autocritica marzo 2011

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Le illustrazioni di questo supplemento sono state affidate a disegni di automobili che ricordano anniversari importanti del mondo delle quattro ruote. Nel 2011 compiono 50 anni la Renault 4 (la mitica Quatrelle, come la chiamavano i francesi), la Jaguar E-Type (su una nera girava Diabolik), la Volvo P1800 (il modello più importante della storia del costruttore svedese, oggi di proprietà cinese). Poi ci sono i 40 anni della Fiat 127 (l'erede della 850) e infine (o per primi) gli anniversari di alcuni marchi. I 100 anni tondi della Chevrolet (fondatore svizzero ma marchio americano che più americano non si può), i 125 anni della Mercedes (il 29 gennaio del 1886 Carl Benz depositava il brevetto della prima automobile della storia), i 70 anni della Jeep (la Willis sbarcò in Italia al seguito dell'esercito Usa, oggi il marchio è controllato dalla Fiat).

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Le previsioni di crescita della Cina aprono scenari inediti. Che incrociano quelli legati al dramma in Giappone e alle rivolte e alla guerra nei paesi del petrolio in Nordafrica. Gli effetti dell’ultimo balzo del prezzo del greggio sul mercato nordamericano nell’estate del 2008 e le vecchie e nuove scelte dei consumatori d’oltreoceano

i celebrano molti compleanni automobilistici nel 2011 (illustrano le pagine di questo supplemento), ma una vera festa potrebbe essere nel 2015 o nel 2040, e forse non sarà da ricordare. La Cina si appresta a consumare più o meno come l'Europa, è il succo di alcune previsioni, anzi fra trent'anni il reddito pro-capite dei cinesi sarà il doppio di quello dei cittadini dell'Unione europea, 85.000 dollari. Sarà una pacchia per i costruttori di automobili, non probabilmente per l'aria del pianeta. L'anno scorso, in Cina sono state vendute quasi 300 Ferrari, contro le 683 vendute in Italia. Siamo lì. A Pechino chi è già in grado di comprare vetture come una Volkswagen Tiguan, un Suv di medie dimensioni, è pronto a sborsare circa 4.500 dollari solo per entrare nella lista di attesa, scrive Automotive News. Sempre l'anno scorso, nel mondo i prezzi di alcune materie prime come grano, zucchero e mais sono aumentati di circa il 70%, a causa di una domanda crescente sia nei paesi in via di sviluppo (chissà nel fatidico 2040!) sia in quelli già sviluppati, combinata a catastrofi naturali e alle solite speculazioni. Se tutto va male, entro poco tempo avremo una Cina al volante e rivolte diffuse nel mondo per fame, simili o peggiori a quelle appena viste nel Mediterraneo. *** Prima lo tsunami politico nel Mare Nostrum a portar su il prezzo del petrolio. Speculazione, hanno tranquillizzato gli esperti, perché la Libia produce solo il 2% del fabbisogno mondiale. Poi la guerra, che vale anche quel 2%. E poi lo tsunami nel Mare Monstrum del Giappone. Una tragedia, un allarme energetico spaventoso a base di nucleare, il prezzo del petrolio che sale sull'ottovolante. L’industria dell’auto (e non solo, ma qui di questo parliamo) sta rifacendo i conti, pensando alle riserve di cassa (chi le ha) per affrontare un nuovo periodo di incertezza. Anche perché, come notava l’Economist poco prima dei nuovi allarmi mondiali, «la crisi dell’industria dell’auto è finita, i suoi problemi di lungo termine no». Nel frattempo, in Italia il prezzo della benzina alla pompa è diventato il più caro d'Europa, con un quarto delle necessità energetiche del paese coperte finora dalla Libia. Nel 2008, analo-

I nuovi c

e i vecchi,

occhio al futuro

go boom dei prezzi del greggio a livello mondiale diede l'ultima spintarella ai due colossi di Detroit sul ciglio della bancarotta e gli americani scoprirono che anche piccolo è bello, per altro claim pubblicitario di successo della Volkswagen Maggiolino negli anni '60. Nell'estate calda del 2008, in America la benzina arrivò ai 4 dollari al gallone e il barile ai 147 dollari, che le scommesse portarono psicologicamente ai 200. Oggi la nuova emergenza energetica mondiale, che corre dal disastro nucleare in Giappone alla sabbia libica intrisa di sangue e petrolio passando per una preoccupante instabilità dei paesi del Golfo, lascia campo aperto a qualsiasi previsione, tranne che buone. Nel 2010, l'America ha ripreso ad amare Suv e pick up, ma senza dimenticarsi della scoperta di auto meno assetate. Un paio di settimane fa, un collega del New York Times raccontava estasiato ai suoi lettori l’esperienza di guida della Fiat 500 per le strade di Manhattan, dove l'italiana sarà presto in vendita e dove la prevendita di cinquecento unità è andata a ruba nonostante fossero con il cambio manuale. L'amministratore delegato del gruppo Fiat-Chrysler Sergio Marchionne ci crede, tanto più che l'equiparabile Mini (più cara della Fiat mediamente di 4.000 dollari) è stata un successo e gli Usa sono diventati il suo secondo mercato mondiale. Non crede ad auto così piccole invece Alan Mulally, il boss della Ford, che vende in America la piccola Fiesta, la media (per noi) Focus

FRANCESCO PATERNÒ

ma non la pulce Ka, «non seguiremo la strada della Fiat, per adesso». Con qualche ragione: la battaglia, dopo che nel 2005 il prezzo della benzina ha superato per la prima volta i 3 dollari al gallone, è per la conquista della fascia media del mercato, più redditizia e molto affollata dopo la rapida crescita dei fenomeni sudcoreani di HyundaiKia, saliti l'anno scorso al 7,7% di quota. A un soffio dalla Nissan al 7,9% e col mirino il 9,3% della Chrysler. La domanda è se il caro petrolio - tenuto più o meno a bada dalle promesse dei paesi Opec che mai ci sarà un altro 1973 e che eventualmente penseranno loro a riequilibrare l'offerta aumentando la produzione - può fare da lancio per la vendita dell'auto elettrica giunta al suo Dday. Gli interessati, che sono ancora pochi (Renault-Nissan in primis) rispondono no, ufficialmente. Un po’ per non apparire avvoltoi, un po’ perché sperano come tutti che l'impatto della crisi sia minimo e che l'aumento dei prezzi del greggio non sia spaventoso. Zero previsioni, zero emissioni. *** L'auto elettrica resta sostanzialmente un appuntamento misterioso. Non tecnicamente, perché si sa tutto limiti compresi e perché guidarla è un piacere. Non culturalmente, perché è evidente che richiede un cambio di stagione e un approccio alla mobilità diversi da come li abbiamo intesi più o meno negli ultimi cent'anni. Non economicamen-

te, perché i costi maggiori delle batterie sono inequivocabili almeno finché una produzione su vasta scala non li abbatterà. Il mistero della fede riguarda i costruttori che devono metterla sul mercato: alcuni sono pronti, altri continuano a restare super scettici. Ma se non ci credono loro, come faranno a crederci i consumatori? E se non ci sarà abbastanza domanda, come si potrà generare quel circolo virtuoso che porta all'abbassamento dei costi e dunque dei prezzi? Ascoltando l'audizione di Marchionne alla Camera dei deputati il 15 gennaio scorso, il mistero è diventato ancora più fitto. Oltre a dire cose passate sotto silenzio (più eloquenti di altre su dove la Fiat avrà la testa o il cuore o entrambi), tipo «l'Europa è un mercato quasi impossibile per fare utili» o «l'Europa non è un mercato sano», l'amministratore delegato di Fiat-Chrysler ha fatto sapere che sull'auto elettrica «i conti non riesco mai a farli quadrare», è «un'equazione negativa» e dunque adesso sono «investimenti non giustificati». Questo non significa che nel 2012 cancellerà la Fiat 500 elettrica sviluppata in America, ma che forse in casa Chrysler - cui ha affidato la mission «verde» del gruppo - ha trovato meno di quel che si aspettasse. Oppure che ha dovuto tirare il freno in attesa del nuovo prestito agevolato di 3 miliardi di dollari dal Dipartimento per l'Energia di Washington, richiesto per lo sviluppo di motori a basso impatto ambientale e che tarda ad arriva-


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iCar, le cose che non cambiano

onsumi re. Prestiti dallo stesso fondo pubblico li hanno avuti la Ford e la Tesla californiana nella seconda metà del 2009, Gm vi ha rinunciato all'inizio dell'anno, sostenendo che ne farà a meno. Chrysler è praticamente da sola, posizione sempre scomoda quando si deve chiedere. Ma Marchionne è stato ulteriormente misterioso quando ha affermato che per ora «la soluzione è l'ibrido». Cioè l'affiancamento di un motore elettrico a un altro a benzina o diesel (il recente Salone di Ginevra è stato la fiera dell'ibrido, non dell'elettrico), salvo poi rimangiarsi tutto dicendo che «due motori sono due costi». E dunque? «Ci stiamo lavorando». In America, la Chrysler sta sperimentando un sistema ibrido-idraulico, che permetterebbe risparmi di carburante senza il motore elettrico ma appunto con una funzione idraulica in più, per fornire trazione tramite la pressurizzazione di un liquido. Tecnicità a parte, il costo doppio di avere due motori è evidente, ma così parlava fino a pochi anni fa anche Carlos Ghosn, il capo di Renault-Nissan. Il quale ha poi ceduto all'ibrido e infine sterzato deciso verso la trazione elettrica. Il mistero non si scioglierà alla luce del sole, sempre che WikiLeaks non ci possa dare una mano. Notiamo però una cosa: i conti tornano - o sembrano tornare a chi dell'auto fa la sua religione, a quei manager che in America chiamano car guy. Ghosn di Renault-Nissan, i capi dei tre costruttori tedeschi partiti decisi sull'auto elettrica, Volkswagen, Bmw e Mercedes, più quelli di Toyota pioniere dell'ibrido e di Honda. Per non dire dei meno noti cinesi (Byd in testa), sostenuti pesantemente da un governo che tradizionalmente guarda molto lontano, e impone. I conti invece non tornano - o sembrano non tornare - ai money guy, ai manager che vengono dalla finanza o da altri settori: Marchionne e Mulally, che lavorano sull'auto elettrica sbuffando come andassero a vapore, al contrario del collega della Gm, Dan

Akerson, che va a Volt pure essendo uomo di finanza, classica eccezione a confermare la regola. E sempre che Marchionne non si possa considerare come un novello car guy. Sull'argomento ha scherzato (ma non troppo) recentemente con il Financial Times: in Fiat, dice, ha passato «sette anni da cane», e uno altrettanto duro come capo di Chrysler. Se si considera, dice, che un anno di vita di un cane equivale a sette anni di un essere umano, «moltiplicati sette anni per sette, ho l'equivalente di 50 anni di esperienza industriale». *** Mezzo secolo e più di esperienza li ha di sicuro Ferdinand Piech, 74 anni il prossimo 17 aprile, laureatosi in ingegneria e subito entrato nell'azienda di famiglia, oggi dominus della Volkswagen. Il quale promette un compleanno coi fiocchi nel 2018: il gruppo con i suoi dieci marchi (per ora) diventerà il numero uno mondiale con oltre 10 milioni di veicoli, scalando due gradini ai danni della seconda Gm e della prima Toyota. Chiaro che, a suo modo, scommette anche lui su nuovi consumi. Al quartier generale di Wolfsburg sono stati annunciati investimenti per 51,6 miliardi di euro nei prossimi cinque anni, più altri dieci nella sola Cina. E saranno necessarie almeno cinque o sei fabbriche nuove di zecca nel mondo, ha aggiunto il capo della controllata Porsche Matthias Mueller ad Automotive News. La gestione di tale complessità, al di là dell'obiettivo messo lì per far cadere dalla sedia gli analisti, fa venire in mente l'Impero Romano. Anche se chi scrive resta convinto che le sfide più clamorose arriveranno dall'Impero di Mezzo, con il suo destino gopolitico destinato a crescere con maggiore certezza perfino dei progetti di Piech. *** A uso e «consumo» della nostra storia (per restare sulla parola chiave che ci ha dato il titolo), possiamo concludere con un

cenno all’imperatore della Toyota, Akyo Toyoda membro della famiglia proprietaria. In Giappone, dopo il terremoto, la capacità produttiva delle industrie è stata fortemente ridotta e lo yen è volato ancora più alto rispetto al dollaro. Pochi azzardano previsioni sui riflessi che si avranno sull’auto mondiale, anche se dalle fabbriche dell’arcipelago già non partono molti pezzi d’elettronica destinati a costruttori anche non locali. Ricordate il battito d’ali di una farfalla eccetera eccetera, ovvero la Teoria del caos? Per la Toyota, che ha fermato diverse fabbriche come i concorrenti, il peggio, in realtà, è già successo. Il gruppo è un'altra grande complessità come la Volkswagen, cresciuto a tappe così forzate che negli ultimi due anni il mito della qualità totale Toyota si è incrinato. 10 milioni di veicoli (di cui 8 negli Stati Uniti) richiamati per problemi vari fra la fine del 2009 e il 2010, altri 3,9 milioni nei primi due mesi del 2011. Uno studio indipendente ((www.nasa.gov/topics/ nasalife/features/nesc-toyotastudy.html ) ha escluso che ci siano stati anche problemi di elettronica, ma i danni fatti sono stati abbastanza. Toyoda ha presentato la Global Vision dell'azienda il 9 marzo scorso, due giorni prima del terremoto e dello tsunami. Di fronte a centinaia di giornalisti - da solo, senza altri manager intorno a lui come avveniva in passato e chiaro segno di come si considera - Toyoda ha dato linee guida che non sembrano discostarsi dalla tradizione e anzi con obiettivi di crescita limitati. Ma che, nella formale gentilezza della cultura giapponese, lanciavano un messaggio raggelante per i dipendenti del gruppo a ogni livello: «Superare le vostre aspettative, per ricevere un sorriso». Cosa accadrà a chi, anche bravino, non le supererà?

LA CHEVROLET COMPIE CENT’ANNI. NEL DISEGNO LA CORVETTE

FABBRICHE FERME ANCHE SE MANCA UN SOLO PEZZO L’inferno giapponese ha ridotto la produzione dei costruttori locali e quella di altre fabbriche nel mondo, con effetti a catena per quelle dei più grossi fornitori. Il sito Opel di Saragozza si è fermato per la mancanza di una parte elettronica non più arrivata dal Giappone. La Renault ha grossi problemi in Sud Corea, alla controllata Samsung. E’ l’effetto domino della globalizzazione, come è già capitato alla Toyota per un pezzo difettoso: il problema di un singolo componente che va su milioni di automobili, ferma l’auto ovunque sia prodotta. E domani?

Incatenata la leva del freno a mano, due ragazzini di tredici anni vengono fatti accomodare al volante di una moderna automobile. La chiave d'avviamento è inserita e il quadro temerariamente acceso. Uno dei due prova a ingrandire con le dita l'indicatore del carburante, senza fortuna. L'altro punta il cruscotto che immagina touch screen, lo sfiora per cambiare posto al termometro dell'acqua e non succede nulla. Ma che razza di auto è, papà? La storia è capitata davvero a un collega molto hi tech e molto imbarazzato nello spiegare ai figli che i designer d'interni del ricco mondo automobilistico non fanno cruscotti a sfioramento come tablet e cellulari. E che la generazione iQualcosa deve attendere, tanto più che a maggioranza non ha ancora la patente. Quanto? La Lexus CT200h, la compatta ibrida del marchio di lusso del gruppo Toyota, guidata in modalità Sport cambia il colore del cruscotto in rosso. Ok, lo fanno altre ma qui l'econometro si trasforma in un più appropriato contagiri. Per il resto, auto volanti e cruscotti con le funzionalità di un iPhone restano sullo stesso piano, cioè da immaginario. Si muovono i servizi di intrattenimento a bordo, ma sono un'altra storia e forse un po’' old e distraente per chi guida, come segnalano da anni allarmati rapporti degli enti per la sicurezza stradale a cominciare da quello statunitense Nhtsa. Nel 1996 la General Motors introdusse per prima su alcuni modelli il sistema a pagamento OnStar che integrava navigazione, comunicazione e sicurezza. Paradossalmente ma non troppo, fino alla bancarotta del 2009 è stata questa l'unica voce in attivo sulle auto del costruttore americano. Ora Linda Marshall, ex dirigente di Revol Wireless, un'azienda IT di Cleveland, è stata incaricata di guidare in Gm il servizio che dovrà trasformare l'automobile in una sorta di smartphone. Il problema è che ciò avverrà in tempi relativamente rapidi solo per numero di funzioni, mentre il sistema è da un anno anche un App sul cellulare, da portare a casa. Un sistema mobile, come si è intravisto anche sul prototipo Mini Rocketman (il Seed). Ma ancora nulla che possa impressionare un ragazzino. La strada di OnStar è obbligata, perché all'ufficio marketing della Gm giurano che in America l'infotainment è una delle prime cinque ragioni d'acquisto di un'automobile. E il discorso vale anche per gli altri. In coda alla Gm, la Ford ha lanciato il Sync system che avvia la musica con comando vocale e sempre una voce legge in macchina i tweet. Per la prossima estate la Hyundai metterà a punto il suo Blue Link per competere con il leader OnStar, a oggi sei milioni di utenti di cui quattro pagano mediamente 240 dollari all'anno per averlo. In Cina, la Gm ha già catturato 200.000 utenti e pare che l'affitto del sistema OnStar cresca a botte di 40.000 nuovi registrati al mese. Ma On non significa App. E meno che mai rende scorrevole il cruscotto. Chi glielo dice ai ragazzini, agli acquirenti di domani? (f.p.)

Il rischio di un nuovo shock petrolifero aiuterà le vendite dell’auto elettrica? Il mistero dell’auto a volt, tra costruttori che ci credono e quelli che non ci credono. Il destino delle ibride, quello della Toyota e quello imperiale della Volkswagen



Cina-Usa SILOUHETTE PIU’ CHE UNICA: LA JAGUAR E-TYPE COMPIE 50 ANNI. NERA PER SEMPRE

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cambio

di stagione «U

ffa, nel mondo dell’auto non cambia mai niente», si lamentano annoiati in troppi. E si sbagliano di grosso. Probabilmente perché il ritmo del cambiamento è talmente veloce che, un attimo di distrazione, e si rimane indietro di una puntata. E non ci si accorge più di cosa sia davvero cambiato. Da dove partire per misurare il cambiamento? Tre anni bastano per poter registrare ben due eventi epocali: l’americana General Motors detronizzata dalla giapponese Toyota come più grande costruttore al mondo, un soprasso targato dicembre 2007, mentre due anni dopo la Cina supera gli Stati Uniti come primo mercato. Questi due cambiamenti sono entrambi una sconfitta dell’America a danno dell’Asia. Tuttavia è altrettanto vero che un cambiamento è un po’ figlio dell’altro: se il mercato americano non fosse crollato a precipizio – dopo le 500 mila unità perse nel 2007, nel 2008 scompaiono 2,9 milioni di clienti e altri 2,7 milioni l’anno successivo – la Gm avrebbe potuto agevolmente riconquistare il tetto del mondo che occupava da oltre quarant’anni. E probabilmente il mercato cinese avrebbe superato quello americano sul filo di lana e solo l’anno scorso. Per l’America, il sorpasso della Cina brucia molto più di quello della Toyota. Gm era ormai decotta da tempo, guidata da quel Rick Wagoner che pareva inamovibile nonostante avesse accumulato la bellezza di 88 miliardi di dollari di perdite nette in quattro anni, record che sarà davvero difficile poter battere. In fondo, gli americani si aspettavano da parecchio il sorpasso su Gm: DaimlerChrysler l’aveva minacciato già per l’anno 2000, tanto da indurre Gm a comprarsi (controvoglia) un 20% di Fiat Auto pur di non lasciarla finire nelle grinfie del nemico tedesco. A Stoccarda avevano pronta un’offerta in contanti da 10.000 miliardi di lire che Gianni Agnelli rifiutò con sdegno (complice anche l’invito di tenere duro del suo mentore di sempre, Enrico Cuccia). Lasciata a bocca asciutta su Fiat, Daimler non solo non riuscirà a superare Gm, ma si pentirà amaramente del «matrimonio tra eguali» del 1998 con la Chry-

sler. Non solo l’unione finirà agli stracci, ma sarà anche un altro affare per la Fiat, una specie di iena del mondo dell’auto, che – finanziariamente parlando – in anni recenti si è parecchio cibata degli errori dei concorrenti. Il gioco «ti compro – non ti compro» di Gm frutta a Torino 4,4 miliardi di dollari in contanti. Si comincia con 2,4 miliardi per prendersi nel marzo 2000 il primo 20% di Fiat, poi 2 miliardi tondi pur di non rilevare il restante 80% nel febbraio 2005. Epica la battuta di un Sergio Marchionne dell’epoca: «Di Wagoner ne capita uno solo nella vita». Nei cinque anni di burrascoso fidanzamento fra Fiat e Gm, ad arrotondare il bottino di Fiat ci sono anche le manovre difensive di Wagoner dall’attacco di DaimlerChrysler per ulteriori 500 milioni di risparmi. All’epoca un dollaro valeva quanto un euro, così fidanzamento, corna e abbandono con Gm hanno portato alla Fiat circa 10.000 miliardi di lire. La dominazione Daimler su Chrysler, invece, si è rivelata un tale disastro che i tedeschi se ne sono chiamati fuori con una perdita secca mai quantificata ufficialmente (da 8 a 22 milardi di euro, a seconda della fonte e di che cosa si comprende nel perimetro del disonore), regalandola a Cerberus. Questo fondo di investimenti americano, cerbero di nome ma dal comportamento del cerbiatto smarrito tra i lupi dell’auto, ha fatto pure peggio di Daimler. E anche Chrysler è finita in un fallimento pilotato, salvata dai soldi di Obama che pur di rilanciarla l’ha mezza regalata a Fiat. Il primo 35% andrà a Fiat in cambio di tecnologie che la casa italiana già aveva (e quindi di in-

E HURUN CI SVELA I GUSTI DEI RICCHI CINESI Per tenersi aggiornati sui gusti dei ricchi cinesi, basta collegarsi a Hurun, rivista di Shangai che (anche in inglese) scrive di tutto ciò che è sontuosità nel paese. Nei Best of The Best Awards 2011, la Rolls Royce Phantom è The Best Super Luxury Car, L’Audi A8 prende il posto della Mercedes S nella categoria appena inferiore (senza il Super). La Best Luxury Suv si conferma l’Audi Q7, la Mercedes E prende il posto dell’Audi A6 come Best Executive Car e la Lamborghini soffia il primo posto alla Porsche 911 nelle sportive.

LUCA CIFERRI

vestimenti già fatti, ma messi a frutto una seconda volta, una vera specialità di Marchionne), di cui un 25% già passato di mano e l’altro 10% atteso entro fine anno. Il 16% finale - così da raggiungere il controllo con il 51% - sarà pagato in contanti, ma a un prezzo di vero saldo. Tornando alla Cina in vetta al mondo, gli americani hanno dovuto seppellire la loro spocchia: siccome siamo il più grande mercato, tutto deve passare e nulla può prescindere dagli Usa. E chi non vende in America non può avere futuro, hanno pure sostenuto fino a farci pensare che potessero avere ragione. Tuttavia Peugeot-Citroen e Renault-Dacia non sono in America e non sembrano patirne un granchè. La cinese Saic non vende auto in Usa, ma si è comprata un pezzettino di Gm, una quota che dovrebbe salire negli anni a venire, man mano che gli allarmi protezionistici saranno dimenticati. La centralità del mercato cinese invece sta lentamente cambiando il modo globale di fare automobili. Un mercato emergente si prende quello che piace a noi occidentali in termini di prodotto. Ma quando un mercato è emerso sino ad essere il primo al mondo – gli Usa sono ormai distanziati di 6 milioni di vendite annue – il cliente pretende giustamente prodotti rifocalizzati sui gusti locali. Quindi cromature a volontà, perché questo è ciò che piace nel paese del dragone. E poi tanto spazio per i passeggeri posteriori, perché in Cina l’autista è un lusso che si possono permettere in tanti e il padrone, come ogni capitalista che si rispetti, siede dietro. Così Audi si adegua per prima, allungando il passo della A6 prodotta localmente e «tirandola» quasi alla lunghezza dell’ammiraglia A8, con Bmw e Mercedes a seguire con la 5 e la E.

Per certi versi, i primi due mercati al mondo, Cina e Usa, sono anche due giganti refrattari al cambiamento, soprattutto in chiave ecologica. Se fosse per l’Europa, i motori 12 cilindri sarebbero ormai scomparsi come i dinosauri dopo la glaciazione. Invece Cina e Usa – dove lo status si misura ancora in chi ha più cilindri del vicino – li tengono ancora in vita. Argomento opposto quello del diesel: ha conquistato l’Europa e l’India, ma pregiudizi dei clienti e normative molto restrittive (e scritte ad hoc per proteggere i costruttori locali, che sono tuttaltro che avanti nella tecnologia del diesel pulito) fanno sì che in Cina e Usa il gasolio per autotrazione sia poco più di uno sconosciuto. A tutto vantaggio della benzina, di cui i motori ne consumano di più (la lobby petrolifera, forte in entrambi i paesi, ringrazia) e dunque inquinando di più . Eppoi c’è il turbo, che non è una novità ma un grande ritorno. Si era affermato alla fine degli anni ’70 per dare potenza in modo «povero» (senza aumentare la cilindrata), ha dato la sveglia negli anni ’80 ha dato al motore diesel, tanto parsimonioso nei consumi quanto nelle prestazioni, si è ritagliato una nuova vita negli ultimi tre anni grazie al downsizing. Motori di cilindrata più piccola che consumano e inquinano meno, ma quando serve, grazie a una nuova generazione di turbine, offrono la stessa potenza di un motore più grande. E poi siccome l’appetito vien turbando, i turbo ormai viaggiano in coppia, una strada aperta da Bmw e Peugeot. Uno piccolo per aumentare la coppia ai bassi regimi, l’altro più grande per aumentare la potenza massima. Oppure Vw, che accoppia un compressore volumetrico per la coppia ai bassi regimi a un turbo per avere più potenza quando si va a tavoletta. Una soluzione davvero geniale, che ha un marchio di fabbrica che in molti oggi hanno dimenticato: Delta S4, anno 1985, quando la marca Lancia era sinonimo di innovazione. Oggi alla Lancia basta (ma basterà davvero?) rimarchiare delle Chrysler. E all’avanguardia della tecnica è ormai da anni il brand claim dell’Audi, che detto in tedesco, Vorsprung durch Technik, fa ancora più impressione. E da italiani, anche una certa amarezza.

Breve viaggio a ritroso negli ultimi sommovimenti che stanno modificando la geografia dell’industria dell’automobile. Dal doppio primato americano perduto alle capacità di manovra della Fiat di Marchionne, fino alla sfida dei motori



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n una Torino imbandierata a festa per i 150 anni dell'unità d'Italia ha rischiato di passare in sordina un altro anniversario: il centenario della nascita del Gruppo Carrozzieri, ovvero di una categoria industriale che è da sempre uno dei simboli stessi della città. Da protagonisti della capitale italiana dell'auto, portavoci del made in Italy nel mondo, negli ultimi anni i carrozzieri hanno conosciuto una crisi senza precedenti nella loro storia. Nel corso degli ultimi due decenni, stile, progettazione, produzione di piccole serie e di vetture speciali sono mutati radicalmente. I costruttori hanno progressivamente avocato la produzione di veicoli, che non è più business da carrozzieri - e lo confermano anche casi esteri, come Heuliez in Francia e Karmann in Germania, quest'ultima acquisita dalla Vw per salvarne le maestranze, proprio come avvenuto l'anno scorso tra Fiat e la ex-Carrozzeria Bertone di Grugliasco, ormai priva di commesse. Senza ordinativi (ma purtroppo non senza debiti) è anche la Pininfarina, da tempo in cerca di un acquirente mentre i suoi stabilimenti passano di mano: quello di Grugliasco acquistato dalla Regione Piemonte per darlo in affitto a Gian Mario Rossignolo per la sua De Tomaso, mentre gli impianti di Bairo Canavese ospiteranno le linee della Bluecar, l'elettrica di Bolloré disegnata da Pininfarina ma prodotta da Cecomp, affittuario di Bairo e nuovo datore di lavoro per i suoi 57 dipendenti. E lo stile, quello per cui tutto il mondo ci ha sempre invidiati e presi ad esempio? Oggi è più che mai un valore strategico ed espressione del brand, tanto che ogni costruttore ha investito risorse significative per dotarsi di suoi centri stile, spesso più d'uno per marca, con i designer che lavorano a stretto contatto sia con gli ingegneri, sia con il marketing. Sempre più raro, dunque, che ci si rivolga ancora alle design house esterne. Resta un terzo settore, quello più legato alle origini dell'arte della carrozzeria: le vetture one-off . Fuoriserie, si diceva una volta, esemplari unici fatti su misura per il cliente a prezzi ovviamente stratosferici e dunque con pochissimi potenziali committenti. Ma dove trovarne ancora, di clienti così? Una risposta viene dalla prima edizione del Qatar Motor Show, evento inedito nel panorama dei saloni internazionali che si è svolto a Doha nel gennaio scorso e

Torino, battersi

con stile

che ha visto la partecipazione di una nutrita delegazione di membri del Gruppo Carrozzieri Autovetture Anfia su invito (e a spese) del Salone stesso. «Sembrava di essere tornati all'epoca del salone di Torino degli anni Sessanta», ha commentato Alfredo Stola, fino a pochi anni fa titolare della carrozzeria omonima, oggi attivo nella realizzazione di versioni speciali con la sua Studio Torino. «E' stato davvero un back to the future, con il nostro stand preso d'assalto dal pubblico proprio come una volta», conferma Leonardo Fioravanti, presidente del Gruppo Carrozzieri. La passione per l'auto e l'interesse per le vetture uniche è enorme in Qatar e in generale nell'area del Golfo. Per gli addetti ai lavori le concept car portate da Torino (e da Milano, vedi Touring Superleggera e Castagna) non erano affatto inedite, ma hanno riscosso un grande successo, dalla piccola Nido di Pininfarina alla spettacolare Alfa Pandion di Bertone, alla supersportiva F100r dello stesso Fioravanti. I dati della rassegna parlano chiaro: quasi 90.000 visitatori in quattro giorni su una popolazione di un milione e 400mila abitanti. Una proporzione sorprendente, che spiega in parte le buone ragioni del piccolo stato arabo nel volere un salone domestico di rilievo internazionale. Per meglio comprendere queste ragioni va però ricordato che il Qatar è nientemeno che il terzo azionista del gruppo Volkswagen - dopo le famiglie Piech-Porsche e il governo della Bassa Sassonia - e che ha quindi tutto l'interesse a premere letteralmente l'acceleratore

SILVIA BARUFFALDI

LA JEEP, IL MARCHIO AMERICANO DI FUORISTRADA PASSATO SOTTO CONTROLLO FIAT, COMPIE 70 ANNI. NEL DISEGNO LA MITICA WYLLIS

sul prodotto automobile. Non per nulla la Volkswagen è stata presente al salone in forze, sia in termini logistici sia di management, da Ferdinand Piech in giù, partecipando a un summit che ha raccolto il gotha dell'industria automobilistica mondiale per valutare le opportunità dei mercati dei paesi arabi. Il megagruppo di Wolfsburg occupava circa la metà dell'area espositiva di Doha e ha presentato ben due prototipi in anteprima mondiale per il marchio Vw. Tra questi la XL1, vettura a due posti superaerodinamica a trazione ibrida che consuma solo 0,9 litri per 100 chilometri, terzo stadio dello sviluppo dell'auto da «1 litro» che il costruttore tedesco intende portare sino alla produzione. Svelare un modello di ricerca così in un paese dalle enormi risorse energetiche sembra quasi un paradosso. In realtà, dimostra una visione globale nei confronti dei mercati dell'auto, insieme alla consapevolezza che il trend della riduzione dei consumi e delle emissioni è ormai avviato e irreversibile. L'unica risposta verrà dalla ricerca tecnologica, che un gruppo come Volkswagen può senz'altro permettersi di portare avanti su più fronti. Ma non si illudono di far tornare indietro il mondo neppure i nostri strenui carrozzieri. L'interesse suscitato in Qatar per le loro creazioni ha poco a che fare con le loro ottime capacità di fornitori di servizi per creare un'auto da foglio bianco e dall'assemblea post-salone è

emerso che laggiù non sono nati grandi contratti, «però ci sono prospettive concrete per le vetture one-off e few-off, ovvero in un numero tra cinque e dieci esemplari», precisa Fioravanti. Questo tipo di commesse tuttavia rappresenta una sana boccata di ossigeno per mandare avanti le aziende e proseguire in tutte le altre attività, che per tradizione hanno sempre compreso anche la ricerca, spesso condotta senza grandi mezzi, o comunque senza i budget delle case automobilistiche. Basterebbe citare ciò che ha rappresentato la galleria del vento Pininfarina per la ricerca aerodinamica, inaugurata nel 1972, unica in Italia all'epoca e tra le poche al mondo, oppure le innovazioni dell'Italdesign di Giugiaro in ambito non solo stilistico, ma anche ingegneristico. E ancora, tanti brevetti che spesso sfociano in applicazioni produttive solo dopo molto tempo, come sa bene Fioravanti che ha visto il tetto rotante della sua concept car Vola applicato alla Ferrari Superamerica dopo quasi sei anni, mentre Pirelli produrrà dal prossimo anno un tipo di pneumatico che deriva in parte da quello brevettato per la sua Sensiva nel 1994. E' il valore della creatività indipendente che va difeso, ma lo scenario sembra sempre più difficile per il distretto dell'auto di Torino e dintorni. Dove gli stranieri, invece di acquistare servizi come un tempo, acquistano le aziende, vedi l'Italdesign di Giorgetto Giugiaro passata in orbita Volkswagen, mentre è ancora da definire l'acquirente di Pininfarina, ma è improbabile che parlerà italiano. I cinesi non sono più soltanto dei clienti, ma hanno aperto qui dei loro centri stile, vedi Jac e Changan, e la stessa cosa stanno facendo gli indiani. Perché, come dice saggiamente (o crudemente) il direttore del design di Fiat Group, Lorenzo Ramaciotti, «il talento non si eredita ma si può comprare», e prova ne sono molti bravi designer italiani espatriati, uno per tutti Walter de' Silva che dirige il design di tutti i marchi del colosso Vw. Intanto i carrozzieri tentano di resistere anche facendo gioco di squadra, ad esempio con il progetto Tris per un veicolo elettrico (o ibrido) innovativo da produrre a basso costo, basato sulla razionalizzazione e riduzione dei componenti. E' stato presentato l'anno scorso al governo e alle Regioni, ma al momento mancano gli interlocutori. «Serve un sostegno come in altri settori, la situazione è preoccupante», conclude Fioravanti, consapevole però che la politica e i grandi capitali sono sordi. «Nei loro cento anni i carrozzieri hanno dato tanto al paese, contribuendo a una fetta importante del made in Italy. Ora il design italiano merita di essere valorizzato per i suoi talenti e le sue grandi competenze».

Il difficile centenario del Gruppo Carrozzieri in uno scenario molto cambiato. Il valore della creatività indipendente che va difeso e il mercato che avanza, «il talento si può comprare». Il nuovo salone del Qatar e le opinioni di Fioravanti e Ramaciotti




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Le sorelle

il manifesto autocritica

del petrolio

al volante

NEL DISEGNO, LA VOLVO P1800 CHE COMPIE CINQUANT’ANNI. HA ISPIRATO TUTTE LE SUCCESSIVE STATION WAGON DEL MARCHIO SVEDESE

L

e auto camminano a petrolio e il petrolio sono le automobili che lo bruciano e naturalmente anche i camion e il resto della mobilità su gomma. Il patto tra auto e petrolio è secolare. Questo non significa che il rapporto sia sempre tranquillo e senza scosse. Ci sono ripicche, fraintendimenti. Ogni tanto l'auto cerca altre soluzioni; e allora il petrolio replica, rendendosi difficile, accorciando la produzione per far lievitare i prezzi. I prezzi alti del petrolio cioè di benzina e gasolio, costringono il pubblico a ridurre i consumi. Il petrolio ritorna in quantità, il prezzo cala e tutto ricomincia come prima, solo con traffico ancora più ingorgato. Ma questa è un'altra storia. Auto e petrolio sono due filiere industriali tra le più importanti, per ruolo sociale, capitali impiegati, numero di addetti, innovazioni. Procedono in stretto connubio ma con fortune diverse. Insieme e talvolta anche separate le due filiere sono alla testa della società umana o almeno del capitalismo e del sistema delle grandi imprese. Senza la pretesa di fare la filosofia dei loro rapporti vogliamo qui segnalare un andamento altalenante, a partire dalla presenza in forze, a livello mondiale, delle case, anzi delle multinazionali dell'automotive, contrapposte alle società del petrolio. Confrontiamo due anni, l'ultimo anno del millennio e quello che conclude il primo decennio del nuovo secolo: 1999 e 2009. Un anno nella bolla della new economy e un anno di piena crisi. Le auto sono più o meno le stesse e anche la formula del petrolio non è cambiata. Sono invece radicalmente diversi i rapporti di forza. Però nel primo anno, 1999, le case automobilistiche sono fortissime e tengono al trai-

COME SOFFIA IL VENTO. LA CLASSIFICA CHE CAMBIA Guardando la classifica, ampliata alle prime 25 posizioni, dal punto di vista che ci interessa, si nota che i petrolieri passano da 3 a 9, mentre le case automobilistiche diventano 3 da 5 che erano. Possiamo immaginare che il petrolio costi di più e le auto di meno? E' sufficiente? Sarà forse meglio tenere conto che anche altri aspetti si sono modificati. Nel 1999, in buona sostanza, le nazioni al top erano 3: Usa con 7 presenze, Giappone con addirittura 11 e Germania con 4. Il potere nell'industria, nella finanza, negli scambi, in breve era quello. Dieci anni dopo gli Usa crescono a 9 imprese, anche se va notato che occupano solo 2 dei primi 10 posti invece dei 5 come che avevano in passato. Il Giappone scende da 11 a 2. La Germania da 4 a 2. Il modello è cambiato, sono intervenute altre dinamiche geopolitiche e finanziarie. Sale la Francia da 1 a 4 e l'Olanda da ½ (Royal Dutch Shell a mezzi con il Regno uni-

to) a 2. Nuovi ingressi, Italia con 2 posti e soprattutto Cina con 3. Qualcosa è cambiato, tanto che solo 10 imprese su 25 rimangono in classifica; qualcosa sta cambiando, basta guardare al mutamento di ruoli avvenuto tra Giappone e Cina. In forme diverse, con diverse facce, maschere e bandiere non sono forse sempre, malgrado tutto, le multinazionali a governare il mondo? Vedremo tra 10 anni, sempre su Fortune, come avrà soffiato il vento. (g.ra.)

GUGLIELMO RAGOZZINO

no l'intera economia. Nel 2009 l'automobile è diventata debole e sono invece le sorelle del petrolio a comandare su tutto. Per effettuare il confronto utilizzeremo una classifica giornalistica molto nota e presa sul serio dagli stessi studi delle Nazioni unite: la rivista Fortune, che tutti gli anni, d'estate, stila una classifica dei 500 primi gruppi mondiali per fatturato. Nel primo degli anni considerati, il 1999, nel fascicolo datato 31 luglio 2000 tra le prime dieci imprese multinazionali classificate ben quattro sono case automobilistiche: General Motors al primo posto, Ford al quarto, DaimlerChrysler che allora non avevano ancora divorziato al quinto, Toyota all'ottavo. Una petrolifera soltanto, ExxonMobil al quinto posto. Dieci anni dopo i valori sono invertiti. C'è una casa automobilistica soltanto, Toyota al quinto posto, mentre i petrolieri imperversano: Royal Dutch Shell, ExxonMobil e Bp coprono secondo terzo e quarto posto, seguiti da due cinesi, Sinopec al settimo posto e China National Petroleum al decimo. In tutto dunque sono cinque imprese: le tre sorelle di sempre e al loro seguito le cugine cinesi, debuttanti ma già molto navigate. Quattro auto per una stazione di servizio nel primo anno; cinque stazioni di servizio per una sola auto dieci anni dopo. Il mondo si è trasformato.

Come è cambiato negli ultimi dieci anni il rapporto di forza fra le multinazionali del greggio e quelle dell’automotive. Tra le due crisi del 1999 - la bolla della new econony e del 2009 - la bolla finanziaria il potere del greggio è salito. Ecco come questo mondo si è trasformato


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il manifesto autocritica

è tanto

Il compro

ibrido

All’ultimo Salone dell’auto di Ginevra hanno brillato le auto ibride, aspettando le elettriche. Dalla Rolls Royce alla prossima Toyota Yaris. Una scelta per conciliare contenimento dei consumi e delle emissioni inquinanti senza costi esagerati. Ma che restano ancora alti

A

ddirittura la Rolls Royce. La corsa all'auto elettrica ha visto in campo, all'ultimo Salone di Ginevra, anche una concept a «emissioni zero» derivata dalla berlinona per nababbi Phantom. Ma lo stesso Torsten Muller, amministratore delegato dell'iperblasonato marchio britannico ormai in forza al gruppo Bmw, ha subito messo le mani avanti facendo capire che nel futuro reale l'obiettivo potrebbe essere piuttosto una ibrida. Insomma, al di là della grande proliferazione di proposte «elettriche pure», che vede in primo piano Renault-Nissan con un gigantesco investimento e ben cinque modelli in arrivo, nei prossimi anni saranno le vetture a doppia alimentazione a sostituirsi progressivamente a quelle tradizionali. E, mentre si riducono cilindrate e numero dei cilindri per i benzina e diesel, sono sempre più numerosi i profeti del successo delle ibride, compreso il presidente della Ford, Alan Mulally, ingegnere aeronautico e traghettatore del colosso statunitense fuori dalla tempesta della crisi, che ipotizza per il 2020 un mercato mondiale al 70 per cento dominato proprio da questo compromesso tecnologico. Un compromesso capace di conciliare contenimento dei consumi e delle emissioni inquinanti senza eccedere troppo nei costi e senza richiedere una rivoluzione copernicana quanto a sistema infrastrutturale di servizio. Una scelta, tra l'altro, dalla straordinaria flessibilità dal punto di vista delle potenziali conseguenze concrete di prodotto, se si pensa ad esempio alle due recentissime realizzazioni che fissano praticamente gli estremi opposti della categoria e lasciano dunque capire quanta varietà creativa sia possibile nei passaggi intermedi. La Volkswagen XL1, che accoppia un motore elettrico ad un diesel bicilindrico di 800 cc, varca la soglia «onirica» dei chilometri con un litro di carburante, mentre la Porsche 918 è un bolide da oltre 700 Cv che inquina meno di una attuale utilitaria (70 g/km di CO2). Entrambe costosissime, avranno un seguito commerciale logicamente di testimonianza, ma sono qualcosa di più di semplici esercizi se si valuta il contesto complessivo nel quale si collocano. Dove ciò che sembrava, soltanto poco tempo fa, soprattutto rischio imprenditoriale o provocazione, sta diventando invece avanguardia di un esercito conquistatore della scena automobilistica in marcia a tappe forzate. Nel Paese del Sol Levante, del resto, le ibride occupano già ora i primi posti in classifica nelle vendite e alcuni degli stati americani, California in testa, stanno facendo da traino su

quel gigantesco mercato, per non parlare di quanto potrà avvenire in Cina, tenendo presente la leadership dell'industria locale nel campo delle batterie al litio. In Giappone, la Toyota è partita nel 1997 e sta vivendo di fatto una seconda fase del suo impegno, con Prius destinato non più ad essere il nome di una singola vettura ma marchio a se stante identificativo di una intera gamma, mentre il sistema a doppia alimentazione verrà esteso a tutte le fasce di modelli e sarà esclusivo per tutte le lussuose Lexus. Una bandiera per la marca nipponica, tanto che a Ginevra il debutto della terza generazione Yaris è stato sottolineato proprio dalla versione ibrida. Bandiera che sventola anche la connazionale-rivale Honda, che risponde con novità a tambur battente in particolare nelle categorie inferiori, dalla compatta Jazz alla prossima Civic. Sarà, d'altra parte, il mercato della categoria intermedia quello che vedrà la crescita dell'offerta ibrida in quantità decisive perché diventi effettivamente fenomeno di massa. In questo senso, lavorano gruppi come Ford e Volkswagen pensando alle evoluzioni di vetture cardine, come Focus, Golf e derivate, ma sarà terreno privilegiato per le stesse concorrenti francesi Peugeot e Citroen che, contrariamente ai costruttori giapponesi, stanno lanciando auto dove l'abbinamento con i motori elettrici è soprattutto con unità a gasolio, o per la coreana Hyundai che ha preferito l'accoppiata con il gpl. E per gestire con migliori margini di profitto programmi così impegnativi prolificano gli accordi mirati fra i gruppi: da quello siglato da Psa con Bmw a quello di Mercedes con Renault. Sul piano più strettamente tecnico, inoltre, l'evoluzione a breve termine si chiama «plug-

MASSIMO TIBERI

in», il sistema che consente sia la ricarica costante delle batterie in marcia sia quella domestica, oltre ad una maggiore autonomia nell'uso esclusivamente elettrico. Una flessibilità che la Volvo, con una versione della V60, ha spinto ai massimi livelli, grazie all'uso di un diesel unito ad un elettrico che può marciare da solo per circa 50 chilometri. Del tutto anticonformista, invece, la scelta della General Motors che definisce il suo sistema ibrido ad «autonomia estesa», riservando al motore termico una funzione prevalente per la ricarica di quello elettrico e permettendo lunghe percorrenze, fino a circa 500 chilometri, senza fare il pieno di carburante o allacciarsi a una presa di corrente. Riservata per ora alla Chevrolet Volt e alla gemella Opel Ampera, l'opzione sofisticata del gruppo statunitense

IBRIDA, SOGNO O SON PORSCHE? Il 21 marzo scorso, giorno di primavera, è partita la raccolta ordini della Porsche 918 Spyder ibrida, la vettura più cara della storia del marchio tedesco: 768.062 euro. L’auto avrà una tiratura limitatissima, 918 unità in tutto, e sarà consegnata ai clienti solo nel novembre del 2013. Con il solo motore elettrico potrà percorrere fino a 25 chilometri, cosa finora vietata alle motorizzazioni ibride. L’accelerazione da 0 a 100 avverrà in un lampo di 3,2 secondi. Che dire? E’ proprio vero che una rondine non fa primavera.

è però molto costosa rispetto alle avversarie dirette: quasi 43 mila euro per una berlina di classe media nei confronti, ad esempio, di una Prius che ne chiede circa 27 mila. I listini elevati delle ibride attenuano comunque il loro impatto sul pubblico quando si passa ai piani alti del mercato, dove il sistema si sta diffondendo a macchia d'olio vista la necessità, ormai imprescindibile, di abbattere i livelli medi di consumi ed emissioni delle gamme sotto la scure di imposizioni normative che diventeranno via via sempre più drastiche. Così, non si contano ormai i modelli al traguardo o in dirittura dei marchi più nobili, che non si fanno scrupolo di rischiare anche le più pesanti dissacrazioni. Audi, Mercedes, Bmw, Porsche si rincorrono nei lanci di ibride che, peraltro, non mostrano evidenti complessi d'inferiorità sul pano delle prestazioni rispetto alle strette parenti più tradizionali. Fra i debutti, anche il prototipo futuribile di una Range Rover ibrida plugin, mentre la cugina Jaguar ha presentato la C-X75, una affascinante concept di coupè granturismo caratterizzata dal fantascientifico abbinamento con la propulsione a turbina. In questa realtà che sta dunque accelerando il passo un po' in ogni direzione, è però proprio il gruppo italiano a muoversi con maggiore circospezione. Dopo essere stata all'avanguardia in passato sul fronte delle elettriche, mettendo perfino in commercio una versione della Panda, Fiat si è un po' seduta, puntando semmai sulle bi-fuel a metano e gpl. Ora, mentre si preannuncia una 500 ad emissioni zero, dall'incontro con Chrysler dovrebbero nascere modelli che sfruttano le diverse opzioni tecnologiche, compresa quella ad «autonomia estesa» come per General Motors. Intanto, viene dalla Ferrari la proposta estrema che si è concretizzata in una concept ibrida in grado di non mettere minimamente in discussione la vocazione delle sportive di Maranello: deriva dalla 599 GTB Fiorano e, non a caso, è stata battezzata Hy-Kers, sigla che richiama direttamente l'esperienza della Formula 1.


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messo

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LA MERCEDES COMPIE 125 ANNI. E’ NATA ESATTAMENTE IL 29 GENNAIO DEL 1886 GRAZIE A CARL BENZ

Emissioni

e rumore,0a0 A

lzi la mano chi di voi ha mai superato in autostrada un'auto elettrica. Oppure chi, al rosso di un semaforo cittadino, è stato affiancato da una vettura alimentata da batterie anziché dai soliti derivati del petrolio. Fino a oggi l'auto elettrica non è esistita sulle nostre strade, colpa di un ritardo inaccettabile e nonostante se ne parli da decenni. Ma qualcosa sta cambiando. L'auto elettrica, quella che tutti sogniamo di caricare a un costo ragionevole nel box di casa nostra o dalle colonnine per strada, è sulla ribalta. Stando ai dati della Case, quelle che hanno appena iniziato la vendita di vetture elettriche o che sono in procinto di lanciarle sul mercato, lo scenario dei prossimi tre anni prefigura una produzione su scala mondiale di un milione circa di auto alimentate esclusivamente da un moderno pacchetto di batterie. E' una svolta improvvisa, benvenuta, per certi versi epocale, di una lunga storia. L'auto elettrica, almeno quella per la città, esiste concretamente da diverso tempo. Chi è nato a Milano e ha superato la cinquantina si ricorderà probabilmente la Zele. A metà anni Settanta, ai tempi della prima grande crisi energetica, ne circolavano alcuni esemplari in città, ma la si vedeva soprattutto alla Fiera Campionaria, l'appuntamento di primavera irrinunciabile per tutti i milanesi. Elettrica, nata dall'intelligenza di Zagato, era praticamente una Smart a zero emissioni con trent'anni di anticipo e percorreva allora un chilometro con tre lire soltanto di

costo per l'energia. La sua piccola produzione, durata una decina di anni, la consacra ancora oggi come prima vettura elettrica di serie capace di un concreto risvolto commerciale, boicottato, pare, dai grandi costruttori e dalle aziende petrolifere dell'epoca. Oggi finalmente ci pensano Nissan, Peugeot, Citroen, Mitsubishi e Mercedes-Benz a metterle in strada, seguite a ruota da ben tre Renault. La Nissan Leaf si è aggiudicata il titolo di «Car of the Year 2011», prima vettura elettrica al 100% nella storia del prestigioso riconoscimento internazionale. Cinque posti, 145 km/h di velocità massima e 175 di autonomia, l'elettrica della Nissan fa un «pieno» di energia in circa 30 minuti, attraverso uno speciale caricatore ad alta velocità, mentre utilizzando la normale presa casalinga sono necessarie 8 ore. E' una «normale» berlina media a due volumi, lunga poco meno di quattro metri e mezzo, con un grande bagaglio accessibile da un pratico portellone. E' già in vendita dallo scorso anno, oltre che in Giappone e negli Stati Uniti, anche in Gran Bretagna, Irlanda, Portogallo e Olanda, dove stanno in questi giorni iniziando le prime consegne ai clienti. Il suo prezzo medio è attorno ai 35mila euro, ai quali vanno tolti eventuali incentivi statali previsti dai vari governi locali. Per l'utente inglese, ad esempio, il costo netto della Leaf scende fino a 27.400 euro, quotazione che diventa concorrenziale anche nei confronti di vetture con caratteristiche simili e motore tradizionale. In Italia sarà possibile acquistarla dalla seconda

CARMELO BONGIOVANNI

metà dell'anno in corso a un prezzo che sarà allineato a quello continentale. Attualmente prodotta in Giappone, nella fabbrica di Oppama, in 50mila unità all'anno, verrà costruita anche a Smyrna nel Tennessee, a partire dal 2012 e l'anno successivo a Sunderland, nel Regno Unito, a ritmi analoghi. Più city car, invece, è la Mitsubishi iMiev, dalla quale nascono le versioni francesi Peugeot iOn e Citroen C-Zero. Di fatto, è proprio la piccola monovolume giapponese a essere la prima vettura elettrica prodotta su larga scala della storia. E' in vendita sul mercato interno dal 5 giugno 2009 e costa il corrispettivo di circa 30mila euro di listino, che diventano 20mila per il privato, grazie ai 10mila euro di incentivo previsti dal governo giapponese. Da noi è commercializzata dallo scorso dicembre, contemporaneamente alle «sorelle» del gruppo Psa. A parte alcuni dettagli estetici,

FOTOVOLTAICO&STAZIONE ELETTRICA, BROOKLYN L’auto elettrica ha bisogno di un sistema di distribuzione, oggi il grande problema per il nuovo sistema di mobilità. Un modello? A Brooklyn Bridge Park, celebrato dal cinema come il ponte più romantico di New York, è stata installata una stazione di ricarica per auto elettriche che funziona con pannelli fotovoltaici. La stazione è stata donata all’amministrazione locale da Beautiful Earth Group, una delle più grosse aziende di energia solare del paese, con sede proprio a Brooklyn ma con progetti ovunque, tra cui una installazione in California da 38 megawatt e un valore di 170 milioni di dollari. La stazione è stata costruita dentro container in disuso con sopra dei pannelli fotovoltaici. Cosa gi guadagna la società di Brooklyn a regalare un impianto così? Intanto pubblicità gratuita sul New York Times, che ha intervistato l’amministratore delegato.

le tre vetture presentano caratteristiche tecniche pressoché identiche: 150 km di autonomia, 130 di velocità massima e tempo di ricarica di 6 ore, in modalità normale, con l'opzione della ricarica rapida all'80 % in soli 30 minuti. C-Zero e iOn hanno un cambio «automatico» semplificato che prevede tre sole posizioni: marcia avanti, indietro e folle. Una centralina elettronica ne gestisce l'ottimizzazione del funzionamento, anche per ciò che riguarda le varie fasi di recupero dell'energia, in decelerazione e in frenata. Più sofisticato il cambio della iMiev, che prevede in aggiunta le opzioni «b» (brake) per la guida in discesa, dove il recupero dell'energia è più accentuato e «c» (confort), per una guida extraurbana più fluida. I prezzi sono allineati (35.960 euro le due francesi e 36.500 la Mitsubishi), ma tutte prevedono varie forme di finanziamento o di noleggio, a partire da 500 euro mensili, che includono una serie di servizi aggiuntivi, fino alla polizza «casco». Fra le elettriche in pole position c'è anche la Smart, cittadina per eccellenza, della quale sono già in circolazione un centinaio di esemplari a privati. La piccola di casa Mercedes va oltre la semplice commercializzazione della vettura e propone ai clienti la soluzione «e-mobility» con Enel. Si tratta di un progetto che prevede lo sviluppo di infrastrutture su misura per l'utilizzo dell'auto, grazie all'installazione di una home station utile al collegamento e alla ricarica della vettura nei garage privati, o nel parcheggio sul posto di lavoro, mentre altri punti di ricarica saranno col tempo posizionati in aree attrezzate nelle città. Già, le infrastrutture: ancora mancano, per garantire un approvvigionamento adeguato di energia a chi si appresta a passare all'elettrico e non può dipendere esclusivamente dalla «spina» di casa. Lo stato, i gestori di energia e le amministrazioni locali devono affrettarsi per favorire lo sviluppo di una nuova mobilità, che non è più procrastinabile. Perché l'era delle auto elettriche, quella a zero emissioni e zero rumore, è davvero iniziata.

Le prime auto elettriche sono già in vendita anche in Italia, molti modelli sono in arrivo fra la seconda metà del 2011 e il 2012. Peugeot, Citroen, Mitsubishi, Renault, Nissan e Mercedes-Benz, a seguire gli altri costruttori. Una vetrina da cui manca la Fiat, aspettando la 500 elettrica l’anno prossimo con esordio in America


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I

In Messico, nella fabbrica Chrysler di Toluca, la Fiat produrrà centoventimila 500 all’anno, dal 2012 anche elettrica. Le condizioni di lavoro degli operai messicani, formati dai colleghi polacchi che già fanno la 500 per l’Europa

l Nordamerica non è abituato a veder circolare automobili di piccola cilindrata, e gli operai di quei paesi non sono abituati a costruirle. E allora perché meravigliarsi, scoprendo che decine di lavoratori professionalizzati polacchi sono arrivati a Toluca, nella fabbrica messicana della Chrysler, per insegnare agli operai locali come si costruisce una Fiat 500? Del resto, la Cinquecento è nata a Tychy, chi meglio di loro avrebbe potuto gestire la formazione? Sembra che la lezione polacca abbia funzionato a gonfie vele, e la prima vetturetta made in Messico è stata consegnata in marzo a un cliente statunitense, un fan della Fiat che ha promesso: non scenderò più da questa macchina. Ad aprire le danze per la festa dell’Italian Style in America è stato naturalmente l’amministratore delegato della Chrysler-Fiat Sergio Marchionne, insieme al presidente messicano Felipe Calderon. A Toluca la Chrysler produce da molto tempo, si dice senza grandi conflitti. Del resto, l’azienda che ha a che fare con un sindacato unico (e di nessuna somiglianza alla Fiom di Maurizio Landini) ha relazioni meno complicate. In Messico in particolare tutto è più semplice: l'assenza di welfare e ammortizzatori sociali, in una realtà difficile in cui i disoccupati non si contano, i poveri sono 40 milioni e 25 milioni vivono in condizioni di estrema povertà, rendono accettabile anche il lavoro più duro. E il sindacato messicano (qualcuno lo definisce di regime, per altri è semplicemente aziendale) è il maggior sponsor di quel modo feroce di lavorare alla catena di montaggio che si chiama Work Class Manifacturing. A Toluca lavorano 2.714 persone, quelli che producono la 500. L'obiettivo di Marchionne è di sfornarne 120 mila l'anno, il 50% destinato al mercato nordamericano, poco meno del 50% a quello sudamericano mentre la piccola quota rimanente finirà in Cina. Sempre a Toluca è assegnata la produzione di un crossover che in Nordamerica viene commercializzato come Dodge Journey, mentre la versione identica esportata in Europa si chiama Fiat Freemont. Prendendosi la Chrysler, in Messico Marchionne ha messo le mani su più siti produttivi, oltre a quelli statunitensi e canadesi. Oltre alla fabbrica di Toluca c’è quella di Saltillo, nello stato di Cohauilla nel nord del paese, dove si costruisce un pick up esclusivamente per il mercato americano. Il terzo sito messicano della Chrysler è una fabbrica meccanica per la produzio-

Cinquecento e nuvole

LA FIAT 127 NASCE 40 ANNI FA. SOSTITUISCE LA 850, RIMARRÀ NEL CUORE DI MOLTI ACQUIRENTI ITALIANI

LORIS CAMPETTI

SALARI PIU’ ALTI? LA SCOMMESSA DI BOB KING (UAW) Bob King, il capo del sindacato dei metalmeccanici americani, lo Uaw, ha avviato trattative informali con i vertici di General Motors, Ford e Chrysler per il rinnovo del contratto dei lavoratori dell’auto in scadenza a fine anno. Dopo troppi sì alle aziende e una serie di rinunce - in busta paga, nei diritti, nell’assistenza sanitaria e pensionistica - lavoratori chiedono adesso almeno degli aumenti. Non c’è problema: nel 2010 la Gm ha guadagnato 4,7 miliardi di dollari, la Ford 6,6, la Chrysler è stata ancora in rosso ma promette faville con un aumento spettacolare della produzione e la quotazione in borsa entro l’anno. Ma chi pagherà eventuali riflessi della nuova emergenza energetica sull’auto? La scommessa è purtroppo aperta. (f.p.)

ne di motori 8 cilindri Hemi e 6 cilindri Pentastar. La 500 sarà prodotta a Toluca anche in versione elettrica dalla fine del 2012, con un investimento dichiarato 150 milioni di dollari. Complessivamente la produzione Chrysler dovrebbe salire da 1,5 a 2 milioni di vetture nell’anno in corso, con la ragguardevole crescita sul 2010 del 32%. Tra i tanti misteri del piano di Marchionne c’è la scelta del sito per la produzione dei tre modelli Alfa Romeo previsti per i mercati americani: la Mito, la Giulietta e la 159. Si sa solo che l’investimento previsto sarà intorno ai 500 milioni di dollari. In Europa, attualmente l’Alfa Romeo Giulietta è l’unica vera novità dei vari marchi, che registra un andamento di vendi-

te positivo e in controtendenza rispetto al resto dei prodotti. Dev’essere sincero Sergio Marchionne, quando si chiede come mai quando va nelle Americhe viene accolto come una specie di Garibaldi mentre in Italia è contestato, non capito, mal interpretato. Non è forse la stessa domanda che si facevano i cittadini degli Stati uniti dopo l’11 settembre del 2001, «perché ci odiano?». Il fatto è che le relazioni sindacali negli Usa e in Canada sono decisamente diverse rispetto a quelle vigenti (almeno per ora) in Europa e, in particolare, in Italia. I sindacati stessi sono diversi e assolvono a funzioni differenti, incorporando servizi che il welfare pubblico non garantisce, dalle pensioni alla sanità. E i lavoratori di quei paesi, se va bene, hanno a disposizione il sindacato unico e se va male – alla maggioranza dei lavoratori americani va male – non ne hanno alcuno. La trattativa Obama-Marchionnesindacati ha escluso qualsiasi possibilità di intervento da parte dei diretti interessati. I quali, se fosse fallito il confronto, si sarebbero trovati senza lavoro, senza ammortizzatori sociali, senza pensione. Così, chi si è salvato dalla mannaia italoamericana ha finito per applaudire al salvatore a cui hanno concesso tutto, compreso il diritto di sciopero. Il Messico, per un padrone,

le cose sono ancora più semplici. A garantire l’ordine e la disciplina nelle fabbriche ci pensano il governo con leggi antidemocratiche sul lavoro e con la polizia e persino l’esercito a cui è delegato il compito di reprimere qualsiasi tentativo di democratizzazione. E ove tutto questo non bastasse, sono sempre disponibili squadracce private assoldate dalle aziende in funzione antioperaia. Nel mese di febbraio il sindacato mondiale dei metalmeccanici (Fism) insieme a quelli dei chimici e dei trasporti hanno indetto una settimana di mobilitazione a sostegno dei lavoratori messicani. Il segretario della Fiom Landini ha scritto all’ambasciatore messicano in Italia per chiedere la fine della repressione e il riconoscimento delle libertà sindacali. Ogni tentativo di costruzione di un sindacato indipendente finisce nel sangue. Agli operai della Honda messicana che si battono per il riconoscimento dei diritti e delle libertà sindacali si è risposto con la repressione. Sempre la Fiom ha espresso la solidarietà dei metalmeccanici italiani e dei lavoratori italiani della Honda a quelli messicani, impegnati nel tentativo di veder riconosciuto il loro sindacato indipendente (lo Stuhm). Nel settore dell’elettricità i sindacati sono stati cacciati con la forza dalla compagnia pubblica che successivamente è stata sciolta. Nelle miniere messicane si crepa e lo Stato non si fa carico neppure di recuperare i corpi delle vittime, come è successo il 19 febbraio nella miniera di Pasta de Conchos, dove un’esplosione ha ucciso 65 minatori, ancora sotto le macerie. E’ in queste condizioni sociali che si collocano il «miracolo» messicano di Marchionne e il prevedibile successo della 500 d’Oltreatlantico. Un contesto che certo non è stato prodotto da Marchionne, ma ci aspetteremmo almeno che il manager della Chrysler-Fiat evitasse di confondere paura e oppressione delle libertà individuali e collettive con il consenso. Il consenso è una cosa troppo seria per essere millantato.


L’irripetibile

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rossa Marie

Chantal

«Q

atrelle», ditelo così, e qualsiasi francese che abbia superato i 30 anni vi risponderà con una luce negli occhi. Qatrelle sta per Renault 4 L, cioè Luxe, che poi è e resterà una parola grossa per tutta la lunga vita del più fortunato modello del costruttore francese. La Renault 4 nasce nel 1961 e va in pensione nel 1992 con l'obbligatorietà del catalizzatore imposto dalla Comunità europea a tutte le auto di nuove produzione, dopo essere stata prodotta in 8.135.424 unità in tutte le sue varianti. Nessuna altro modello nella storia dell'auto francese ha raggiunto questo numero. La 4 è la popolarizzazione di Renault al potere (dimenticatevi quel L per lusso), con la sua trazione anteriore appena intravista sulla Estafette, con il suo circuito chiuso di raffreddamento che fa dimenticare il noioso controllo del livello dell'acqua, con la sua forma di mini-break o piccola familiare che è l'opposto della rivale Citroen 2CV. Neanche tecnicamente è previsto alcun lusso: il cambio è a quattro marce di cui la prima non è sincronizzata e le altre sono da inserire con molta attenzione (la leva è infilzata nella plancia, con un pomello che qualcuno scambia per appendi giacca); il volante sembra potersi spezzare per quanto è sottile, posizionato in modo un po' troppo verticale; il cruscotto è essenziale, molto essenziale, giusto per dire che c'è; i sedili sono fatti con della tela passante per una struttura tubolare a vista (copiata dalla 2CV); i finestrini si aprono a metà, scorrevoli all'indietro con qualche rudezza; il motore ha una cilindrata di 750cc che le permette una velocità massima di 105 chilometri all'ora, vissuti un po' pericolosamente per il grande rollio del corpo vettura ma nel complesso con una buona tenuta di strada; il tetto in tela apribile è optional, finalmente un luxe. Nella primavera del 1956, il presidente della Renault, Pierre Dreyfus, chiede di progettare un'auto che risponda più a cri-

teri sociologi che tecnici. Vuole un'auto economica e multiuso, destinata a grande diffusione. Nelle sue parole, più bella esteticamente di una 2CV ma meno elegante di una Dauphine. Con l'ordine di non copiare Citroen. Nel cahier che gli ingegneri cominciano a studiare, l'auto potrebbe costare 350.000 franchi dell'epoca, un prezzo basso con cui gli ingegneri soprannominano il «progetto 350». Già nei primi disegni, le portiere sono subito quattro per facilitare l'accessibilità, il bagagliaio ha una buona capacità con soglia d'ingresso a filo dell'apertura, sospensioni adatte a tutte le strade, una climatizzazione interna assai semplificata. La linea non è ancora completamente definita quando un fotografo de L'Auto Journal sorprende una Renault 4 su strada, mostrando per la prima volta su cosa stanno lavorando a Billancourt. Sotto il vestito, l'ingegnere Guy Grasset Grange mette un telaio su cui imbullonare la cassa del corpo vettura. La linea definitiva viene scelta nel 1959: via le poche rotondità viste nella foto de L'Auto Journal, la 4 diventa definitivamente squadrata con il taglio netto posteriore a forma di scatola. Nello stesso anno, l'auto riceve il suo primo motore. La trazione anteriore è una scelta obbligata per un modello che sia capiente e capace di trasportare di tutto. Per il motore, c'è una lunga discussione fra i tecnici. Nel «progetto 350» comanda ancora la fiscalità, che prevede per questo tipo di auto una cilindrata di 600cc e 20 cavalli di potenza massima. Si studiano un due cilindri raffreddato ad aria e un altro raffreddato ad acqua di 603cc, ma Dreyfus alla fine impone un 4 cilindri già in casa, quello della 4CV. Costa meno ed è sicuramente affidabile. Il prototipo è pronto per essere provato su strada. Il primo va sul circuito del costruttore a Lardy, altri cominciano a girare il mondo in tutte le condizioni climatiche più estreme e sulle strade più dissestate. Test durissimi. Il prototipo 112, numero 13, per esempio, è destinato ad attraversare il deserto del Sahara

FRANCESCO PATERNÒ

e le piste della Guinea equatoriale. In mezzo alla sabbia, a un certo punto le portiere della 4 non tengono più e bisogna legarle con un filo di ferro. Mentre il sistema di raffreddamento non ce la fa, quando il vento decide di soffiare in una sola direzione. Risultato: ogni tanto la 4 va fatta marciare soltanto controvento, per evitare che il motore fonda. La R4 verrà testata per più di due milioni di chilometri, più o meno cinquanta volte il giro della terra. Spesso nell'indifferenza delle popolazioni locali che vedono passare questa strana vettura, spesso badando a non essere sorpresa da giornalisti e fotografi. E' qui che la macchina viene chiamata «Marie Chantal», nome in codice che i collaudatori usano nei telegrammi inviati alla casa madre per mandare notizie, nel caso la stampa o la concorrenza intercettasse il messaggio. Il 6 luglio del 1961, l'ultima 4CV esce dalla linee di montaggio della fabbrica di Billancourt. Dalla notte successiva, e per i due mesi che verranno per un totale di 42.000 ore di lavoro, mille lavoratori Renault e quattrocento provenienti dall'esterno smontano le linee del modello fin lì prodotto dal 1946 per installare quella della neonata Qatrelle. «Marie Chantal» non ha più bisogno di nascondersi. La 4 viene presentata alla stampa specializzata mondiale in Camargue e al pubblico il 4 ottobre, in una serata di gala nei giardini del Palais de Chaillot a Parigi, e poi al concomitante Salone dell'auto. La Qatrelle è subito un successo. La gente la considera un'alternativa più moderna alla Citroen 2CV, sul mercato già da tre lustri. L'autorevole rivista inglese Autocar la chiama «questa adorabile eccentricità». Nel 1962, primo anno pieno di commercializzazione, la produzione passa a 850 unità al giorno. A Billancourt, i numeri diventano importanti: dalle 19.542 auto prodotte l'anno precedente, si vola a 196,256 unità cui vanno aggiunte altre 26.527 versioni commerciali (le furgonette). La versione 3 scompare dalla gam-

ma mentre la Super Confort viene sostituita dalla Super. Nel 1965, scompare la definizione R per tutta la gamma e il costruttore decide che ogni vettura va chiamata con il nome per intero, Renault 4, Renault 16, etc, anche se nell'uso quotidiano poco o nulla cambierà. Nel febbraio del 1966 esce dalle linee di Billancourt la milionesima 4. L'auto ormai fa parte del paesaggio francese. L'anno successivo, a partire da settembre, riceve finalmente la quarta marcia, chiesta da tempo a gran voce dalla stampa specializzata, prima ancora che dai clienti. Il 1968 è l'anno del picco di vendite della 4, più di 336.000 unità, mentre nel 1971 la cilindrata del motore sale da 747 a 782cc con 27 cavalli. Nel 1978 esce la Renault 4 GTL, con un motore portato a 1108cc con 34 cavalli. Nel suo ultimo decennio, fra il 1982 e il 1992, la Renault 4 si presenta di volta in volta con versioni speciali, mostrando di tenere ancora bene il mercato: nel 1985 supera i 7,5 milioni di esemplari prodotti, è una vera world car considerando che si produce in quindici paesi diversi (tra cui lo Zaire, oggi Congo), quanto assai poco diversa dal primo modello del 1961. L'ultimo aneddoto riguarda proprio le sue vendite record, che nel 1992 con la versione Bye Bye raggiungono la vetta inscalabile di 8.135.424 esemplari. Nel 1977, in occasione dei cinque milioni di 4 prodotte, il direttore della comunicazione di Renault Michel Rolland propone ai giornalisti della stampa specializzata un concorso: vince chi darà il numero di produzione finale (quando sarà il momento, s'intende) più vicino alla realtà. In busta chiusa, i giornalisti danno i numeri. Quindici anni più tardi, il collega della rivista Sécurité Routière, Jacques Dehaussar, si vede consegnare in regalo una delle ultime Renault 4 Bye Bye. Nel foglio consegnato a Rolland aveva scritto: 8.203.000. (tratto da «Renault, le Grandi Storie dell'Auto», per gentile concessione dell'editore Rcs-Editoriale Domus)

LA RENAULT 4 COMPIE 50 ANNI. MOLTO URBANA, GAUCHISTE E TRASVERSALE, UN SEGNO DI ALTRI TEMPI

Oggi sarebbe possibile un’auto come la Renault 4? Storia di un modello venduto per ben 31 anni e oggi cinquantenne. Aneddoti, cahier tecnico e numeri di un modello che il suo presidente chiamava «blue jeans, intendo una cosa pratica...»



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