteri. Il suo modello elettrico EK-1 viaggerebbe a circa 80 km con una singola carica, raggiungendo una velocità massima di 104 km/h, ricaricandosi in cinque ore. Entro due anni dovrebbero essere lanciati i nuovi modelli, EK2 e EK3. Ci sono poi la la Chana Motors di Chongqing (che realizzò un primo modello in occasione delle Olimpiadi del 2008), la già citata Saic, la Dongfeng Motor Corp, la Beiqi Foton Motor e il gruppo Faw, il più vecchio produttore automobilistico cinese, pronto per lo sbarco elettrico previsto nel 2012. Nomi sconosciuti ai consumatori europei e statunistensi, ma di cui a breve si sentirà parlare ovunque, per fare conoscenza della nuova e sostenibile macchina elettrica cinese.
6 miliardi di yuan per produrre 50 mila auto elettriche e almeno il doppio di ibride. Nell'attesa dell'auto elettrica di massa, a farla da padrone è una via di mezzo tra moto e macchina, ovvero il mitico tre ruote cinese, il sanluche. Dagli sgarruppati modelli decadenti e a pezzi, usati per lo più come mezzo di trasporto semi collettivo o per trasportare ingenti quantità di ogni tipo di materiale trasportabile, è uscita la versione che va di moda tra i giovani: un tre ruote elettrico tutto design e rapido a muoversi nel traffico cittadino, consentendo anche una discreta resistenza nelle stagioni invernali ed estive. E’ chiuso, ha l'aria condizianata e perfino un impianto stereo di tutto rispetto. Il costo è ancora alto, circa 1500 euro, ma c'è da crederci che divente-
rà uno dei mezzi di trasporto privilegiati dei colletti bianchi cinesi.
Elettrizzarsi è glorioso Viste le intenzioni del governo, non sorprende il comportamento delle aziende cinesi, pronte a sfruttare il mercato interno offerto dalla nascente classe media nazionale. La Build Your Dreams (Byd) di Shenzen è nata nel 1995 da un'idea di Wang Chuan-Fu e si è specializzata nella produzione di batterie al litio, entrando nel mercato delle auto nel 2003 e diventando in breve tempo uno dei punti di riferimento mondiale, passando dai cinquanta prototipi realizzati ad hoc per i politici del Partito di Shenzen al mercato statunitense ed europeo. La Geely Automobile, la più grande società automobilistica
PREVISIONI 2020? CINA PRIMO MERCATO EV Tanto per fare qualche numero, la Cina si appresta a diventare il primo mercato mondiale anche delle automobili elettriche, dopo aver conquistato la leadership l’anno scorso per quelle tradizionali. Secondo gli analisti americani di Ihs Automotive, la vendita di macchine elettriche e di ibride plug-in in Cina sarà di quasi 1 milione entro il 2020. Ancora gli analisti stimano vendite, in particolare, di pure elettriche in 430.000 unità e di ibride in 510.000. Il governo cinese sta programmando di aver una flotta, sempre entro il 2020, di 5 milioni di veicoli elettrici e ibridi in strada. Nel frattempo spinge con gli incentivi all’acquisto di auto che consumino e inquinino meno, con cilindrata massima di 1600 centimetri cubici. Per la fine dell’anno, la Byd di Shenzen, azienda privata, conta di vendere negli Stati Uniti la sua prima auto elettrica, la E6, tagliando il traguardo in vetta insieme agli americani di General Motors con la Chevrolet Volt (non totalmente elettrica, però, con un benzina che serve a ricaricare le batterie quando vanno giù) e ai giapponesi di Nissan con la Leaf. Sempre secondo gli analisti di Ihs Automotive, alla fine del 2010 il mercato cinese di automobili crescerà ancora del 9,7 per cento, fermandosi a quota 14,5 milioni.
L’industria dell’auto cinese aspetta i soldi promessi dal governo - 100 miliardi di yuan - per lo sviluppo delle infrastrutture e dei veicoli elettrici. Un megabusiness che parte da città abitate da milioni di persone per estendersi al paese. Il vantaggio delle aziende di proprietà pubblica come la Saic, è di poter capire prima la determinazione del governo a fare davvero
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il manifesto autocritica
L
a Bolivia, la più «indigena» delle nazioni sudamericane, rappresenta uno dei pochi contesti umani e naturali rimasti ancora integri. Paese che meglio conserva la cultura tradizionale, della quale si osservano ancora valori e credenze, la Bolivia ospita infatti le regioni andine nelle quali fiorirono diverse culture, tra cui quella Tiwanaku, tra il II sec. a.C. ed il XIII sec. Per questo è considerato uno dei luoghi più affascinanti, oltre che meno conosciuti, dell’America latina; il più incontaminato, quindi, ma anche il più povero, se per «povero» si intende scarsamente industrializzato. La situazione potrebbe presto cambiare, però, a causa dello sviluppo dell’auto elettrica. I produttori mondiali di quattro ruote hanno messo da tempo gli occhi sul Paese nel quale, secondo alcuni calcoli, risiede da un terzo alla metà delle riserve mondiali di litio. Un minerale noto non solo per essere il più leggero degli elementi solidi, ma anche per essere usato (oltre che come componente in farmaci antipsicotici) nella produzione di batterie per telefoni cellulari, computer portatili e ora per auto elettriche. Si prospettano affari milionari in Bolivia, come in tutte quelle nazioni che si trovano ad avere importanti riserve di questo prezioso minerale, ma ovviamente ogni cosa ha il suo prezzo. Lo sviluppo di tale industria estrattiva avrebbe infatti un impatto di non poco conto su ecosistemi bellissimi come quello del Salar de Uyuni, la più grande distesa salata del mondo, situata a 3.650 metri di quota, nella quale si concentrano le principali riserve di litio. Il caso boliviano pone una questione: meglio produrre auto che vadano a batterie (di litio) invece che a benzina e gasolio, o meglio cercare di preservare dal punto di vista naturalistico zone di incontaminata bellezza? Meglio produrre auto che possano portare (si spera) ad una mobilità più sostenibile, o evitare di devastare una delle poche aree del pianeta rimaste intatte? Nell’ottica di una consistente crescita economica, il presidente socialista Morales ed il
Bolivia,
caccia
al dio litio
suo governo, detenendo il 60% di tutte le aziende nazionali, si trovano tra le mani la possibilità di definire le sorti future del proprio Paese e, forse, di molte aziende automobilistiche. L’affare del litio, che già viene chiamato l’ «oro bianco del XXI secolo», interessa tutti, dai giapponesi di Mitsubishi e Toyota agli americani della Gm, ai francesi di Bolloré, per citare i primi che si sono fatti avanti in Bolivia. Il litio rappresenta per molti la speranza di una svolta economica del paese sudamericano, dato che dà la possibilità, a differenza delle riserve di gas e di idrocarburi del Paese, di fare
ANDREA BERTAGLIO
BENZINA TROPPO CARA PER IL PENTAGONO Cosa non si fa per risparmiare. Il Pentagono ha appena spedito una compagnia di marine in Afghanistan con tutto il necessario per mandare avanti l'accampamento senza diesel o benzina: pannelli solari portatili, luci a consumo ridotto, tende che forniscono energia elettrica, batterie solari per i computer e altri mezzi di comunicazione. Si tratta di un esperimento, se funziona il nuovo equipaggiamento verrà adottato da altre compagnie. Per il Pentagono, racconta il New York Times, si tratta di una necessità. Rifornire di carburante le truppe è costoso, complicato e pericoloso: in Iraq e in Afghanistan, ha calcolato uno studio dell'esercito, muore almeno un soldato o un civile adetto al trasporto ogni 24 convogli di carburante. E il trasporto di un gallone di benzina, pagato un dollaro, può arrivare a 400 dollari per gli avamposti più lontani.
un piano economico di decenni. Piano che porta il presidente Morales addirittura a prefigurare una futura industria automobilistica totalmente nazionale, caratterizzata da una cospicua presenza di auto elettriche «Echo en Bolivia» (fabbricate in Bolivia). Con buona pace delle organizzazioni ambientaliste boliviane, le quali già lamentano l’eccessivo uso di sostanze chimiche che l’estrazione e la trasformazione del litio comporterebbero. Con un petrolio sempre più scarso e costoso, e con un’opinione pubblica mondiale sempre più preoccupata da un ambiente ormai provato dalle emissioni di gas serra, i colossi del mercato automobilistico vedono nel litio sia la possibilità di rilanciare la loro immagine in un settore in costante declino che quella di una possibile riconversione che, di verde, ha più le caratteristiche dei dollari. Se si parla di ambiente e di sfruttamento delle risorse di un Paese come la Bolivia, siamo sicuri che lo sviluppo dell’industria del litio non possa comportare dei sottovalutati svantaggi? Non solo dal punto di vista ecologico, ma anche di carattere sociale e, paradossalmente, economico. L'estrazione di questo minerale richiede un enorme uso di acqua che, a lungo andare, po-
trebbe provocare una drammatica crisi idrica. Il rischio di un conflitto sociale risulterebbe quindi incombente, se si pensa non tanto alle popolazioni indigene circondate di camion e ruspe da un giorno all’altro, quanto agli asprissimi conflitti già visti in questo Paese circa dieci anni fa (in particolare a Cochabamba), dovuti proprio all’acqua: quella che, ben più del petrolio e del litio, è considerata da ogni popolazione esistente su questa Terra la risorsa più importante. Alcune comunità locali vedono la prospettiva di un'industrializzazione al litio come una speranza di lavoro e, conseguentemente, di benessere. Ma i produttori di quinoa, l'alimento base per tutte le popolazioni andine, così come gran parte degli operatori turistici, temono che i danni per l’economia locale, tirando le somme, potrebbero essere ben superiori alle ricadute positive. La possibilità di un reale sviluppo dell’industria estrattiva e l'entità della domanda futura di litio sono tuttavia ancora incerte; per contro, è forte il rischio che, per privilegiare un’industria, si comprometta l’esistenza di un’altra. L’estrazione del litio avrebbe infatti un impatto enorme sull’ambiente, sugli spettacolari scenari naturali e, di conseguenza, sul turismo.
L’industria delle quattro ruote guarda al paese nel quale, secondo alcuni calcoli, risiede da un terzo alla metà delle riserve mondiali di litio. Un minerale noto non solo per essere il più leggero degli elementi solidi, ma anche per essere usato per le batterie dei telefoni cellulari, computer portatili e ora per le auto elettriche. I rischi per l’ambiente nel paese più «indigeno» dell’America latina
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il manifesto autocritica
Gm, Ford e Chrysler hanno già avuto la loro scarica elettrica, dopo la tempesta perfetta della grandi crisi finanziaria che ha provato a spazzare via due di loro. Ora ricominciano dalle macchine a batteria, con grande cautela. La Gm è la più avanti con la Chevrolet Volt, seppur dotata di un motore termico ausiliario. Ford pronta nel 2012 con la Focus, Chrysler propone la...Fiat 500
La carica
a stelle e a strisce L
a macchina elettrica? E’ come l’iPad. Un lusso costoso, che però potrebbe indicare la strada verso gli usi e i costumi del futuro. E che potrebbe portare, forse, ad un’America più ecologica. Già l’ex presidente George W. Bush aveva preso atto che gli Stati Uniti sono «un paese drogato di petrolio». Il suo successore, Barack Obama, ha ammonito più volte: gli americani devono riuscire a liberarsi dalla dipendenza dell’oro nero. Il proposito presidenziale si traduce in diverse iniziative, come la dibattuta espansione del numero di centrali nucleari del Paese. Ma la via americana a una riduzione dell’uso di petrolio passa anche attraverso altri programmi grovernativi. Uno di questi punta a mettere su strada, entro il 2015, un milione di auto che vanno ad elettricità. Il dipartimento dell’energia di Washington ha stanziato 2,4 miliardi di dollari per batterie e veicoli elettrici. Gli americani potranno così comprare macchine a prezzi scontati, ma comunque elevati, non certo accessibili a tutti. Proprio come l’iPad. Magari è lo strumento del futuro, ma al momento costa parecchio e non tutti se lo possono permettere. Vediamo quali sono le auto che le Big Three, le tre principali case automobilistiche americane, hanno intenzione di lan-
ciare sul mercato nei prossimi mesi. La prima americana ad arrivare sul mercato sarà la Chevrolet Volt (gruppo General Motors), un’auto elettrica che può andare a volt per circa 40 miglia (64 chilometri). Quando la batteria si esaurisce, entra automaticamente in funzione un motore a benzina che produce energia elettrica e continua a far muovere la macchina. Con la batteria completamente carica e il serbatoio di benzina tutto pieno, si può arrivare a percorrere circa 300 miglia (480 chilometri), ovvero un tratto abbastanza lungo come un’andata e ritorno tra la capitale Washington e Philadelphia (in totale è un viaggio di circa cinque, sei ore). La ricarica della batteria può essere più o meno lunga, in base alla stazione di ricarica. In alcuni casi servono dieci ore, in altri quattro. La Gm prevede di produrre 10mila unità nel 2011 e 45mila nel 2012. Le due componenti principali della macchina, motore e batteria, vengono entrambi prodotti in Michigan, così come il veicolo stesso, costruito a poche miglia dal quartier generale della Gm. «Ad acquistare la Volt saranno le persone particolarmente entusiaste per le nuove tecnologie e che magari hanno già provato un veicolo elettrico in passato – sostiene Rob Peterson, responsabile della comunicazione per il nuovo modello Chevrolet – si tratta di una bella macchina, non certo di un veicolo di quelli che si vedono nei campi da golf». Peterson prende atto che i guidatori della Volt saranno, effettivamente, delle mosche bianche. Che però potrebbero indicare il nuovo trend. «Pensiamo che ci sia un grande mercato per questa auto – continua il portavoce – ci abbiamo investito un miliardo di dollari, una buona parte è stata stanziata per le tecnologie». Fra gli scenari ipotizzati, l’interesse degli hotel disposti ad installare impian-
MATTEO BOSCO BORTOLASO da New York
BYE BYE CAR GUY Per la prima volta nella storia americana, l’auto di Detroit è in mano a tre «no car guy». Ci voleva una catastrofe come quella avvenuta per cambiare le regole del gioco. Gm e Chrysler sono state salvate da quasi 82 miliardi di dollari in aiuti da parte dell’amministrazione Bush e poi Obama, mentre Ford se l’è cavata da sola ottenenendo dalle banche un prestito di 23 miliardi di dollari prima che la grande crisi chiudesse i rubinetti. Dal primo settembre alla Gm c’è Daniel Akerson, ua passato nelle telecomunicazioni e nella finanza. Alla Ford c’è Alan Mulally, 37 anni in Boeing e atterrato a Dearborn nel 2006, oggi il numero uno più in vista nel mondo dell’auto, dato che ha salvato la Ford dal disastro, senza metterla nelle mani del governo e tornando a guadagnare soprattutto in Nordamerica, 4,7 miliardi di dollari soltanto nel primo semestre del 2010. Alla Chrysler c’è Sergio Marchionne, che la sta portando fuori dalla bancarotta del 2009.
ti di ricarica e quello delle grandi aziende che spoingerebbero i loro clienti ad usare la macchina elettrica. Il ragionamento di fondo, alla Gm come altrove, è abbastanza semplice: tre quarti dei guidatori percorrono quotidianamente un tragitto breve, che non sarebbe un problema per le auto ad elettricità (certamente più deboli sulle grandi distanze). D’accordo, ma quanto costa la Volt? Il prezzo sarà parecchio elevato, 41mila dollari. Grazie agli incentivi statali, che possono tagliare le tasse da pagare fino a 7.500 dollari, si potrà scendere fino a 33.500 dollari (una cifra comunque alta, rispetto ai modelli non elettrici). Passiamo alla Ford, che nel 2012 venderà la Focus elettrica, dopo aver lanciato a inizio 2011 la Focus «normale» negli Stati Uniti e in contemporanea su tutti i mercati mondiali, prima volta per un modello concepito in Europa. Come è accaduto con la Volt, per le batterie è stata siglata una partnership con la sudcoreana LG Chem, che sta costruendo una fabbrica in Michigan. La Focus Electric può correre per 100 miglia con una ricarica piena, senza inquinare. In base alla velocità e al tipo di strada, le miglia percorribili con un pieno elettrico, naturalmente, diminuiscono. Nei prossimi due anni, la Ford produrrà ben cinque modelli elettrici o ibridi. Jennifer Moore, portavoce aziendale, sottolinea che la casa automobilistica «offrirà una serie di modelli, ibridi oppure elettrici, in modo da garantire una vasta gamma all’interno della quale il cliente potrà scegliere l’opzione a lui più adeguata». La Focus Electric «non verrà prodotta in grandi quantità», intorno ai 10mila esemplari, proprio come la Chevrolet Volt. Ma la Ford pensa che l’auto elettrica possa essere un model-
lo vincente negli Stati Uniti, dove solitamente si percorrono grandi distanze? «Saranno i consumatori a dare la risposta», ribatte la portavoce. Restano dubbi sulle modalità per ricaricare l’automobile, anche se in Ford spiegano che bisognerà installare un sistema dedicato a casa (ce ne sono diversi, il più veloce ci mette meno di dieci ore). E per le strade, come fare? «Noi non ci occupiano delle pompe di benzina, e di tutto ciò che ricade nella categoria delle infrastrutture - risponde la portavoce - non è il nostro compito, se ne devono occupare altri». Infine, la Chrysler. Per il momento la casa automobilistica salvata dalla Fiat ha messo nel cassetto i progetti relativi alle auto elettriche. Accantonati, almeno per qualche tempo, i progetti relativi a tre macchine elettriche che dovevano uscire sul mercato alla fine di quest’anno. Il piano di Chrylser era ambizioso: produrre mezzo milione di veicoli elettrici, compresi camion e macchine sportive, entro il 2013. Eppure la casa aveva ricevuto decine di milioni di dollari in prestiti dal dipartimento dell’energia. Al momento gli sforzi sono più concentrati sull’ibrido, seguito dalla divisione speciale chiamata Envi (Environment, ambiente). «Ci stiamo lavorando seriamente», ha ribattuto alla fine di settembre l’amministratore delegato Sergio Marchionne, «ma indirizzare tutto lo sforzo normativo nel promuovere questo tipo di trazione porterebbe solo a un aumento di costi, senza nessun beneficio immediato e concreto». Dunque, per ora la Chrysler farà sì un’auto elettrica ma sarà la Fiat 500, in vendita dal 2012. Una strana creatura, piccola e insolita, per le grandi strade a stelle e strisce.
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A
CAROLA FREDIANI*
SONO ZOE E BASTA Al Salone di Parigi la Renault ha presentato la nuova versione della Zoe elettrica, prototipo già visto al Salone di Francoforte nel 2009 ma rivisitato nel design. La macchina - un segmento B, due volumi e cinque porte - sarà messa in vendita nel 2012 in questa ultima veste. Il nome è rimasto intatto. Zoe in greco significa «vita» mentre in francese è un nome femminile alla moda, Zoé. Tanto che alcune cittadine d’oltralpe, tra cui la ventitreenne Zoé Renault, ha protestato: se chiamate così la macchina, la mia vita sarà rovinata. Risultato: il costruttore Renault va avanti, ma Zoe è senza accento. Come nell’originale greco. E fa niente(?) che in francese si metta l’accento sulla e finale.
Milano la prima colonnina è spuntata vicino all’Università Statale, in largo Rimini, suscitando curiosità tra i passanti. Primo tassello di una infrastruttura di ricarica che coprirà il capoluogo lombardo e la città di Brescia per un totale di 270 erogatori e la cui realizzazione è in pieno svolgimento. Si tratta del progetto «E-moving» per la diffusione di una mobilità urbana sostenibile che vede lavorare assieme i due comuni citati, l’utility locale A2A e Renault. A causa di un ritardo con l’installazione delle batterie di ultima generazione, le 60 vetture elettriche fornite dal marchio francese e attese la scorsa estate arriveranno solo nei prossimi giorni. Ma dalla casa automobilistica assicurano di essere pronti a partire con la sperimentazione, tanto più che sono già state svolte una serie di verifiche tecniche sull’installazione delle colonnine e la formazione della rete di assistenza. Rallentamenti a parte, è chiaro che proprio Renault punta molto sulla mobilità elettrica, e non solo in Lombardia: nel mondo ha lanciato 63 programmi pilota mettendo a disposizione 600 veicoli, in partnership con amministrazioni pubbliche, aziende e compagnie elettriche. In Israele e Danimarca, ad esempio, insieme all’azienda Better Place sta mettendo a punto Quickdrop, un sistema più avanzato per il rifornimento dei veicoli elettrici. L’idea è che la batteria non si ricarica ma si cambia: si va alla stazione di servizio, si sale su un ponte, un robot sgancia il vecchio accumulatore e ne rimonta un altro. Tempo impiegato: 3 minuti. Da noi, «è ragionevole che ci sia entro il 2020», ci dice Jacques Bousquet, direttore generale di Renault Italia. Per il costruttore si avvicina il momento della commercializzazione. Nella prima metà del 2011 lancerà due modelli completamente elettrici: Kangoo Express ZE (20mila euro Iva esclusa) e Fluence ZE (27200 euro con Iva). A questi prezzi però va aggiunto il noleggio mensile della batteria (rispettivamente 72 e 79 euro) cui bisogna sommare una media di 25 euro di ricarica ogni 30 giorni. Dal concessionario si compra l’auto, si noleggia la batteria, si attiva il contratto con la compagnia elettrica per installare un wall box (una «presa» murale domestica) per la ricarica in garage. Sì, perché in attesa che anche da noi si sperimentino soluzioni avanzate come Quickdrop, il punto di rifornimento più naturale resterà il box di casa, con un tempo di ricarica che va da 3,5 a 8 ore a seconda del tipo di veicolo e della potenza disponibile. Come seconda scelta ci saranno invece le colonnine di ricarica rapide installate sul suolo pubblico per recuperare 50 chilometri di autonomia in meno di 10 minuti o l’80 per cento in 30 minuti. Prima di Renault, Citroen sta lanciando in Europa C-Zero, la sua city car al 100 per cento elettrica, sviluppata con la Mitsubishi Motors Corporation. Una piccola 4 posti con autonomia di 150 chilometri e una velocità massima di 130 km/h, dotata tra l’altro, grazie al modulo Gps e a una scheda Sim, di un sistema di chiamate d’emergenza e di assistenza localizzata. Prezzo: 35.960 euro chiavi in mano. La Peugeot non ha invece ancora comunicato il prezzo della sua iOn elettrica, sorella di questo parto trigemellare Mitsubishi-Citroen-Peugeot. Ma è scontato che sarà allineato a quella della C Zero per chi vorrà comprarla chiavi in ma-
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no. O in leasing, a un costo ancora non ufficializzato ma che potrebbe aggirarsi sui 600/700 euro al mese in Italia (500 euro in Francia). L’aspetto curioso (e negativo per i cittadini) di questa corsa francese verso la mobilità elettrica - il governo di Parigi sta per lanciare un ordine da 50mila vetture - è che Renault e Peugeot-Citroen non hanno messo a punto lo stesso sistema di colonnine di ricarica: quello Renault funziona a corrente alternata, quello Peugeot a corrente continua. Eppure nel momento in cui si lavora su progetti di infrastrutture pubbliche bisognerebbe pensare a una standardizzazione. In Italia, la Fiat sta per ora ferma. Il programma «E-mobility Italy» è l’iniziativa Smart ed Enel, insieme ai comuni di Roma, Milano e Pisa. In pratica il gruppo tedesco Daimler fornirà 100 vetture elettriche (Smart fortwo electric drive) distribuite nelle tre città, occupandosi anche della manutenzione. Nel contempo Enel provvederà a installare e gestire 400 punti di ricarica. «Il con-
sumo di energia, pari a 750 mila kWh, delle 100 Smart per i 4 anni di durata del progetto eviterà l’emissione in atmosfera di 600 tonnellate di CO2», dicono alla Mercedes, spiegando che per essere assorbita ha bisogno di un’area verde grande quanto Villa Borghese a Roma. I primi 35 romani iscritti al programma e selezionati via internet pagheranno un affitto per l’auto e il servizio di 400 euro al mese più Iva. In verità, qualcuno a fare sistema ci sta provando. A metà settembre si è costituita, presso il Ministero per l’Università e la Ricerca, la prima piattaforma italiana per la mobilità elettrica: una sorta di piano congiunto per affrontare lo scenario internazionale che mette assieme istituzioni, università e imprese importanti: da Ferrari a Eni, da Brembo al Centro ricerche Fiat, da Piaggio a Pininfarina. Proprio Pininfarina ha appena presentato in pompa magna a Roma il suo prototipo marciante di vettura elettrica. Si tratta della Nido Ev, progettata e costruita a Cambiano: una city car a due posti (ma ne
arriveranno altri modelli a 4) con potenza massima di 30 cavalli e design innovativo, autonomia di 140 km e velocità massima di 120 km/h. La batteria Zebra Z5 è priva di sostanze nocive ed è riciclabile al 100 per cento. Una volta terminato il suo ciclo di vita finisce in fonderia, dove viene usata per la produzione di acciaio inox. Sbarco sul mercato, lontano. Poi ci sono alcuni progetti di cui si è parlato molto, ma di cui non si è saputo più nulla. Uno riguarda la realizzazione di un polo industriale della mobilità elettrica in Sicilia a Termini Imerese, dove oggi c’è la fabbrica di automobili che la Fiat vuole chiudere alla fine del 2011. L’iniziativa – denominata «Sunny car in a sunny region» – è del sistema di fondi Cape guidato da Simone Cimino insieme all’indiana Reva e include la produzione di ecars, l’allestimento di una rete di stazioni di ricarica sul territorio e l’istituzione di un master ad hoc all’Università di Palermo. Il progetto prevedrebbe finanziamenti sia dalla regione siciliana che dallo stato per un investimento di 900 milioni di euro. E sempre in Sicilia, alcuni mesi fa era stata presentata la Maranello, una microcar elettrica (costo: 12.500 euro più Iva) dal nome sospetto, prodotta dalla Siciliana energia e la Effedi automotive. Nelle intenzioni dei suoi ideatori, dovrebbe essere ricaricata con elettricità derivante da energia solare. Ma chi l’ha vista? *www.effecinque.org
Straniere d’Italia
Citroen C Zero, Peugeot iOn, Mitsubishi iMiev, Renault Kangoo e Fluence ZE, a seguire la Smart e le altre. Quanto costa, come sono fatte e come si ricaricano le prime auto elettriche in arrivo sul mercato italiano, alcune già circolanti, altre ancora in fase di prototipo come quella di Pininfarina