Belli o bruti

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numero 30

Il Serale

9 dicembre 2013

Settimanale quotidiano

Belli o bruti

La costruzione mediatica dei “mostri�


B

di Tommaso Brolino

iancaneve e la strega cattiva non esistono eppure crediamo ostinatamente che siano i protagonisti di tutto ciò che i media raccontano. Se è permesso che una giornalista come Maria Novella Oppo sia lapidata sulla pubblica bacheca, probabilmente però le colpe non sono solo della Disney; abbiamo perciò il dovere personale di smarcarci da un racconto del mondo che sia solo bianco o nero e rifiutare la superficialità. Fare luce sulle storie asportate dalla cronaca e sui modi con cui esse sono state modificate è utile: non solo rivela un ecosistema mediatico che vive di meccanismi social nuovi e tempi propri, ma compensa la visione parziale di una telecamera, di uno status o di uno studio televisivo di cui si immagina il lavoro dietro le quinte. Fare luce sull'impalcatura che partorisce i capri espiatori di tensioni sociali è il miglior modo per essere immuni alle semplificazioni e all'odio. Fare luce è del resto, fin da quando si è bambini, il miglior modo per non credere troppo facilmente ai mostri.



Il tecnico nazionalpopolare Prima osannato salvatore d’Italia, poi nemico della gente Storia della conversione mediatica di Mario Monti


C

'è stato un esatto momento, in cui la figura che conoscevamo di Mario Monti, ha cominciato a sfaldarsi. Va detto subito, al di là di quel che si pensa: non è stato il momento in cui ha preso in braccio quello che da lì a poco sarebbe diventato Empy, o il seguire dell'intervista alle "Invasioni Barbariche" accarezzando – quasi ipnotizzato, rilassato come sa chiunque abbia tenuto un cucciolo tra le mani – le orecchie del pacioso batuffolo di pelo. E non è stato nemmeno il "Wow" ripetuto all'intervistatrice a riprova che il suo primo tweet – spiritoso, chissà forse per l'ex presidente un colpo di gioventù – era stato digitato di suo pugno. Forse, forse, un po' tutto era cominciato con la gara da bullo, quella da centimetro della doccia adolescenziale, sul numero dei follower: forse sì, là ce lo dovevamo immaginare che la TV, quella pop, quella "leggera" che nemmeno te lo aspetti e diventa profondo spaccato nazionale, stava creando un mostro. L'esatto momento della trasformazione montiana, però, c'è stato quando è arrivata "la birretta". Quando l'elitarità del tecnico, è scesa al livello del nazional popolare. E non importa che ci fosse di mezzo un

certo Abramo Monti, nonno del professore, che nel lontano 1888 aveva aperto un fabbrica di birra, liquori e acqua minerale, nella città di Lujan, ad una cinquantina di chilometri da Buenos Aires. Il mostruoso contrasto tra la "biretta", così chiara e comune, e l'austerità del bocconiano dei bocconania, ha scoperto il fianco alle meccaniche dei media. E non è il semplice e obbligato passaggio tra l'ilarità del popolo – d'altronde noi italiani abbiamo la straordinaria capacità, cinica quanto romantica, della battuta. E allora, c'era da aspettarselo che agli editoriali austeri sul CorSera, si sostituissero le attenzioni della satira. Ne giravano già di buone: «Quando Monti va a piazza Affari la scultura di Cattelan alza il pollice», oppure

di Emanuele Rossi

Tv, cani e medie chiare: l’esatto momento della trasformazione montiana è stato quando l’elitarietà del tecnico è scesa al livello del nazional popolare

«Monti è talmente istituzionale che quando è nato si è congratulato con la madre», era roba ormai mainstream, ma ancora eravamo dentro al ruolo, tutto condito con gli stessi algidi ingredienti – e ci s'era messa anche la rapidissima genialità di


Twitter a fare da ulteriore catalizzatore (Francesco De Collibus ci mise su un libro, “Monti ha fatto pagare l'Iva a Chuck Norris”, editore Alberti-FreeStyle). La "birretta", si diceva: il punto di non ritorno. Mario Monti, precedentemente eletto salvatore della patria, boccata d'ossigeno dopo anni di apnea per un popolo ormai cianotico, altissimo, quasi intoccabile, rigoroso esempio di rigore, tecnico illuminato, è diventato in quella serata dei primi di febbraio 2013, uno di noi. Un uomo comune. Da lì in poi, Mario Monti, politico e candidato, ormai non più tecnico, non ha avuto pace: complice anche una formazione elettoralmente studiata e soppesata a tavolino, ma che non aveva una goccia del collante passionale che serve per tenere insieme un partito sul campo, ha iniziato l'erosione. E usare il proxy del cagnolino

Empy, per parlare della crisi del partito, è la riprova della debacle che ha portato Scelta Civica – o quel che ne resta –fino a quel due per cento scarso che ne è rimasto adesso. E Monti stesso è sceso, non salito stavolta, al livello: fu lui stesso a definire in un intervista in diretta tv con Lucia Annunziata «Una sorpresa poco corretta», la gag del cane in braccio. Fondo del barile - ma di cosa stiamo parlando? Peccato (quasi) perché Monti a noi italiani, era piaciuto anche un poì: e non solo perché veniva dopo Berlusconi – e per questo ci sarebbe andato bene anche Yoghi come Presidente del Consiglio – ma soprattutto perché incarnava, in un altro ruolo e in un altro modo, un sentimento diffuso, una retorica estesa: l'anti Casta. Monti non era piazze, non era rumore e grida, urla e slogan: Monti era la conoscenza, Monti era la tecnica che ci avrebbe salvato dal medioevo mediocre della politica – quella italiana, quella che ci avevano somministrato e alla quale ci eravamo quasi vaccinati. La freddezza inossidabile dei numeri, magari svuotati di sentimento, ma che in quel momento erano necessari. E per qualche tempo, Monti era la rinascita della borghesia – affogata, poi, in una birretta pallida. C'era


perfino stato un momento in cui il nome del professore – o pardon, rettore – aveva superato quello di Belén nella classifica dei più cliccati dalla Rete: e non ditemi che Monti contro Belén, non è il paradigma dell'Italia. È chiaro allora, che non tanto con la persona, ma con quello che incarnava, fu firmato il don contraignant: e con quella sua posizione talmente al di sopra delle parti, fuori dagli affari correnti, agli antipodi del populismo, e della contaminazione. Quella posizione senza corpo e desideri – e nemmeno troppa anima, fin là – tutta mente e razionalità: la tecnica, appunto. Ma la birretta ha riportato Monti sullo stesso nostro livello: ha lasciato nella condensa del bicchiere, l'impronta dei problemi comuni, il segno della normalità. Il morbido del corpo e dei suoi vizi. E la normalità è spietata, soprattutto con chi di quella normalità non s'è mai sporcato. E allora si sa, le televisioni vivono di ascolti, di share e di consensi: e se prima Monti era SuperMario poi è diventato il tecnocrate mostruoso, l'abominio del popolo, il nemico della gente. Monti impuro, è un Monti non funzionale; è un Monti che lascia spazio alle incursioni popolari del "politico uguale ne-

mico della gente". E la televisione non ha fatto altro che sottolineare questo passaggio, affamata dall'immediatezza del consenso, s'è in fretta cancellata un'immagine precedente – quella del Monti utile, pratico, quasi fondamentale. Il problema è stato che la monster machine televisiva è stata l'evidenziatore di il passaggio sbagliato nella parabola montiana: quella che lui definì "salita in politica", ma che in fondo è stata una discesa nella normalità. Perché in fondo, quelli come lui, non sono fatti per la popolarità del normale; quelli come lui, alle dieci di sera bevono una tisana, una camomilla, o forse un bicchiere di sangue. Di sicuro non una birretta.


Letteratura dell’irrimediabile


Dai bisticci e i “duelli” con il Fatto quotidiano alle difese di Vendola della sua telefonata con Archinà: cosa succede nel dibattito online quando la notizia è inequivocabile e il fatto impossibile da difendere

E

ra l'estate del 2010 quando Nichi Vendola, presidente di Sel, chiama al cellulare Girolamo Archinà, il responsabile istituzionale dell'Ilva. La telefonata comincia con Vendola che, ridendo, si congratula con Archinà per lo “scatto felino” col quale ha strappato di mano il microfono ad un cronista di una tv locale, che incalzava con Riva sui morti per tumore dell'Ilva. La prima testata a pubblicare le intercettazioni, con “risatine” annesse, è Il Fatto Quotidiano che cerca di fare chiarezza sull'accaduto provando a contattare telefonicamente il leader di Sel. Dopo la pubblicazione dell'intercettazione, la redazione del giornale rilascia una nota: «Per tutta la giornata di giovedì 14 novembre i cronisti de Il Fatto Quotidiano hanno provato

a contattare telefonicamente Vendola e i suoi collaboratori. Il cellulare del governatore ha sempre suonato a vuoto. E nonostante l’invio di sms, il leader di Sel non ha mai risposto nè richiamato». Vendola non ha risposto al telefono, ma poco dopo lo scoop decide di querelare il giornale rilasciando una dichiarazione: «La telefonata estratta dal suo contesto è un'operazione lurida, un tentativo di sciacallaggio e di linciaggio [...] Contro di me è stata fatta “un'operazione volgare e vigliacca”: il cancro ha abitato la mia vita...» chiedendo anche scusa al cronista aggredito da Archinà. “Il duello”, chiaramente, non poteva finire così e Il Fatto Quotidiano ha replicato in maniera ancor più dura alla querela: «In un paese ormai scivolato dal

«La telefonata estratta dal suo contesto è un’operazione lurida, un tentativo di sciacallaggio e di linciaggio. Contro di me è stata fatta un’operazione volgare e vigliacca»

di Mirco Calvano

declino al degrado anche Nichi Vendola varca il Rubicone e passa dalla categoria dei politici a quella dei politicanti. […] il Governatore pugliese non si scusa. Non si dimette. E anzi querela ilfattoquotidiano.it impapocchiando per l’occasione una pietosa e bugiarda spiegazione». L'articolo continua a surriscaldare gli animi e di fatto sposta l’attenzione dalla notizia al bisticcio, una specie di letteratura privata tra Vendola e il giornale di Padellaro. Dopo questa disputa, il video delle intercettazioni ha fatto il giro del web, rimbalzando da un sito all'altro e sui vari social network, provocando reazioni contrastanti; tra commenti molto duri e insulti omofobi il trending “#Vendola” è diventato uno dei più popolari:


«Difendo la biografia individuale e storia collettiva da calunnia insopportabile»

«#Vendola ha chiesto a Il Fatto Quotidiano per danni centinaia di migliaia di euro, più #Ilva». La Gazzetta del Mezzogiorno.it mette in apertura del pezzo una frase dai toni “epici”: «Difendo la biografia individuale e storia collettiva da calunnia insopportabile esercitata con lo stile del processo mediatico», Vendola si giustifica con i suoi conterranei dicendosi quasi costretto a quei toni scherzosi per “addolcire” Archinà a rilasciare qualche dichiarazione. L'articolo continua con una dichiarazione di Abbate, il giornalista aggredito, che dopo aver visionato atti e documenti replica: «Il problema non è tanto la risata seppure meschina. Il problema è che mi fa specie che un uomo di sinistra, un 'compagnò come lo stesso Vendola si definisce, dovesse piegarsi ai poteri forti, tenerseli buoni. Lui che diceva di combattere i giganti poi cercava di ingraziarseli attraverso battute. E' un’immagine riduttiva e piccola di Vendola». La cosa che colpisce non è tanto l'articolo ma i commenti sotto del popolo della

rete, commenti che in maniera educata accusano solo Vendola di essere “un poeta” e di fare “serenate” che “non fanno più effetto, anzi non servono più”.

Un titolo molto più d'effetto è quello scelto da communianet.org che, parafrasando Bakunin, titola l'articolo “Una risata li seppellirà”. In realtà tutto il pezzo più che analizzare le intercettazioni in questione, sembra quasi un lungo riassunto dai toni critici verso l'operato della sinistra Italiana, accusata di essere stata per tutto il Novecento subalterna «a un potere forte, fortissimo, del capitalismo italiano [...]», elencando caso per caso i vari precedenti da D'Alema a Bertinotti fino ad arrivare a Vendola e a Pisapia. Communianet.org conclude cercando quasi di “tranquillizzare” il Presidente della Puglia nominandolo solo come figlio dell'ennesimo fallimento della sinistra : «[…] Fanno un po' sorridere, però, i commenti gaudenti del resto della sinistra politica che, pensando di lu-


crare vantaggi elettorali, fa il tiro al piccione nei confronti di Vendola. Spesso, come visto, sono figli della stessa impresa, solo declinata un po' più diversamente. Sicuramente, sono figli della stessa sconfitta. Il problema di una ricostruzione radicale, che abbiamo posto a fondamento della nostra impresa, si pone senza alibi o fingimenti. Una risata li seppellirà, anzi lo ha già fatto».

Mediapolitika.com rincara la dose analizzando prima l'ascesa politica di Vendola e poi le cause del suo “declino”; da quanto emerge dai vari siti/blog le intercettazioni non mostrano solo l'indignazione popolare della rete, ma tirano anche le somme dell'ennesima caduta della sinistra che continua a perdere consensi. Il leader di Sel, era visto, quasi, il nuovo Messia della sinistra Italiana; d'altra parte la questione dell'Ilva è un argomento che sta a cuore a tutti e le battaglie di Vendola per Taranto erano sicuramente un punto a suo favore. L'uomo giusto al posto

giusto, forse, e mediapolitika conclude: «Durante la sua vita politica, Vendola ha più volte usato a suo vantaggio il suo spiccato lato umano, la sua sensibilità da sempre affiancata ad un forte spirito combattivo. Ecco, dopo quella telefonata questo personaggio non esiste più e se non esiste più Vendola, non esiste più neanche Sel». Tramonta così l’ennesima speranza di quella sinistra movimentista alla continua ricerca di una forza partitica che riesca a tramutarsi anche in forte rappresentanza parlamentare. Dopo il fallimento della Rifondazione Comunista di Bertinotti, è ora il turno di Vendola e di Sinistra Ecologia e Libertà.”

La redazione di giornalettismo.com nell'articolo pubblicato punta sui tweet e sui post “migliori” che commentano l'accaduto o insultano Vendola; il sito è riuscito a raccogliere le “perle” più pregiate della rete con annesse elaborazioni grafiche, tra le più riuscite la strana metamorfosi di “Peppa Pig” in “Nichi Pig”, sicuramente agli

«Durante la sua vita politica Vendola ha più volte usato a suo favore la sua sensibilità»



utenti della rete non mancano l'ironia e la fantasia. Molto, molto diversi i toni di un blog meno giornalistico come bastacasta.altervista.org, che senza mezzi termini titola l'articolo «Vendola infame! Ride al telefono sui morti di tumore dell'Ilva. Intercettazione choc pubblicata dal Fatto Quotidiano», in realtà è tutto fumo e niente arrosto; “bastacasta” si ferma al titolo e nel pezzo non fa che spiegare e analizzare il video e l'intercettazione; è solo il classico titolo ad effetto. E poi ancora Italiaoggi.it, «Niki Vendola adesso è tal quale Berlusconi», l'articolo analizza l'ormai già nota intercettazione e arriva fino a una telefonata fatta al leader di Sel da Repubblica.tv che non va sicuramente a suo favore. Quando poi viene chiamato da Repubblica.tv per fornire la sua versione, Vendola si inalbera contro l'utilizzo fatto delle intercettazioni telefoniche, manco fosse un peones berlusconiano qualunque. Parla di “tentativo di linciaggio”, di “operazione lurida”, di “sciacallaggio puro”. Quella pubblicata dal

Fatto è una «intercettazione decontestualizzata, tirata fuori dal cilindro come tentativo di dare fondamento a un'accusa che secondo me non ha fondamento, è il tentativo di fare il processo prima, di farlo nelle piazze e di avere una facile condanna». Non sono parole di Silvio Berlusconi, sono parole di Nichi Vendola». Infine Dirittodicritica solleva un dibattito nei commenti relativi l'articolo «Le risate di Vendola e quella Sinistra che non c’è più» anche in questo caso più che l'attacco al fatto in questione c'è l'attacco a Vendola e alla sinistra italiana. La questione delle intercettazioni ha aperto ulteriormente la ferita: «Eppure, le divertite e sguaiate risa del presidente della Regione Puglia sono il metro di una sinistra che ha ormai perso la sua rotta. Una sinistra che alza il telefono per sottolineare che non farà mancare il proprio appoggio a questo o quello, ma non si tratta più di operai. Anzi. Di potenti con cui si ride sguaiatamente delle sorti di un cronista».

«Quella pubblicata dal Fatto quotidiano è un’intercettazione decontestualizzata»


La Barilla del giorno dopo

Tra twitter, siti online e facebook: modi e tempi di uno scoppio ritardato


O

di Lorenzo Ligas

re 18.30 di mercoledì 25 settembre: consueta puntata de La zanzara, condotta da Giuseppe Cruciani e David Parenzo. Ospite al telefono: Guido Barilla. C’è grande differenza tra un “mostro” mediatico e un “mostro” che invece nasce da una costruzione mediatica, ed è tutta nel lasso di tempo che intercorre tra il fatto e il racconto che se ne fa, con annesse critiche, levate di scudi e polemiche. Le frasi dette dall’amministratore delegato della Barilla durante la trasmissione «Non metterei di Radio 24 sono mai in una nostra state prese e date in pasto a giornali, sopubblicità una cial e commenti su famiglia gay; ogni piattaforma siamo per quella possibile. Persino, tradizionale» anzi, sopratutto il suo post di scuse su facebook è stato bombardato da quasi 7mila commenti, due terzi dei quali rabbiosi e inviperiti. Le tensioni sociali sono per natura caricate a molla e una frase di competenza del settore “omosessualità e omofobia” è un’occasione ghiotta perché tutti i principali quotidiani online marchino i loro server con le parole di Barilla e facciano traffico sui loro rispettivi siti. Così quindi il Fatto quotidiano alle 11.30: «Non faremo uno spot con una fami-

glia gay perché la nostra è una famiglia tradizionale. Non è per mancanza di rispetto agli omossessuali, che hanno diritto di fare quello che vogliono senza disturbare gli altri, ma perché non la penso come loro»; poi il Messaggero alle 11.32: «“Non metterei in una nostra pubblicità una famiglia gay perché noi siamo per la famiglia tradizionale”, ha detto Barilla, che, quasi a voler anticipare le proteste che quella frase avrebbe sollevato, si è poi rivolto alla comunità omosessuale: “Se i gay non sono d'accordo, possono sempre mangiare la «Se i gay non pasta di un'altra sono d’accordo, marca. Tutti sono liberi di fare ciò che possono sempre vogliono purché mangiare la pasta non infastidiscano di un’altra gli altri”». Il Cormarca» riere della Sera a mezzogiorno: «Sono per la famiglia tradizionale, non realizzerò mai uno spot con i gay» e poi Repubblica che per prima ha rilanciato le “omofobe” parole (10.16): «Non faremo pubblicità con omosessuali, perché a noi piace la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d'accordo, possono sempre mangiare la pasta di un'altra marca. Tutti sono liberi di fare ciò che vogliono purché non infastidiscano gli altri». A ogni testata corrisponde un collage che per necessità di im-



mediatezza semplifica e cambia l’ordine delle parole, delle virgole e in alcuni tratti del senso di una dichiarazione che presa per intero non può fare a meno di includere le domande dei due conduttori: Cruciani: «Perché non fate uno spot con una famiglia gay?» Barilla: «No diciamo, noi abbiamo una cultura vagamente differente» Cruciani: «In che senso scusi» Barilla: «Noi il concetto di famiglia sacrale rimane uno dei valori fondamentali dell'azienda...» Cruciani: «Cioè non fareste mai uno spot...» Barilla: «No, non lo faremo perché la nostra è «Se gli piace la una famiglia tradinostra pasta e la zionale». Parenzo: nostra «Eh ma la pasta la comunicazione, mangiano anche loro» Barilla: «E va la mangiano. bene, se gli piace la Altrimenti ne nostra pasta e la nofaranno a meno» stra comunicazione la mangiano; se non gli piace e non ci piace quello che diciamo faranno a meno di mangiarla e ne mangeranno un'altra» Cruciani: «Cioè lei non farebbe mai uno spot con una famiglia omosessuale seduta...» Barilla: «No non lo farei, ma non per mancanza di rispetto verso gli omosessuali che hanno diritto di fare quello che vogliono senza disturbare gli altri, ma perché non la penso come loro e penso

che la famiglia a cui ci rivolgiamo noi sia una famiglia classica». Alterazioni significative, come l’inclusione della parola negativa “mai” nel pensiero di Barilla, vengono effettuate dalla versione originale alle frasi riportate nei siti d’informazione. A questo punto però il sasso è stato lanciato e la bomba social deflagra; e senza entrare nel merito della reale o meno omofobia delle parole di Guido Barilla, si scatena sul web il boicottaggio guidato dall’hashtag su twitter #boicottabarilla che subisce un’impenL’indignazione nata vertiginosa fin però monta la quasi a toccare la mattina dopo: vetta di 3mila tweet, mentre i commenti l’hashtag affollano le bache- #boicottabarilla che degli utenti fatocca i 3mila cebook, gli status si tweet aggiornano e la pagina della Barilla viene mitragliata mica tanto a salve. Ma quando accade tutto questo? La mattina dopo. La costruzione del “mostroBarilla” avviene con ritardo rispetto alle affermazioni del “mostro” stesso, addirittura il giorno dopo. Ripassando i tempi infatti si nota come già alle 18.46 del 25 novembre un post sulla pagina facebook de La Zanzara


segnali: «Anche a Guido Barilla non sono piaciute le parole della presidente Boldrini sulla donna e le pubblicità». Il riferimento non include nessun accenno a quanto riportato sopra e i commenti non segnano picchi di indignazione alternata a critica se non per quanto riguarda le dichiarazioni della Boldrini del giorno precedente sulla donna nelle pubblicità. Segue silenzio. Passano tre ore e un tweet di @azael riporta per primo, sintetizzando ironicamente, il dialogo tra Cruciani e l’ad della multinazionale: «Ba-

«Una famiglia tutta pipe e ditalini rigati», l’account twitter @azael riporta ironicamente e per primo l’intervista andata in onda

rilla: "Non faremo mai spot con i gay, siamo per la famiglia tradizionale". Una famiglia tutta pipe e ditalini rigati». Seguono altre due ore di silenzio, poi un altro tweet: «Guido Barilla: "Non metterei in una nostra pubblicità una famiglia gay, siamo per quella tradizionale". Dove c'è #Barilla, c'è #omofobia» e una replica

all‘1.09 di notte: «Oh santo cielo! Ma un'azienda potrà scegliere il suo target commerciale di riferimento o dovete rompere sempre le palle? #barilla». Le dichiarazioni di Barilla, ore 19.00 del 25 settembre, non trovano una risposta indignata, ma nell’ordine una critica, una battuta e un avvallo. Quella sera nasce anche l’hashtag #boicottabarilla, ma la protesta non trova immediato seguito, nonostante i toni forti del tweet: «#Barilla contro i #gay nei suoi spot. Col cazzo che comprerò mai più quello schifo di pasta che fanno. #boicottaBarilla #omofobia». Sulla pagina facebook del programma c’era già, è vero, chi criticava la frase sugli omosessuali, ma c’era anche chi obiettava subito dopo: «Il tema è la boldrini non la pasta». Persino quando alle 23.30 un tweet di @Peppi_Nocera prova a lanciare l’assedio con «L'hashtag è #boicottabarilla , indignatevi in massa, grazie» la risposta è

«L’hashtag è #boicottabarilla, indignatevi in massa, grazie», le risposte notturne a questo tweet continuano però a essere ironiche


tutt’altro che indignata (v. foto). Lo sconcerto monta dalle 8.30 del giorno dopo grazie anche a tweet di personaggi più seguiti come Costantino della Gherardesca che scrive: «L'omofobia del

ripiegare con un video abortivo di scuse (link in foto) e c’è la storia dell’opinione pubblica spaccata a metà da un’indignazione divenuta notizia solo 13 ore dopo il fatto che l’ha indignata; e da una protesta che non ha subito avuto seguito perché non ospiLa macchina del passaparola e del tata da canali mediatici approretweet carbura, ma solo a metà priati, e che ha lasciato per un mattinata si parla apertamente di discreto lasso di tempo che la criomofobia tica restasse critica di fronte a una gaffe che senza l’eco mediaricco signor Barilla è esattamente tica sarebbe restata una gaffe. quella che dobbiamo contrastare come possiamo. Non tolleratela, #boicottabarilla» citando tra i primi la parola “omofobia”; la macchina del passaparola e del retweet così carbura e aumenta l’indignazione quando su Repubblica esce l’articolo «“No a famiglie gay negli spot". Bufera sul web contro Barilla». Da lì in poi c’è la cronaca di una giornata nera per la multinazionale emiliana costretta poi a


Mostri molossi

La storia cancellata di Salernitana-Nocerina


"T

Il 10 novembre il derby viene interrotto e i tifosi ospiti indicati dalla stampa come responsabili di minacce ai propri giocatori. La verità è però un’altra di Pasquale Raffaele

errore", "follia", "ostaggio", sostantivi semanticamente riconducibili a gesta di matrice terroristica, a un commando fondamentalista mosso da cieca follia, follia che a sua volta genera terrore tanto nelle "vittime materiali" prese in ostaggio quanto nella sconfinata comunità genericamente indicata come "opinione pubblica". Gli atti terroristici riportati dai media compattano le comunità da essi indirettamente investite, il terrore generato da azioni imprevedibili spinge a due reazioni indissolubilmente interconnesse fra loro: paura e condanna. Laddove quest'ultima appare come la più logica conseguenza di un modus operandi incomprensibile senza un profondo coinvolgimento attivo in simili azioni, il sentimento di paura è più

facilmente inoculabile da parte di fattori esogeni alle vicende, in particolare a opera di quelli con maggiore visibilità e influenza in seno alla suddetta opinione pubblica, segnatamente il maxi-cosmo dei mass media. Il costante e quotidiano bombardamento di notizie provenienti dal flusso informativo impone all'individuo-massa la ricerca di "bussole", ovvero lineeguida nell'interpretazione dei "fatti" o, per essere più esatti, dei racconti e delle ricostruzioni attuate dai mezzi di comunicazione secondo un principio basilare nella propagazione dei "battiti": la dimensione del tamburo è direttamente proporzionale al grado di diffusione della percussione, figurarsi se suonano tutti la stessa nota. Premessa teorica forse

La ricostruzione dei fatti incolperà gli ultras nocerini tralasciando completamente l’antefatto: il dietrofront rispetto agli accordi con il prefetto


stucchevole ma a maggior ragione imprescindibile se i fatti in questione attengono un semplice evento sportivo come una partita di calcio o, riprendendo l'eco proveniente dalla grancassa di cui sopra, la "non-partita". Raramente si è assistito a un coro di demonizzazione così intonato ai danni di una tifoseria come è avvenuto per i supporter della Nocerina lo scorso 10 novembre, a seguito di un derby mai disputato e durato appena una manciata di minuti in campo. L'"ordigno" deflagra allo stadio Arechi di Salerno nel primo pomeriggio di una giornata avara di breaking news capaci di destare il lettore/spettatore dal consueto torpore domenicale: il carrozzone mediatico può così gettarsi a capofitto sui detriti per fornire un racconto di taglio prettamente emozionale, ideale a conferire al "fattaccio" quel sensazionalismo necessario a destare l'attenzione emotiva del fruitore, quella risaputamente meno lucida e meno adatta al discernimento. I siti web collocano in cima alla colonna delle news l'"orrore" di Salerno, si finge così di inter-

rogarsi sulla "miccia". Anche in questo caso si riscontra unanimità nell'individuazione delle cause: i tifosi della compagine di Nocera Inferiore, per insindacabile decisione delle autorità locali impossibilitati a raggiungere l'impianto salernitano dove era in programma dopo ben 18 anni una delle stracittadine più sentite della provincia campana, "hanno minacciato di morte" i propri giocatori nell'eventualità in cui avessero disputato l'incontro senza i propri supporter sugli spalti. In soldoni l'ennesimo deprecabile episodio di "follia ultras", il solito manipolo di criminali che tiene letteralmente per le palle il mondo pallonaro. Una volta individuato il "mostro", già più e più volte apostrofato come tale in passato, può partire il bombardamento mediatico: il pachiderma si ingrossa a dismisura per un mese intero cibandosi dei D.A.SPO. emessi a seguito della partita, le forze dell'ordine si mostrano solerti nel punire in maniera esemplare e le testate si sfidano nella messa alla pubblica gogna di chi è coinvolto nelle operazioni,


il Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive viene esteso addirittura al pilota di un aereo che aveva sorvolato lo stadio Arechi sventolando la scritta "Rispetto per Nocera e gli ultras". Ciononostante, nessuno pare minimamente interessato a interrogarsi davvero su una dinamica distorta dalla lente d'ingrandimento informativa e si cercano ulteriori ingredienti da infilare nel calderone. Accade così che la notizia di scontri fra tifosi rossoneri e umbri in occasione del pre-partita della prima di campionato contro il Perugia lo scorso 30 agosto, pressocché ignorata per mesi, assume inusitata rilevanza una decina di giorni dopo il "derby della vergogna" a causa di una spettacolare operazione con cui la polizia arresta 15 ultras rossoneri per quegli incidenti, mossa che ha buon gioco nel mettere ulteriormente in ombra la tifoseria molossa, additata così come violenta e recidiva. Eppure tirava un'aria diversa lo scorso ottobre, quando si iniziò a discutere di questioni legate all'ordine pubblico negli imminenti

derby campani del girone, ancor più in quelli provinciali – particolarmente sentiti - che di lì a poco avrebbero coinvolto Salernitana, Paganese e Nocerina per l'appunto. Riportiamo fedelmente quanto riferito giovedì 31 ottobre da Salerno Notizie, portale di informazione locale, in merito alle stracittadine provinciali: «I passi in avanti sono stati fatti. I tre derby in un raggio di 18 km tra Salernitana, Nocerina e Paganese si giocheranno con i tifosi sugli spalti ma molto, se non tutto, dipenderà dalla partita dell’Arechi tra granata e rossoneri in programma il prossimo 10 novembre. La partita si giocherà a mezzogiorno, per questioni di ordine pubblico». Dunque, Salernitana-Nocerina si sarebbe dovuta disputare in maniera regolare secondo gli accordi stipulati fra prefetto, questore e amministrazioni salernitane (tanto comunale quanto provinciale), lasciando tuttavia l'ultima parola in merito proprio al questore De Jesu. Da qui scaturisce il secondo elemento largamente omesso, il vero casus belli: è proba-

«I tre derby si giocano con i tifosi» era l’accordo tra prefetto, questore e comuni


bile che tale clima di distensione sia stato agevolato dalla grande disponibilità costantemente mostrata dagli ultras nocerini, fra i pochi ad aver optato da subito per un massiccio tesseramento nonostante la risaputa e generalizzata avversione delle curve nei confronti di tale strumento, additato come lacunoso e mosso da svariati interessi economici. Insomma, Salernitana-Nocerina doveva fungere da banco di prova per futuri eventi a rischio sicurezza e i molossi, come sempre, intendevano presentarsi a Salerno con le carte in regola. In ottemperanza a tutto ciò, avevano predisposto minuziosamente anche gli aspetti logistici, rispettando l'impegno di effettuare la trasferta soltanto con pullman ed evitando mezzi privati, più complicati da controllare per chi deve gestire l'ordine pubblico. E invece, a due giorni dal match, l'immotivata doccia gelata: divieto di trasferta per i rossoneri, azione preventiva ritenuta necessaria per manifesta inadeguatezza di prefettura e questura di Salerno nella gestione del-

l'evento. Ex ante, iniqua e unilaterale, dal momento che per i tifosi di casa non è prevista alcuna restrizione. Ma la tessera del tifoso non serviva esattamente a questo, non era stata forse pensata per garantire l'accesso alle partite in cambio, fra l'altro, di una cospicua rinuncia alla propria privacy, l'accettazione di una schedatura di massa pur di poter assistere alle gare in trasferta della propria squadra del cuore? A una violazione così palese degli accordi i molossi oppongono la grinta di chi avverte nitidamente di essere stato preso per i fondelli, decidendo di rivolgersi in prima persona a coloro che devono scendere in campo. Domenica mattina, poco prima della partita, i calciatori vengono raggiunti nel luogo del ritiro, un hotel di Mercato San Severino – dunque non a Salerno, dove non hanno mai messo piede, altra grave inesattezza da sottolineare. Qui li invitano a un gesto mediaticamente forte: non disputare la gara per dare voce alla legittima protesta di chi ha agito secondo le regole, salvo poi vedersi


buggerato proprio dai presunti garanti di quei principi. In questo preciso istante si genera il mostro, quando si inizia a vociferare di presunte minacce di morte ai calciatori e nei siti di informazione spuntano come funghi link che invitano a verificare tale mostruosità guardando i video dei sanguinari figuri in azione. Eppure, nessuna delle brevi riprese accerta in alcun modo minacce così pesanti, senza peraltro considerare la più ovvia considerazione di buon senso: era davvero possibile parlare di attentati alla vita dei calciatori in un luogo zeppo di unità delle forze dell'ordine che non aspettavano altro per intervenire? Nel mezzo – letteralmente - si colloca l'apparente ignavia dei dirigenti nocerini, dimissionari in blocco nel tentativo di prendere le distanze dal gesto e, al contempo, alla ricerca di una verginità d'immagine personale e societaria, quest'ultima indispensabile per continuare a ottenere dalla Lega Pro i contributi economici garantiti alle squadre iscritte al campionato di terza serie,

autentica manna per realtà calcistiche così piccole. Qui c'è un'altra enorme macchia nel presunto candore, ovvero i contenuti del rapporto arrivato sulla scrivania del procuratore federale Stefano Palazzi – incaricato di indagare sull'accaduto in quella mattinata dinanzi all'hotel – nel quale si sostiene che alcuni dirigenti della Nocerina (di cui sono indicati i nomi), “non accorgendosi della presenza del sostituto procuratore federale e del dirigente della Digos (nomi)… «avrebbero detto ai loro calciatori sul pullman che andava allo stadio di Salerno, “ragazzi, quando sarete interrogati tutti… dovete dire di essere stati minacciati di morte…». Inoltre, sempre non accorgendosi di essere sentiti, altri dirigenti della Nocerina (anch’essi identificati) avrebbero parlato di chiudere “rapidamente” la gara.

I tifosi si sentono traditi e invitano così i propri giocatori a un gesto “mediaticamente” forte


Gabriele Paolini fuori dallo schermo


L’arresto del celebre “disturbatore televisivo” raccontato da chi lo conosce in un articolo del 12 novembre 2013 pubblicato su minimaetmoralia.it

C

onosco Gabriele Paolini da più di vent’anni. Posso dire che gli voglio bene. Eravamo nello stesso liceo, anche se in due classi diverse. Frequentammo un corso di teatro insieme “un paio di volte a settimana il pomeriggio” e ci conoscemmo lì; lo teneva uno dei più grandi maestri del teatro italiano, Pino Manzari (allievo a sua volta di Orazio Costa). Gabriele era istrionico e manierato già a quindici anni, sapeva rifare le scenette di Totò a memoria. Aveva talento, sapeva stare su un palco. In classe e a casa delle materie curricolari non studiava niente, passava molto del suo tempo nei dintorni del mondo televisivo; già allora. Faceva sega a scuola e stazionava davanti agli studi televisivi della Dear Film per ore per farsi riempire i quaderni di autografi e foto, li collezionava, ne aveva a centinaia. Si faceva accompagnare da altri compagni incantati anche loro dalla luce taumaturgica del piccolo schermo. Un paio di volte ci andai anche io, adepto alla Dea Tv come chiunque sia cresciuto negli anni ’80, a fare la posta alle comparse che entravano negli

di Christian Raimo

studi Dear, in attesa di qualche faccia più nota, una ballerina, Gigi Sabani. Cazzeggiavo con lui con lo spirito con cui a quindici, sedici anni si fanno molte cose, si fuma la prima canna, si va a guidare i go-kart, si va a fare il puttan-tour con la macchina del primo che ha preso la patente. L’adolescenza in una qualunque periferia dell’era pre-internet. Per il resto, in modo molto conformista, continuavo a studiare, m’innamoravo, suonicchiavo in qualche gruppo, facevo teatro, organizzavo assemblee e cineforum, il solito. Gabriele invece no: vendeva una sua idea per svoltare ai quiz sulla patente a Gente motori e guadagnava – a suo dire – 10 milioni, denunciava a Forum la professoressa di greco e latino per averlo bocciato, ogni tanto spariva e raccontava storie incredibili: di persone che l’avevano rapito, di preti che l’avevano violentato. Era sempre schiettissimo sulle sue cose personali, oppure: millantava sempre. Non si diplomò. Non s’iscrisse all’università, ma ci cominciammo a incontrare spesso la


«Mentre chiacchieravo con lui sul bus, pensavo gli sarebbe durata qualche altro mese, magari qualche anno, non di più»

mattina sull’autobus; abitavamo a Casal De’ Pazzi, periferia Roma Nord-Est, e la mattina prendevamo tutti e due il 311 per arrivare alla metro. Io andavo a frequentare le lezioni di filosofia vicino Piazza Bologna, lui aveva deciso di seguire le dirette di quello che accadeva nel mondo. Avevamo entrambi i capelli lunghi e gli occhiali, lui aveva sottobraccio una pila di giornali, io un paio di libri fotocopiati di antropologia culturale. La mattina iniziava la giornata “lavorativa” informandosi su quelli che si presentavano come gli appuntamenti clou; poi si dirigeva verso Palazzo Chigi o il Centro Palatino o qualunque altro posto dove immaginava si potesse imbattere in una selva di telecamere. Aveva cominciato a fare quello che avrebbe fatto per anni: il disturbatore. Apparire in video e cercare di prendersi gli insulti se non i calci di chi ha il

mano il microfono. Mentre la mattina chiacchieravo sull’autobus con lui di cinema, la commedia all’italiana, Fellini, i nostri amici registi in erba, i nostri amici morti giovanissimi, pensavo che gli sarebbe durata qualche altro mese, magari qualche anno, non di più. Era durissimo, pensavo, fare il pendolare del presenzialismo, mantenersi fedele a questa figura di travet delle apparizioni televisive, autunno e inverno, sole e pioggia, solo contro tutti. Come sappiamo non ha smesso invece, mai. Anzi, nel tempo, è diventato leggendario, si è automitizzato. Ha messo su un sito, decine di persone in Italia e all’estero hanno scritto delle tesi su di lui, è stato il cocco degli studenti di Scienze della Comunicazione che si vogliono occupare dell’argomento strambo, è entrato in ogni tipo di Guinness, di enciclopedia, di vocabolario. Dire Paolini oggi vuol dire indicare qualcosa che prima di lui non esisteva. Ha inventato un tipo di

Christian Raimo (in foto) è scrittore e traduttore: ha collaborato con minimum fax, per cui ha trodotto Bukowski e Foster Wallace


esistenza. Per anni, come tutti, mi sono chiesto di cosa campasse. A quanto ho capito, molti soldi gli provenivano dalle querele che spor«Del rapporto coi geva contro chiunsuoi famigliari ci que lo insultasse. Si sono dei suoi era trovato un avvocato bravo. Mi riresoconti personalissimi, cordo – ma tutto quello che ho racdolorosi sul suo contato finora è sito» molto probabilmente falsato da una memoria lontana e deformata e dalle versioni dei fatti che Paolini inventava o trasfigurava – che aveva denunciato anche il padre e la sorella. Del rapporto col padre e con i suoi famigliari, ci sono dei suoi resoconti personalissimi, dolorosi, iperconfessionali sul suo sito: non so cosa ci sia di vero, fanno comunque male a leggerli. Comunque, pare, riusciva a farsi dare soldi da chiunque: querelava anche se lo apostrofavi con uno Stronzo! su un treno. Dopo qualche tempo al mestiere del disturbatore televisivo aveva affiancato quello di Profeta del Condom: per anni ha portato avanti una battaglia personalissima per la liberazione sessuale contro la Chiesa e le sue posizioni in materia di contraccezione. C’è su internet una foto famosa di lui che parla all’orec-

chio di Giovanni Paolo II per invitarlo a non condannare più il preservativo. Al tempo stesso aveva cominciato a girare porno, a farsi amiche le pornostar, a fare spettacoli porno dal vivo, a organizzarli, a organizzare orge. Aveva messo su un sito, Paolinihard.it, in cui si potevano vedere decine di sue foto nude, del suo ex-ragazzo a cui voleva far pagare con questo sputtanamento il dolore dell’abbandono, o di Gabriele stesso, spesso spalmato di merda. Mi dicono anche che abbia fatto una comparsa nell’ultimo film hard di Sara Tommasi. Quando tornavo ogni tanto a Casal De’ Pazzi dopo aver cambiato casa, lo rincontravo al bar e parlavamo sempre delle solite cose (amici, cinema, tv, Enzo Jannacci, Walter Chiari, Alberto Sordi…) e poi di lui. È difficile avere a che fare con Gabriele senza parlare di lui. Ha sempre saputo di «Cominciò a essere un narcisista girare porno, a patologico e ha semfarsi amiche le plicemente deciso di pornostar e assecondare questa aveva messo su patologia, di usarla per le sue battaglie un sito hard» sociali e per farci i soldi. Parlare di lui voleva dire parlare di sesso, di film porno, di lui che dormiva letteralmente un’ora a notte, di sonniferi e psi-



cofarmaci, di desiderio di suicidio, di un nostro amico caro che si era ammazzato. Parlare di lui voleva dire parlare di lui che stava male. Parlare di lui lo faceva stare, mi sembrava, un po’ «Ho sempre meglio. pensato che Ho sempre penPaolini sia stato la sato che Gabriele Paolini sia stato, per mia coscienza sporca: quello che certi versi, la mia sporca. avrei voluto fare, coscienza Quello che avrei poma non ho fatto» tuto o voluto fare ma non ho fatto, l’incarnazione quasi cristica – anche nel corpo non somiglia a uno strano Cristo un po’ vizioso un po’ nerd? – della fede per la televisione, per l’apparenza mediatica, per l’esserci sempre. Per la visibilità. Quell’esibizionismo simulato, quel narcisismo rivendicato, quel desiderio di fama da quindici minuti che tutti nell’era berlusconiana hanno seguito per poi allontanarsene o rimpiangere, Gabriele Paolini l’ha incarnato ogni giorno, sempre, più di qualunque Truman show mai concepibile: ha indossato una maschera che non si è mai tolto, rinunciando a un fuori, a un camerino, a una forma qualunque di realtà senza schermo. Quando ho letto che ieri l’hanno arrestato per prostituzione minorile o per commercio

di materiale pedopornografico (i giornali non si spiegano mai bene sui reati: basta che lancino l’onta definitiva e contenti così), ho pensato che mi dispiaceva molto. Per i ragazzini coinvolti moltissimo se questa accusa è vera, ma anche per lui. In milioni abbiamo riso o ci siamo incazzati per le sue apparizioni demenziali e disperate in mille telegiornali degli ultimi vent’anni. Nessuno ha pensato, nemmeno io che lo conoscevo prima che diventasse un’icona, che la sua incarnazione mostrava (non nascondeva) anche la nostra di solitudine, anche il nostro bisogno d’affetto. Visto che da ieri (10 novembre, ndr) è diventato, ancora di più se possibile, l’oggetto di un disprezzo generale e di uno stigma morale univoco, penso che posso permettermelo di dire che mi dispiace molto. Tra tutte le persone che non lo vorranno più sentire, che lo avranno già bollato come Mostro, dopo averlo etichettato per anni come Idiota, viene da dire soltanto che mi piacerebbe fare quattro chiacchiere, forse in qualche vecchio cellulare ho il suo numero, forse in qualche vecchio cellulare lui ha il mio.


Settimanale quotidiano

Pedro Pastorius


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