scritto e mangiato ottobre 2012

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scritto & mangiato

Supplemento al numero odierno de il manifesto

in collaborazione con Slow Food

Lavoro, vita e risorse sotto i nostri piedi ai tempi della grande crisi. Se il valore del capitale naturale torna al centro dell’economia. Appuntamento al Salone del Gusto di Torino

I salvaterra OTTOBRE 2012



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scritto & mangiato in collaborazione con Slow Food

Il manifesto via A. Bargoni 8 00153 Roma tel. 06 687191 Direttore Norma Rangeri Vice Direttore Angelo Mastrandrea Direttore responsabile Norma Rangeri Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Tag design Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl 00153 Roma via A. Bargoni 8e tel. 06 68896911 fax 06 58179764

4-5 Te la scoli d’un fiato di Luca Angelini L’antenato africano

di Serena Milano 6-7 Tre chef in uno di Laura Stefani Ecosistema in padella di Simone Bobbio 10 Questo caldo veloce di Vincenzo Ferrara 11 Che bell’ambiente di Andrea Pomini 12 Il terremoto dentro di Laura Giorgi 13 Storie di balentes di Loris Campetti 15 Lo sbaglio globale di Enrico Remmert

Stampa Sigraf srl via Redipuglia, 77 Treviglio (Bg) Chiuso in redazione il 15/10/2012

Il menu è ricchissimo, ma si paga sempre uguale. Cose che possono accadere solo a Torino dal 25 al 29 ottobre, dove quest’anno i nostri amici di Slow Food con cui cuciniamo questo supplemento hanno fatto del Salone del Gusto e di Terra Madre un appuntamento unico, la prima volta dal 2004. La ricetta è sicura: come lavorare su qualcosa di buono per salute, ambiente e sistema produttivo senza rinunciare al piacere dei cibo. Intrecciando le attività, le culture e le storie di grandi chef e altre esperienze con quelle delle comunità del cibo, molte provenienti da posti sperduti quanto vitali del mondo. Non è la solita ricetta. Perché l’agricoltura, la salvaguardia della biodiversità, la cura delle tradizioni locali, la rinuncia agli sprechi alimentari sono pratiche che a parole suscitano simpatia, ma nella vita quotidiana sono troppo spesso dimenticate, rimosse o ignorate. Eppure, in tempi di crisi profonda come il nostro, l’agricoltura è uno dei settori che sta reggendo meglio all’urto. Dove si registrano ritorni di attenzione, non dai governi (tecnici o politici, in Italia nulla cambia nemmeno da questo punto di vista), ma da parte dei giovani. Le politiche di austerità che stanno strangolando molta gente in Europa e che spingono alla disoccupazione vengono affrontate in molti casi (qui ce ne è una, viene dal Portogallo, www.slowfood.it/sloweb*, con scelte di vita altre, e belle. FRANCESCO PATERNÒ Anche in cucina, si vedono più giovani. Nelle pagine a seguire troverete interviste a chef importanti che raccontano storie di cultura e di recupero di pezzi di vita, prima ancora che di ricette con le quali hanno fatto fortuna nel mondo. La cucina come motore di inclusione e progresso sociale, o anche, dice uno dei loro, per cose tipo “ho trovato un modo per rubare l’anima dei luoghi”. E il menu prosegue sempre vario: da come provare ad affrontare la nuova intensità delle catastrofi climatiche con proposte di una produzione agro-alimentare sostenibile, agli ultimi numeri sullo stato della fame nel mondo. Dove ancora quasi 870 milioni di persone sono cronicamente sottonutrite, il 15% della popolazione complessiva ma solo meno del 2% nei paesi sviluppati. Infine, o non è che l’inizio perché spetta sempre a voi lettori decidere il che fare, ci sono storie italiane, dall’Emilia del terremoto alla Sardegna di una giornalista svedese, passando da una intervista al primo ministro dell’ecologia di tutta l’Africa. E’ un senegalese, sarebbe bello incontrarlo al Salone di Torino.

A gusto nostro

(*http://www.slowfood.it/sloweb/045c6e407d3c5e0582033877be445d2f/i-giovani-portoghesi-si-danno-allagricoltura)

D DALL’OFFICINA ALL’OFFICINA DEL DIPLÒ

L’Atlante storico L’AtlaStnoritcoe

Storia critica del XX secolo Quattro grandi capitoli, testi brevi illustrati con un centinaio di carte e grafici proposti

oria critica del

XX se

dai migliori geografi e demografi. Docenti e giornalisti specializzati declinano in quattro grandi capitoli gli «anni folli» (dalla Belle époque allo sviluppo del comunismo); gli «anni neri» (dal crac del 1929 alle rovine della Seconda guerra mondiale); gli «anni rossi» (dalla guerra

Storia critica del XX secolo

fredda all’’emancipa e zione del terzo mondo); gli «anni grigi» (dallo sciopero dei minatori britannici alla crisi finanziaria asiatica). Storici, economisti, sociologi, ambientalisti indagano temi ignorati o distorti dai media e nei libri di testo.

In v vendita endita (8 (8,50 ,50 eur euro) o) nel nelle le principali edicole edicole e online www www.ilmanifesto.it w..ilmanifesto.it


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altra va in giro vestita di rosso e bianco, è bruna e famosa in tutto il mondo. Lei è più sul rosso amaranto naturale e, per adesso, la conoscono in pochi. Ma buoni. L’altra la vedi spesso in televisione e sui manifesti pubblicitari. Ma c’è anche chi proprio non la può vedere. Lei, invece, ha una storia che, se te la racconta, te la scoli d’un fiato. Quella dell’altra, di storia, se la bevono in tanti, ma non la dà a bere a tutti. No, non tutte le cole sono uguali. E quella di cui parliamo qui, ci verrebbe quasi da chiamarla Gloca-Cola. Perché è locale che più locale non si può. Ma ha anche iniziato un viaggio intercontinentale mica male. Glocal, appunto. E se l’altra, la global, va in giro a dire a tutti che ha una storia di quasi 130 anni, lei potrebbe ribattere che, dalle sue parti, la conoscevano già quando il farmacista di Atlanta John S. Pemberton (sì, quello che nel 1886 s’inventò l’altra) non era ancora nato. E nemmeno i suoi bisnonni e trisavoli. Per raccontarla, la storia della nostra Gloca-Cola, bisogna però fare un viaggio non solo nel tempo, ma pure nello spazio. Kenema è un distretto nel sudest della Sierra Leone. Sì, quella Sierra Leone. Quella delle guerre civili infinite, dei colpi di stato e dei diamanti insanguinati del film con Leonardo DiCaprio (Blood diamond, 2006). Quella talmente lacerata, martoriata, divisa, da far suonare come una crudele presa in giro il nome della capitale (Freetown) e il motto stampato sullo stemma nazionale: Unity, Freedom, Justice. Africa da “cuore di tenebra”, insomma. Con un’aspettativa di vita di 47,8 anni e un reddito medio annuo di 737 dollari a testa. Non per niente, nel Rapporto Onu sullo sviluppo umano (basato sullo Human Development Index) del 2011, la Sierra Leone è finita 180esima su 187 stati. Ma, come accade in altri paesi africani, se gli uomini non sono stati generosi con la loro terra, la terra lo è stata invece con loro. È il caso, per l’appunto, della cola. Le cui noci color amaranto nascono da un albero parente di quello del cacao (stessa famiglia, le Streculiacee), nativo proprio delle foreste tropicali dell’Africa occidentale. Guinea-Bissau e Sierra Leone, in particolare, dove lo si trova ancora allo stato selvatico. Tanto è importante la cola, in Sierra Leone, da essere consumata durante riti e cerimonie, per dare il benvenuto agli ospiti, come simbolo di amicizia, per siglare un’intesa o una riconciliazione (di queste ultime, l’avrete capito, da queste parti ce n’è un gran bisogno). Nel mese di Ramadan, poi, si beve una sorta di ginger ale con acqua, zenzero, cola, peperoncino e, a volte, zucchero. E (giusto per far capire che il farmacista Pemberton ha scoperto l’acqua calda), la cola è anche ingrediente della farmacopea tradizionale: masticata dopo i pasti aiuta la digestione e la caffeina che contiene favorisce la concentrazione. Ancora, è usata come colorante dalle etnie Mandingo e Temne: riducendola in polvere e mettendola a macerare in acqua, si ottiene infatti una tintura marrone per i tessuti. Sapete però come vanno le cose, quando c’è la guerra di mezzo. I primi a rimetterci sono i contadini. Adesso la guerra è finita. Ma anche nel distretto di Kenema (le cui noci di cola sono più apprezzate di altre: sono infatti croccanti, anziché fibrose, tanto che alcuni commercianti vengono a comprarle fin lì anche da Senegal e Mali), i colti-

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vatori più esperti sono morti sotto le armi o emigrati, e la catena di trasmissione dei saperi tradizionali si è spezzata di netto. Oggi gli alberi di cola crescono in modo trascurato, producono tardi e in modo discontinuo. Invece, la cola ha un gran bisogno di cure. In Sierra Leone, di solito, si coltiva in consociazione con caffè e cacao – piante più piccole che prediligono l’ombra – e si raccoglie due volte l’anno: da aprile a maggio e da novembre a gennaio. Dopo la raccolta, si tagliano i frutti e si aprono: ogni frutto contiene 8-10 noci, protette a loro volta

di Luca Angelini

La cola di Kenema. Rossa naturale, e solidale. La storia della nostra Gloca-Cola, un viaggio non solo nel tempo, ma pure nello spazio

da una buccia gialla. Per toglierla, si sistemano le noci a terra, su una stuoia, si coprono con foglie di banano (o mango) e si bagnano. Tempo una settimana e la buccia marcisce. A questo punto, per toglierla basta risciacquare le noci in acqua fresca. La cola va infine stoccata in ceste o sacchi rivestiti con foglie fresche di mango o banano: l’umidità delle foglie evita che le noci secchino. Con questa accortezza, la cola si può conservare più di sei mesi e può affrontare lunghi viaggi. Tipo andare dai villaggi di Dalru e Gegbwema, in mezzo alla foresta, quasi al confine con la Liberia, fino a quello di Piozzo, in Piemonte. Dove c’è l’altro protagonista di questa storia. Un mastro birraio con una passione per i dispetti alle multinazionali: Teo Musso, o se preferite il signor Baladin, quello che forse ha fatto più di tutti per rivoluzionare il mondo italiano della birra. «Sì, mi piace andare a stuzzicare i colossi» ammette Teo. «E poter andare a cambiare un po’ i linguaggi e le abitudini sulla bevanda più consumata al mondo, visto che la sola CocaCola produce ogni giorno un miliardo e 700 milioni di dosi, è una tentazione

che avevo da tempo». Qualche tentativo l’aveva già fatto, anni fa, usando ad esempio zucchero di canna grezzo anziché quello raffinato. Ma serviva dell’altro. E l’occasione gliel’ha offerta la Fondazione Slow Food per la Biodiversità. Che, a Dalru e Gegbwena, ha coinvolto (in collaborazione con l’associazione Wwoof Sierra Leone e con il sostegno della Fao) una cinquantina di produttori nel Presidio della cola di Kenema. Non è stato facile. Ma, piano piano, la produzione di noci di cola è ripartita. Serviva però uno sbocco. A Terra Madre 2010, Slow Food ha invitato un paio di produttori del Presidio.

I Presìdi Cola di Kenema Area di produzione Distretto di Kenema, Sierra Leone sud-orientale, confine con la Liberia Referente del Presidio Patrick Mansaray patrickmansaray@yahoo.com

E li ha fatti incontrare con Teo Musso. «Quando mi hanno parlato di quel che stava facendo Slow Food per aiutare un paese in così grande difficoltà ho capito che quella era l’occasione per riprendere su nuove basi il discorso sulla cola. E, poi, a me piacciono le sfide. E ricostruire una bevanda partendo dalla naturalità della materia di base è, anche tecnicamente, una sfida non da poco. Bisogna fare estrazioni da frutti in infusione, eliminare l’acido fosforico e ottenere l’acidità solo con succo di limone; usare bucce di pomodoro e di ribes per valorizzare e amplificare il colore naturale della noce di

Olio di palma selvatica Area di produzione Regione di Cacheu, nel nord del paese Referente del Presidio Leandro Pinto Junior Cooperativa Agro-Pecuária de Jovens Quadros de Canchungo (Coajoq) coajoq_2000@hotmail.com

Te la scoli d’un


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cola. Se devo dirla tutta, ci abbiamo lavorato dei mesi ma, come è nel mio carattere, non sono ancora del tutto soddisfatto. Credo che farò ancora qualche piccolo ritocco alla ricetta». I primi test di produzione della Cola Baladin sono partiti a dicembre 2011. A gennaio è atterrato, a Fiumicino, il primo carico da un quintale di noci di cola del Presidio. Con quello e con il secondo carico, arrivato a inizio estate, è partita la distribuzione in grande stile, in bottigliette da 25 centilitri. Pulita e giusta lo è di sicuro, la nostra Gloca-Cola. Anche perché una parte dei ricavi sarà destinata, da Baladin, al Presidio della cola di Kenema, agli orti comunitari e agli altri presidi Slow Food in Sierra Leone (come quello dei pescatori di Kent, vicino a Freetown, che cercano faticosamente di sopravvivere alle razzie degli enormi pescherecci multinazionali). Ma sarà anche più buona dell’originale? «La percezione del gusto è molto influenzata dal colore» premette Teo Musso. «La Coca-Cola, per dire, è a base di lime e arancia, con una speziatura di cardamomo e una, molto decisa, di cannella. Però, se chiedi a chi la beve, ti dirà che sa di caramello, perché quello

è il colore che ha. Così, quelli che hanno bevuto la Cola Baladin dicono che sa di ciliegia e frutti rossi. Ma credo siano influenzati dal fatto che è rossa. Diciamo che, a occhi chiusi, la differenza è un po’ la stessa che c’è tra una lager commerciale e una artigianale». Insomma, provare per credere. In fondo, non costa molto. Al bar, una bottiglietta di Cola Baladin viene sui due euro e mezzo. Sugli scaffali di un supermercato, un euro e rotti. Certo, è almeno un 30% più dell’altra. Però, come dice Teo Musso, quando l’assaggi «assieme al sapore dovresti percepire il progetto umanitario, la filosofia e il messaggio che c’è dietro». Insomma, un sorso di Gloca-Cola ti fa venire in mente contadini e pescatori che, qualche migliaio di chilometri più in là, cercano a fatica di riportare in pari i conti con la fortuna. E un mastro birraio che fa i dispetti ai colossi. E tante mani che sfidano burocrazia e dazi e intoppi pur di far arrivare in Italia le noci di cola di Kenema. Sì, l’altra costa meno. Ma il massimo che ti può far venire in mente è un jingle o una réclame. E poi questa regala sorrisi veri, mica quelli da spot tivù. Vuoi mettere la differenza? l

un fiato

L’antenato

africano o mangiamo quasi tutti i giorni: nei biscotti, nei gelati, nelle patatine, nel cioccolato. Se non lo mangiamo, lo usiamo per la cura del corpo: nello shampoo, nei saponi, nei cosmetici… Talvolta ci serve per riempire i serbatoi dell’auto e, in quel caso, siamo convinti di fare una scelta pulita, ambientalista. Lo consumiamo senza saperlo, perché il suo nome fra gli ingredienti spesso non c’è. È indicato semplicemente come “olio” o “grasso vegetale”. Una presenza invisibile ma pervasiva: è il famigerato olio di palma. Facile da produrre, duttile e redditizio, è diventato appetibile sui mercati internazionali già durante la rivoluzione industriale. Dalla fine dell’Ottocento i paesi dell’Estremo Oriente hanno iniziato a investire su questo prodotto e, nel 1966, hanno sorpassato il paese di origine delle palme da olio: l’Africa. Oggi Indonesia e Malesia controllano il 90% della produzione globale

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(oltre 45 milioni di tonnellate); negli ultimi 20 anni la superficie dedicata all’olio di palma è triplicata e le coltivazioni intensive, dove milioni di ettari di foresta palustre e torbiera sono bruciati, divorati per lasciare spazio alle monocolture continuano a moltiplicarsi a un ritmo impressionante. Ecco qualche dato: nel 1960, l’82% dell’Indonesia era ricoperta da foreste umide. Nel 1995 questa percentuale è scesa al 52%. Al ritmo attuale, entro il 2022, le foreste indonesiane (seconde solo a quelle amazzoniche) saranno distrutte. Una catastrofe, secondo il rapporto Borneo in fiamme di Greenpeace, dove emerge chiaramente che la degradazione delle torbiere produrrà emissioni di anidride carbonica ed equivalenti pari a 49 miliardi di tonnellate, pari alle emissioni dell’intero pianeta nel corso di un anno. Non a caso, la United States Environmental Protection Agency (Epa) ha escluso il biodiesel da olio di palma dai combustibili ecologici, proprio perché l’impronta di carbonio derivante dalla sua produzione non permette la riduzione del 20% richiesta per le emissioni dei biocarburanti: l’olio di palma ha costi ambientali elevatissimi alla produzione. Dopo avere distrutto uno dei polmoni del pianeta, l’olio di palma intraprende un percorso tortuoso, attraverso mille manipolazioni e trasformazioni che lo portano, infine, nelle nostre dispense. Per cominciare, alcune fasi di raffinazione eliminano la parte gommosa (che produrrebbe una fastidiosa schiuma durante la frittura) e lo sbiancano (l’olio di palma “integrale” è rosso come una salsa di pomodoro, un colore troppo invadente: non vorremmo mai trovarci nel piatto un’insalata o una fritturina di pesce color rosso aranciato…). Poi viene deodorizzato. E infine frazionato: la parte solida è perfetta nei prodotti da forno, come sostituto delle margarine; mentre la parte liquida è ideale per friggere. Durante questo tragitto, l’olio di palma perde diversi difetti (sostanze ossidate, degradate e maleodoranti), ma anche tutte le sostanze buone: i carotenoidi, la vitamina E, e i cosiddetti precursori della vitamina A (che nell’olio di palma integrale sono 15 volte più abbondanti rispetto alle carote e 100 volte più abbondanti rispetto al pomodoro). Questo strano prodotto – che ha perso il suo colore, il suo odore, le sue sostanze nutritive – non ha più nulla a che vedere con il suo antenato africano. Un antenato che aveva, e ha ancora, un ruolo fondamentale nella cultura di molte etnie dell’Africa occidentale. In Guinea Bissau, paese rinomato per la qua-

di Serena Milano

Di palma c’è anche quello buono, presente nella cultura di molte etnie dell’Africa occidentale. A cominciare dalla Guinea Bissau

lità dell’olio, esistono moltissime palme selvatiche (Elaesis guineensis), che crescono nella foresta. Le comunità raccolgono i grandi grappoli di bacche rosse e le trasformano artigianalmente, ottenendo un olio denso e aranciato, che profuma di pomodoro, frutta, spezie. Un olio buono e nutritivo, grazie alla presenza di carotenoidi e vitamina E. La raccolta è compito degli uomini mentre alle donne è affidata la trasformazione, lunga e laboriosa. I caschi rimangono qualche giorno sotto le foglie di banano, in modo che si ammorbidiscano e che sia più semplice staccare i frutti, che devono poi essiccare al sole per uno o due giorni. A questo punto i frutti sono immersi in una grande caldaia di acqua e devono bollire a lungo. Dopo questa fase inizia una lunga e paziente operazione manuale: le donne separano i semi dalla polpa e li mettono da parte. Poi aggiungono altra acqua, alternativamente fredda e calda, per facilitare l’estrazione, e strizzano la polpa con le mani. Via via che l’olio affiora in superficie, lo raccolgono e lo separano dall’acqua: operazione che si ripete diverse volte. Sia l’olio sia i frutti freschi della palma sono ingredienti fondamentali della cucina tradizionale: accompagnano carne, pesce, verdure e riso. Ecco, quindi, l’olio di palma delle origini: un prodotto con una storia antica, legato a un territorio, estratto da frutti che maturano nella foresta senza distruggerla, trasformato dalle donne con grande cura e rispetto, cucinato in ricette che ne esaltano il colore, il sapore, i profumi, ricco di vitamine fondamentali nella dieta africana, basata essenzialmente su cereali e legumi. Ed ecco quel che diventa nelle briglie del mercato globale: una merce incolore, inodore, insapore, senz’anima, che distrugge l’ambiente, costa pochissimo e farcisce di grassi saturi i nostri pasti quotidiani. l


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astón Acurio non è uno chef peruviano, è un mondo: 45 anni, 33 ristoranti in 12 paesi, circa 3000 dipendenti, un volume di affari annuo che si aggira intorno ai 50 milioni di dollari. Ovvero, l’impero gastronomico più importante dell’America Latina. Il suo segreto? La cucina tradizionale del suo paese, negletta fino a pochi anni fa e oggi nobilitata – anche nel nome: Novoandina – e considerata tra le migliori a livello internazionale. Lui ne è l’orgoglioso ambasciatore, uno dei primi a crederci e a decidere di dedicarsi alla conquista del mondo: «Quando anche a Lima i ristoranti più prestigiosi erano tutti di ispirazione francese e nessun peruviano si sognava di bere una goccia di Pisco, ma solo whisky» dice. Erano gli anni Novanta e Acurio, fresco di un diploma alla scuola Le Cordon Bleu di Parigi, apriva nella capitale insieme alla moglie tedesca Astrid Gutche il suo primo ristorante Astrid & Gastón grazie a un prestito di 45 000 dollari. Acurio è anche intimo amico di Ferran Adrià, che lo ha chiamato a far parte del Consiglio di consulenza internazionale – insieme a René Redzepi e Massimo Bottura, tanto per citare due nomi – della sua facoltà di Scienze Gastronomiche a San Sebastián. E che, nel pieno del periodo sabbatico dopo la chiusura temporanea di El Bulli, è diventato il miglior testimonial dei vari progetti paralleli di Acurio: dalle due scuole di cucina per formare nuovi chef aperte nei quartieri più poveri di Lima e Arequipa al nuovo documentario Perù sabe. La cocina como alma social, di cui è protagonista insieme a Gastón. Un viaggio attraverso il paese che racconta il boom della gastronomia peruviana come fenomeno sociale, soprattutto tra i giovani. Ci sono infatti circa 50 000 ragazzi che studiano cucina, molti di più di quelli che sognano di diventare calciatori, ha sottolineato Acurio in un’intervista. Il documentario è stato proiettato alla presenza di entrambi nel quartiere generale delle Nazioni Unite a New York. Questo significa che per intervistare Acurio devi aspettare almeno un mese e mezzo e superare tre filtri diversi, corrispondenti a una precisa gerarchia di assistenti. Discutere sui minuti concessi e alla fine scamparla. Ma ne vale la pena, perché un giorno Acurio si materializza al telefono e si racconta così.

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Ha dichiarato: il mio lavoro non è cucinare, ma diffondere la cucina peruviana. Che cosa significa per lei essere chef? In me convivono tre tipi di chef: il primo è nato per essere un cuoco e basta, cioè per cercare di afferrare i sapori e convertirli in qualcosa di unico; poi c’è lo chef imprenditore che ha il dovere di creare ricchezza per molti; infine c’è lo chef peruviano, impegnato per il suo paese. Il Perù possiede molte ricchezze, ma è lo specchio di mille contraddizioni. Io sento l’obbligo morale di diffondere la nostra cultura gastronomica e generare opportunità e mercato per i prodotti peruviani nel mondo. Ovviamente quest’ultimo è l’aspetto più importante perché include gli altri due. Quando ha sviluppato l’idea che la cucina potesse essere un motore di inclusione e progresso sociale? C’è stato un momento in cui io, Pedro Miguel Schiaffino, Virgilio Martínez e altri chef peruviani ci siamo resi

Tre chef in uno conto che il nostro lavoro non aveva senso. Cucinavamo solo per pochi privilegiati, mentre al di fuori dei ristoranti si vedevano denutrizione, problemi ambientali, abbandono di certi prodotti tipici. La contrapposizione era troppo grande. Questo è stato il punto di partenza di un nuovo modo di intendere il nostro mestiere, superando le gelosie personali. Il successo di uno era il successo di tutti, perché tutti stavamo sotto il tetto della gastronomia peruviana. La cucina è un’enorme opportunità perché coinvolge l’agricoltura, la pesca, l’ambiente, l’integrazione sociale, le imprese, la promozione di un paese. Attraverso un piatto, si possono affrontare temi molto importanti. I ristoranti dovevano trasformarsi da spazi chiusi ed elitari in spazi di dialogo. Così abbiamo deciso di mettere nei piatti tutto ciò che sta dietro e intorno ai sapori: la storia, l’arte e i produttori ovviamente. L’ultimo passo è stato coinvolgere i consumatori, che all’epoca amavano la cucina peruviana, ma la concepivano solo nelle case, non pensavano che avesse abbastanza dignità per essere esportata. Quando ci siamo sentiti tutti reciprocamente vincolati, è scattato un sentimento di orgoglio e ci siamo trasformati in ambasciatori. Non si dimentica mai di ringraziare gli agricoltori, i pescatori… Io oggi passo molto più tempo in campagna e sulla costa, non solo per fare acquisti, ma per capire il punto di vista dei produttori locali e come appoggiare tutta la filiera. Nella grande fotografia appare sempre lo chef e il ristorante, ma lo chef è solo colui che racconta una storia. La punta dell’iceberg. Il nostro sforzo è creare una foto di gruppo, in cui siano presenti e riconosciuti tutti, anche i cuochi che hanno un piccolo ristorante con piatti tipici. Un bel salto rispetto alla sua formazione: lo chef star chiuso nel suo regno, la cucina rigorosamente di ispirazione francese. Quando ho aperto il primo Astrid & Gastón era il 1994. All’epoca tutti i migliori ristoranti del mondo erano francesi ed eravamo formati con l’idea che questa fosse l’unica strada. Poi, lentamente, sono state valorizzate culture e tradizioni culinarie diverse fino ad arrivare a oggi, alla grande varietà di linguaggi gastronomici. Per me è stato un processo naturale: dopo cinque anni ti accorgi che nei tuoi piatti è diventato fondamentale l’ajì, una specie di peperoncino piccante che è l’essenza della peruvianità. A novembre 2012 la cucina peruviana dovrebbe essere dichiarata dall’Unesco Patrimonio immate-

riale dell’umanità. Cosa la rende tanto speciale? Tre fattori: l’immensa biodiversità, perché abbiamo il deserto, le Ande, l’Amazzonia, la costa e microclimi dappertutto; il fatto che questa biodiversità ha generato culture molto diverse, come quella inca, la mochica e l’amazzonica che a loro volta hanno sviluppato sapori differenti; la migrazione degli ultimi 500 anni verso il Perù di spagnoli, cinesi, africani, arabi,

giapponesi che si sono installati con le loro tradizioni culinarie. Come risultato, c’è una specie di genetica nei peruviani che li porta a essere molto più abili nell’affinare i sapori, anche negli angoli più umili del paese. Sono emigrati in Perù anche molti italiani. Lei ha appena aperto a Lima Los Bachiche, un ristorante italo-peruviano. Vuole “peruvianizzare” la cucina italiana?

In realtà è già successo. Nel 1915 a Lima c’erano 250 000 abitanti, di cui 15 000 italiani. Si respirava aria italiana nelle strade, non solo nella capitale, ma anche a Pisco. Abbiamo assorbito la vostra cultura al punto che mangiavamo panettone pensando che fosse peruviano! Lo stracotto qui si chiama asado, il cioppino lo chiamiamo chupín, ed è una zuppa che si mangia una volta alla settimana. Il mio ristorante è un omaggio alla cucina italiana, con l’uso però di prodotti locali. Cinque parole chiave del suo stile. Biodiversità, diversità culturale, sostenibilità, integrazione, ajì. Tre piatti signature. Il ceviche, il nostro scudo nazionale, il nostro emblema. L’anticucho che è una grigliata di strada, fatta con cuore e trippa, e rappresenta la gente. Il sudado, una zuppa di pesce con cipolle e pomodori, che può essere fatta in mille forme, anche con i frutti di mare. Parla della malinconia dei pescatori, è un sapore che ti ricompensa dallo sforzo titanico della pesca. È un piatto magico, leggero, che un giorno il mondo scoprirà.

di Laura Stefani

La cucina come motore di inclusione e progresso sociale. E un omaggio agli agricoltori. Intervista al cuoco peruviano Gastón Acurio


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Ferran Adriá ha detto che essere chef significa esplorare i propri limiti. Quali limiti sta esplorando in cucina? Oggi stiamo iniziando una tappa in cui valorizziamo il lato più poetico della cucina (vedi box). Un sapore può commuovere una persona, non solo per il gusto. Immaginatevi l’inverno sulle Ande, a 4000 metri, dove in tutti i villaggi ci sono madri che vanno a cercare nell’orto una patata, un po’ di latte, delle erbe aromatiche e li trasformano magicamente in una zuppa da dare ai figli per scaldarli e proteggerli dall’inverno. In questa minestra c’è amore, tenerezza, attenzione. Sono stato anche io sulle Ande per cercare di sentirlo sulla mia pelle e poi trasformarlo in un piatto con una storia. Al momento è questa è la dimensione sconosciuta della cucina che sto indagando. Ha realizzato moltissimi progetti. Cosa le manca? C’è un paese sulle Ande che si chiama Huancavelica, dove il 50% dei bambini soffre di denutrizione cronica. Non è solamente un paese, è un’intera regione nelle Ande centrali. Una zona dimenticata da tutti, di profonda povertà. Per me è un richiamo: cosa continuiamo a parlare di cucina se non abbiamo ancora risolto un problema tanto grave? Tutto ciò che faccio, le interviste, i ristoranti nel mondo, il documentario, le scuole, ha come obiettivo far sparire questa cifra. Se possiamo contribuire a cambiare la situazione, promuovendo il paese e l’integrazione sociale ed economica, allora potremo dire che la cucina peruviana è coerente. E quando succederà mi potrò riposare, adesso no. l

edersi alla tavola di un ristorante e trovarsi avvolti dagli aromi intensi che si sprigionano quando l’Atlantico incontra le coste del golfo di Biscaglia è un’esperienza straordinaria, ma non così difficile da vivere grazie a Eneko Atxa, giovane astro nascente della cucina basca. I suoi 35 anni non devono ingannare: Eneko si è fatto le ossa con i migliori cuochi del suo territorio e dal 2005 conduce Azurmendi, un ristorante tutto suo che, dopo appena due anni, ha ricevuto la prima stella Michelin. «La mia cucina è all’insegna della multisensorialità» esordisce Eneko. «Voglio che i nostri ospiti, nel momento in cui assaggiano un’ostrica, si sentano trasportare direttamente nell’ecosistema da cui il loro cibo ha origine. Ho trovato un modo per rubare l’anima dei luoghi, creando nel piatto una bruma che ricorda le nebbie marine che si formano lungo la costa dei Paesi Baschi. Il profumo è proprio quello del mare». Grazie a un’equilibrata miscela tra ricerca scientifica e tradizione, i sapori e gli aromi del cibo si mescolano con sensazioni visive e olfattive, e conducono la fantasia in un viaggio. «Mi piace sperimentare nuove possibilità tecnologiche per reinterpretare i prodotti caratteristici della cucina basca e condirli con l’essenza dei luoghi da cui provengono. In cucina abbiamo un laboratorio in cui studiamo nuove tecniche in collaborazione con l’università di Bilbao. Per esempio, la bruma con cui accompagniamo le ostriche è il risultato del passaggio fisico degli aromi marini nell’acqua che, mescolata nel piatto con un po’ di ghiaccio secco, sprigiona

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Ecosistema

in padella un vapore profumato. È sufficiente un semplice macchinario a ultrasuoni per trasmettere al liquido le essenze di alghe marine, crostacei e seppioline. Per fornire nuove opportunità al mio mestiere di cuoco, alla chimica, preferisco procedimenti fisici; ma la tecnica è solamente il mezzo che consente di dare piacere partendo dai prodotti della terra e del mare». Il giovane cuoco basco sembra il modello di un nuovo modo di interpretare la cucina, mantenendo le radici ben salde nel patrimonio gastronomico di una regione che negli ultimi anni ha saputo crescere un numero davvero elevato di ottimi chef. «Sin dall’infanzia mi piaceva osservare le donne di casa, mia mamma e le mie zie, mentre preparavano da mangiare. Nel mio paese la vita quotidiana della famiglia ruota intorno alla tavola e il cibo è sempre stato il filo conduttore dei discorsi nella mia ampia cerchia di parenti. Fare questo mestiere mi diverte e mi permette di diffondere e promuovere la cultura

la pizza? E quel che a Roma si chiama pizzettaro e non pizzaiolo? La storia di questa popolare focaccia medievale, diventata tra narrazioni incerte e gusti sicuri un cibo alla moda del Novecento, merita attenzione e rispetto quanto l’alta cucina. Al Salone del Gusto di Slow Food di Torino, venti pizzaioli da tutta Italia saranno i protagonisti di laboratori dedicati alla pizza d’autore per raccontarne la storia, la cultura e soprattutto per insegnare a riconoscere gli ingredienti giusti e preparare la vera pizza secondo lo stile riconosciuto (e imitato, anche troppo e malamente) italiano. Nulla a che vedere per esempio con l’ultimo spot della catena americana Pizza Hut, inventato per sfruttare la campagne elettorale per la Casa Bianca. La pubblicità parla di una pizza extralarge gratis a settimana per i prossimi 30 anni. O, in alternativa, un assegno di 15.600 dollari. È il premio messo in palio a chi avrà l’ardire di fare ai due candidati alla Casa Bianca la fatidica domanda: “Sulla pizza preferite pepperoni o sausage, ovvero salame o salsiccia?|”. L’iniziativa ha indignato molti tra i fan di questa catena di pizzerie: “Potevano trovare di meglio per farsi pubblicità”, ha protestato un cliente di New York. E non sapeva che al Salone del Gusto, con le pizze, come accompagnamento ideale ci saranno birra Superior di Pedavena e, in due appuntamenti dedicati, l’inedita proposta dei Franciacorta di Contadi Castaldi. l

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Pizza, pizza please

gastronomica dei Paesi Baschi, un vero gioiello per la grande biodiversità dei suoi prodotti. La mia giornata lavorativa inizia la mattina con un giro presso i produttori che mi propongono i migliori frutti di stagione e con loro discutiamo su come cucinarli al meglio per valorizzarli. La ricetta nasce nei loro campi, il frutto del loro lavoro è l’anima delnostro. Uno dei miei piatti preferiti è proprio un orto in miniatura servito direttamente sul tavolo dei clienti. Le persone al ristorante devono anche divertirsi e giocare mentre mangiano». È, quella citata, una pietanza originale e un po’ naif, che si mangia prima con gli occhi e solo dopo con la bocca. Il risultato è una vera e propria piccola e soffice aiuola di terra al cui interno sono affondati i modellini dei vari frutti dell’orto. È inserita una piccola porzione di patata cotta al forno, un piccolo pezzo di carota viene lasciato spuntare dalla zolla, infine, piccoli germogli e fiorellini decorano la superficie completando l’opera. Si può mangiare tutto, ovviamente: quello che sembra un ricco e fertile humus si ottiene da una barbabietola liofilizzata cotta con l’emulsione ottenuta da un pomodoro. Quando si parla di alta cucina, un argomento da cui non è possibile sfuggire è il tema del lusso. A riguardo, Eneko ha una visione chiara che si inserisce con coerenza nella sua idea di gastronomia semplice, sostanziosa, elaborata, ma alla portata di tutti come confermano i prezzi del menù di Azurmendi. «Voglio che le mie ricette siano accessibili. Il lusso, per me, non è un piatto elaborato o un prodotto ricercato, ma la possibilità di mangiare quei frutti della terra nel loro luogo di origine e

PAOLO PINESCHI

di Simone Bobbio

«Fare il cuoco è un privilegio, poi un lavoro». Intervista allo chef basco Eneko Atxa, che usa «i genitori come cavie» nel preciso momento in cui manifestano le loro migliori qualità. Uno dei nostri piatti più apprezzati è la coda di una vacca autoctona, cotta a lungo nel suo brodo e servita avvolta in una fetta di lardo con un crostino di pane di mais. Ho sperimentato questa pietanza con i miei genitori che sono le mie migliori cavie: il carattere sostanzioso e i sapori robusti hanno incontrato il gusto più tradizionale di mio padre, mentre la consistenza insolita tra la carne tenera e il croccante tortino, amalgamati dal brodo gelatinoso, hanno trovato l’apprezzamento di mia madre che è più all’avanguardia. In questo senso ritengo che la cucina debba avere anche un’importante valenza sociale andando a scovare quei prodotti insoliti, spesso quasi introvabili, ma ben radicati nella tradizione locale. La possibilità di mantenere prezzi bassi è fondamentale perché la cucina deve essere buona, pulita e, soprattutto, giusta». Al momento di passare al dessert, una ricetta semplice conduce l’ospite a godere di un sapore genuino e antico: il latte. Eneko ha tratto ispirazione per questa ricetta dai suoi ricordi d’infanzia. «Da bambino ricevevamo a casa il latte fresco appena munto in cui mi piaceva inzuppare il pane. Oggi quegli aromi forti, conditi dal grasso non ancora omogeneizzato e pastorizzato, si sono persi. Molti clienti, dopo avere mangiato il nostro dolce a base di pane casereccio e latte crudo, mi confermano di essere tornati indietro nel tempo». Il volto giovane di Eneko Atxa toglie formalità al ruolo dello chef rendendolo più comprensibile, vicino e accessibile. La sua chiosa è sicuramente il modo più efficace per arrivare all’essenza primaria della cucina e per comprendere lo scopo ultimo del cuoco. «La soddisfazione più egoista è dare piacere. Partendo dalla ricchezza gastronomica della mia terra, tutti i giorni mi pongo l’obiettivo di conquistare i miei clienti attraverso l’appagamento del loro benessere a tavola. Fare il cuoco è prima di tutto un privilegio, poi un lavoro». l



LINEA COSMETICA VIVI VERDE:


10scritto&mangiato

el 2011, le emissioni globali di CO2 derivanti dalla combustione di combustibili fossili hanno raggiunto il livello record di 31,6 miliardi di tonnellate. Il 45% di esse proviene dal carbone, il 35% dal petrolio e il restante 20% dal gas. Nel maggio 2012, la concentrazione atmosferica di CO2 ha raggiunto il livello di 392 ppm (parti per milione). Un record non solo rispetto al 1800 quando vi erano 280 ppm, ma rispetto a tutti i secoli e i millenni precedenti al 1800. Il riscaldamento climatico globale, anche se ritardato rispetto agli aumenti di CO2 atmosferica, procede di pari passo. La temperatura media globale in questi ultimi 100 anni è aumentata di quasi 0,8 °C, ma due terzi di questo aumento sono avvenuti negli ultimi 30 anni. A livello globale il 2010 è stato l’anno più caldo dal 1880, seguito dal 2005 e dal 1998 e poi dagli altri anni appartenenti tutti all’ultimo decennio. Tuttavia, il riscaldamento del pianeta non sta avvenendo né a un ritmo costante con gli anni che passano né in modo uniforme nelle differenti aree geografiche. Esso è maggiore nelle aree polari rispetto a quelle equatoriali, sui continenti rispetto agli oceani, nei periodi invernali rispetto a quelli estivi e, ancor più rilevante, nell’emisfero

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biamenti di uso del suolo e alla deforestazione. Le emissioni di gas serra ascrivibili all’agricoltura e alla produzione agroalimentare sono, secondo le pratiche adottate, a livelli compresi tra il 9% e il 15% delle emissioni totali. Ma se, da una parte, l’agricoltura contribuisce ai cambiamenti climatici, allo stesso tempo ne è anche vittima. È fondamentale, quindi, non solo mirare a un modello di sviluppo economico e industriale efficiente, meno inquinante e indipendente dai combustibili fossili, ma anche modificare le abitudini alimentari, dalla spesa alla cucina, affinché la produzione di cibo abbia da una parte un minore impatto sul clima, e dall’altra sia meno vulnerabile ai cambiamenti climatici. La produzione sostenibile di cibo, infatti, non è un problema inerente solo alla produzione agricola. Spetta anche ai consumatori, con le loro scelte responsabili, aiutare l’agricoltura e tutta la filiera agroalimentare. La produzione di cibo contribuisce alle emissioni di gas serra e ai cambiamenti climatici in tre modi: 1. le pratiche agronomiche. Nell’agricoltura intensiva le pratiche agronomiche normalmente utilizzate producono una rilevante quantità di emissioni, soprattutto per via dell’uso di fertilizzanti e di antiparassitari. La zootecnia, a sua volta, produce emissioni di metano, un gas

Questo

di Vincenzo Ferrara

Il riscaldamento climatico, l’intensità delle catastrofi climatiche, la necessità di andare verso una produzione agro-alimentare sostenibile

caldo veloce nord rispetto all’emisfero sud. Per quanto riguarda l’Italia, il riscaldamento climatico procede a ritmi più elevati che altrove: la temperatura media è infatti aumentata di circa 1,2°C negli ultimi 100 anni, in specie dopo il 1980, con un andamento che, comunque, è coerente con quanto sta accadendo in Europa. Ma l’aspetto più clamoroso di questi ultimi 10 anni non è tanto il riscaldamento climatico globale in quanto tale, quanto la sua velocità, accompagnata da un aumento dell’intensità delle catastrofi climatiche che colpiscono con sempre maggiore violenza il nostro pianeta. A ciò bisogna aggiungere l’intensificazione degli altri fenomeni connessi con i cambiamenti climatici, come la velocità di innalzamento medio del livello del mare, la velocità di fusione dei ghiacci artici e di gran parte dei ghiacciai delle medie latitudini, la velocità di acidificazione degli oceani… Se le cause principali derivano dalle emissioni di CO2 derivanti dall’uso di combustibili fossili, non meno importanti sono le cause imputabili all’uso del suolo, ai cam-

serra con un potere climalterante 23 volte superiore a quello dell’anidride carbonica. Mangiare cibo prodotto con pratiche agronomiche e zootecniche sostenibili che favoriscono i processi biochimici naturali di fertilizzazione del suolo, non solo aiuta a ridurre le emissioni di gas serra fino ad azzerarle, ma facilita addirittura l’assorbimento della CO2 atmosferica. Un suolo ricco di sostanza organica elimina infatti le emissioni di CO2 provenienti da sorgenti non agricole. 2. i processi di trattamento o di trasformazione industriale dei prodotti agricoli. L’industria agroalimentare, che si occupa della lavorazione, trasformazione, conservazione e commercializzazione dei prodotti agricoli, produce emissioni di inquinanti e di rifiuti come qualsiasi altra industria. Gran parte degli inquinanti atmosferici sono CO2 e altri gas serra. Inoltre, l’industria agroalimentare, per trasportare e distribuire i prodotti ai punti vendita deve necessariamente usare adeguati sistemi di imballaggio, cioè una grande quantità di contenitori e involucri di plastica, carta e cartone,

per la cui produzione sono emessi altri gas serra e rifiuti. Scegliere i prodotti agricoli senza eccessive trasformazioni industriali, poco elaborati e non conservati, è dunque importante per non impattare sul sistema climatico. 3. il trasporto e la distribuzione dei prodotti agricoli. I trasporti sono mediamente responsabili di circa un terzo di tutte le emissioni globali di CO2 e di altri gas serra e contribuiscono in modo molto rilevante ai cambiamenti climatici. Gran parte dei trasporti commerciali che avvengono ogni giorno su strada, ma anche per via aerea e marittima, servono per trasferire derrate alimentari. Scegliere prodotti agricoli locali o prodotti a breve distanza dal luogo di consumo è fondamentale per ridurre le emissioni di gas serra e l’impatto della produzione alimentare sul clima. La produzione di cibo è vulnerabile ai cambiamenti climatici per due elementi fondamentali: 1. le risorse idriche. L’abbondanza di risorse per l’irrigazione è stata in

passato uno dei fattori di successo nello sviluppo dell’agricoltura intensiva e industriale, sia nella scelta delle colture anche su terreni inadatti, sia nella programmazione durante l’anno di semine e raccolti al di fuori dei ritmi stagionali. Con i cambiamenti climatici tenderanno a intensificarsi i fenomeni estremi, come le precipitazioni molto intense e di breve durata seguite da periodi di siccità più o meno lunghi. Il risultato è un’insufficiente ricarica delle falde e una minore disponibilità idrica. A ciò bisogna aggiungere, specie per i bacini idrologici dell’Italia settentrionale, la riduzione degli apporti nivoglaciali a causa della riduzione dei ghiacciai alpini. La produzione di cibo, così come la zootecnia, che è un settore a rilevante consumo idrico, dovrà quindi evolvere verso un uso più efficiente delle risorse. Scegliere cibo prodotto con un’agricoltura efficiente nell’uso delle risorse idriche o che ha necessità idriche ridotte e consumare meno carne permette di prevenire le conseguenze negative di una situazione di penuria o carenza idrica e aiuta la produzione agricola ad

adattarsi ai cambiamenti del clima. 2. la biodiversità. I cambiamenti climatici influiscono significativamente sulla diversità biologica causando anche estinzioni di singole specie e profonde modifiche nella struttura e nelle funzioni degli ecosistemi e nella loro distribuzione sul territorio. Utilizzare, quindi, prodotti stagionali ma, soprattutto, tipici del territorio e della biodiversità di quel territorio aiuta l’agricoltura a mantenere la qualità degli spazi rurali e ad aumentare la protezione degli habitat naturali e del paesaggio, ed è di fondamentale importanza per prevenire le conseguenze negative dei cambiamenti climatici sulla produzione alimentare. l


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I

È la prima volta che in Senegal e in Africa esiste un ministro dell’Ecologia: perché propro lei? Dieci anni fa ho provato a costituire un partito politico ecologista in Senegal, e con questo abbiamo lottato duramente contro il vecchio governo. Pensavamo fosse un pessimo governo, non democratico, non aperto al dialogo; un governo che aveva portato il paese in una situazione pericolosa, in cui andava tutto male. Prima è venuta l’ecologia dunque, poi l’ecologia politica e quindi la lotta per mandare via il governo. Penso mi abbiano scelto per questo, ed è vero, in Africa abbiamo ministeri dell’Ambiente o per la Protezione dell’ambiente, ma non dell’Ecologia. Penso che il presidente Sall abbia scelto questo nome per la comunicazione fortissima che il nostro partito ha fatto, dicendo alla gente e ai politici di qui che l’ecologia è molto importante. Perché l’ecologia è vita, e dobbiamo proteggere la vita. Proteggere il nostro mare, con i pescatori e le loro barche; proteggere le foreste, proteggere la terra, tutto. Il nostro pianetà morirà presto se non facciamo qualcosa.

Che bell’ambiente di Andrea Pomini

In Senegal il primo ministro dell’Ecologia di tutta l’Africa, ce ne sono soltanto quattro nel mondo. Intervista a Haïdar El Ali

Quali pensa siano gli interventi più importanti e urgenti da attuare? Il primo, molto urgente, sono i troppi incendi nelle foreste e nel bush. Sono qualcosa come un migliaio all’anno, e distruggono terra destinata all’agricoltura, alberi, uccelli, tutto. Ce ne sono di vari tipi, dolosi o meno. Chi caccia con i fucili ha bisogno di vedere gli animali, e così brucia tutto, ad esempio. Chi va nel bush per il miele la prima volta uccide l’albero, la seconda accende il fuoco per prenderlo e quando se ne va lo lascia acceso. Quando l’agricoltore ha bisogno di pulire i campi, brucia le sterpaglie e non controlla le fiamme. Fermare tutto questo è la mia prima lotta. Come pensa di intervenire? Solo con la sensibilizzazione, o ci sarà bisogno di qualche tipo di forza o controllo? Nessuna polizia. Non si può fare nulla solo con il potere o con la

Un orto africano a Torino

nsediatosi all’inizio di aprile, dopo le elezioni presidenziali che hanno portato alla vittoria del candidato dell’opposizione Macky Sall e alla fine dell’era Wade, il nuovo governo senegalese ha fatto parlare di sé soprattutto per uno dei suoi membri. Il cantante e musicista di fama mondiale Youssou N’Dour, nominato dal premier Abdoul Mbaye ministro della Cultura e del turismo. Ma un’altra carica soprattutto spicca nella lista, quella di ministro dell’Ecologia e della protezione della natura. Il primo ministro dell’Ecologia di tutta l’Africa, e solo il quarto al mondo con quelli di Francia, Ucraina e Azerbaigian. E non è tutto: il titolare della carica è un figlio di immigrati, nato in Senegal da genitori libanesi. Roba da pensarci due volte, la prossima volta che con automatismo un po’ colonialista ci scapperà un “nemmeno in Africa” per commentare fatti e fattacci di casa nostra. La credibilità di cui gode, e che ha portato i nuovi leader del paese a pensare a lui per il posto, Haïdar El Ali se l’è guadagnata sul campo, in una decina di anni di impegno ambientalista concreto su vari fronti. Dalla campagna per il recupero delle reti abbandonate in mare a quella per il rimboschimento di mangrovie su tutto il territorio nazionale, dalle prese di posizione contro la sovrapesca alla creazione della Federazione democratica degli ecologisti senegalesi (Fedes), all’organizzazione del terzo congresso mondiale dei Verdi lo scorso aprile. «Uno dei cento ecologisti più influenti del pianeta» secondo Le Monde, e un uomo da tempo vicino a Slow Food, come delegato di Terra Madre e Slow Fish e come responsabile dell’avviamento di uno dei Mille Orti in Africa nella comunità di pescatori di Terrou Baye Sogui, un micro-villaggio quasi nascosto nella corniche orientale di Dakar, di fianco a cui sorge l’Oceanium, centro di immersioni, sensibilizzazione e attivismo del quale Haïdar è direttore. Lì lo incontriamo, ritagliandoci un piccolo spazio in un’agenda sempre più fitta.

polizia. Faremo qualcosa con le popolazioni locali, chiederemo loro di autarci e se lo faranno, se saranno d’accordo, sarà un bel successo. Proveremo a lavorare insieme. Altre urgenze? Piantare alberi. È importantissimo per il nostro Senegal. Cè già un programma in corso, è stato piantato un migliaio di ettari in Casamance e tutti stanno collaborando in tutto il paese. Piantiamo mangrovie, forti e bellissime. E la pesca? Sembra ci siano troppi pescatori e non abbastanza pesci… Quelle che vede appese qui intorno all’Oceanium sono reti di nylon che i pescatori, piccoli o industriali che siano, hanno perso o abbandonato in mare, perché rotte o troppo vecchie. In acqua però le reti continuano a uccidere inutilmente tantissimo pesce. I pescatori usano reti di nylon perché è più facile, non

ome potevamo presentare al Salone del Gusto e Terra Madre un progetto così vasto e importante come quello dei Mille orti in Africa? Certamente non con tabelloni, parole, fotografie. Per un po’ abbiamo azzardato soluzioni, poi l’idea, che subito è sembrata un po’ folle, di fare un grande orto africano a Torino. Permettere ai visitatori di vedere le piante, di camminarvi attraverso, di conoscere la varietà di ortaggi a foglia, le erbe medicinali e le piante utili per combattere gli insetti nocivi. Di osservare da vicino un semenzaio, la consociazione fra due prodotti, i sistemi per fertilizzare senza sostanze chimiche, per irrigare a goccia senza attrezzature costose, le recinzioni fatte senza reti né cemento, ma con quel che si trova attorno all’orto. Un grande orto didattico, insomma, allestito all’Oval, nel cuore dell’area espositiva africana. Uno spazio di 400 metri quadrati che rappresenterà tutti i 25 paesi coinvolti nel progetto, raccogliendo prodotti e tecniche che in natura non potrebbero coesistere, per via delle diverse latitudini e delle diverse stagionalità. Per una volta soltanto, un’eccezione, giustificata, per capire e imparare la ricchezza della biodiversità di quello straordinario continente da cui tutti quanti discendiamo. l

C

hanno molti soldi e quelle sono reti cinesi che costano di meno. Quelle di cotone sono molto meglio, ma costano anche di più. E le grandi navi asiatiche o europee che pescano al largo e raccolgono tutto il pesce migliore, buttando via il resto? Sono un problema, certo, ma ora questo governo gli ha detto di andarsene, e se ne andranno. Proveremo a porre un limite. Sono fiducioso. Se posso permettermi, aggiungerei anche la raccolta dell’immondizia: ne ho vista ovunque, non si può proprio fare qualcosa? Il vecchio governo non ha fatto nulla, ora abbiamo cambiato la legge. Prima c’era una brutta legge che appaltava a una compagnia; d’ora in poi sarà invece compito dei singoli municipi, la raccolta sarà decentralizzata e a cura delle comunità locali. È una buona opportunità, penso che i sindaci faranno tutto per bene. E inoltre, proveremo a valorizzare l’immondizia: tutti sanno che i rifiuti valgono soldi. In questo periodo di crisi mondiale, cosa pensa che l’Africa possa insegnare al mondo ricco e industrializzato? Che qui è possibile. In Europa, gli individui hanno molti problemi perché hanno bisogno di avere un lavoro, due lavori, le città sono enormi. Qui è possibile perché… mi spiace dirlo, ma è la nostra realtà: i giovani non hanno lavoro; quindi, li puoi usare per fare qualcosa di buono. Puoi dire loro: «Per piacere, aiutaci con il rimboschimento. Per piacere, aiutaci a cambiare la nostra città, il nostro paese, l’Africa». Qui è possibile, puoi trasformare il negativo in un positivo. Questo è il messaggio, questa è l’opportunità. l


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che qualcuno indossava anche nei giorni delle scosse: «La normalità non è un valore». Ciascuno è speciale a suo modo, ciascuno compie un’azione e sa che questa è funzionale a quello che farà l’altro, e unendo le azioni nasce ogni giorno quello che è l’esperienza della Lanterna. Nico cura gli animali del cortile e della stalla, li alleva, li fa crescere, ma poi tira anche il collo alle galline o uccide i conigli e ricorda: «Regina come scappava! Era il 2009. Regina era un nostro maiale e le davo io da mangiare». Nico sa la differenza fra la vita e la morte e il dialogo continuo che esiste fra le due, le ragioni dell’una e dell’altra; e riesce a parlarne. Simona quelle stesse galline le spenna, Cristian le cucina, Caterina le serve ai clienti e Sara poi lava i piatti. Ciascuno fa la sua parte sapendo che serve al lavoro complessivo. «Così, facendo qualcosa che ci piace, tutti capiamo il perché di quel che accade. Anche col terremoto, abbiamo avuto paura, siamo corsi fuori e abbiamo abbracciato gli alberi perché tutti sapevamo che non sarebbero crollati, ma il fatto è che nella vita la paura e il dolore ci sono sempre, e in chi convive con una patologia o una disabilità il “terremoto” dentro è costante. Perciò noi sappiamo di essere in grado di affrontarlo, e così abbiamo deciso di andare avanti» spiega Giovanni. Ogni parte è un pezzo del tutto,

di Laura Giorgi

Osterie d’Italia, storie che rinascono dopo il sisma del 20 maggio. Alla Lanterna di Diogene, dove il motto è: «La normalità non è un valore»

Con le mani in pasta

omporto. «Qui si fa buona cucina e scuola di umanità». Caterina e Simona ascoltano attente Carlo Petrini mentre lo dice, ci pensano un po’ su, poi annuiscono. Sì, quella frase a loro piace e potrebbero anche scriverla all’ingresso dell’osteria, come suggerisce il loro ospite particolare che è andato a trovarle alla Lanterna di Diogene, dopo il terremoto di maggio. Quella frase è vera, rende giustizia al loro entusiasmo, ai polli e ai conigli che loro stessi crescono nel cortile e ai maiali che pascolano nel bosco dietro la casa, alle erbe aromatiche che annaffiano nel giardino e alle verdure che coltivano nell’orto. È vera come il terremoto che ha squassato tante case lì intorno e soprattutto sull’altra sponda del Panaro, com’è successo anche a La lucciola, il centro di terapia integrata per l’infanzia dalla quale molti di loro provengono, dove stanno crescendo altri ragazzi che, come loro, «il “terremoto” ce l’hanno dentro sempre, per questo sanno già come affrontarlo, e batterlo» per dirla con le parole di Giovanni. Giovanni Cuocci è un oste, oggi: nel 2003 ha fondato insieme a Simona, Nicola e Gregorio la cooperativa sociale La lanterna di Diogene, che dal 2006 è anche osteria. «Non volevamo un lavoro qualsiasi, uno di quelli che tante cooperative sociali fanno fare ai ragazzi disabili» spiega Giovanni. «Volevamo qualcosa che fosse davvero nostro, che ci piaces-

Il terremoto

dentro se, che ci tenesse in contatto con la terra». Ora la Lanterna con il lavoro dei suoi ragazzi in cucina, in campagna, nell’acetaia dichiarata inagibile perché anch’essa compromessa dal terremoto, sostiene l’attività ormai trentennale della Lucciola, dedicata ai ragazzi disabili dai 3 ai 18 anni. Gli stessi che adesso sono costretti a lavorare nella tendopoli, molto colorata, davanti all’orto coltivato dai ragazzi dell’osteria. Insieme, Lucciola e Lanterna sono una comunità del cibo di Terra Madre; da lì Carlo Petrini nello scorso giugno ha lanciato un appello: «Dopo il terremoto ricominciamo anche dalle osterie e dai piccoli contadini. Le comunità hanno i loro luoghi, di lavoro, di preghiera; questa terra ha avuto e ha anche le osterie, fondamentali per mantenere viva una comunità e la sua voglia di risollevarsi». La lanterna di Diogene, ormai è chiaro, è poi un’osteria particolare. Ci lavorano 14 ragazzi con il loro slogan stampato su una maglietta,

ognuno fa la sua, uomini e animali, come la capra che proprio nelle notti di scosse più forti ha dato alla luce il suo piccolo. Una capra è poco per avere abbastanza latte per un’osteria, eppure lei il suo contributo lo dà: brucando l’erba tiene rasato l’argine del Panaro, evita solo le ortiche e infatti i ragazzi della Lanterna le raccolgono e ci fanno il ripieno dei tortelli. E per questo tutti la ringraziano e hanno un’altra bella storia da raccontare a tavola. Perché le tavole che il terremoto aveva svuotato non sono rimaste a lungo senza commensali. È bastato il passaparola, una mail, e a riempirle sono arrivati gli amici. «Già dopo la prima scossa, quella del 20 maggio, avevano disdetto tutti; avevamo 60 posti prenotati, non si è presentato nessuno,» spiega Giovanni «ed eravamo disperati. Abbiamo cominciato a parlarne con gli amici e nel giro di poco ce lo hanno hanno riempito loro il locale, poi si sono mobilitati i movimenti,

Slow Food, Campi aperti, la rete dei Gas… Ci mandano persone a mangiare e ci sostengono, hanno comprato il nostro aceto che non è rimasto chiuso nell’acetaia, e il nostro Lambrusco, così stiamo vincendo il terremoto, con questa rete di affetto e sostegno». Gli incassi e i contributi che sono già arrivati e che verranno serviranno a far ripartire la Lucciola. L’edificio ottocentesco di proprietà della curia, restaurato l’ultima volta nel 1993, all’interno del quale si svolgevano le attività terapeutiche e comunitarie, è stato lesionato dalla violenta scossa del 29 maggio. «Abbiamo salvato il pianoforte, poi non siamo più potuti entrare» racconta sempre Giovanni. Anche l’acetaia, che il primo prezioso carico di aceto lo ha regalato 20 anni fa, ha ceduto al sisma; nonostante i lavori fatti nel 2003 e l’ultimo “potenziamento” delle travi nel 2009, parte delle 200 botti sono cadute e hanno perso il contenuto, tutte sono rima-

ste bloccate dietro i sigilli, in attesa di puntellamenti e soluzioni. Restano in forse i 20 quintali in fermentazione, quelli pigiati, come ogni anno, dai ragazzi del centro. Il progetto di restauro richiederà almeno un anno per la messa a punto, poi ci sarà il capitolo fondi. Per l’attività dei ragazzi, invece, un’idea c’è, ed è quella proposta da Campi aperti: due moduli prefabbricati collegati fra loro, progettati apposta da un studio di architetti trentino. Costano circa 85 000 euro. Le associazioni, Slow Food compresa, destineranno a questo progetto una parte consistente dei fondi raccolti attraverso il conto corrente nazionale attivato per l’Emilia. Le Condotte emilianoromagnole hanno invitato i ragazzi a cucinare anche in giro per la regione e l’incasso è stato devoluto alla causa: tenere accesi i lumi di Lucciola e Lanterna, perché lì si lavora sodo, ma con piacere, per difendere la biodiversità, soprattutto quella umana. l

a Lanterna di Diogene fa parte dell’Alleanza tra i cuochi e i Presìdi Slow Food, che al Salone del Gusto e Terra Madre avrà una propria osteria, nella Galleria visitatori (padiglione 2), al primo piano. «Un buco nella rete. Questo sono i prodotti dei nostri Presìdi. Un buco nella rete della banalizzazione dei sapori, dei saperi e della grande distribuzione». Così Piero Sardo, presidente della fondazione ha descritto lo spirito che da 12 anni caratterizza il progetto dei Presìdi Slow Food. «Quando abbiamo iniziato, non avremmo mai osato sperare di creare una rete partendo da questo buco, ma lavorando con i produttori abbiamo capito che esisteva un modo diverso di concepire il cibo e l’agricoltura. Abbiamo bisogno che questo mondo si trasformi in una rete solida, che propone metodi di produzione alternativi, di cui è fondamentale che i cuochi si facciano portatori. Innovazione e tradizione dovrebbero viaggiare su binari paralleli, non lottare l’una contro l’altra. Sicuramente abbiamo un grandissimo lavoro da fare, ma di una cosa sono convinto: o riusciamo a trasformare queste piccole isole in un arcipelago pieno di vita, o non c’è futuro». Gli fa eco lo chef Massimo Bottura nel suo intervento conclusivo. «Nel futuro vedo cuochi che entrano in cucina con le mani sporche di terra, di latte appena munto, guidati dal loro passato e dalla loro memoria, distillata in chiave critica e non nostalgica, per portare nel futuro il meglio del nostro passato. Dobbiamo continuare a cercare i prodotti che stanno scomparendo e proporli ai nostri clienti, spiegando loro perché è così importante tutelarli. Il sogno è ciò che ci guida, non dimentichiamolo». l Alessia Pautasso

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Storie di

balentes ullo sfondo, una delle spiagge più belle del Mediterraneo. Te li do io i Carabi, siamo in Sardegna, appena sopra il golfo di Oristano e la città punica di Tharros. Sulla sabbia una giovane svedese, è una giornalista che tiene una rubrica di cucina per una rete televisiva del suo paese. Ha sempre con sé un elegante quadernetto su cui appunta le ricette più strane, se ne separa soltanto per entrare in acqua. Capita che la giovane svedese venga invitata da un pastore, senza malizia, a uno spuntino: accetta subito con entusiasmo, non sa la poveretta cosa intenda un pastore sardo con la parola spuntino: forse un assaggio di bottarga di Cabras condita con sedano, olio e limone (si fa per dire di Cabras: i sacchetti con le uova di muggine arrivano in gran parte dalla Mauritania per essere lavorati nella zona degli stagni, depredati da uomini rapaci e orde di cormorani migranti dalla Scandinavia) e un bicchiere di vermentino. Per colonna sonora una musica melodica degli anni Sessanta. L’ideale sotto il solleone. Macché, lo spuntino del pastore altro non è altro che un’abbufata pazzesca, piatto forte pecora bollita e per mandarla giù litri di cannonau di Oliena a 15 gradi che stenderebbe una colonia di granatieri di Sardegna. Colonna sonora i Tenores di Bitti, gli artisti che quando vanno in trasferta in giro per l’Italia e ormai per il mondo si portano sempre dietro, persino in Canada, una cassa del loro cannonau, per evitare di farsi avvelenare. Niente da dire, una squisitezza lo spuntino del pastore. Basta saperlo e attendere due giorni e due notti per poter completare la digestione. A fine spuntino, la nostra amica tira fuori il suo quadernetto per trascrivere diligentemente le dosi per quattro persone, gli aromi, i vari ingredienti, i tempi di cottura; insomma, una ricetta come si deve. “Scusi signor Efisio – domanda con rispettosa curiosità – mi rivela i segreti di questo piatto?”. Efisio si frega le mani piuttosto unte di pecora – perché la pecora bollita “vuole mangiata con le mani” – e comincia il suo scarno quanto intenso racconto: “Ahio, prendi due pecore, le fai a pezzi e le metti a bollire nell’acqua buttandoci un sacco di patate e cipolle. Quando tutto è cotto spegni il fuoco e mangi”. Chissà come avrà condito il suo racconto in tv, la

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di Loris Campetti

Una giornalista svedese, antiche tradizioni culinarie sarde, una pecora per spuntino. Appunti da non dimenticare

nostra amica svedese dal quadernetto ordinato, ma ormai irrimediabilmente unto di pecora. Certo avrà risparmiato ai suoi telespettatori lo squartamento della pecora, anzi delle due pecore. Ma la ricetta è quella di Efisio, niente da dire. Al massimo puoi aggiungere al bollito qualche carota e una piccola manciata di pomodorini secchi. A questo punto vi sarete sicuramente interrogati sul destino del brodo in cui ha cotto la pecora. L’ideale è chiedere lumi al priore del

santuario di san Francesco di Lula, nel cuore della Barbagia nuorese dove tradizionalmente alla festa del santo veniva offerta ai pellegrini una minestra speciale che si chiama “filindeu”, i fili di Dio e tra poco capirete perché. Si tratta di un piatto miracoloso che ancora viene preparato a Lula e in pochissimi altri paesi della zona, richiede un lavoro sapiente, infinito, tramandato ormai da poche madri a poche figlie. L’impasto dei filindeu è di semola di grano duro e acqua

leggermente salata, l’operazione dura ore e ore finché l’impasto non è perfetto e si può stirare e allungare dieci e dieci e dieci volte e la pasta così lavorata viene sovrapposta 8 volte. I fili che si ricavano sono sottilissimi, in numero di 256 e vengono assemblati in un fittissimo reticolato. Tale reticolato viene posto in una cesta di vimini a seccare fino ad assumere una consistenza vitrea, operazione che richiede il suo tempo e la giusta umidità dell’ambiente. A questo punto il gioco è fatto. Non resta che prendere il brodo di pecora di cui sopra, o magari un altro proveniente da pecore rigidamente barbaricine, fatte naturalmente a pezzi e bollite come ben sapete. Nel brodo che bolle mettere i filindeu a pezzetti e fate cuocere per qualche minuto, prima di spegnere mettete nel brodo del pecorino (che altro sennò, qui la pecora è

he State of Food Insecurity in the World 2012 (SOFI) (Lo Stato dell’Insicurezza Alimentare nel mondo), pubblicato congiuntamente dalle tre agenzie Onu di Roma - l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (Fao), il Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad) e il Programma Alimentare Mondiale (Pam) - presenta stime aggiornate sulla fame nel mondo, basate su dati più precisi e su una migliore metodologia per misurarli. La maggioranza delle persone che soffrono la fame - circa 852 milioni - vive nei paesi in via di sviluppo, e rappresenta il 15% della loro popolazione complessiva, mentre i restanti 16 milioni vivono nei paesi sviluppati. Nel periodo compreso tra il 1990-92 e il 2010-12 il numero totale delle persone che soffrono la fame è diminuito di 132 milioni, passando dal 18,6% della popolazione mondiale al 12,5%, e dal 23,2% al 14,9% nei paesi in via di sviluppo. Questi dati, secondo il rapporto, rendono l’Obiettivo di Sviluppo del Millennio (MDG, l’acronimo inglese) una meta raggiungibile, ma solo se s’interverrà in modo appropriato e adeguato. Tra il 1990 e il 2007 il numero delle persone che soffrono la fame è calato in modo molto più marcato di quanto non si prevedesse, mentre invece dal 2007-08 i progressi si sono rallentati e stabilizzati. l

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Insicurezza alimentare

nel sangue e nel colesterolo del popolo) fresco tagliato a cubetti, mescolate per uno o due minuti ancora, spegnete e dateci dentro senza fiatare, non prima di aver fotografato la composizione di colore bianco della miracolosa minestra e di aver reso omaggio al santuario di San Francesco di Lula. Quel bianco richiama il colore del vestito nuziale, ed è forse per questo che i filindeu vengono anche chiamati “la minestra della sposa”. S e v i c a pit a di pa ssa re da Nuoro, dopo aver visitato la casa di Grazia Deledda ottimamente conservata, potete mettervi alla r ic e rca de l m iglior ne goz io di pasta fresca dove, se siete molto fortunati, può capitarvi di trovare i filindeu fatti a regola d’arte da mani sapienti nel territorio d’origine. Non vi daremo l’indirizzo, chiunque incontrerete a Nuoro, se chiederete informazione con il giusto rispetto, vi saprà ben indirizzare. Una volta tornati in continente con il vostro vassoio di “fili di Dio”, non vi resterà che mettere in pratica i nostri suggerimenti. Se non siete fatti della farina dei “balentes” – termine che viene da balentia, in italiano valore: i balentes sono coloro che valgono. Nota a suo tempo la balentia di Grazianeddu, il mitico bandito Mesina di Supramonte – cioè se avete problemi di tipo etico a fare a pezzi la pecora oppure problemi di stomaco, vi daremo un ultimo suggerimento: fate il brodo con il manzo. Non è la stessa cosa, e del resto non tutti possono dirsi balentes. l



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a verità è che in molti luoghi del mondo avere una capra da mangiare è una grande fortuna. Noi ci siamo dimenticati la fame, ma ho avuto la sfortuna di vedere quella vera: uomini scheletro che fissano un deserto di polvere, in silenzio, gli occhi come palle che escono dal cranio. Quella visione può tormentarti per sempre» Se non fosse per la parlata piemontese che gli anni in giro per il mondo non sono riusciti a stemperare, Alberto Salza – classe 1944, antropologo irriverente, viaggiatore e scrittore imbottito di storie – sembrerebbe uscito da un romanzo di Conrad o di Jack London. Salza ha vissuto buona parte della sua vita camminando in giro per il mondo (d: «Quanti chilometri a piedi riesci a fare in un giorno?»; r: «Tutti»), è stato 22 mesi con i Boscimani e ha vissuto a contatto con migliaia di persone che si rifiuta “di suddividere in tribù” (ma poi, con calma, l’ha fatto: suo è l’Atlante delle popolazioni, che alla sua uscita fu recensito da Belpoliti come «il miglior libro dell’anno»). È difficile non farsi affascinare dai racconti di un uomo che vive parecchi mesi l’anno con i Turkana, in Kenya, un uomo che è diventato professore universitario sul campo, senza mai essersi laureato in antropologia, grazie a due doti: massima mobilità e massimo spettro cognitivo. Già, perché Salza va dappertutto e si interessa di qualunque cosa. Nella sua corposa bibliografia, oltre all’ultima fatica Eliminazioni di massa – Tattiche di contro-genocidio e al sopracitato Atlante, figurano testi scientifici, manuali di sopravvivenza e una serie di saggi fra cui Niente – Come si vive quando manca tutto. Un capitolo di questo testo è dedicato al cibo. O meglio: alla sua mancanza. Attraverso un nutritissimo (ma forse è l’aggettivo sbagliato) elenco di esempi e situazioni, spesso vissute in prima persona, Salza analizza il paradosso di un mondo dove 830 milioni di persone sono denutrite, mentre 1,3 miliardi di persone sono sovrappeso. La nostra intervista prende la mosse proprio da questo paradosso. «Ma c’è anche un paradosso dentro il paradosso,» spiega Salza «e cioè che oggi si possono avere entrambi i problemi nella stessa area geografica povera: in meno di una generazione la transizione alimentare può comportare la morte per fame o per obesità». Che fattori sono intervenuti? «Principalmente uno: l’invasione della comida chatarra (“cibo spazzatura”). Uso il termine ispanico perché il capofila di questa tendenza è proprio il Messico: una nazione dove si mangiava benissimo ha visto gli obesi passare, negli ultimi 20 anni, dal 10% a oltre il 70%». Una pazzia. «Certo, ma fa parte di un approccio al cibo che è sbagliato a livello globale. In questo senso anche l’Occidente ricco non dà grandi segni di equilibrio: secondo il rapporto annuale del Censis, gli italiani ormai spendono più soldi per telefonare che per nutrirsi». In effetti, basta guardarsi intorno per averne una conferma. «D’altronde questo è il mondo. Io sono cresciuto in un’epoca in cui le etichette dei vestiti erano piccolissime e si portavano dentro i vestiti. Oggi mi sembra di essere un uomo sandwich che dichiara il proprio rango attraverso

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le piume d’uccello, al pari di un indio amazzonico, ma che nel frattempo sta facendo pubblicità per lo stregone che gliele ha procurate. E ti assicuro che mi vesto malissimo». Con Salza è difficile non farsi distrarre, perché, come capita con tutti i bravi affabulatori, ogni racconto si sviluppa subito in altre sotto-storie, ogni riflessione in deviazioni, rimandi, nuove riflessioni. Proviamo a tenere dritta la barra del timone: che visione ha un antropologo nei confronti del cibo? «Be’, lo scambio di cibo è alla base della cultura di tutti i popoli del mondo, a partire dalla nascita. Il rapporto madre/figlio non è altro che uno scambio di cibo. La stessa funzione è all’origine del bacio. Quando incontri un vecchio amico, la prima cosa che fai è cercare di convincerlo a ingurgitare qualcosa – prendi un caffè? beviamo qualcosa? cosa posso offrirti? – mentre se vuoi conquistare una donna, in genere, la inviti a cena. Questa strategia mangereccia è diffusa in tutte le culture del mondo: un banchetto sancisce sempre un’azione importante, sia del gruppo – pensiamo alla comunione cattolica, al ricevimento di

Lo sbaglio

globale

un’autorità, a una vittoria sportiva – sia dell’individuo: cena di laurea, pranzo di matrimonio e così via. La verità è che, dovunque tu vada, il cibo è un dono che nessuno può rifiutare e, come dice Elsa Morante, la più bella frase d’amore è “Hai già mangiato?”». A proposito, che forma ha il tuo tavolo da pranzo? «Be’, è rettangolare. E già – sorride – il tavolo rettangolare è un elemento così comune e fondamentale nella nostra cultura da essere stato scelto da un’équipe di etnologi africani come l’oggetto simbolo dell’uomo bianco». Tu non hai un tavolo rettangolare? «Ma certo!» sorride nuovamente. Poi spiega che il suo rapporto con il cibo è quello di un antropologo, perciò è un po’ deviato: «Che io mi trovi invitato a pranzo da amici oppure con una banda di predoni Turkana sperduti nel bush africano, alla fine mi capita di concentrarmi non sul cibo ma sui rituali che lo accompagnano». Ad esempio? «In generale, presso tutte le popolazioni del mondo, quel che c’è di speciale è la suddivisione del cibo. È una cosa che risale al tempo dei tempi, quando per procurarsi da mangiare esistevano solo due strade: la caccia oppure la raccolta di vegetali spontanei. Quest’ultima attività ha una

di Enrico Remmert

L’antropologo che cammina. Intervista ad Alberto Salza sul tragico paradosso del nostro mondo: la morte per fame o per obesità

scarsa rilevanza culturale, mentre la caccia richiede un alto grado di cooperazione tra gli individui. Questo implica che la carne, in qualche modo, vada suddivisa tra i singoli secondo regole precise. Quando gli eschimesi Tikeramiut dell’Alaska riescono a catturare una balena, ad esempio, la divisione del corpo si fa in funzione del rango dei capitani delle barche che hanno preso parte alla pesca. Il pezzo più appetitoso, un triangolo alla base dell’ombelico, tocca allo sciamano della barca lea-

der: senza le sue visioni magiche, infatti, la pesca non sarebbe mai potuta avvenire. Per i pigmei della foresta congolese il top culinario è la proboscide di elefante, mentre per gli aborigeni australiani è la coda del canguro. Queste parti, in genere, vanno all’uccisore dell’animale. Ma, se ci pensi, si giustifica così anche da noi il fatto che sia il padrone di casa a servirsi per primo: è stato lui a procurare quello che si trova in tavola. Sarà lui, se è il caso, a dare la porzione più importante all’ospite di riguardo, assimilandolo così a sé». A quante di queste suddivisioni hai assistito? «Moltissime. I Samburu del Kenya, con cui ho diviso migliaia di chilometri di marcia nella savana, spartiscono una capra secondo criteri rigidi. La zampa anteriore, ad esempio, va ai guerrieri. Le interiora alle donne anziane. Il fegato ai vecchi – per via dei denti, credo. Il collo alle ragazze e la zampa posteriore agli uomini sposati. Dato che quasi sempre la capra la pago io, mi impossesso della spalla, anche se tutti si mettono a ridere perché ai loro occhi è il gesto di chi vuol sembrare un giovanotto». Salza sorride ancora, ma poi chiude con una riflessione drammatica: «La verità è che in molti luoghi del mondo avere una capra da mangia-

re è una grande fortuna. Noi ci siamo dimenticati la fame, ma ho avuto la sfortuna di vedere quella vera: uomini scheletro che fissano un deserto di polvere, in silenzio, gli occhi come palle che escono dal cranio. Quella visione può tormentarti per sempre: hai presente Kevin Carter?». No. «È un fotografo sudafricano. Nel ’93 scattò l’istantanea di una bambina accucciata per la fame, con alle spalle un avvoltoio. Per quella foto Carter vinse il premio Pulitzer. L’anno dopo si suicidò». A ben pensarci la comida chatarra non è poi così male. l Tratto da Slowfood 53, marzo 2012



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