scritto e mangiato aprile 2012

Page 1

APRILE 2012

scritto & mangiato in collaborazione con Slow Food

ra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 si verifica, in Europa, una vera e propria vittoria nell’ambito della lotta agli sprechi alimentari. La Commissione europea di Strasburgo, infatti, proclama il 2014 anno europeo contro lo spreco alimentare, un risultato importante raggiunto grazie al lavoro di Salvatore Caronna, il parlamentare che insieme al presidente della Commissione agricoltura Paolo De Castro ha portato in sede europarlamentare il percorso avviato da Last Minute Market nel 2010 con la campagna “Un anno contro lo spreco” (www.unannocontrolospreco.org) . Il 19 gennaio di quest’anno oltre 600 europarlamentari hanno votato una risoluzione che impegna la Commissione europea a definire, per gli stati membri, degli obiettivi specifici di prevenzione dello spreco di alimenti. Per capire la grandezza di questo fenomeno, lo spreco alimentare appunto, è utile partire dai numeri. Secondo lo Swedish Institute for Food and Technology, nel mondo si gettano ogni anno 1,3 miliardi di tonnellate di prodotti ancora perfettamente commestibili. Valore stimato? Oltre 100 miliardi di euro. Altro dato impressionante: 222 milioni di tonnellate all’anno è la quantità di cibo buttata dai consumatori occidentali, pari all’intera produzione alimentare dell’Africa subsahariana. Le cifre fotografano, però, due realtà ben diverse: in Europa e negli Stati Uniti più del 40% degli sprechi avviene tra gli scaffali dei negozi e il frigorifero di casa, dove si gettano confezioni leggermente ammaccate o che non rispecchiano i canoni di marketing, e cibi dimenticati nel congelatore. In Africa e nelle aree più povere del Sudest asiatico invece, la crisi si focalizza sulla parte intermedia della filiera, dove si perde quasi la metà degli alimenti, a causa di magazzini inadeguati, temperature estreme e tecnologie di conservazione antidiluviane. Una volta arrivato nella dispensa di casa, però, il cibo è sacro, contrariamente a quanto accade nei paesi considerati “ricchi”. Ogni europeo getta via 179 chili di alimenti – sottolineano le stime della Fao – e assieme a questi alimenti sono sprecate anche l’energia e l’acqua che sono servite a produrli: nel 2010, in Italia, si sono persi in questo modo 12 miliardi di metri cubi di acqua virtuale (ovvero quella contenuta nei prodotti o usata per produrli), equivalente a circa un decimo della portata dell’Adriatico. Anche i dati raccolti da Last Minute Market sono impressionanti. Lo studio del gruppo di ricercatori che ha promosso la risoluzione ha

T

Lo spreco non va

in crisi di Francesco Mele

I consumatori europei buttano 179 chili di alimenti all’anno. I numeri di un disastro che è ambientale, sociale ed economico. La campagna di sensibilizzazione e i soldi che perdiamo: 1.679 euro all’anno per ogni italiano

evidenziato che, a livello domestico, in Italia si spreca mediamente il 17% dei prodotti ortofrutticoli acquistati, il 15% di pesce, il 28% di pasta e pane, il 29% di uova, il 30% di carne e il 32% di latticini. E da un punto di vista economico, per una famiglia italiana lo sperpero alimentare significa una perdita di 1.693 euro l’anno. Senza contare che secondo la Coldiretti sarebbe sufficiente il 20% del cibo che ogni giorno viene sprecato per sfamare quegli otto milioni di italiani poveri (dati stimati da Caritas), il 13,8% della popolazione. Secondo Slow Food, il rimedio a questo problema globale non sta nell’aumentare la produzione di cibo nel mondo, ma nel mette-

re in atto progetti concreti per ridurre lo spreco. Incrementare ulteriormente le quantità di cibo, infatti, significherebbe solo stimolare le monocolture e gli allevamenti intensivi, un agroalimentare industrializzato e poco sostenibile che danneggia popoli e ambiente. «La soluzione non sta nell’aumentare lo sfruttamento della terra, ma nel cercare delle vie alternative» commenta Roberto Burdese, presidente di Slow Food Italia. «Da un lato rincuora sapere che le soluzioni ci sono, e stanno nelle economie alimentari locali, nelle reti dei piccoli produttori e nei sistemi di produzione efficienti. Ecco perché sostieniamo e collaboriamo con organizzazioni quali La-

st Minute Market, attive proprio nel sensibilizzare i consumatori o i coproduttori, come ci piace chiamarli, a fare scelte oculate e limitare il cibo che inevitabilmente finisce nella pattumiera. Educare e orientare il consumatore è l’unico modo di provare a ridurre gli sprechi e correggere i gravi danni prodotti dall’agroindustria», conclude Burdese. Per tutti questi motivi Slow Food Piemonte e Valle d’Aosta, anticipando di poco l’importante traguardo raggiunto in sede europea citato, hanno firmato un protocollo d’intesa con Last Minute Market volto alla riduzione degli sprechi alimentari nelle due regioni, cominciando da Torino dove il sindaco Piero Fassino ha accolto e fatto suo questo impegno. Il progetto ha oggi il suo primo risvolto concreto in Piemonte, con il coinvolgimento di due protagonisti importanti: Sermig (www.sermig.org) e Nordiconad. Nordiconad, impegnata già in varie iniziative con Last Minute Market soprattutto in Emilia Romagna, ha deciso di attivare an-

che in Piemonte il recupero degli sprechi alimentari presso l’ipermercato Leclerc-Conad inaugurato nel centro commerciale Area12, adiacente allo Juventus Stadium. A beneficiare degli alimenti recuperati e ancora perfettamente edibili, stimati da Nordiconad in 25-35 tonnellate all’anno, è il Sermig, che ogni giorno consegna già circa 2.985 pasti e fornisce assistenza, non solo alimentare, a moltissime persone. Leclerc-Conad ha donato in questi primi tre mesi di attività circa 2 tonnellate di cibo edibile (salumi, latticini, formaggi, ortofrutta, carne, pane, pasticceria) per un valore di 2 397 654,86 kcal (corrispondente al valore nutrizionale di circa 3400 pizze). Il recupero di 2 tonnellate di prodotti alimentari ha un impatto ambientale importante che consente una riduzione di emissioni di CO2 pari a 6 578,40 chili (carbon footprint). Il ritiro presso Leclerc-Conad avviene ogni giorno alle ore 11 da parte del Sermig, il quale si è attrezzato per rendere possibile la trasformazione di questi prodotti per utilizzarli nella mensa il giorno stesso o conservarli per i giorni successivi. Andrea Segrè, presidente di Last Minute Market (autore nel 2011 del Libro nero sugli sprechi: il cibo, Edizioni Ambiente), premiato a Bruxelles l’8 febbraio scorso con il Green Award per l’etica, ricorda i punti di forza di Lmm e di Slow Food: «Da una parte un’idea e un progetto oramai consolidati (probabilmente il più avanzato sistema di ricerca sugli sprechi alimentari a livello europeo se non mondiale, ndr) e dall’altra la fortissima rete di Slow Food in tutta Italia, che consente di promuovere una speranza comune. Last Minute Market e Slow Foof, infatti, pur partendo da punti di vista diversi, vedono il futuro nello stesso modo, un futuro con meno spreco, più giustizia e, soprattutto, più qualità agroalimentare»

L’uovo di FRANCESCO PATERNÒ

a crisi della porta accanto confina con numeri terrificanti che in genere non si leggono sui giornali, non trattandosi di disoccupazione, spread o pensioni di vecchiaia. Sono numeri che quest’anno hanno inciso perfino sul consumo di una piccola grande cosa come le uova di cioccolato di Pasqua. Se ne sono vendute il 10 per cento in meno, ci dice un sondaggio di Coldiretti/Swg, che spiega quanto la diminuzione sia stata in realtà virtuosa. Perché in Italia questa volta si è complessivamente sprecato un po’ meno cibo del solito. Lo ha fatto il 57 per cento degli interpellati, la maggior parte dei quali puntando su una spesa più attenta, un terzo comprando meno cose, il 24 per cento utilizzando quel che è avanzato per il pasto successivo. Non è una inversione di tendenza, ma un segnale ulteriore di quanto profonda sia la crisi che ci attraversa. E che spinge a prendere coscienza su come e perché si debba cambiare. Queste pagine confezionate in collaborazione con i nostri amici di Slow Food vogliono accendere una spia nel vostro (nostro) personale cruscotto della vita quotidiana. Ogni anno nel mondo si buttano 1,3 miliardi di cibo perfettamente commestibile, per un valore stimato intorno ai 100 miliardi di euro. Valori intollerabili, non solo se confrontati con quelli delle vittime della malnutrizione nel mondo o con le condizioni di quegli 8 milioni di italiani poveri stimati dalla Caritas. Accendiamo questa spia con l’intenzione di non spegnerla. Leggete l’inserto, e dopo l’ultimo punto decidete da soli se è il caso di fare clic. Oppure di raccontare ad altri queste storie e magari di moltiplicare le spie.

L


2 scritto&mangiato

er chiarire il problema, a Jonathan Bloom basta la prima riga del suo ponderoso libro American Wasteland: «Ogni giorno, l’America spreca abbastanza cibo da riempire il Rose Bowl». Che, per chi non lo sapesse, è lo stadio da 90 000 posti di Pasadena, in California. «Ma, se preferite, potete pensare al Meazza di San Siro» – chiarisce il giornalista investigativo statunitense (collaboratore di New York Times, Washington Post, Newsweek e Boston Globe). Le altre 350 pagine

P

marcendo nelle discariche, rilasciano metano». Vien da chiedersi, Bloom lo fa nel suo libro, come sia stato possibile per l’America passare, nell’arco di un paio di generazioni, da una cultura della parsimonia a una cultura dello spreco. «È successo che il cibo è diventato così a buon mercato», spiega, «che ci ha spinti a non considerarlo più come una merce di valore. Allo stesso tempo, siamo diventati tutti più indaffarati: in molti non cucinano, non lo sanno fare e non sanno nemmeno giudicare se un prodotto è ancora

di Luca Angelini

Perché l’America spreca quantità industriali di cibo. Intervista a Jonathan Bloom, autore di American Wasteland: «Ci vuole rispetto»

nathan Bloom davvero non digerisce. Non si riflette abbastanza sul fatto che, sprecando il cibo, si sprecano le risorse che erano servite a produrlo: terra, acqua, energia. «Per fare solo un esempio: tutti ci ricordiamo il disastro della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon. Ma quanti sanno che, per produrre il cibo sprecato ogni anno, si utilizza una quantità di petrolio che è 70 volte quella uscita da quel pozzo? Il guaio è che la maggior parte della gente, ormai, è separata dal cibo: non sa da dove venga, non sa come prepararlo e tantomeno come riutilizzarlo. Abbiamo perso molti modi tradizionali di recuperare gli avanzi, ad esempio. La speranza è che si possa tornare a una cultura che dia il giusto valore al cibo. Per questo quel che fa Slow Food dà una mano anche a risolvere il problema dello spreco».

di massimizzare la produzione. Ma, l’ultima volta che ho controllato, sulla cartina geografica non c’era più nessuna Unione Sovietica. Forse è tempo di cambiare il nostro approccio all’agricoltura, concentrandoci più sulla sostenibilità che sulla massima produzione, e di cambiare il sistema dei sussidi in modo da liberarci dai commodity crops, come mais e soia, oggi così prevalenti, e favorire colture più sane e sostenibili, aiutando agricoltori di piccole e medie dimensioni. Quanto alla perfezione, ci siamo abituati a comprare solo cibi dall’apparenza perfetta. Ma, per me, quel che importa di un cibo è il gusto che ha. Chiunque abbia un orto o faccia la spesa nei farmers’ markets sa che il vero cibo non ha un aspetto perfetto. Ha delle imperfezioni che io chiamo carattere, ed è quel che arricchisce i nostri

ontro gli sprechi alimentari. Il progetto 4Cities4Dev, co-finanziato dall’Unione europea, nasce dalla collaborazione tra quattro città europee – Torino, in qualità di capofila, Tours, Bilbao, Riga –e Slow Food. Il progetto coniuga il ruolo delle città, quali protagoniste attive di politiche locali e di cooperazione decentrata, con l’approccio di Slow Torino nel progetto Food, basato sul coinvolgimento 4Cities4Dev delle comunità del cibo, dei cittadini e dei consumatori. 4Cities4Dev ruota intorno all’esperienza delle comunità del cibo di Slow Food, gruppi di persone che producono, trasformano e distribuiscono cibo sostenibile e di qualità, conservando un forte legame di tipo sociale, economico, culturale e storico con il proprio territorio. Per saperne di più: www.4cities4dev.eu

C

scritto & mangiato in collaborazione con Slow Food

Le illustrazioni di queste pagine sono di Paolo Pineschi, che vive e lavora a Roma dove svolge la sua attività di architetto. Dal 2001 è associato dello studio AKA a Roma. Il manifesto via A. Bargoni 8 00153 Roma tel. 06 687191 Direttore Norma Rangeri Vice Direttore Angelo Mastrandrea Direttore responsabile Valentino Parlato Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Tag design Daria Sorrentino Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl 00153 Roma via A. Bargoni 8e tel. 06 68896911 fax 06 58179764 Chiuso in redazione il 18/4/2012

Supplemento al numero odierno de il manifesto

del libro (sottotitolo: come l’America getta via quasi metà del suo cibo e cosa possiamo fare in proposito) servono invece a capire come si sia arrivati a questo punto. Che sia chiaro, il tema non riguarda solo l’America. Il libro nero dello spreco in Italia: il cibo, a cura di Andrea Segré e Luca Falasconi, ci ricorda, ad esempio, che nel 2010 ogni famiglia italiana ha buttato nella spazzatura 454 euro di cibo, che la produzione agricola rimasta nei campi è stata, nel 2009, di 17,7 milioni di tonnellate, e che lo spreco di generi alimentari nella distribuzione all’ingrosso e al dettaglio è ammontato, sempre nel 2009, a 263 645 tonnellate. I colpevoli dello spreco, insomma, sembrano essere tanti. Ma se si chiede a Jonathan Bloom di indicare quello principale, non ha dubbi: «Lo spreco è presente lungo tutta la catena di produzione alimentare, dai campi alla tavola. Ma prima di tutto dobbiamo dare la colpa a noi stessi. Così inizieremo a capire che ciascuno di noi gioca un ruolo in questo drammatico spreco di cibo. Ed è anche il modo più utile di rispondere, perché noi possiamo provocare un cambiamento: possiamo cambiare il modo in cui coltiviamo il cibo, il modo e il posto in cui lo compriamo, il modo in cui lo cuciniamo e lo serviamo, il modo in cui utilizziamo gli avanzi. Rispettare di più il nostro cibo porterebbe a drastiche riduzioni dello spreco. E anche delle emissioni di gas serra, visto che gli alimenti,

Svuotate

quello stadio commestibile oppure no. Tutto ciò ci ha allontanati dalla cucina di casa e avvicinandoci agli scaffali dei cibi pronti del supermercato e ai ristoranti, nei quali spesso avanziamo buona parte del cibo». Tocca sperare nella crisi economica per tornare a più parche abitudini? Bloom non è troppo convinto. «I prezzi alimentari sono saliti, ma la percentuale della spesa che affrontiamo per il cibo è, in realtà, scesa. Negli Stati Uniti gli acquisti alimentari sono meno del 7% della spesa totale delle famiglie: il livello più basso di sempre. In Italia, mi pare, attorno al 15% e in Gran Bretagna più o meno a metà strada fra questi due valori. Il prezzo del cibo, lo ripeto, oggi è tremendamente basso. L’abbon-

danza stessa sugli scaffali dei nostri supermercati è preoccupante. C’è così tanto cibo che non lo trattiamo con attenzione, e gli sprechi aumentano». Magari dipende anche dal fatto che il prezzo che paghiamo per il cibo non corrisponde al suo vero costo. In termini ambientali, sociali e sanitari, ad esempio. «Il prezzo del cibo è artificiosamente basso. Non si considerano, ad esempio, i costi futuri in termini sanitari causati dal modo in cui mangiamo oggi. E nemmeno la quantità di sussidi dati per mantenere artificiosamente basso quel prezzo. Insomma, quel che non paghiamo oggi, finiremo per pagarlo nelle generazioni future». C’è un’altra faccenda che Jo-

Ma una mano possono darla tutti. Se ci si pensa, l’altra faccia del dare la colpa a se stessi è, infatti, che ciascuno può fare qualcosa per rimediare: «Dire “ma io cosa posso fare da solo?” non tiene conto del potere dell’azione individuale e della capacità che i nostri food dollars, i soldi per comprare il cibo, hanno, se spesi saggiamente, di provocare cambiamenti nel sistema alimentare». E sul fatto che il sistema alimentare attuale vada cambiato, ci sono pochi dubbi. Uno dei capitoli del libro di Bloom si intitola “Gli agricoltori americani: coltivare sprechi, vendere perfezione”. Lui lo riassume così: «Le aziende agricole americane operano ancora con la mentalità da Guerra fredda

piatti e le nostre vite». Per finire, chiediamo a Bloom della citazione della chef Alice Waters che lui ha riportato nel libro: «È meno probabile che sprechiate il cibo di cui conoscete la provenienza»… «È davvero importante riconnetterci con il nostro cibo, dal quale siamo stati separati per alcune generazioni. In qualsiasi modo lo facciamo, coltivando da noi, facendo la spesa in un farmers’ market o attraverso un orto scolastico, collegare le future generazioni con il proprio cibo insegnerà loro a farne tesoro. È più difficile gettare una zucca che hai coltivato o contribuito a far coltivare, di una semplicemente comprata al supermercato».


scritto&mangiato 3

La vita a

impatto zero n giorno nel novembre del 2006, Colin Beavan, quarantenne americano, scrittore di libri di storia, che si autodefinisce a liberal schlub (traducibile come “un bamboccione di sinistra”), ha deciso di passare all’azione, anzi alla eco-azione. Dice che semplicemente era stufo di quelli come lui, quelli che a parole denunciano il riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacci, la deforestazione e tutti i danni inflitti all’ambiente, ma nella pratica continuano a sposare uno stile di vita che ne è la principale causa. Obiettivo: vivere per un anno – con sua moglie Michelle, sua figlia Isabella e Frankie, il cane – nel loro appartamento del Greenwich Village a Manhattan, a impatto zero. Non stiamo parlando solo di azzerare le emissioni di carbonio, ma di un progetto ben più ambizioso, cioè cercare di limitare al minimo l’incidenza dei consumi umani su aria, corsi d’acqua, terra. Tradotto in termini di vita quotidiana significa eliminare auto e mezzi pubblici, ma anche tv, frigorifero, lavatrice, smettere di prendere l’ascensore – la coppia abita fortunatamente solo al nono piano di un grattacielo –, di andare al ristorante, di acquistare nei supermercati, cancellare tutti gli abbonamenti a riviste e giornali, rinunciare alle vacanze, bandire i voli aerei, in poche parole smettere di consumare per smettere di inquinare. E, a proposito di deforestazione, eliminare completamente l’uso di carta igienica, aspetto che ha attirato la curiosità di tutta la stampa americana fin dall’inizio del progetto. Il tutto, in piena New York e con una moglie che si dichiara fashion addicted e junk food addicted, insomma il tipico consumatore incurante che vive di usa e getta. Per questo, forse, Colin Beavan si è dato (e ha dato all’esperimento) un nome da super eroe, No Impact Man, che poi è diventato il titolo di un libro, di un documentario e di un blog attivissi-

U

mo e ricco di consigli pratici, nominato da Time tra i migliori 15 siti dedicati all’ambiente a livello mondiale. Un enorme successo, tanto che volente o nolente No Impact Man ora è diventato una eco-star con un’agenda fittissima. Alcuni non gli hanno risparmiato critiche, la principale delle quali riguarda il sospetto di avere usato una nobile causa per fare dell’autopromozione. Ma lui risponde: «Be’, ho ricevuto anche molti elogi, ma il punto non sono io. Piuttosto sono i lettori di questo articolo. La questione centrale è: siete rassegnati a lasciare il pianeta così com’è o siete disposti a correre dei rischi e a modificare certi comportamenti per migliorare la situazione?». Lui ci ha provato e lo ha fatto sulla propria pelle per trovare una risposta anche a molte altre domande: è possibile vivere in maniera totalmente ecofriendly nella nostra società? Abbiamo realmente bisogno di tutti questi prodotti realizzati a danno dell’ambiente? Vivere a impatto zero mi renderà un uomo più felice? O mi trasformerà in un freak? L’unico lusso che si è concesso è stato di procedere per gradi, alleggerendosi di un problema alla volta. Il primo e il più evidente è la spazzatura domestica. Beavan, all’inizio del libro, guarda nei tre sacchi di rifiuti che tiene nell’ingresso e fa un inventario del contenuto accumulato in soli quattro giorni: un numero imprecisato di tazze e bottiglie di plastica, cannucce, confezioni di cibo takeaway, bacchette cinesi, tovaglioli, pannolini della bimba, confezioni di alluminio da gastronomia e una testa di lattuga intonsa passata direttamente dal frigo al bidone. «Non era l’idea della spazzatura in sé a sconvolgermi e farmi sentire in colpa, ma il fatto che la maggior parte fossero contenitori usati per massimo cinque minuti e subito buttati». Più avanti, riflette con una certa ironia: «C’è una spiegazione al fatto che i sacchi della spazzatura non sono trasparenti. È per non permetterci di vedere all’interno. Questa iperproduzione di scarti visibili ci fa-

rebbe sentire piuttosto a disagio». È lo spettro onnipresente del packaging, che la famiglia Beavan decide di aggirare comprando nei mercati cittadini, stipando in borse di tela o contenitori di vetro, solo local food proveniente da un raggio di massimo 250 miglia. Addio, caffè, quindi. I prodotti cosmetici e per l’igiene personale vengono sostituiti da deodoranti, dentifrici, shampoo casalinghi a base di bicarbonato di sodio, che pare sia eccellente nelle tre situazioni. Banditi anche i pannolini della bimba, sostituiti dai vecchi ciripà in cotone. Dopo qualche settimana di nuovo regime, la quantità di spazzatura non organica della famiglia Beavan crolla a meno del 5% rispetto alla precedente, mentre quella organica è trasformata in compost da una batteria di lombrichi, ospitati in un’apposita cassetta in cucina. Che conclusioni trarre? «Negli Usa il 40% dei rifiuti è costituito da contenitori di plastica. In realtà, non ne abbiamo bisogno. Ciò significa che il 40% dei prodotti che vengono realizzati con grandi costi ambientali non sono indispensabili: basta rendersene conto».

di Laura Stefani

Tra bisogni e felicità, storia di una famiglia chiusa per un anno in un appartamento del Greenvich Village a Manhattan. Intervista a Colin Beavan

Pensiamo alle buste di plastica: secondo il Worldwatch Institute ogni anno nel mondo se ne buttano tra i 4000 e i 5000 miliardi. È l’articolo più presente nei negozi. Di questi, solo l’1% viene effettivamente riciclato, il resto brucia negli inceneritori o viene disperso nell’ambiente. «E l’aspetto surreale è che queste buste, pensate per un utilizzo rapido, sono fatte con un materiale che dura centinaia di anni» aggiunge Beavan.

Beavan progressivamente e quasi sempre con il sorriso sulle labbra scopre anche il piacere del cibo sano e della cucina casalinga, rigorosamente vegetariana. Delle serate a lume di candela con gli amici. I ritmi della sua giornata rallentano, il tempo si dilata. In pochi mesi, quello che poteva sembrare dall’esterno un esercizio di autoprivazione mostra i suoi tanti benefici. Si scopre più magro (alla fine il bilancio è di meno 10 chili, ricordate i nove piani a piedi?), si sente più in forma e anche più felice. Ma mai un momento di crisi? «Certo. Ho messo in discussione tutto quando sono stato criticato dalla stampa. Una persona sola non può fare nessuna differenza, dicevano. Ma è falso, i cambiamenti della società iniziano dai cambiamenti individuali». Coerente a questa idea, Colin sul blog organizza periodicamente No Impact Week, a cui si può aderire da qualsiasi paese del mondo, perché ognuno sperimenti, nella pratica, questo stile di vita per sette giorni. Già, quali abitudini ha mantenuto finito l’anno fatidico? «Niente congelatore. Niente lavatrice. Niente aria

condizionata. Caloriferi spenti. Niente tv, anche se ogni tanto parcheggiamo Isabella davanti al computer perché veda un film. Continuo a girare con il mio barattolo di vetro in cui bevo caffè e acqua e continuo ad andare in bicicletta. Prendo la metropolitana solo quando piove. Uso sempre bicarbonato per lavarmi i capelli e come deodorante. Non mangio carne, ma vado in vacanza». L’ultimo step della coppia è stato il volontariato presso alcune associazioni ambientaliste di New York. Perché alla fine la vera scoperta a cui è approdato Colin Beavan è una semplice somma tra due fattori: ridurre da una parte l’impatto negativo e aumentare dall’altra quello positivo per vivere davvero a impatto zero, in equilibrio tra bisogni e felicità. «In tante interviste, nessuno mi ha mai chiesto quale sia lo scopo della vita. Se chiedo a mia figlia: “Perché viviamo?”. Lei risponde: “Per ridere”. E se le chiedo: “Di che cosa dobbiamo preoccuparci?”. Lei aggiunge: “Che anche gli altri ridano”. Per me ha ragione, siamo tutti sulla stessa barca e c’è solo una cosa che ha senso fare: aiutarci reciprocamente».





scritto&mangiato7

partire dall’estate del 2009, l’associazione no-profit Nomadisch Grün (verde nomade) ha preso in affitto un’area dismessa nel quartiere di Kreuzberg a Berlino e l’ha trasformata in una fattoria urbana mobile: il Prinzessinnengarten, progetto vincitore del premio del pubblico e della giuria degli Utopia awards 2010, un orto dove accanto a verdure biologiche si seminano e si raccolgono idee per la città del futuro. Berlino è una città che obbliga il visitatore a rivedere la sua nozione di “centro cittadino”. La capitale tedesca, infatti, presenta aree relativamente distanti dal suo centro geografico che paiono, per vivacità e densità di ristoranti e negozi, quartieri centrali, e viceversa zone centralissime che emanano il grigio squallore di periferie abbandonate. È il caso della Moritzplatz, nel quartiere di Kreuzberg, ex-Berlino Ovest. Pur essendo in pieno centro, la sua eccessiva vicinanza al confine con Berlino Est prima, e il muro poi, ne ha decretato per oltre mezzo secolo il degrado: qualche brutto palazzone degli anni Sessanta, un distributore, un hotel da quattro soldi e uno squallido venditore di kebab fanno da cornice a una trafficata rotonda priva di vita dove, notte e giorno, confluisce il traffico assordante di due tra le principali arterie del traffico cittadino. Sul terreno non edificato situato a sud della piazza, esteso all’incirca come un campo di calcio, nel corso dei decenni si sono avvicendati pigramente mercati delle pulci e concessionarie di auto, intervallati da rugginose parentesi di vero e proprio abbandono. Questo fino al 2009, anno in cui Robert Shaw e Marco Clausen, un documentarista e un fotografo, decidono di affittare dalla città il terreno dismesso e trasformarlo in un “orto urbano”. Dopo aver rimosso, grazie all’aiuto di 20 volontari, oltre due tonnellate di erbacce, lamiere e rifiuti, l’inverno di quell’anno il Prinzessinnengarten, “il giardino delle principesse”, viene alla luce. Con loro immenso stupore, pochi mesi dopo l’iniziativa riesce non solo a sedurre gli abitanti del quartiere ma anche a catalizzare su di sé l’attenzione della stampa tedesca e internazionale. Il fatto è che il Prinzessinnengarten è divenuto in breve tempo molto più di un semplice appezzamento di terreno adibito alla coltivazione di ortaggi biologici, rivelandosi innanzitutto un interessante esperimento sociologico. «Qui si sperimenta una nuova modalità di vita urbana basata sulla collaborazione e sullo scambio, che vede vicini, curiosi e amici, fino a poco tempo prima perfetti sconosciuti, lavorare gomito a gomito per un progetto comune di riqualifica del quartiere», spiega il cofondatore Robert Shaw. «Ci consideriamo un laboratorio per la città del futuro». «Aiutaci anche tu a “far cre-

A

scere” una nuova città», si legge sulla homepage dell’associazione (www.prinzessinnengarten.de). «È così, amo pensare al Prinzessinnengarten come a un giardino della mente, dove accanto agli ortaggi si seminano interrogativi. Come vivremo quando, entro il 2050, sul pianeta ci saranno 9 miliardi di persone, l’80% delle quali stipate in metropoli sempre più grandi e affollate? Come mangeremo? Ci sono alternative positive al modello di sviluppo imperante? Il nostro scopo principale non è dare risposte, ma creare domande». Mentre passeggiamo tra i viottoli dell’orto, Shaw spiega che il progetto nasce da una visione: ricreare a Berlino l’atmosfera di collaborazione e condivisione che si respira nei tanti orti cittadini dell’Avana, gli ortopónicos, che Shaw ha visitato a lungo alcuni anni fa nel corso di un viaggio sull’isola. «Nel giro di pochi anni, L’Avana, città di 3,5 milioni di abitanti, si è organizzata per arrivare a produrre il 90% del proprio fabbisogno in ortaggi all’interno del perimetro cittadino,» spiega Shaw «un risultato che infonde ottimismo riguardo alla capacità dell’umanità di sfamarsi in futuro». A differenza della normale orticoltura urbana qui al Prinzessinnengarten si lavora in maniera collettiva, come in un kibbutz. Ogni profitto è reinvestito nel progetto, i cui scopi principali

Lo strano orto

di Berlino di Michele Fossi

Ricreare nel cuore della capitale tedesce l’atmosfera di collaborazione e condivisione che si respira nei tanti orti cittadini dell’Avana. Più un ristorante, aperto a pranzo e a cena

sono la riqualifica del quartiere e attività educative. Queste si svolgono essenzialmente nei due giorni in cui l’orto è aperto al pubblico, giorni in cui si può partecipare a una visita guidata e farsi una cultura sulla coltivazione, l’allevamento delle api e la preparazione delle conserve. L’orto rimane comunque aperto sette giorni su sette. «Chiunque abbia voglia di partecipare alle attività di giardinaggio può farlo in qualsiasi momento della settimana. In cambio del tempo messo a disposizione del progetto,» spiega Shaw. «i visitatori dell’orto imparano a piantare, a raccogliere i semi, a preparare il terreno. Ma l’insegnamento più grande, credo, è imparare a condividere il proprio sapere. A questo si aggiunga l’effetto di responsabilizzazione che

deriva dal prendere parte all’intera catena produttiva di un alimento. Viviamo in un’epoca in cui il cibo ha perduto la sua sacralità, il suo valore. Per comprarlo, siamo disposti a spendere sempre meno, ma poi paradossalmente ne gettiamo gran parte. Coltivare un alimento, anche una sola volta nella vita, aiuta chiunque a capire che l’attuale sistema alimentare è completamente impazzito. Com’è possibile che ci siano melanzane tutto l’anno? Perché non ci sono buchi nelle foglie della lattuga? L’orto porta spontaneamente chiunque a porsi queste domande. Non c’è bisogno di salire in cattedra, assumere toni didascalici. Basta coltivare con le proprie mani per capire che solo spendendo di più possiamo sperare di favorire la diffusione di si-

stemi agricoli più virtuosi. E che lo spreco di cibo è un delitto». A fianco dell’orto sono stati costruiti dei capannoni rudimentali con delle lamiere di vecchie navi. Da uno di essi esce del fumo: ospita la principale attrazione del Prinzessinnengarten, il ristorante, che nei mesi caldi arriva a servire fino a 200 pasti, e che, a prezzi modici, consente di assaggiare ricette cucinate rigorosamente con i prodotti raccolti nell’orto. «Si tratta al 99% di piatti vegetariani: quando la verdura è di qualità, non c’è infatti bisogno di carne per cucinare un piatto saporito e gustoso». Qui finiscono in pentola le 460 diverse specie vegetali che, nel totale rispetto della stagionalità, sono coltivate al Prinzessinnengarten: «Pranzare o cenare al nostro ristorante edu-

ca all’amore per la biodiversità. Tra queste fumose lamiere svolgiamo anche numerosi workshop del gusto. Spesso ci divertiamo a ricreare, con i nostri ingredienti di altissima qualità, le ricette protagoniste del mondo del fast-food, come il ketchup. Ne vuole assaggiare un po’?». La vera peculiarità del Prinzessinnengarten è di essere un orto “nomade”, predisposto cioè fin dall’inizio per essere traslocato in un qualsiasi momento in un altro angolo della città. Tutti gli ortaggi, infatti, crescono in contenitori facilmente trasportabili, come cassette di plastica, cartoni di tetrapack, sacchi di iuta. «Berlino è una città profondamente colpita dalla speculazione immobiliare» lamenta Shaw. «Presto, temo, dovremo sloggiare. Ma il comune si è detto interessato a collaborare con noi per trovare una soluzione per questa area che soddisfi sia noi che la collettività, come ad esempio un palazzo suddiviso in una parte adibita a progetti comunitari, e una parte per il business. E perché no, un roofgarden sul tetto. Se riuscissimo a dimostrare che con un orto si può ottenere di influenzare con successo la pianificazione urbana, avremmo fatto centro».



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.