numero 23
Il Serale
26 novembre 2012
Settimanale quotidiano
Gaza immobile Hanno giĂ raccontato tutto
Tutto cambia perché nulla cambi Si alternano gli attori, ma non cambia il racconto del conflitto tra Israele e palestinesi: lo abbiamo ripercorso attraverso le firme più importanti del giornalismo
N
di Pasquale Raffaele
on volendo andare troppo in là con la memoria e scomodare i vecchi protettorati europei e soprattutto l'atteggiamento cerchiobottista assunto dai britannici nella regione a partire dagli anni Venti, la parola fine al processo di pace mai avviato è stata sancita con ogni probabilità dal misterioso assassinio dell'allora premier Yitzak Rabin nel 1994. Rabin è parso a molti osservatori internazionali come l'unica figura politica israeliana determinata a portare avanti questo complicato processo, facendo storcere il naso soprattutto agli ambienti politico-religiosi più ortodossi. Il ritorno al potere di falchi come l'ex generale Ariel Sharon – macabro protagonista del massacro di Sabra e Shatila negli anni Ottanta – o l'attuale premier Benyamin Netanyahu non hanno fatto altro che ina-
sprire lo scenario. Quel che è certo è che non cambia mai nulla, basta dare un'occhiata agli articoli dedicati alla questione da 20 anni a questa parte: bombardamenti cui fanno seguito copertura mediatica e indignazione generalizzata, poi la questione israelo-palestinese finisce immancabilmente nel dimenticatoio sino alla successiva carneficina. In buona sostanza, per riguadagnare le prime pagine occorre una "Operazione Piombo Fuso" qualunque. A cambiare, in tutti questi anni, sono stati soltanto i confini (molto differenti rispetto a quelli previsti nella risoluzione Onu del 1947), le dimensioni di due realtà geopolitiche davvero inconciliabili, così come l'ignavia degli organismi internazionali è inconciliabile con una soluzione condivisa del problema.
La Palestina con il fucile in spalla
Chi sono i palestinesi e perché Israele non li digerirà mai. Kapuscinski tracciava nel 1975 l’anatomia di un popolo incompreso, bersagliato e semplificato dalle cronache
T
utte le civiltà d’Europa e del Medio Oriente hanno piantato un albero sulla terra palestinese e il palestinese si è nutrito dei suoi frutti. In mezzo a un gruppo di gente che discute, il palestinese si riconosce a prima vista poiché dice sempre cose valide e interessanti anche quando non ha ragione. Al mondo ci sono tre milioni di palestinesi, ma il loro peso e la loro influenza non sono misurabili in cifre. Metà di essi vegeta nei miserabili campi profughi, ma l’altra metà è sparpagliata in tutti i paesi del Medio Oriente, dove occupa posizioni importanti: consiglieri di presidenti e ministri, capi di grandi imprese e di università. I palestinesi appartengono all’elite culturale del mondo arabo. Sono eccellenti architetti e medici, ottimi economisti e commentatori. I palestinesi risparmieranno ogni centesimo ( quelli che i soldi ce li hanno, ovviamente) per investirli nell’istruzione dei figli. Sono ambiziosi. Spogliati della patria e di uno stato proprio, lottano per l’avanzamento individuale nei paesi in cui è toccato loro vivere. Aspirano a essere saggi consiglieri, esperti insostituibili, specialisti in politica, in economia e nella propaganda. Si conoscono gli uni con gli altri, sanno dove sta e che cosa fa ciascuno di loro. Il palestinese del Libano vi darà una lettera per uno del Kuwait, questi ve ne darà una per un palestinese dello Yemen che, a sua volta, vi raccomanderà a uno della Libia. E così, di palestinese in palestinese, potrete girare l’intero Medio Oriente sempre ben accolti e ben
di Ryszard Kapuscinski
Ci sono tre milioni di palestinesi, ma il loro peso non è misurabile. Metà sono nei campi profughi, metà è sparpagliata in Medio Oriente
informati sulla situazione. Dire che i palestinesi governino il Medio Oriente è ovviamente falso: certo è, però, che chiunque sottovaluti la loro influenza sui destini mediorientali commette uno sbaglio. Israele avrebbe vita molto più facile se il suo diretto avversario non fossero i palestinesi. Un osso duro. Condividono la caratteristica di tutti i semiti: la passione per le discussioni. La mente del palestinese lavora a velocità vertiginosa e senza un attimo di sosta, Si dice che, al caffè, il palestinese chieda al cameriere:«Per favore, un caffè e qualcuno con cui discutere». Il palestinese ha bisogno di esprimersi, di prendere a tutti i costi una posizione, altrimenti sta male. Una caratteristica che è anche la causa delle divisioni in seno al movimento palestinese. La minima differenza d’opposizione scatena le passioni più furibonde e le lotte più accanite. Bisogna aspettare che torni la calma e che tutti ammettano, per metà contenti e per metà imbarazzati, che in realtà non c’era bisogno di litigare. Il palestinese ha bisogno di esprimersi, di prendere a tutti i costi una posizione, altrimenti sta male. Una caratteristica che è anche la causa delle divisioni in seno al movimento palestinese
«Ha passione per le discussioni: la mente del palestinese lavora senza sosta»
La difficile pace tra arabi ed ebrei L
a strada che da Gerusalemme porta a Betlemme corre per alcuni chilometri, a mezza costa, lungo una cortina di filo spinato. Dietro di essa, alla nostra destra, sulla cresta della collina, stanno i soldati israeliani; alla nostra sinistra, sulla collina di fronte, quelli giordani. Rare sono le automobili, rari i passanti. Il paesaggio è arido, pietroso, come di terra bruciata. Vien voglia di dire all’autista di accelerare, poiché la sensazione di trovarsi tra due fila di fucili non è piacevole. l’uomo che è con me - una guida di professione - mi racconta che otto anni fa abitava dall’altra parte dove ha lasciato la casa e il resto della famiglia. Non ha mai potuto andarvi, né i suoi hanno potuto raggiungerlo. Alcuni giorni addietro, da un prete cattolico che di tanto in tanto riesce a comunicare con un suo confratello che abita in territorio israeliano ha saputo che una sua sorella è gravemente malata. Ha chiesto un
«Un milione di profughi arabi della Palestina vivono nei campi di raccolta». È il 27 aprile del 1957 e Israele invadeva l’Egitto di Alberto Jacoviello
lasciapassare di poche ore per andare a vederla. Gli è stato rifiutato. Se la sorella morirà, a duecento metri di distanza in linea d’aria, dall’altra parte del filo spinato, egli non lo saprà che dopo molti giorni, forse dopo molte settimane. Questa è Gerusalemme, una città in mezzo alla quale passa il confine più impenetrabile che divida una nazione da un’altra: un milione di rifugiati arabi di Palestina, che vivono nei campi di raccolta in Giordania, in Siria, in Arabia Saudita e in Egitto, da otto anni non sognano che di attraversarlo per riguadagnare la loro terra di origine. All’inizio, quando questi uomini furono costretti a lasciare le loro terre e loro si pensò, forse che nel giro di pochi anni essi sarebbero stati organicamente assorbiti dai Paesi nei quali si erano rifugiati. Avrebbero trovato un lavoro, una nuova casa e sarebbero alla lunga diventati cittadini di un altro Paese: una genera-
zione, si disse, sarebbe bastata per cancellare il problema dei rifugiati arabi di Palestina. Non è stato così. Nei campi di raccolta essi hanno continuato a vivere, nella grande maggioranza, della piccola assistenza fornita dall’Onu. Con il passare degli anni, le tende si sono trasformate in baracche, in case di fango e i campi sono diventati quartieri, villaggi. I nuclei familiari si sono estesi, le bocche da sfamare si sono moltiplicate. Solo una piccolissima parte ha trovato lavoro. Per gli altri non v’è alcuna prospettiva: le strutture economiche dei Paesi che li ospitano sono troppo Con il passare deboli perché posdegli anni le sano assorbirli. Nel tende si sono frattempo, ogni traccia della vita trasformate in precedente, al di là baracche e i del filo spinato, è campi sono stat cancellata: le divenuti quartieri terre degli arabi sono state coltivate dagli israeliani, i quali hanno sconvolto i metodi di conduzione e i rapporti di proprietà, le case ospitano altri nuclei familiari, la legislazioneè stata modificata, la base stessa dell’economia è stata trasformata. Un milione di arabi di Palestina - un numero, cioè, equivalente, all’intera popolazione originaria della Giordania - hanno perduto una patria e non
ne hanno trovata un’altra.
GHETTO ALLA ROVESCIA
Al momento dell’invasione del Sinai, nell’ottobre scorso, gli israeliani proposero una soluzione parziale affermando che se il territorio egiziano da essi occupato fosse stato incorporato nello Stato di Israele, i 300mila rifugiati che vivono a Gaza avrebbero potuto rimanervi e diventare cittadini israeliani. Ma si trattava di una soluzione che nessun uomo di governo arabo avrebbe potuto accettare. Prima di tutto perché Israele, a questo Un milione di modo, avrebbe ancora esteso il suo arabi di Palestina hanno perduto territorio a spese degli arabi; in se- una patria e non condo luogo perché ne hanno trovata i precedenti di un’altra come Israele, in questa previsto materia, sono pessimi. Alcuni anni or sono, nel corso di un viaggio dall’altra parte del filo spinato, rimasi dolorosamente colpito dalle condizioni in cui viveva nello Stato di Israele la minoranza araba. Nelle città come Tel Aviv e Haifa i quartieri arabi erano una sorta di ghetto alla rovescia. Coloro che vi abitavano non si azzardavano a uscire, e per spostarsi da una città all’altra avevano bisogno di uno speciale
permesso della polizia. I lavoratori arabi erano pagati metà dei lavoratori ebrei e così via fino alla carta di identità sulla quale era marcata a stampatello l’iniziale della parola ”arabo”. Ebbi
I lavoratori arabi erano pagati metà dei lavoratori ebrei e così via fino alla carta d’identità su cui era scritta l’iniziale della parola “arabo”
l’impressione, a volte, che i dirigenti di Israele applicassero agli arabi le stesse misure di persecuzione che gli ebrei avevano subito nella Germania di Hitler. Non risulta che la situazione sia mutata da allora. DIFESA E ATTACCO
Da Tel Aviv si continua a ripetere, da anni, che si è pronti alla pace. Ma su quale base? I governi arabi avanzano sostanzialmente
tre rivendicazioni: ritorno dei confini di Israele nei limiti fissati dall’Onu nel 1947, sistemazione dei rifugiati arabi nelle terre di origine, arresto dell’immigrazione ebraica in Israele. Tel Aviv non è disposta a discutere nessuna di queste rivendicazioni; consetirebbe soltanto a partecipare in una certa misura alla erogazione di aiuti per i rifugiati. In queste condizioni, la pace era già difficile prima dell’aggressione di ottobre. Dopo, è diventata estremamente problematica. La campagna del Sinai, infatti, ha avuto, oltretutto, un valore di conferma dell’opinione corrente nelle capitali arabe: e cioè che per i dirigenti di Israele la questione essenziale è quella di impedire lo sviluppo dell’economia dei Paesi vicini. L’alleanza tra Tel Aviv e
«Da Tel Aviv si continua a ripetere da anni che si è pronti alla pace. Ma su quale base? Se Israele per difendersi continua ad attaccare?»
Parigi ha radicato ancora di più questa opinione, per cui oggi non v’è uomo politico di questa parte che non veda in Israele una testa di ponte dell’imperialismo nel mondo arabo. È difficile far passare questa opinione per il frutto di una ostilità preconcetta. i fatti sono quelli che sono: se è vero che per alcuni governi arabi la presenza di Israele è un motivo di divisione, nessuno può contestare che mentre il territorio israeliano non è stato mai invaso dagli arabi, gli israeliani, dopo essersi insediati con le armi in territorio arabo, cacciandone gli abitanti, a distanza di otto anni hanno Tre sono le occupato una parte rivendicazioni del territorio egidei governi arabi: ziano. Da Tel Aviv si riritorno dei confini di Israele batte, sebbene in non ufficiale, nei limiti fissati linea che per lo Stato di dall’Onu Israele non v’è oggi possibilità di difesa al di fuori dell’attacco, visto che i Paesi arabi tendono a rafforzare i loro eserciti rendendo reale e vicina la prospettiva temuta di un assalto generale e decisivo. Ma questo non fa che portare nuovi argomenti alla tesi di coloro i quali ritengono che l’orientamento dei dirigenti di Israele coincide obiettivamente con l’interesse delle grandi potenze imperialiste a impedire la
completa emancipazione dei popoli arabi. E del resto lo Stato di Israele si è armato ben prima che i Paesi arabi abbiano potuto farlo. Attualmente Tel Aviv mantiene sotto le armi 80mila uomini, che possono diventare 350mila nel giro di ventiquattro ore: si tratta di una forza la quale, per il suo armamento e per la sua organizzazione, è probabilmente ancora oggi la migliore e la più potente che vi sia in questa zona del mondo, grazie anche al fatto che viene costantemente rinforzata in virtù degli accordi segreti tra Francia e Israele. Gli israeliani quando si contesta loro questo E poi la fatto rispondono che essi non pote- sistemazione dei vano affidare la si- rifugiati nelle curezza del loro terre di origine e Paese alla buona di- l’arresto sposizione dei Paesi dell’immigrazion arabi . E avrebbero perfettamente ra- ebraica in Israele gione se la questione non avesse mai varcato i limiti del diritto di ogni Paese ad avere un esercito nazionale. Ma, a parte il fatto che lo stesso diritto non può essere contestato agli altri, questi limiti sono stati varcati con l’attacco all’Egitto che ha rappresentato un esempio pratico della forza e dell’influenza che hanno in Israele le correnti politiche che hanno sempre pensato che l’unico
modo di “negoziare” con gli arabi fosse quello di riserbare loro un trattamento di choc: una “spedizione punitiva” attuata di tanto in tanto, in modo da costringere i Paesi arabi vicini a rimanere
«Riserbare loro un trattamento choc: una “spedizione punitiva” di tanto in tanto, in modo da costringere gli arabi impegnati»
continuamente impegnati nella cura delle ferite subite. È vero che una parte importante della sinistra israeliana non è su queste posizioni. Ma è altrettanto vero che come non ha avuto la forza di impedire l’attacco all’Egitto, così essa non riesce a esprimere e a imporre un orientamento che possa essere considerato una garanzia di rinuncia all’attivismo militare, all’espansionismo e alla psicosi antiaraba che costituiscono le principali caratteristiche
dello Stato di Israele. Al fondo delle quali, per dire le cose con chiarezza, sta il disegno originario di gruppi importanti della società israeliana, ancora oggi alla testa della nazione, di fare del loro Paese l’unico moderno di questa zona del mondo, in modo da assicurare alle sue industrie, per lungo tempo, un vasto mercato a portata di mano. GLI ACCORDI SEGRETI
È precisamente a questo disegno che Israele deve rinunciare, in modo convincente e definitivo, perché vengano assicurate le condizioni preliminari della pace e della convivenza con i Paesi arabi vicini. Un primo passo potrebbe essere costituito dalla abrogazione degli accordi
Al fondo di tutto sta il disegno orginario di gruppi importanti della società israeliana: fare del loro Paese il più avanzato della zona
segreti con la Francia, il che potrebbe facilitare, tra l’altro, il raggiungimento di un accordo tra le grandi potenze per la cessazione delle forniture di armi ai Paesi del Medio Oriente. È evidente che un gesto di questo genere richiede una certa dose di coraggio da parte di Israele, poiché comporta un margine di rischio. È un fatto che Israele ha aggredito l’Egitto: tocca dunque a Tel Aviv compiere il primo passo verso la pace. E d’altra parte, una modificazione profonda dell’attuale politica estera di Israele è una necessità storica. Non è più realistico coltivare Non è più l’illusione che si realistico possa impedire a coltivare Paesi come l’Egitto e l’illusione che si la Siria di avere una possa impedire la propria base induuna strutmodernizzazione straiale, tura economica dei Paesi arabi moderna, un esercito nazionale. Coltivare una tale illusione vuole dire in definitiva ritenere che l’unica soluzione possibile dei rapporti tra arabi e israeliani debba essere quella che prevede una “spiegazione” militare decisiva e definitiva. Ma non è certo che Israele, su questo terreno, debba avere la meglio. Molti fattori, dunque, e di peso rilevante, indurrebbero Israele a imboccare la strada della ragio-
nevolezza. Purtroppo non vi sono ancora segni che a Tel Aviv le cose vengano viste in questo modo. L’intrigo a fianco delle potenze colonialiste, i tentativi di divisione del mondo arabo, la tendenza a tenere continuamente accesa, in questa zona del mondo, la minaccia della guerra sembrano essere i binari sui quali la politica estera di Israele continua a camminare. Una grande azione di mobilitazione degli israeliani sparsi per il mondo potrebbe forse riuscire a modificare un tale orientamento. È in ogni caso una strada da tentare da parte di coloro i quali, pur condivi- La minaccia della dendo le ragioni che guerra è il hanno portato alla fondazione dello binario sul quale Stato di Israele, sono la politica estera sinceramente intedi Israele ressati a ricercare le continuerà a basi di una pacifica camminare convivenza tra arabi e israeliani.
La guerra di vent’anni a Hebron
Indagine in Cisgiordania tra previsioni e paure: la classe politica israeliana sembrava lontana dall' idea d un vero compromesso con i palestinesi. Ed era il 1985 di Sandro Viola
C
i sono stati un paio d' attentati contro i coloni ebraici, negli ultimi giorni, e sulla strada tra Gerusalemme e Hebron s' incontrano vari posti di blocco dell'esercito israeliano. La scena mi è consueta. L' occupazione israeliana è entrata nel diciannovesimo anno, ormai sfiora il ventennio, e le prime volte che su queste strade incappavo in una fila d' automobili arabe perquisite dalle pattuglie d'Israele, ero ancora un giovane giornalista. Dopo tanto tempo solo io sono cambiato, con questi vent'anni di più sulle spalle. Il resto, nelle terre a ovest del Giordano, è identico ad allora. I vecchi contadini palestinesi che caracollano sui somari, i filari polverosi delle vigne, il biancore dei muri a secco nella grande calura della Giudea, e i posti di blocco
israeliani. I palestinesi che mostrano i documenti, i soldati che ispezionano le automobili mentre il resto della pattuglia sorveglia la scena con i mitra imbracciati, il po' di nervosismo che affiora sempre durante questi controlli. Un esercito straniero, un paese occupato. Sino a quando? È quel che cerco di capire aggirandomi ancora una volta - l' ho fatto quasi ogni anno, dal 1967 in poi - tra Israele e i territori occupati. Sono i giorni della Id el-Adha, la grande festa musulmana del Pellegrinaggio, e nel "suk" di Hebron le radio trasmettono a tutto volume le preghiere della Mecca. Le voci concitate dei "muezzin", i rumori del mercato, il rombo d' un elicottero che vola non lontano e piuttosto basso, si fondono in un gran frastuono. Ma lì dove vado a trovare i miei interlocu-
Sino a ieri, quel che ci veniva negato dai governi e dalla maggioranza della società israeliana erano i nostri diritti politici. Ma oggi quel che entra in gioco è la nostra stessa esistenza
tori palestinesi (un negozio d' elettrodomestici, l' ambulatorio d' un medico, gli uffici dell' azienda degli autobus), il rumore giunge attutito. I ventilatori muovono l' aria, il caffè è eccellente come sempre a Hebron. Allora - chiedo sino a quando durerà l' occupazione? «A giudicare dal comportamento degli israeliani», risponde uno, «potrebbe durare altri vent' anni. Nei giorni scorsi un gruppo di deputati d'un partito di destra, il Tehiya, s'era insediato in una casa della "casbah", nel cuore della vecchia Hebron. Questa città è uno dei massimi luoghi di culto dell' Islam, la provocazione era clamorosa. Allora, per evitare incidenti, l' esercito ha circondato la zona. I palestinesi della "casbah" non potevano entrare né uscire. Ma la sera arrivavano dall' insediamento di Kiryat Arba, qui vicino, gli ebrei ortodossi del Gush Emunim, e tutt' intorno alla casa occupata cantavano i loro salmi, danzavano le loro danze religiose. l' esercito, naturalmente, non interveniva...». Dice un altro: «È vero che dopo una settimana il governo - o per me-
glio dire il primo ministro, Shimon Peres - ha convinto gli occupanti ad andarsene. Ma l'altra metà del governo s'è scatenata, da Shamir a Sharon ad Arens, per non parlare della destra estrema, politica e religiosa, ribadendo il diritto millenario degli ebrei su queste terre. L'impressione è che qualcuno cerchi l' incidente grosso, magari un paio di morti, per dar fuoco alle polveri. L'aggressività della società israeliana nei confronti degli arabi non fa che crescere. Non è un caso che gli esperti diano in forte ascesa un solo partito, quello del rabbino Kahane, che l'anno scorso ebbe un solo seggio in Parlamento, mentre oggi, secondo i sondaggi, ne otterrebbe addirittura undici. Bene, qual è il programma di Kahane? Lei lo sa: «via gli arabi da Israele e dai territori occupati». Anche la sequenza di questi incontri mi è familiare. Il garbo della piccola borghesia palestinese, l'aroma squisito del caffè, l'amarezza dei discorsi. La violenza cova forse nel fondo degli animi, ma non s'esprime. È quando salgo su un taxi in Israele che molto spesso, se l'autista prende a parlare degli arabi,
colgo gli accenti dei salmisti: «Spezza, oh Dio, i denti nelle loro bocche». Ma tra i palestinesi - dalla Gerusalemme araba a Hebron, da Gerico a Nablus - l'intonazione violenta è rarissima. Del resto gli uomini con cui parlo sono, sul versante cisgiordano, personaggi pressoché ufficiali. Quando qualche mese fa l'amministrazione Reagan cominciò a studiare l'eventualità d'una apertura di colloquio con una delegazione mista, giordano e palestinese, tre di loro vennero convocati a Gerusalemme da Richard Murphy, sottosegretario di Stato per il Medio Oriente, ad esporre opinioni e richieste circa una possibile soluzione del problema dei territori occupati. Ciascuno di essi è legato all'Olp, gli israeliani lo sanno benissimo: ma allo stesso tempo costituiscono l'ala più moderata del nazionalismo palestinese, la più possibilista, la più distante dalle intransigenze del gruppo pro-siriano di Abu Mussa. Così, a metà agosto, quando Murphy fece la spola tra Amman e Gerusalemme (e per qualche giorno sembrò che si stesse giungendo al primo contatto ufficiale tra
il governo americano e l' Olp), questi uomini hanno vissuto una vigilia carica di tensione. Dopo tanti anni, sembrava aprirsi per la prima volta uno spiraglio di negoziato. Una mediazione americana era finalmente in atto, qualcuno già intravvedeva in prospettiva il ritiro israeliano. «Invece», racconta Hanna Siniora, «è finita in una bolla di sapone». Direttore d'uno dei giornali arabi di Gerusalemme, "El Fajd", Siniora avrebbe dovuto essere uno degli interlocutori di Richard Murphy. Non solo, infatti, egli figurava nella lista della delegazione palestinese stilata da Arafat e da re Hussein; ma dei sette membri di quella lista, soltanto lui e un altro - l'avvocato Faez Aburakem - avevano ricevuto il "placet" degli israeliani. Certo, giordani e palestinesi s' erano rifiutati di cambiare gli altri cinque nomi della delegazione, così come pretendeva il governo Peres. Ma l' incontro di Amman era tra il governo degli Stati Uniti da un lato e i giordano-palestinesi dall' altro: il veto israeliano, come avevano fatto capire gli stessi americani, era quindi inaccettabile. Hussein e Yassir
Arafat avevano accolto la richiesta di Washington di non includere nella lista "membri noti" dell' Olp, altro non avrebbero potuto fare. «L' importante», spiega Siniora, «era che l' incontro avvenisse. Che si saltasse finalmente l'ostacolo rappresentato dall'assenza di rapporti tra America e palestinesi. Poi poteva succedere di tutto. Noi chiedevamo che gli Stati Uniti riconoscessero il diritto dei palestinesi all' autodeterminazione, e in cambio avremmo accettato le risoluzioni 242 e 338 dell' Onu che significano il riconoscimento dello Stato d' Israele. Quante cose possono venir fuori da una discussione, da un confronto aperto... Invece gli americani hanno fatto marcia indietro». «No, a bloccare il dialogo non è stata la questione dei membri della delegazione palestinese. Murphy s' è impuntato sul problema della "seconda fase" del negoziato. Vale a dire: eravamo pronti, giordani e palestinesi, ad aprire subito dopo l' incontro con Murphy un negoziato "diretto" con Israele? A questo noi non siamo pronti, e la cosa è stranota da sempre.
Un negoziato triangolare tra America, Israele e giordano palestinesi richiederebbe uno spirito, una visione di neutralità da parte degli americani. Ma gli Stati Uniti non sono neutrali, in questa parte del mondo: il loro rapporto con Israele è troppo profondo e complesso. Ecco perché noi accettiamo sì di trattare "direttamente" con Israele, ma nel quadro, sotto gli auspici d'una Conferenza internazionale». «È stato a questo punto», conclude Siniora, «che sono prevalse le pressioni del governo israeliano su Washington. Gli americani hanno rinunciato a fare anche il primo passo, e cioè l' inizio dei colloqui con noi e i giordani. Eppure non c'è mai stato un momento più favorevole di questo per avviare una trattativa. La maggioranza dei palestinesi (l'80 per cento nei territori occupati) disposta a molte concessioni pur d'arrivare al ritiro di Israele dalla Cisgiordania. La maggioranza dei Paesi arabi - come s'è visto al vertice di Casablanca, sia pure in mezzo alle solite ambiguità - favorevole al piano di pace giordano-palestinese. Negli Stati Uniti un Presidente di "second term",
«C’è di mezzo la sicurezza d'Israele. Perdere il controllo dei territori è impossibile»
che non dovendo più ripresentarsi può resistere meglio alle pressioni delle "lobbies" pro-israeliane. In Urss, una nuova leadership che sembra decisa a rettificare varie linee della sua politica estera... Il fatto è che non c' è molto tempo da perdere, restano sì e no sette o otto mesi. O in questo lasso di tempo Shimon Peres si stacca dal governo con la destra, o a settembre '86 ci sarà la rotazione, Shamir o Sharon o Arens siederanno sulla poltrona di primo ministro, e allora ogni negoziato diventerà impossibile...». «La verità», dice un altro dei miei interlocutori mentre arriva un vecchio caffettiere con i nuovi caffè, «è che lo sfondo della questione non fa che deteriorarsi. Sino a ieri, quel che ci veniva negato dai governi e dalla maggioranza della società israeliana erano i nostri diritti politici. Ma oggi, con la crescita della destra più estrema, mentre i sondaggi mostrano che il 40 per cento degli studenti di liceo è per le tesi del rabbino Kahane, quel che entra in gioco è la nostra stessa esistenza di individui, non di nazione. Io non so se dietro a Kahane si
formerà mai una maggioranza degli israeliani, se il fenomeno è duraturo o passeggero. So però che i miei figli cominciano a temere che un giorno o l'altro gli israeliani potrebbero espellerci da Hebron e dal resto della Cisgiordania. D' altronde non sono solo i mistici delle scuole talmudiche o i razzisti alla Kahane, che parlano d'espulsione. Anche tra i laburisti c' è gente che continua a lanciare lo slogan "Jordan is Palestine", la vera Palestina è la Giordania: come a dire che la sola soluzione del problema è che i palestinesi prendano le loro cose e si trasferiscano oltre il Giordano...». Esagerazioni propagandistiche, la lamentosità dei popoli sottomessi, l'amaro di vent'anni di attese sempre frustrate? Non direi. Fossi un palestinese di queste parti, immagino che il mio stato d' animo non sarebbe diverso. Infatti, così come si presenta ancora oggi (a parte qualche segno in positivo, ma labile, sfuggente, di cui parlerò più avanti) la classe politica israeliana sembra lontana dall' idea d' un vero compromesso con i palestinesi. A Gerusalemme incontro, per esempio,
Moshe Arens, e per prima cosa mi sento contestare l'espressione "territori occupati". Ministro senza portafoglio del governo di "grande coalizione", ex ministro della Difesa, ex ambasciatore a Washington e oggi in corsa con Shamir e Sharon per la leadership del Likud, Arens è senza dubbio uno dei personaggi di maggiore spicco della scena politica israeliana. «Se lei intende», mi spiega, «che Israele occupa un territorio giordano, si sbaglia completamente. Quei territori non erano giordani, la monarchia hascemita se li era annessi nel ' 48 come risultato della prima guerra araboisraeliana. Per il diritto internazionale, quindi, il West Bank non apparteneva a nessuno...». «Quanto alla questione d'un nostro ritiro», prosegue il ministro, «qui c' è di mezzo la sicurezza d' Israele. Perdere il controllo di quei territori le ricordo soltanto cosa significherebbe rinunciare alle colline intorno a Gerusalemme - è impossibile. Questo per non parlare dei diritti storici di Israele sulla riva occidentale del Giordano. Un compromesso? Ci sono gli accordi di Camp
David, che prevedono un'autonomia palestinese in Cisgiordania. Il mio partito ed io restiamo legati a quegli impegni. Gli arabi rifiutano? Beh, ci sono voluti trent'anni e quattro guerre per fare la pace con l' Egitto, vuol dire che possono trascorrere altri dieci anni per trovare una soluzione al problema del West Bank. E se poi l' accordo non si dovesse raggiungere non vedo cos'altro si potrebbe fare salvo che incorporare i territori nello Stato d'Israele». Se un uomo di grande esperienza politica come Moshe Arens, laico, può avere una visione così rigida del problema, la rigidità diventa ancora più profonda ed inquietante in quella nuova ondata religiosa, anzi nazional-religiosa, che è oggi il fenomeno centrale nella società israeliana. In questo mondo a forti tinte mistiche, etnocentrico - per non dire sciovinista - la sola chiarezza sta nel comandamento di Abramo: la terra d'Israele al popolo d' Israele secondo la legge d' Israele. Qualche sottile spiraglio, un linguaggio più elastico, si colgono soltanto nei dintorni dell'ufficio di Shimon Peres. Dice un consigliere
Una sola certezza: la terra d'Israele al popolo d' Israele secondo la legge d' Israele
ÂŤD' accordo, le concedo che non ci sono per ora gli elementi concreti d' un negoziato. Ma i "tempi" del Medio Oriente non sono i tempi consueti della politica internazionaleÂť
del primo ministro: «Quel che potevamo, lo abbiamo fatto. Ci siamo ritirati dal Libano, per esempio, mentre fosse stato per gente come Arens saremmo ancora lì. In dieci mesi, non abbiamo consentito un solo nuovo insediamento nel West Bank. Ora dovremo concedere qualcosa al Likud, ma la politica degli insediamenti com'era negli anni scorsi è finita. Il Likud ci chiede - di fronte alla ripresa terroristica in Cisgiordania - la pena di morte e misure di repressione massiccia, ma noi stiamo facendo di tutto per evitarle. D' accordo, le concedo che non ci sono per ora gli elementi concreti d' un negoziato. Ma i "tempi" del Medio Oriente non sono i tempi consueti della politica internazionale. Sono molto più lenti, ci vuole una gran pazienza...». Questo è il meglio che si possa ascoltare sul versante della classe politica israeliana, e certo contro il coro annessionista della destra - è già qualcosa. Ma è un qualcosa che non può essere sopravvalutato, su cui sarebbe cieco basare una speranza effettiva d' uscita dall'impasse. Il problema resta quello di sem-
pre: esiste una maggioranza israeliana disposta a fare delle concessioni in cambio della pace, a scambiare i territori occupati con la pace? In questi vent' anni di viaggi in Medio Oriente, la risposta che trovavo era sempre negativa: no, quella maggioranza non esisteva. E non esiste, da quel che sento e vedo, neppure oggi.
Esiste una maggioranza israeliana disposta a fare delle concessioni in cambio della pace? No.
Come La peste di Camus
di Alberto Cavallari
La soluzione militare non può persistere. Si sapeva nel 1987 e già appariva assurda l’assenza di passi avanti
L
'insurrezione s' è accesa per una settimana nei territori occupati d' Israele. Può darsi che si spenga presto, domata dall' esercito. Ma si riconosce che il movimento non ha precedenti nella striscia di Gaza e in molti centri cisgiordani. Assalti, bottiglie molotov, barricate, morti, feriti, coprifuoco, hanno dato una dimensione
nuova all' annoso conflitto. Dopo il terrorismo intermittente, è apparsa la marea della rivolta uniforme e compatta: qualcosa che merita riflessioni diverse. Sono passati vent' anni giusti dalla guerra dei sei giorni che, nel '67, diede inizio all' oc-
cupazione di queste zone. Molti di noi videro le offensive di Kahan Yunis, di Rafah, di Hebron, le veloci battaglie nella polvere, approvando la legittima difesa d' Israele contro l' accerchiamento panarabo. Ma questa è una ragione di più per ripetere che Israele non può persistere nel dare una soluzione solo militare al problema che allora si aprì. Vent' anni sono molti. Proprio mentre Reagan e Gorbaciov firmano acconti di pace in nome della ragione e del buon senso, appare ancora più assurdo che Israele non sappia compiere un passo avanti. Povere Gaza, Betlemme, Nazareth. Vent' anni dopo, ancora un Natale di guerra. La pretesa del capo del governo Shamir è che siano scesi in piazza criminali e teppisti. La sua tesi è che non ci sia sommossa, guerra civile, insurrezione popolare, ma solo sedizione legata al terrorismo che sfrutta la mitezza israeliana perché l' esercito si sforza di non fare vittime. Ma lo contraddicono persino gli americani, e Richard Murphy condanna un' occupazione dura, che non corrisponde sempre alle norme in-
ternazionali. La stampa dice le stesse cose. Hediot Aharonot scrive che i territori occupati sono in fiamme perché la gente è stanca. Ad Hadashot denuncia il fallimento della politica del pugno di ferro mai accompagnata da scelte politiche. Persino Abba Eban sostiene che l' esercito potrà certo normalizzare la piazza, ma la soluzione non è questa. Secondo lui la gente si sente chiusa in una trappola senza via d' uscita perché ha visto fallire tutte le soluzioni politiche, tutte le speranze, e per questo insorge. Una diagnosi perfetta. “Trappola” è l' espressione giusta per parlare dei territori occupati. Tutti vi sono chiusi dentro, arabi e israeliani. Ma in vent' anni tutto è stato fatto per consolidarla invece di smontarla. L' occupazione militare l' ha creata e rafforzata. Gli insediamenti israeliani l' hanno resa esasperante. La promessa di soluzioni politiche, sempre rinviate e sempre fallite, l' ha riempita di rabbia, di odio, rendendola invivibile. Aveva ragione Rabbin, generale intelligente che deve svolgervi il triste ruolo del carceriere. Due anni fa mi descrisse la situazione ricordando La peste di Camus. Ogni città somiglia ormai all' immaginaria Orano dove il contagio infetta malati e medici. Anche chi lotta per vincerlo ne diviene vit-
tima. Rabbin concluse: Abbiamo lasciato marcire il problema sperando che si risolvesse da solo: ma un giorno ci accorgeremo di essere tutti infetti. E' noto perché la trappola sia diventata senza via di uscita. Anzitutto, per la spaccatura interna d' Israele, diviso in due, incapace di risolvere la propria crisi. Metà del paese vorrebbe lo sgombero dei territori occupati, la ricerca
“Trappola” è l' espressione giusta per parlare dei territori occupati. Tutti vi sono chiusi dentro. Ma in vent' anni tutto è stato fatto per consolidarla invece di smontarla
di soluzioni politiche, con federazioni, autonomie, formule miste. Metà paese vorrebbe la conquista definitiva, l' annessione, almeno lo statu quo. Così la contrapposizione porta all' immobilismo, al rinvio, ai governi di staffetta che reciproca-
mente annullano le iniziative prese, e intanto muoiono tutte le possibilità di negoziato. Si è aggiunta poi, con la guerra IranIraq, la famosa speranza del cinismo. Finché gli arabi si dilaniano tra di loro, Israele può aspettare per trattare meglio. Ma intanto la gabbia diventa sempre più stretta. In secondo luogo, c' è il contesto internazionale. Esso è mutato, consente a Israele an-
La questione palestinese non è più nel vento della storia da quando quella iraniana domina il Medio Oriente. Al vertice di Amman il problema centrale è stata la guerra Iran-Iraq
cora più inerzia e più immobilità. Infatti, la questione palestinese non è più nel vento della storia da quando quella iraniana domina il Medio Oriente. Al recente vertice di Amman il problema centrale non è stato il nemico sionista ma la guerra
Iran-Iraq. Al summit ReaganGorbaciov, si è parlato del Golfo e dell' Afghanistan, mai della polveriera sul Giordano. Per molti versi, anche la crisi dell' Olp contribuisce a sua volta a far marcire il problema, essendo meno urgente la sua internazionalizzazione. Così è finita l' epoca delle febbrili triangolazioni di Amman, delle mediazioni egiziane, delle spinte internazionali. La trappola lungo il Giordano è sempre più una tetra prigione bilaterale. Fastidiosa, pericolosa, ma che può essere trascurata. La conseguenza è che si fanno adesso due ipotesi per la questione palestinese. La prima è che i due grandi hanno ormai lo sguardo rivolto altrove, al Golfo e all' Afghanistan, e che daranno definitivamente la priorità alla piaga del fondamentalismo islamico khomeinista. Infatti, Washington avrebbe scoperto che l' Urss ha, in Afghanistan, un' azione frenante contro il khomeinismo che contagia le sue regioni islamiche. Mosca avrebbe scoperto che questa azione frenante l' hanno pure gli americani nel Golfo. Così tendono entrambi a cogestire le due questioni facendone un pacchetto solo. Ma se i due grandi arrivano all' accordo, riescono a circoscrivere insieme il khomeinismo, la questione palestinese andrà più sottovento
ancora. Sarà sempre più un problema da lasciar marcire. La seconda ipotesi è che l' intesa non sia raggiunta, che non sia possibile la cogestione del pacchetto Golfo-Afghanistan, che la crisi aumenti, che il khomeinismo dilaghi ancora di più, vada a riempire il vuoto lasciato dall' Olp a Gaza e in Cisgiordania, e trovi nello stato insurrezionale apparso in questi giorni il terreno adatto. In questo caso la questione palestinese tornerebbe nel vento della storia in modo tragico, stile libanese. La trappola salterebbe in aria, e solo successivamente il problema verrebbe internazionalizzato, cercando finalmente una soluzione politica. Naturalmente nessuno sa fino a che punto questi scenari siano veri. Comunque sono entrambi orribili, ed è nell' interesse d' Israele cercare in fretta di fuggirli, realizzando quello della pace politica, non militare, nella zona. Il secondo scenario riporterebbe infatti la guerra al popolo d' Israele che merita pace. Il primo significherebbe per altri vent' anni la proroga dell' occupazione militare, la ratifica della trappola, il perpetuarsi della peste, la trasformazione di un popolo salvato dai lager in definitivo guardiano di un lager per arabi senza via di uscita (come dice Abba Eban). Una conferenza internazionale è
quindi sempre più urgente. Gli stessi amici d' Israele devono spingere per cercare la via di uscita dato che domani sarà troppo tardi. Anzi. Come diceva Malraux celebrando il centenario dell' alleanza israeliana universale domani non ci sarà domani se alla Thora di Johanan si preferisce ancora la spada di Aqiba.
Se il khomeinismo dilagasse, andrebbe a riempire il vuoto lasciato dall' Olp a Gaza e in Cisgiordania, e troverebbe, nello stato insurrezionale di questi giorni, terreno adatto
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