Donne senza lo Stato

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numero 22

Il Serale

19 novembre 2012

Settimanale quotidiano

Donne senza lo Stato

L’emancipazione è annegata nella violenza


H

o subìto una violenza. È stato mio padre, mio fratello, mio cognato. Sei stato tu. Passerò i prossimi cinque anni, se va bene, a dimenticarmi di essere stata violata come persona. Poi altri cinque, arrotondo, per rimpiangere il diritto di essere considerata donna oltre ogni ragionevole buco, o seno. Poi non perderò tempo, come nei romanzi, a chiedermi quanti mesi passeranno prima di fidarmi ancora di una persona, figuriamoci di un uomo, figuriamoci di un marito. Farò cazzate e le farò da sola. Scatenerò l’ira di chi mi vorrà più coerente con gli altri e mi dirà che non mi devo chiudere in me stessa. Verranno gli psichiatri, gli amici e gli amici psichiatri; nessuno di loro però avrà tempo di rimanere per la notte perché, pur avendo 38 anni, ho ancora paura del buio. Non dico loro niente perché non voglio beneficienza e poi: cosa dovrei dire? Nemmeno tu vuoi sentire il racconto delle percosse e degli schiaffi, né quello delle penetrazioni. Non voglio un ascolto, non voglio più avere niente a che fare con quel dolore, non voglio il sostegno delle istituzioni, non voglio la prevenzione senza la cura, né mi servono 13 articoli di una legge contro lo stalking. Voglio che ti metti nei miei panni e che per un minuto tu comprenda che sono diversa da te, che sono sola e arrabbiata. E poi voglio che tu te ne vada.*

di Lorenzo Ligas


«Un segnale forte»

*L’editoriale non è una testimonianza. Il 15 ottobre scorso il Governo ha convertito in legge il Decreto Legge n. 93, Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere. Questo è il numero scritto un anno fa esatto, ma problemi qui evidenziati sono rimasti gli stessi, per sbaglio nemmeno lambiti dalle nuove norme


Femminicidio, il confine del neologismo Cosa c’è dietro una parola nuova e abusata? La linea che distingue l’omicidio, la propaganda e la protezione della violenza con il silenzio


«P

enso che in Italia sia stata coniata una parola nuova: “femminicidio”; questo per dire che siamo alla 102esima donna uccisa dal suo maschio proprietario». Sono le parole del candidato alle primarie del centrosinistra Nichi Vendola. Cosa si cela dietro questo neologismo, usato soprattutto per appelli televisivi? Probabilmente ciò che nasconde è la degradante realtà di un Paese che regola la vita comunitaria delle donne attraverso la soggezione e la sopraffazione. A partire dalla disparità di trattamento economico, fino al vero e proprio terrore psicologico e fisico. Il femminicidio è «la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale – che comporta l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dello Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e alla esclusione dello sviluppo e della democrazia». Non più omicidio tout court, ma omicidio di genere e violazione sistematica dei diritti umani sulla base del genere sessuale di appartenenza. Pugnalate, strangolate, annegate, picchiate a morte, bruciate vive, smembrate, freddate a colpi di pistola. Cambiano i nomi, cambia l’età, il luogo d’appartenenza e la scena del crimine. Ma

di Luigi Loi e Silvia Fiorito

Ogni tipo di violenza fisica, psicologica, sessuale può culminare con l’uccisione



la storia rimane pressoché la stessa: sono quasi sempre i “loro uomini” – padri, fidanzati, mariti ecc… – a rivelarsi i protagonisti assoluti di tali brutalità. Ed è proprio questo l’elemento chiave che caratterizza l’omicidio di genere. Secondo gli esperti, il tutto nasce dal capovolgimento del ruolo della donna, ormai non più relegato all’atavica idea tradizionale. Molti uomini non lo digeriscono e non accettano quest’eguaglianza ontologica. La colpa è dunque di quella cultura patriarcale profondamente radicata nel nostro Paese, che giustifica il bisogno ancestrale di avere autorità sui membri femminili della famiglia, considerandoli come oggetti piuttosto che soggetti eguali e pensanti. L’impressione è che, soprattutto in particolari zone dell’Italia, persistono atteggiamenti socioculturali inclini a “perdonare” la violenza domestica. «Quando la stavo accompagnando all’ospedale mi ha detto: “dì alla polizia che si è trattato di una rapina, ti crederanno”»: sono le parole pronunciate da una donna di Napoli poco prima di morire. È questo il 102esimo femminicidio dell’anno; l’assassino è il marito 38enne che, a seguito di una banale discussione, ha perso la testa e ha pugnalato mortalmente la sua compagna di vita. L’omertà di alcune vittime è un fattore allarmante, tuttavia molte uccisioni continuano ad avvenire a causa della mancanza di una forte risposta collettiva da parte delle Stato. Necessaria, adesso, una presa di posizione più chiara e incisiva da parte delle istituzioni, per far sì che il femminicidio venga considerato socialmente inaccettabile. Per davvero. Ma quando lo Stato è latitante, il problema è difficilmente inquadrabile, infatti alcuni dati illustrano statistiche confortanti, altri invece

Secondo gli esperti la violenza nasce dal capovolgimento del ruolo della donna


I

dati osservabili al momento, sono stati elaborati e raccolti grazie al lavoro delle associazioni che operano sul territorio nazionale contro la violenza maschile sulle donne, poichÊ in materia gli unici dati ufficiali sono quelli Istat del 2006. In assenza di nuove ricerche, il fenomeno rischia di essere difficilmente inquadrabile ma soprattutto impossibile da affrontare da parte del Legislatore. L’Italia non ha ancora ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne, firmato a Istanbul nel maggio 2011 da 10 stati europei.


sono degli allarmanti bollettini di guerra. Atteniamoci ai dati ufficiali forniti dalle Nazioni Unite per il 2011 (il biennio esaminato è quello del 2008/2010) tramite il Global study on homicide. Questi illustrano che nella sezione “Homicides by sex” la percentuale che ha interessato le donne uccise in Italia è agli ultimi posti nell’Ue. In Italia il 23,9% di vittime è donna, in Svizzera è il 49,1%, in Belgio il 41,5%, a Malta il 75%, in Ungheria il 45,3%. Gli Stati Uniti hanno una percentuale del 22,5%. Purtroppo il dato che dovrebbe far preoccupare maggiormente è di difficile lettura: il 70% dei femmincidi in Italia accade in un contesto in cui forze dell’ordine o la rete di tutela erano già al corrente di una situazione di rischio. La morte è solo la punta di un iceberg che nasconde una violenza perpetrata quotidianamente. Il ritardo endemico italiano inoltre è quello di non riuscire a inquadrare un problema di disagio sociale diffuso, ratificando come unica soluzione praticabile l’inesistenza del problema stesso. Fino a cinquanta anni fa si diceva apertamente “la Mafia non esiste”, illudendosi che gli omicidi e la violenza delle bombe fossero solo un retaggio antropologico del Sud Italia. Fino al 1982, per i delitti di mafia si ricorreva all'art. 416 del codice penale: “L’associazione a delinquere”. Il 416 era incongruente di fronte alla peculiarità e alla vastità del fenomeno mafioso e alle sue ricadute nel territorio. Il femminicidio, seppur con gli aggiustamenti del caso, potrebbe finalmente definire alcuni tratti specifici di un problema difficile da ignorare.

Il 70% degli omicidi in Italia accade in un contesto che si conosce già a rischio


Insufficienza legale

Per quanto venga migliorato, l’apparato legislativo da solo non basta a tutelare le donne e un cambiamento nella cultura dell’antiviolenza femminile


C

he quello della violenza sulle donne sia un tema di triste attualità non è un mistero. È di questi giorni infatti la notizia dell'impegno, assunto dal governo italiano, a ratificare quanto prima la convenzione del consiglio d'europa messa a punto ad Istanbul nel 2011, riguardante proprio questo delicato tema. Questo rappresenterebbe un ulteriore passo avanti nell'evoluzione legislativa sull'argomento ,cominciata ormai oltre 15 anni or sono. Ma andiamo con ordine. È con la legge n.66 del 15 febbraio 1996 che viene compiuto il primo vero grande passo in tema di repressione e prevenzione della violenza sulle donne. Il merito di tale legge è quello d'aver spostato l'ambito d'appartenenza dei delitti contro la libertà sessuale, dal capo del codice penale relativo ai delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, a quello dei delitti contro la persona, affermando per la prima volta che il titolare del bene leso non è la collettività, ma il singolo indivduo vittima dell'abuso. Altro importante aspetto di tale riforma è stata l'unificazione sotto la dicitura “atti sessuali”, delle due precedenti figure di violenza carnale e degli atti di libidine violenta (ovvero quelli dove non vi sia effettiva congiunzione carnale), a testimonianza di un nuovo e forte intento repressivo nei confronti di ogni genere di violenza a sfondo sessuale. Ulteriore impulso alla disciplina è arrivato successivamente dalla legge n.154 del 5 aprile 2001, riguardante le “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”. Come facilmente intuibile, obiettivo del provvedimento era la tutela dei singoli all'interno del nucleo familiare, raggiungibile peraltro solo tramite una semplificazione dei mezzi di tutela immediata accessibili alle vittime di violenza.

di Daniele Di Corcia

La Carfagna, nel 2009, ha introdotto all' articolo 612 bis il reato di “atti persecutori”


Dal “divieto di dimora”alla legge 154 del 2001, le misure adottate hanno fatto dei passi in avanti

In precedenza infatti, gli unici rimedi possibili contro tali forme di maltrattamento erano: in sede penale la sollecitazione nei confronti del Pubblico Ministero a richiedere la misura cautelare del “divieto di dimora”, mentre in sede civile la possibilità di chiedere un ricorso per separazione coniugale. Grazie alla sopracitata legge, lo scenario è radicalmente cambiato. Oggi è infatti possibile inoltrare personalmente la richiesta di uno specifico provvedimento giudiziale, sia in ambito penale che civile, che porti all'applicazione di misure cautelari quali l'allontanamento dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento a determinati luoghi frequentati dalla famiglianei confronti del soggetto colpevole delle violenze. Anche in questo caso,siamo di fronte al chiaro intento, da parte del legislatore, di rendere più incisiva la tutela delle vittime di abusi tramite l'introduzione di una disciplina apposita per casi estremamente delicati come quelli di violenza all'interno delle mura domestiche. Al fianco di queste forme di violenza più evidente, caratterizzate da veri e propri abusi di tipo fisico, si collocano quelle, di più difficile individuazione, consistenti in comportamenti persecutori o intimidatori aventi effetti sulla psiche delle vittime invece che sul loro fisico. Categoria ben rappresentata dal cosiddetto “stalking”. Esso si manifesta in quei comportamenti finalizzati alla reiterazione di minacce, molestie o atteggiamenti persecutori, nei confronti di persone che, a causa di tali condotte, siano portate a temere per la propria incolumità e ne traggano grave pregiudizio nelle proprie abitudini di vita. Proprio per combattere tale fenomeno è stato emanato il


decreto legge n.11 del 23 febbraio 2009 (poi convertito in Legge 23 Aprile 2009,n.38), che ha introdotto all'articolo 612 bis del codice penale il reato di “atti persecutori”. Esso trova ambito d'applicazione quando non sussista una forma di reato più grave, è attivabile tramite querela di parte e comporta una pena dai 6 mesi ai 4 anni per chi se ne renda responsabile. Il motivo dell'introduzione di questa nuova forma di reato, va ricercata nell'insufficienza delle forme di tutela presenti nel nostro ordinamento fino a quel momento, individuabili in fattispecie penali di scarsa incisività quali la contravvenzione di molestia e i delitti di violenza privata o minaccia. Tuttavia, le modifiche legislative fin qui analizzate, per quanto di indubbia utilità, non possono essere considerate ancora sufficienti da sole ad affrontare in maniera del tutto soddisfacente un problema radicato come quello della violenza sulle donne. Infatti, per quanto inasprite, le pene oggi comminabili per tali reati, ancora non appaiono sempre appropriate, anche e soprattutto in virtù del grosso ambito di discrezionalità lasciato all'organo giudicante, che molte volte ha portato a disparità di valutazioni,alle volte poco condivisibili. Inoltre, le fattispecie oggi presenti all'interno all'ordinamento, sebbene migliorate nel corso degli anni, ancora non paiono permettere la puntuale repressione dei tanti abusi che ogni anno si consumano nel nostro Paese. Ed è per questo, che la ratifica della convenzione di Istanbul, in quest'ottica , appare come un dovere morale da adempiere senza ulteriori indugi, come dimostrazione di volontà nel combattere un fenomeno ormai sin troppo diffuso ed al quale occorre al più presto porre un freno. Reale.

Troppa discrezionalità e poca aderenza con i numeri del fenomeno della violenza: le leggi da sole non bastano


La rete che verrà

S

Associazioni e movimenti per le donne cercano di coordinarsi. Senza lo Stato di Anita Franzon

i chiamano Telefono Rosa, Pangea, Differenza Donna, L'unione delle donne, Casa internazionale delle donne, GI.U.Li.A Giornaliste e sono solo alcune tra le tante associazioni che si occupano delle violenza contro le donne in Italia. Il loro compito è quello di offrire assistenza e primo aiuto alle donne che si sentono minacciate da un uomo, di organizzare campagne per la sensibilizzazione e la prevenzione nelle scuole e, attraverso i media, fornire dati e statistiche e creare eventi. Sono tutti centri specializzati e sono in grado di riunire la voce di tante donne che spesso non hanno il coraggio di parlare. In Italia, questo tipo di associazioni è abbastanza diffuso, la violenza contro le donne è però gestita non tanto dal governo in ma-

niera unitaria e coordinata, ma frammentariamente da varie congregazioni di donne che agiscono sul territorio senza avere un'eco a livello nazionale. Per questo motivo sono nate associazioni come D.i.Re, Donne in Rete contro la violenza. D.i.Re raccoglie in un unico progetto circa sessanta di queste associazioni ed è stata creata allo scopo di costruire un'azione politica nazionale volta a innescare un cambiamento culturale di trasformazione della società italiana nei riguardi di questo fenomeno. D.I.Re ha da poco denunciato la 105esima vittima donna in Italia dall'inizio del 2012, inserendola nella lista di quelle morti che da qualche tempo rientrano sotto la dicitura di “femminicidio”.

In Italia le associazioni come Telefono Rosa, Pangea, Gi.U.Li.A sono molto diffuse. Ciò che manca è la coordinazione forte che le pubblicizzi


Alcuni centri sono attrezzati anche per rispondere in maniera pronta ed efficace a qualsiasi emergenza, come Telefono Rosa che ha messo a disposizione un call center, il 1522, che risponde a richieste di aiuto da parte di donne, adolescenti e anziani che subiscono violenza fisica, psicologica, economica, sessuale, mobbing e stalking. Le operatrici del call center sono volontarie dell'associazione e hanno seguito uno specifico corso di formazione. Il team è costituito da avvocati, psicologhe e sessuologhe, mediatrici culturali e assistenti al diritto di famiglia e tutte le consulenze sono gratuite. Secondo le donne di D.i.Re è giunta l'ora di lanciare un appello rivolto al governo e al parlamento af-

finché Carmela, morta a diciassette anni per difendere la sorella dalla violenza dell’ex fidanzato, sia l'ultima vittima. La petizione pubblica, i cui primi firmatari, resi noti alla fine dell'appello, sono il giornalista Riccardo Iacona e la presentatrice Serena Dandini, agisce sostanzialmente su due punti importanti: il primo è la richiesta di ratificazione della Convenzione del Consiglio d'Europa firmata ad Istanbul, che vincola i Paesi aderenti ad azioni e iniziative importanti di contrasto alla violenza sulle donne e l'Italia è tra i pochi Paesi che non l'ha ancora sottoscritto; il secondo punto riguarda invece l'effettiva e concreta attuazione del primo Piano nazionale antiviolenza, approvato con Decreto Ministeriale l’11

novembre 2010 e non ancora messo in completamente in atto. Le donne dei centri antiviolenza speravano che, essendo state coinvolte e consultate, alcune istanze fondamentali potessero essere recepite nel piano, ma finora, dopo quasi 2 anni, esso è rimasto un documento di buone intenzioni e manca quasi del tutto la concretezza delle azioni. Inoltre, nel piano non è nemmeno presente una definizione dei centri antiviolenza, ovvero di quei luoghi gestiti principalmente da donne che sono nati con lo scopo esclusivo di aiutare altre donne a uscire dalla violenza attraverso percorsi individualizzati, affiancate da operatrici specializzate. Secondo i dati forniti da queste associazioni, le ri-

Il Telefono Rosa (in foto la presidente Maria Gabriella Moscatelli) ha messo a disposizione il 1522


chieste di aiuto delle donne aumentano di anno in anno, ma le capacità di ospitalità e accoglienza diminuiscono a causa della riduzione dei fondi messi a disposizione dagli enti locali per la protezione delle vittime, tanto che diversi centri hanno già chiuso e altri sono a rischio chiusura. Il problema si presenta quest'anno più che mai, a ridosso della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, il 25 novembre, perché il governo italiano dovrà rispondere nel 2013 sulle politiche che ha attuato rispetto al tema degli stereotipi di genere e sulla violenza maschile nei confronti delle donne. Stando sempre ai dati forniti da D.i.Re, sono quasi 14mila le donne che si rivolgono ogni anno ai centri

antiviolenza e nella maggior parte dei casi si tratta di donne italiane che subiscono violenza da uomini italiani. Un po' di numeri: i centri aderenti D.i.Re con casa rifugio sono solo 31 e 19 sono le associazioni che hanno un progetto contro la prostituzione coatta. Complessivamente, su 127 centri esistenti in Italia, 99 sono gestiti da associazioni di solo donne e solo 61 hanno una casa rifugio. Il Consiglio d’Europa, però, raccomanda un centro antiviolenza ogni 10mila persone e un centro d’emergenza ogni 50mila abitanti. Se rispettasse queste norme, l’Italia dovrebbe avere più di 5mila posti letto, invece ne abbiamo appena 500, un numero molto lontano dallo standard europeo.

Le richieste di tante donne restano senza risposta e tante altre sono a rischio di vita: ogni anno in Italia vengono uccise oltre 120 donne, dall’inizio del 2012 sono 105 e la maggior parte dei femminicidi si compie nella casa della vittima per mano di mariti, compagni o ex. Ma questi sono solo numeri, anche perché per il femminicidio non esistono, in realtà, dati ufficiali: mancano dati aggiornati, periodici e sistematici relativi alle varie forme di violenza di genere, in particolare l’Italia è anche uno dei pochissimi Paesi europei nei quali non viene effettuata sistematicamente un’analisi dei costi sociali della violenza, in termini di sofferenza umana e di perdita economica. É bene ricordare, però,


che la violenza sulle donne non è unicamente femminicidio, ma è nella vita di tutti i giorni. Gi.U.Li.A, ad esempio, ovvero Giornaliste unite per il cambiamento, è una rete nazionale di giornaliste unite libere autonome, nata in tempi di crisi grave del Paese e di attacco alla dignità della donna, ai diritti del lavoro e dell'informazione. GI.U.Li.A è contro i bavagli e per questo è in prima fila nella battaglia per la libertà dell'informazione e del web. Il loro messaggio è principalmente quello di “dire basta anche all'uso della donna come corpo, oggetto, merce e tangente; abuso cui corrisponde una speculare sottovalutazione delle sue capacità e competenze. Serve una svolta culturale. Una rigenerazione

della politica. La discriminazione delle donne nel mondo del lavoro, l’emarginazione dalla vita pubblica, sono ostruzioni che vanno rimosse: uno spreco enorme di intelligenze che indebolisce il Paese e lo spinge al declino”. Un passo ulteriore sarebbe quello di fare in modo che i problemi di questo tipo in Italia non diventino oggetto di discussione pubblica e politica solamente in momento di campagne elettorali, ma che vengano trattati all'ordine del giorno. Non è un caso che, a ridosso della giornata mondiale della violenza sulle donne e in prossimità di elezioni, molti esponenti della politica dicano la loro su questo tema. La violenza sulle donne è spesso definita da politici e

giornalisti una “mattanza”, un “atto inammissibile”, e tutti si mostrano esperti a sparare dati, sentenze e statistiche. Ma bisogna stare attenti anche agli allarmismi: in risposta a un articolo sul Fatto Quotidiano in cui si dichiarava il fallimento del Piano antiviolenza varato dall’ex ministra delle Pari opportunità Mara Carfagna, l'associazione Telefono Rosa esprime il proprio dissenso su quanto scritto, precisando di non ritenere in alcun modo che il Piano antiviolenza “in due anni non ha raggiunto alcun obiettivo”. “Siamo certe, è chiaro - scrivono che ci sia ancora molto da fare e da migliorare sui piano della lotta alla violenza sulle donne, ma una visione così catastrofica è lontana, a nostro parere, sia

Le pubblicità nazionali contro la violenza vengono condotte spesso solo durante le campagne elettorali



dalla realtà che dalla nostra opinione. Sono state fatte cose importanti e attivati molti progetti, grazie ai quali sono stati formati operatrici e operatori che si trovano in prima linea in questa battaglia”. Bisogna dunque fare attenzione anche ai dati che, tra gli altri, forniscono i mezzi di comunicazione: se, infatti, da una parte non viene data abbastanza importanza a questo problema, dall'altro spesso si tende a ingigantire numeri e statistiche. Non a caso l'associazione GI.U.Li.A promuove un cambiamento radicale nel giornalismo italiano: «basta con l'informazione ad effetto, con l'uso della cronaca-spettacolo, con la manipolazione delle notizie, le censure».

Il problema vero è che non esiste ancora un piano concreto nazionale per aiutare chi, davvero, avrebbe bisogno di assistenza prima di essere conteggiata come la 106esima vittima di femmincidio. Insomma, manca la prevenzione. Perché le violenze sulle donne e il femminicidio sono spesso cronache di morti annunciate che non trovano spazio nel vuoto che il governo ha lasciato fino a oggi rispetto a questo problema.


Antiviolenza di periferia P

Nel silenzio delle istituzioni parlano le donne: cronache dal Centro Donna Lisa

di Flavia Orlandi

aola e Teresa sono due delle operatrici del Centro Donna Lisa, un'associazione che si occupa di donne vittime di violenza con sede nel quarto municipio romano. Alla vigilia della giornata di lotta contro la violenza sulle donne l'associazione si prepara alla mobilitazione. Nell'ampia e accogliente sede dove mi accolgono cominciano ad ammucchiarsi le scarpe che, vuote e abbandonate sulle strade, andranno a comporre un flash mob: una testimonianza delle assenze delle donne assassinate nel corso del 2012. Teresa mi mostra gli striscioni, e mi racconta il suo viaggio della settimana scorsa all'Aquila, dove ha presieduto al processo per stupro e tentato omicidio di un militare. La sua vittima è stata una ventenne, abbandonata sulla neve nuda e col ventre squartato e oggi miracolosamente viva per l'intervento di un passante. Superato il magone che questo brandello di storia lascia nell'aria ci sediamo su un divano, e parliamo dell'attività di questo centro, che oltre ad offrire un servizio alle vittime di violenza forma anche nuove operatrici in grado di aiutarle. In altre parole, a fronte del vuoto lasciato dallo Stato intorno al tema, le donne si sono organizzate per proteggersi da sole, per autogestire la propria difesa. Abbiamo intervistato due operatrici del Centro donna Lisa, associazione che si occupa delle vittime di violenza nel quarto municipio romano


IL CENTRO QUANTI ANNI HA? T – 15. Siamo nate il 7 ottobre del 1997 come Centro Donna Lisa con l'occupazione di questo luogo. Prima nel 1993 nacque “Donne in Genere” in seguito ad un forte attacco istituzionale alla legge sui consultori. Dopo 4 anni si decise di occupare questo posto, che era una casa popolare abbandonata e lasciata in balia di poveretti che venivano a bucarsi. L'abbiamo preso e ripulito, rendendolo un servizio non solo per questo municipio: assistenti sociali e forze di polizia ci mandano donne da tutta Roma e anche da fuori. Abbiamo uno sportello di accoglienza, e la consulenza legale gratuita, ma anche molte altre attività, dai corsi di alfabetizzazione informatica, ai corsi di italiano per le donne straniere, alle cene multietniche, ai corsi di ginnastica, yoga e in generale corsi di formazione. QUAL'È L'ITER CHE AFFRONTA UNA DONNA CHE VIENE QUI O IN QUALUNQUE ALTRO CENTRO ANTIVIOLENZA?

T – Prima c'è l'accoglienza perché generalmente si ha il bisogno di raccontare e di «Abbiamo uno sportello di accoglienza, e la consulenza legale gratuita, ma anche molte altre attività, dai corsi di alfabetizzazione informatica, ai corsi di italiano per le donne straniere»

Prima nel 1993 nacque “Donne in Genere” dopo 4 anni si decise di occupare questo posto


Un cliché mentale porta questi uomini a comportarsi così a prescindere dalle classi

sapere che non si è l'unica a cui è successo qualcosa del genere, dopodiché c'è la consulenza legale con cui la donna viene a sapere qual'è la strada migliore per tutelarsi e tutelare eventuali figli. Le avvocate a quel punto indicano quale possa essere la strada migliore per allontanarsi dalla situazione di violenza. QUAL'È IL LIVELLO DI VIOLENZA CHE PIÙ COMUNEMENTE VI TROVATE AD AFFRONTARE? T – Guarda, tristemente esiste un copione prestabilito. Innanzitutto le vittime si trovano ad affrontare una fase di isolamentro da parte dell'uomo: rispetto alla famiglia, alle amicizie e in generale ai riferimenti affettivi. Noi la chiamiamo la “spirale della violenza”. Poi c'è la mortificazione sistematica: “tu sei scema, non capisci niente, dipendi da me, cosa credi di riuscire a fare da sola..”. Poi si passa alla minaccia di toglierle i figli, violenze psicologiche che si ripetono giorno dopo giorno, notte dopo notte. E poi arrivano le botte. Ed è impressionante come sia sempre così, c'è un cliché mentale che porta questi uomini a comportarsi nella stessa maniera indipendentemente dalla classe, dall'etnia. Noi ormai lo abbiamo constatato nel corso di 14 anni. Ma le donne che lo subiscono non ne sono consapevoli, e generalmente reagiscono con il senso di colpa, in parte perchè ce lo insegnano da 2000 anni, ma anche perchè la famiglia e le istituzioni a volte cercano di minimizzare il fenomeno per evitare una loro reazione. E quindi gli stessi poliziotti invitano le donne che denunciano i compagni a tornare a casa perchè “Cosa vuole che sia uno schiaffo? Quello è il padre dei suoi figli. Vuole davvero distruggere la famiglia?”


SECONDO VOI IN ITALIA LA LEGISLAZIONE IN TEMA

DI VIOLENZA SULLE DONNE PRESENTA DELLE LACUNE O IL PROBLEMA NON È LEGISLATIVO?

T – No, è anche un problema legislativo, infatti abbiamo visto che in Spagna Zapatero fece quel suo primo mandato una legge che diminuì notevolmente la violenza sulle donne, da noi la legislazione di fatto non c'è. E la sua legislazione non puntava tanto sull'aggravamento delle pene, quanto sulla prevenzione del problema, sull'educazione nelle scuole e sull'informazione. Quindi soprattutto un impegno nel sostegno finanziario ai centri antiviolenza e all'educazione. Io penso che in Italia non ci siano questi investimenti non per dimenticanza ma proprio per scelta, non a caso ancora oggi questo è un paese che non ha una legge contro l'omofobia, dove va ancora difesa la 194 a 30 dalla sua nascita perché nei consultori non viene applicata, dove aumentano gli obiettori e si tagliano tutti i finanziamenti che riguardano la salute delle donne. P – Secondo me c'è una totale inadeguatezza del piano nazionale antiviolenza del

«Abbiamo visto che in Spagna Zapatero fece quel suo primo mandato una legge che diminuì notevolmente la violenza sulle donne, da noi la legislazione di fatto non c’è»

«Credo ci sia una totale inadeguatezza del piano nazionale antiviolenza»



dipartimento delle pari opportunità, ossia il cosiddetto Piano Carfagna di due anni fa, è inadeguato e andrebbe risistemato con degli interventi massicci. E poi c'è da dire che l'Italia non ha ancora ratificato la Convenzione del Consiglio d'Europa che risale ad “Istanbul 2011” per la prevenzione e la lotta alla violenza. L'Italia è ancora inadempiente su questo, oltre al fatto che come diceva Teresa c'è un enorme problema di finanziamenti. Non ci sono leggi regionali ad hoc che finanziano i Comuni e quindi non ci sono progetti seri e che vadano avanti in maniera regolare. Ci sono solo concessioni per cui una tantum ti danno queste quattro lire con le quali dovresti far quadrare dei bilanci che non quadreranno mai. Non c'è una visione lungimirante i posti letto nelle “case rifugio” sono assolutamente sottostimati e le Istituzioni lo sanno perfettamente, ma c'è una totale inadeguatezza e direi anche un silenzio complice. Domenica sicuramente per la giornata contro la violenza sulle donne ci sarà un pieno di grandi parole di solidarietà alle vittime e di condanna ai carnefici, però poi di fatto non ci sono politiche attive e materiali. E si sa che una donna che ha subito violenze ha bisogno di poter contare su una rete istituzionale per ricostruirsi una vita, costruendosi innanzitutto un'indipendenza economica che spesso è la prima cosa a mancare. T - La mancanza delle “case di fuga” è uno dei problemi maggiori, perché c'è il rischio che queste donne rimangano con il carnefice o comunque in una situazione di paura e precarietà economica. P – La “casa rifugio” serve per le situazioni di emergenza, ma se non ci sono è un grande problema. I posti a disposizione sono

«La mancanza delle “case di fuga” è uno dei problemi maggiori e più gravi...»

«...Perché c’è il rischio che queste donne restino con il carnefice o nella paura»


«Siamo costrette a rivolgerci agli istituti religiosi. Non ci sono progetti pubblici»

«C'è piuttosto bisogno di fondi e di risolvere quello che è un problema culturale»

insufficienti, nel Lazio come in tutta Italia. T – A volte siamo costrette a rivolgerci agli istituti religiosi, alle suore. E non si capisce perchè non si possa finanziare un progetto pubblico piuttosto che pagare dei privati, che spesso non sono neanche all'altezza del compito. In questi istituti a volte c'è anche l'obbligo a partecipare alle funzioni religiose.. P – In altri paesi questa storia farebbe ridere nella sua drammaticità. La chiusura del cerchio, dalla casa del padre alla casa di Dio... IL MESSICO HA RICONOSCIUTO IL FEMMINICIDIO COME REATO SPECIFICO, CREANDO UNA NUOVA TERMINOLOGIA LEGISLATIVA AD HOC. PENSATE SIA NECESSARIO FARLO ANCHE IN ITALIA AUMENTANDO LE PENE RELATIVE? T- Sinceramente non ci interessa questo. E' più importante la prevenzione perchè il problema è culturale. Certo, avessimo avuto il livello di barbarie eclatante del Messico magari mi sarei interessata anche alla “vendetta”. Ma in generale non è quella che risolve il problema. P- C'è piuttosto bisogno di fondi e di risolvere quello che è un problema culturale, dei costumi, del modo di pensare. Ossia l'ideologia patriarcale, nulla di più e nulla di meno. L'inasprimento delle pene è solo un palliativo, il cambiamento va fatto nell'educazione, nelle scuole. La cultura di genere è qualcosa che non viene propagandato in questo paese. Poi io personalmente non sono giustizialista e non credo che così si contribuisca a limitare il fenomeno. SECONDO VOI ALLA BASE DELLA LEGISLAZIONE ITALIANA E DELLO STESSO PIANO CARFAGNA C'È UN RICONOSCIMENTO DI QUELLE CHE SONO LE RADICI


CULTURALI DEL PROBLEMA DELLA VIOLENZA SULLE DONNE?

T – No, io non credo proprio. Anzi sono rimasta colpita dal fatto che quando la Carfagna fece un convegno su questo tema non invitò i centri antiviolenza. La sua politica è risultata strumentale anche perché era all'interno di un Governo che tutto se ne poteva dire meno che riconoscesse la dignità delle donne o del genere. In realtà penso ci sia lo stesso fenomeno anche all'interno del Pd, forse nella base però c'è una sensibilità diversa visto che c'è stato dietro un lavoro di 50 anni, per cui quantomeno ci si può lavorare. Poi a livello della dirigenza sono uguali e in entrambi i casi l'interesse sul tema è solo di facciata. Per cui vediamo che anche le donne del Pd hanno recluso le immigrate nei Cie, tanto per dirne una. COME CENTRO ANTIVIOLENZA VOI PARTECIPATE A BANDI PUBBLICI PER ACCEDERE A FINANZIAMENTI,

«Quando la Carfagna fece un convegno su questo tema non invitò i centri antiviolenza»

CIÒ VI PERMETTE DI MANTENERE UNA DIRIGENZA AUTONOMA NELLE SCELTE STRATEGICHE?

T- Certo, completamente autonoma, però non vogliamo nemmeno autoescluderci. Ad esempio abbiamo partecipato ad un bando del Comune, in quanto sono anni che lavoriamo nelle scuole medie superiori sul problema del bullismo, che è a sua volta un problema di genere. SECONDO VOI NELL'ACCESSO AI FONDI DEI BANDI C'È UNA SELEZIONE CULTURALE, PER CUI UNA SERIE DI PROSPETTIVE CHE APPARTENGONO ALLO STATO E AI PARTITI CHE LO DIRIGONO SONO LE UNICHE FINANZIATE? T- Io personalmente penso di sì. Che ci sia un filtro, come dire, ideologico. Non a caso molti

«Partecipiamo a bandi del Comune, perché sono anni che andiamo nelle scuole medie»



bandi a cui abbiamo partecipato sono stati vinti da associazioni di partito e associazioni parrocchiali. P – Ma anche dai soliti noti ormai entrati in una serie di relazioni con le istituzioni, di conoscenze e di appoggi. Questo succede perché crearsi una rete spesso significa scendere a compromessi. Il Centro Donna Lisa spesso non lo fa. Noi accediamo ai finanziamenti in merito a singoli progetti e al loro valore e, credimi, a volte il feedback sul nostro lavoro è davvero stupefacente. Ad esempio l'evoluzione di ragazze e ragazzi che vivono di periferia dove il bullismo è una forma mentis a cui non sembrano esistere alternative. ESISTONO CENTRI ANTIVIOLENZA STATALI, GESTITI DIRETTAMENTE DALLE ISTITUZIONI? T – Mi sembra di no. In generale è un settore carente da questo punto di vista. Per dirti a Roma ci sono solo tre centri antiviolenza. A Monteverde c'è Differenza donna, poi uno a Torre Spaccata sempre di Differenza Donna, poi c'è qualche sportello informativo. Di pari passo c'è il taglio ai consultori. C'è una carenza totale, cronica e secondo me voluta. Negli ultimi anni sono diminuiti gli omicidi ma sono aumentati i femminicidi. Se ogni due giorni ci fosse un gioielliere ammazzato, o un poliziotto, o un carabiniere, ci sarebbe una reazione molto forte. Credo che questo faccia parte del fatto che in fondo non viene considerato un problema. GENERALMENTE LA VIOLENZA MASCHILE SULLE

DONNE VIENE FATTA PASSARE COME UN RESIDUO DI UNA CULTURA ARCAICA. EPPURE PARADOSSALMENTE CRESCE DI ANNO IN ANNO L'OMICIDIO DI GENERE. SI PUÒ ALLORA CONSIDERARE UN TIPO DI VIOLENZA

«Quando partecipiamo ai bandi, vincono associazioni di partito e parrocchiali»

«A Roma ci sono tre centri antiviolenza. Non ce ne sono diretti dalle istituzioni»


FIGLIO DELLA MODERNITÀ?

«Gli assassini diventano tali perché non reggono la perdita di potere sulla donna»

«La modernità rischia di trasformare la maggiore libertà da parte della donna»

T – Secondo me è figlia di 2000 anni di patriarcato. MA QUESTO AUMENTO NON POTREBBE ESSERE

UNA REAZIONE AL CAMBIAMENTO DELLE DONNE E AL LORO RIFIUTO DEL CONTROLLO MASCHILE?

T – Bé, gli assassini diventano tali perché non reggono l'abbandono e soprattutto la perdita di potere sulla donna. Quindi può darsi che ci sia una reazione ad una maggiore indipendenza. Però non nel sono del tutto sicura. P – Noi italiani viviamo comunque in una cornice di riferimento patriarcale, di tipo “suprematista”, bianco, occidentale, borghese. In altri paesi si manifesta in altri modi, magari più arcaici. Ma il problema rimane sempre quello della divisione dei ruoli, e rimane di fondo l'analisi che fecero Marx ed Engels. Se in una famiglia si crea una divisione dei ruoli poi spesso c'è anche una divisione dei poteri e tale disuguaglianza può andare avanti fino alla manifestazione somma che è l'assassinio della donna. Ma non sono sicura che l'aumento dei crimini sia figlio della modernità, perché rischia di trasformare la maggiore rivendicazione da parte della donna in una sorta di attenuante del fenomeno. Lo fanno i media, che ingabbiano il fenomeno nel cambiamento della donna quando invece ce ne sono moltissime che vivono situazioni di totale vessazione psicologica ed economica. Quindi attenzione perché il fenomeno in realtà arriva da molto lontano e nasce tra le mura domestiche all'interno delle quali le donne mantengono ancora dei ruoli arcaici. C'È UNA DIFFERENZIAZIONE DI CLASSE DEL FENOMENO? E' AD ESEMPIO PIÙ DIFFUSA TRA LE


DONNE POVERE?

T – Assolutamente no, abbiamo constatato con mano che non c'è classe, non c'è frontiera, non c'è razza, è veramente un fenomeno trasversale, e siamo rimaste colpite dal fatto che ci sono in mezzo anche tutori dell'ordine costituito, poliziotti, carabinieri che si sono trasformati in assassino o stupratori. O anche medici che sanno come picchiare senza lasciare lividi, facendolo scientificamente. QUESTO PER QUEL CHE RIGUARDA IL CARNEFICE. MA PER QUEL CHE RIGUARDA LE VITTIME, LE DONNE

«Non c'è classe, non c'è frontiera, non c'è razza, è veramente un fenomeno trasversale»

POVERE HANNO PIÙ DIFFICOLTÀ AD USCIRE DA UNA SITUAZIONE DI SOPRUSI?

P – Il problema di classe subentra secondo me in due situazioni. Lo vedi nella gestione da parte del colpevole della sua uscita dalla situazione legale e giudiziaria. E lo vedi poi nella gestione, parallela se vogliamo, dell'uscita della donna dalla situazione di violenza. Ha una dimensione politica, e non privata, collettiva, sociale, che attinge a incrostazioni ideologiche della società. Certo anche le donne possono avere una responsabilità nel non reagire. Ma è difficile se la tua cultura per 2000 anni ti insegna come devi essere. MA UNA DONNA CHE VIENE IN UN CENTRO

ANTIVIOLENZA E FA UN RECUPERO PSICOLOGICO PUÒ DIVENTARE UNA MADRE MIGLIORE E TRASMETTERE AI FIGLI UN NUOVO MODELLO CULTURALE?

«La violenza ha una dimensione politica, e T – Spero proprio di sì, in particolare ai figli maschi. Proprio ieri mattina una donna che è non privata, collettiva, venuta qui mi ha detto: “Io ho mio figlio che ha sociale» 10 anni. Ho capito che ciò che gli devo insegnare è il rispetto massimo per tutte le donne”. Spero che sia così, ma so che è difficile.


Piano Carfagna la legge rimasta disegno


Niente soldi per la spesa sociale e le leggi contro lo stalking e il piano antiviolenza del 2010 sono così rimaste attuate solo in parte

I

nutile girarci intorno, il momento è quello che è. Lo Stato non ha soldi in cassa e molte sacrosante battaglie per la difesa dei diritti delle persone rischiano di crollare sotto i colpi di una spending review che non guarda in faccia a nessuno, nemmeno ai reduci di guerra e ai malati di Sla. Perché di questo si tratta, di fondi che non ci sono e di tagli alla spesa sociale che travolgono le prospettive di vita e la tranquillità di molti in nome di un pareggio di bilancio scritto forse un po’ troppo frettolosamente nella nostra Costituzione. In questo contesto, non fa eccezione lo stato in cui versa tutta quella rete di servizi e di soggetti impegnati quotidianamente nella lotta alla violenza di genere, fenomeno a lungo sottovalutato e oggetto di una specifica politica di contrasto solo da qualche anno grazie all’introduzione del reato di stalking (legge 23 aprile 2009, n. 38) e all’approvazione del primo Piano nazionale antiviolenza (decreto ministeriale l’11 novembre 2010), quel “Piano Carfagna” che secondo le stesse associazioni coinvolte è rimasto per buona parte disatteso. A dispetto dei buoni propositi,

in effetti, non si riesce nemmeno a capire a che punto siamo. Si legge in un documento dell’Associazione Nazionale Di.Re – Donne in Rete contro la violenza: «Non si conosce al momento lo stato di realizzazione del Piano né sono stati coinvolti gli enti locali deputati a svolgere

di Gaia Mutone

Nel 2010 è stato fatto un piano nazionale, ma nessuno si è occupato di rilevare i dati sul territorio. Così non abbiamo risposto nulla quando l’Ue li ha chiesti

un lavoro a carattere programmatorio, operativo, di verifica della situazione». Segue, punto per punto, un elenco di tutti i nodi rimasti in sospeso. A cominciare dalla mancanza generale di politiche e strategie nazionali coordinate cui si ac-


compagna l’assenza di criteri per definire i centri antiviolenza, con il rischio evidente di affiancare ai centri nati e attrezzati per lo scopo altri non meglio precisati “servizi di assistenza pubblici e privati, di protezione e reinserimento delle vittime”; va ricordato, infatti, che in tutto il mondo i centri antiviolenza non coincidono con nessun altro modello di carattere assisten-

Nei casi di stalking o maltrattamento la durata dei processi porta alla prescrizione del reato. Così si rende vana la legge e il coraggio di chi ha denunciato la violenza

ziale poiché devono rispondere a precise esigenze e avere determinati requisiti (essere gestiti da sole donne, mettere a punto percorsi individuali, ricorrere a operatrici con competenze specializzate ecc.) per cui un centro-servizio che non fosse

adeguatamente attrezzato si rivelerebbe dannoso oltre che inutile. Un alone di mistero, inoltre, avvolge l’osservatorio e il comitato di monitoraggio, due organi previsti dal Piano, ma di cui non c’è traccia e per i quali non è stato proposto il coinvolgimento dei centri antiviolenza. Cosa che invece sarebbe auspicabile in una logica di assistenza specializzata. A questo si aggiungono altre “zavorre” o, piuttosto, i problemi strutturali. Su tutti, un sistema giudiziario che con le sue lungaggini vanifica anche quel poco che si riesce a fare. Nei casi di stalking o di maltrattamento in generale, l’eccessiva durata dei processi fa andare il procedimento in prescrizione (che per effetto della legge ex Cirielli, L. n. 251 del 2005, è di soli sette anni e mezzo per questo tipo di reati) con il risultato che lo Stato non riesce a tutelare adeguatamente la persona vittima di persecuzione o atti violenti e che proprio allo Stato si era rivolta denunciando con coraggio. Proseguendo nell’ambito legislativo, va anche ricordato che l’Italia è inadempiente nei confronti dell’Europa su due fronti cruciali: è l’unico Paese a non attuare la direttiva 2004/80/CE del 29 aprile 2004, che prevede il risarcimento delle vittime di tutti i reati dolosi qualora i colpevoli


non siano in grado di farlo, e non ha ancora sottoscritto la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne (11 maggio 2011). A dire il vero, il 27 settembre scorso, il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Elsa Fornero, che ha la delega per le Pari opportunità, si è recata a Strasburgo per firmare il documento, ma questo deve essere ratificato dal Parlamento… Andando in giro per l’Italia, poi, si scopre poi quanto la capacità di protezione e l’offerta di assistenza siano drammaticamente inadeguate rispetto alla domanda. Negli articoli precedenti abbiamo già ricordato che secondo gli standard europei nelle nostre case rifugio dovremmo avere un posto letto ogni 10mila abitanti, mentre in Italia se ne contano solo 500 a fronte di un minimo che dovrebbe aggirarsi

La spending review non lascia spazio. Intanto il ministro Fornero, con delega alle pari opportunità, ha firmato a Strasburgo il documento che l’Ue ci ha chiesto di adottare

sui 5700, ma il problema è che molti centri antiviolenza non riescono nemmeno a garantire un servizio quotidiano o una reperibilità telefonica 24 ore su 24. Molti di questi si reggono sul lavoro volontario e sono abbandonati alle fluttuazioni (finanziarie

Secondo gli standard europei nelle nostre case rifugio dovremmo avere un posto letto ogni 10mila abitanti. In Italia ne esistono 500 sui necessari 5700

e politiche) della contrattazione con gli enti locali, i quali hanno la responsabilità della gestione delle risorse stanziate ed erogate in autonomia dalle Regioni su input dello Stato centrale tramite il Fondo nazionale per le politiche sociali (Fnps). Quello


che però succede nella pratica è che anche quando i centri riescono ad avere dei contributi pubblici poi non riescono a realizzare i progetti di assistenza perché viene richiesto loro un cofinanziamento: il contributo delle Pari opportunità è del 90 per cento, mentre il centro deve mettere il restante 10. E se si pensa che in prevalenza si tratta di centri senza risorse che con-

1700mila euro sono andati alla formazione di operatori, infermieri e forze dell’ordine. Per queste ultime è stata creata la Sezione Atti Persecutori, istituita presso i Carabinieri

tano su donazioni private e si avvalgono di volontariato, si comprende quanto sia precaria la loro esistenza e incerto il loro futuro (qualcuno parla di pochi mesi di autonomia alle attuali condizioni). Continuando con le cifre,

sono tre i bandi finanziati fino ad ora nell’ambito del Piano. Li ha ricordati la stessa Fornero in commissione Affari sociali alla Camera nella seduta del 25 luglio scorso. Si tratta di un primo avviso pubblico per un ammontare complessivo di tre milioni di euro, che ha distribuito contributi a 24 progetti diversi; un secondo avviso pubblico per 10 milioni di euro rivolto direttamente ai centri antiviolenza che accolgono donne e i loro figli minori, bando finalizzato all’ampliamento della rete sul territorio e collegare i nuovi centri ai servizi del 1522, il numero di pubblica utilità che raccoglie le richieste di aiuto, coordina e indirizza le azioni di assistenza; un terzo avviso pari a 1.700 mila euro per la formazione degli operatori sanitari, degli avvocati e del personale delle Forze dell’ordine (polizia e carabinieri). Per quanto riguarda queste ultime, va citata la convenzione stipulata con il ministero dell’Interno e la creazione della Sezione Atti Persecutori istituita presso i Carabinieri, sezione che in futuro dovrebbe favorire un inquadramento migliore del fenomeno della violenza di genere, che come si sa ha un ampio sommerso. Ma tutta la rete non funziona se non ci sono i soldi, più precisamente quelli del Fondo per le


Pari opportunità. Finanziato a sua volta dal già citato Fondo nazionale per le politiche sociali, è passato dai 64 milioni del 2008 ai poco più di 12 di oggi. Messo nero su bianco nei documenti ufficiali, è un taglio che fa paura. L’andamento del triennio 20102012 per quanto riguarda la “missione” Diritti sociali e politiche sociali è il seguente: 205.586.000 euro nel 2010, 82.822.391 nel 2011 e 52.222.196 nel 2012. Qui ci sono i fondi per l’assistenza agli anziani, ai malati, ai non autosufficienti, le politiche per gli adolescenti, i sostegni alla famiglia, per la lotta alle dipendenze e per le Pari opportunità. Una sforbiciata complessiva che segna -59,71% solo tra il 2010 e il 2011 e che si accompagna al 58,64% della missione Giovani e sport e al -51,75% della missione Turismo. Questa la fotografia: l’effetto dell’austerità e delle

L’andamento del triennio 2010-2012 per la “missione” Diritti sociali e politiche sociali è il seguente: 205.586.000 euro nel 2010, 82.822.391 nel 2011 e 52.222.196 nel 2012

manovre di salvataggio visto da vicino. Ultima considerazione. La politica e le istituzioni sono tenute a dare delle risposte e a garantire assistenza a chi ne ha bisogno, ma questo non deve sollevare la società dalle sue responsabilità.

La politica e le istituzioni sono tenute a dare delle risposte e a garantire assistenza a chi ne ha bisogno, ma questo non deve sollevare la società dalle sue responsabilità

A partire dalla scuola e dalla famiglia….un esame di coscienza non costa nulla.


Settimanale quotidiano*

Chiara Esposito


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