numero 5
Il Serale
9 aprile 2012
Settimanale quotidiano
Chi custodirĂ i custodi? Toghe e politica: uno scontro fra poteri
Per proteggere o controllare
Il ruolo del magistrato tra libertà e ingerenze politiche: custodirlo o tenerlo a bada? Intanto in Parlamento si discute di nuovo sulla responsabilità civile delle toghe
I
l Senato si sta interrogando, in questi giorni, se approvare o meno la legge comunitaria contenente l’allargamento della responsabilità civile di giudici e magistrati. Una misura che è stata fatta passare come pretesa dall’Europa, ma che in realtà l’Unione non ci ha mai chiesto. Un’occasione come le altre per far riaffiorare un leitmotiv della storia italiana: il tentativo di un potere di imporsi sull’altro, la storia di presunte o tentate prevaricazioni, di denunciate o smentite collusioni. Dopotutto Calamandrei aveva messo in guardia circa gli inconvenienti del mestiere di chi si trova di fronte a queste scelte arbitrali: “sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria”. La separazione dei tre poteri rischia da sempre di trasformarsi in un groviglio. La storia di questo intreccio è un continuo scambio di dita puntate contro. Da una parte la politica e dall’altra la magistratura, ognuna forte delle proprie ragioni. Ma è una storia antica quasi quanto il genere umano. Platone aveva immaginato così la sua Repubblica: i temperanti cittadini-lavoratori, i coraggiosi guerrieri e i saggi guardiani-filosofi a vigilare sulla popolazione. La domanda che si poneva più di duemila anni fa riaffiora oggi insieme a questo leitmotiv: Chi li custodisce, i custodi?
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di Elisa Gianni
Le mani sopra
Riformarla ad ogni costo: la magistratura nel nostro Paese è un’ossessione e la storia di un braccio di ferro con la politica da “Mani pulite” alla riforma Alfano
L
’inchiesta di Mani Pulite sarà ricordata come il detonatore che ha fatto implodere la Prima repubblica e con essa la maggior parte dei partiti presenti nel precedente arco costituzionale. Infatti il 17 febbraio del ‘92 viene arrestato per corruzione Mario sensale I padri della Costituzione Chiesa, della famiglia Craxi (a destra Saragat) non e amministratore pensarono a limitare i del Pio Albergo Tripoteri dei giudici vulzio di Milano. È pur vero che questa fortissima contrapposizione tra magistratura e politica, negli anni Settanta, non era così accesa, vuoi la ragion di Stato, vuoi il comune nemico di quegli anni: il terrorismo. Cosa ha trasformato l’ultimo ventennio di storia italiana in un serrato e
di Luigi Loi
spesso durissimo confronto all’arma bianca tra magistratura e politica? Molto spesso gli attori politici della seconda repubblica in questi anni hanno denunciato un profondo malessere, quasi che la coabitazione tra questi due poteri nell’impianto statale fosse mortificante. Più volte Silvio Berlusconi ha affermato che le “ingerenze” della magistratura sono una “emergenze democratica”. Al di là delle boutade ad uso e consumo dei mass media, le critiche reciproche sono state spesso lanciate come grimaldelli e costruite ad hoc per essere successivamente strumentalizzate. Il termine ingerenza è sicuramente improprio. Il tema della separazione tra i poteri dello Stato ed, al suo interno, quello dell'autonomia e dell'indipen-
za della Magistratura da ogni altro potere trova disciplina nell'articolo 104 della Costituzione. I padri della Costituzione non pensarono che la magistratura avesse potuto influire sulla vita della politica e non ne limitarono i poteri: un magistrato in Italia non è eletto come, ad esempio, negli Stati Uniti. Negli Usa in ogni contea siede un Procuratore distrettuale o Procuratore di Stato (rappresenta la pubblica accusa), che viene eletto direttamente dalla popolazione della contea con un mandato di quattro anni. Le leggi degli Stati federati stabiliscono se e quante volte può essere rieletto. In Italia il reclutamento dei magistrati avviene tramite un “concorso per esami di primo grado”, aperto cioè a tutti i laureati in Giurisprudenza, indipendentemente dalla loro votazione finale e dall’eventuale possesso di titoli ulteriori. Dalla fine degli anni Sessanta la progressione di carriera è legata solo all'anzianità e il Csm decide l'attribuzione delle posizioni in base a valutazioni comparative, ma orientate politicamente. I nostri Padri costituenti, non valutando la possibilità di un possibile conflitto tra potere politico e giudiziario, forse diedero per scontato che esso non sarebbe nato in quanto i giudici sarebbero stati l’élite
intellettuale della popolazione, quindi in qualche modo completamente esterni e distanti dal clima politico e ideologico del paese. I padri costituenti non valutarono nemmeno l’altro piatto della bilancia, infatti non ipotizzarono mai che la classe politica dirigente, uscita mortificata dal ventennio fascista, dal secondo conflitto mondiale, figlia della resistenza, nell’arco di pochi decenni potesse volgersi al sistematico malcostume e alla corruzione. Se questo è il contorno storico che fa da cornice alla discussione pubblica in atto nel Paese, una serie di atti politici ne hanno reso di stringente attualità il problema. Il 30 luglio 2007, a conclusione di un percorso parlamentare non privo di insidie considerando l’estrema delicatezza politica della materia e dei precari equilibri instauratisi tra le coalizioni parlamentari nella
Nel 2001 nel programma elettorale del centrodestra entra a far parte anche quella che sarà poi chiamata “riforma Castelli”: una legge delega per riformare la giustizia attraverso la separazione delle carriere, le modifiche all’iter formativo dei magistrati e una più ampia inge-
renza del Ministero nella gestione della politica giudiziaria. Proprio quest’ultimo punto convinse nel dicembre del 2004 l’allora presidente della Repubblica Ciampi a rinviare il testo alle Camere per incostituzionalità (lesione dell’indipendenza della Magistratura).
legislatura conclusasi anticipatamente, giungeva ad approvazione il Ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario proposto dall’allora ministro della Giustizia Mastella. Il provvedimento era in diretta continuità con la precedente riforma Castelli, ma vi apportava numerosi mutamenti ai decreti legislativi volti a superare gli ostacoli incontrati nel 2004. Un testo di legge assai ampio e complesso che si concentrava in primo luogo sulle norme dedicate all’accesso in Magistratura ed al tirocinio degli uditori giudiziari: trasformare cioè il sistema per il reclutamento dei magistrati ordinari in un concorso che tende a divenire di secondo grado, simile a quello tradizionalmente previsto per i giudici speciali. In secondo luogo determinare sin dal momento del loro effettivo ingresso nell’ordine giudiziario (coinci-
dente con la nomina a uditore) quella separazione delle funzioni requirenti e giudicanti, vale a dire la separazione delle carriere. Fino ad arrivare alla cronaca dei nostri giorni, con il disegno di legge proposto dall’ex guardasigilli Angelino Alfano. Oltre all’eterno nodo sulla divisione delle carriere e oltre anche all’allargamento della responsabilità civile, il provvedimento vorrebbe prevedere lo sdoppiamento del Csm, nel quale: un primo posto sarebbe a sovrintendere i giudici, un secondo invece i Pubblici ministeri, entrambi guidati dal presidente della Repubblica. L'azione del Pubblico Ministero non sarà più assolutamente obbligatoria, ma sarà vincolata ai “criteri stabiliti dalla legge”, scavalcando l’art.112 della Costituzione che indica l’obbligo del pm di esercitare l’azione penale. Una situazione di perpetuo braccio di ferro, che sembra ancora lontana dal concludersi. Anche se il campione dell’anti magistratura Silvio Berlusconi ha fatto un passo indietro, in attesa che passino le contingenze economiche e i governi tecnici voluti a dirimerle, la tensione tra magistratura e politica sarà nei prossimi anni sarà prevedibilmente ancora fortissima
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La riforma (im)possibile
Rivoluzionare la Giustizia è stato uno dei chiodi fissi dei governi della Seconda Repubblica. Ultimo a provarci l'ex ministro Alfano: i punti chiave di una legge che tutti vogliono, ma nessuno fa di Pasquale Raffaele
«S
ulla giustizia noi stiamo lavorando su tre cose molti importanti ma non cederemo sulla responsabilità civile dei magistrati. […] Non cederemo su un punto importante: il principio che chi sbaglia paga si deve applicare a tutti e non a tutti tranne che ai magistrati». La recente dichiarazione – lo scorso 30 marzo - dell’ex Guardasigilli Alfano, in occasione dell’Academy di Confagricoltura, appare più che indicativa dell’importanza attribuita dal precedente esecutivo alla responsabilità diretta della magistratura, tanto per il merito quanto per il contesto nel quale il segretario del Pdl si è espresso – non
esattamente un consesso di giurisperiti. La giustizia, ça va sans dire, costituisce da sempre uno dei capisaldi dell’azione di governo di Silvio Berlusconi, peraltro sbandierato sin dalla “discesa in campo” del 1994. Concetto ribadito dallo stesso ex presidente del Consiglio durante l’illustrazione – letterale, con tanto di schema raffigurante la “bilancia della giustizia”
Così Alfano il 30 marzo: «Il principio che chi sbaglia paga si deve applicare a tutti, e non a tutti tranne che ai magistrati».
prima e dopo - in conferenza stampa, del disegno di legge costituzionale Alfano, licenziato all’unanimità in un Consiglio dei Ministri straordinario il 10 marzo 2011. Trattandosi per l’appunto di legge costituzionale, la riforma Alfano avrebbe richiesto un complicatissimo iter per giungere all’approvazione definitiva: maggioranza assoluta sia alla Camera che al Senato e doppia deliberazione, con un intervallo minimo di tre mesi fra le due; inoltre, per evitare il referendum confermativo, alla seconda votazione – quella definitiva - sarebbe stata necessaria la maggioranza qualificata in entrambi i rami del Parla-
mento, vale a dire i voti favorevoli di due terzi dei componenti. Benché poggiasse su una iniziale maggioranza blindata, di fatto il precedente esecutivo non ha mai goduto del beneficio dell’aritmetica per portare avanti la riforma; oltretutto, in seguito alla scissione dei finiani, il quadro non ha fatto altro che aggravarsi, nonostante il salvifico apporto dei cosiddetti Responsabili, il nuovo gruppo parlamentare sorto nel dicembre 2010 a sostegno del Berlusconi quater. L’unica soluzione praticabile sarebbe stata la ricerca del consenso da parte dei partiti di opposizione, che al contrario si sono mostrati tie-
Il tarlo della giustizia da ritoccare ha “contagiato” l’intera Seconda Repubblica, centrosinistra incluso: simile al disegno di Alfano fu la bozza Boato del governo D’Alema
pidi (Udc e Fli), quando non apertamente ostili (Idv e buona parte del Pd). Tuttavia, è bene precisarlo, il tarlo della giustizia da ritoccare ha praticamente “contagiato” l’intera Seconda Repubblica, centrosinistra incluso: nel 1997, la Commissione parlamentare bica-
Benché poggiasse su un’iniziale maggioranza blindata, di fatto il precedente esecutivo non ha mai goduto dei numeri per portare avanti la riforma, anche prima della scissione dei finiani
merale per le riforme costituzionali voluta e presieduta dall’allora leader del Pds Massimo D’Alema approvò la cosiddetta “bozza Boato” (dal nome del deputato dei Verdi firmatario), ovvero un disegno di riforma della giustizia per alcuni aspetti simile proprio alla riforma Alfano; tuttavia, la bozza non vide mai definitivamente la luce, proprio a causa del Cavaliere che, inizialmente favorevole alla Bicamerale, fece poi saltare il tavolo ritirando il proprio sostegno. Fra le diverse modifiche sostanziali che la riforma avrebbe apportato, quella che ha scatenato la maggiore levata di scudi è stata proprio la norma inerente la responsabilità civile dei magistrati. Nel nostro ordinamento, tale responsabilità è
prevista dalla legge Vassalli (legge 117 del 1988), la quale sancisce che il magistrato può essere chiamato a rispondere dei danni causati dalle sue decisioni in caso di errore per “dolo o colpa grave”, ma sempre in maniera indiretta: in pratica, il cittadino che ritiene di avere subito un trattamento ingiusto può fare causa allo Stato e, se la vince, quest’ultimo può eventualmente rivalersi nei confronti del magistrato – sebbene tale procedimento sia piuttosto tortuoso, prevedendo addirittura nove gradi di giudizio per giungere a sentenza definitiva. La riforma Alfano intendeva invece introdurre la responsabilità civile “diretta”, in sostanza la possibilità di fare causa direttamente al magistrato, con il conseguente paga-
Attualmente, in caso di “dolo o colpa grave” il magistrato è perseguibile solo in maniera indiretta
mento di tasca propria al cittadino danneggiato, soprattutto per i casi di ingiusta detenzione. La principale obiezione sollevata nei confronti di questo principio – recentemente ribadita dallo stesso Csm in riferimento all’emendamento Pini – è che una simile spada di Damocle limiterebbe la serenità inquirente nel caso del pm, giudicante per quanto attiene il giudice. Tale principio appare ancora più azzardato se si considera che anche la bozza Boato lasciava immutato questo punto.
GLI
ALTRI SCORDIA”
“POMI
DELLA DI-
1. Csm e scelta dei membri: il Consiglio Superiore della Magistratura è l’organo di autogoverno dei magistrati: in sostanza prende decisioni riguardanti carriere, concorsi, trasferimenti e provvedimenti disciplinari. È composto da 21 membri, di cui 2/3 sono membri cosiddetti “togati” cioè magistrati ordinari eletti dai propri colleghi – e 1/3 membri “laici”, vale a dire nominati dal Parlamento fra docenti universitari di diritto e avvocati che esercitano la professione da almeno quindici anni; all’interno dei membri laici il Csm sceglie poi il vicepresidente che, di fatto, svolge i compiti di presidenza, carica simbolicamente ricoperta dal Presidente della Repubblica. La riforma dell’ex Guardasigilli proponeva di elevare la quota di membri laici, portandola alla metà del collegio: motivo del contendere era la potenziale maggiore dipendenza dell’organo dalla politica che ne sarebbe scaturita.
2. Separazione delle carriere e sdoppiamento del Csm: il nostro ordinamento prevede lo stesso concorso per l’ingresso in magistratura sia dei pm che dei giudici, a seguito del quale il vincitore può decidere quale carriera intraprendere, senza tuttavia precludersi l’altra in futuro. Al contrario, la riforma Alfano intendeva separare i concorsi, dunque gli iter professionali e, di conseguenza, l’organo di autogoverno, creando un Csm per i giudici e uno per i pubblici ministeri. 3. Provvedimenti disciplinari: il Csm prevede una apposita sezione disciplinare che si occupa della condotta dei magistrati, mentre la riforma Alfano prevedeva l’introduzione di un nuovo organo, l’Alta Corte di Giustizia, suddiviso in due sezioni: una per i giudici, una per i pubblici ministeri. Anche in questo caso, i membri sarebbero stati per metà laici e per metà togati. 4. Polizia giudiziaria: il pm, secondo quanto recita l’articolo 109 della Costituzione, “dispone diretta-
mente della polizia giudiziaria”. Il testo della riforma stabiliva, invece, che “il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge”, cioè rimandava le limitazioni a leggi ordinarie da approvare successivamente: in soldoni, aumentando l’autonomia della polizia giudiziaria, se ne accresceva la dipendenza dal Ministero dell’Interno e, di conseguenza, dall’esecutivo.
assoluzioni: avrebbe privato il pm, in caso di assoluzione dell’imputato in primo grado, della possibilità di ricorrere in Appello. Con la riforma, infatti, il ricorso sarebbe stato appannaggio esclusivo del cittadino che avesse ritenuto la prima sentenza non congrua.
6. Obbligatorietà dell’azione penale: mentre la Costituzione prevede attualmente “l’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale”(articolo 5. Inappellabilità delle 112), la riforma intendeva subordinare tale azione ai soli casi previsti da una Con la riforma il pm sarebbe stato privato legge ordinaria – che richiede quindi una maggiodel diritto d’appello ranza semplice in Parlain caso di assoluzione mento - da approvare sucdel cittadino in primo cessivamente
grado
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Difetti di interpretazione
Un emendamento introduce la responsabilità diretta dei giudici. Dicono ce lo chieda l’Europa e invece…
I
n Europa avranno pensato che l’Italia abbia qualche serio problema di interpretazione, visto il voto dello scorso 2 febbraio. Quel giorno a palazzo Montecitorio si votava il disegno dell’annuale legge comunitaria e tra gli articoli figurava un emendamento presentato dal deputato della Lega, Gianluca Pini, vicepresidente della commissione parlamentare relativa alle politiche dell’Unione Europea. I fanatici dell’aneddoto politico probabilmente non lo scorderanno mai: la votazione segreta con cui è stato approvato ha infatti segnato la prima sconfitta del governo dal giorno dell’insediamento di Monti. Andiamo indietro di 25 anni. Era il 1987, quando poco più dell’80% degli italiani, dalla segretezza delle cabine elettorali, decise che era il caso di appesantire gli oneri per gli arbitri dei processi, abrogando tre articoli del codice di procedura civile, che delimitavano i casi in cui giudici e magistrati potevano essere considerati civilmente responsabili per i danni causati a chi era stato erroneamente accusato. Circa un anno dopo, l’allora ministro di Grazia e Giustizia, Giuliano Vassalli, con la legge 117, stabiliva che chi avesse subito un danno a seguito della decisione presa da un magistrato potesse richiedere risarcimento allo Stato. Il magistrato doveva però aver agito con dolo o colpa grave, oppure «per diniego di giustizia». Costituivano colpa grave i casi in cui un giudice o un magistrato violavano una legge per «negligenza inescusabile», quelli in cui questi si rifacevano
di Elisa Gianni
Per i magistrati sono 5 le forme di responsabilità, tra cui penale, civile e disciplinare
Nel 1988 la leggeVassalli stabilì la possibilità di richiedere un risarcimento allo Stato per i danni arrecati dall’errore di un magistrato
ad atti che non rientravano nel procedimento o, al contrario, si negavano atti incontestabilmente inerenti al procedimento stesso; infine i casi in cui si emetteva un provvedimento circa la libertà della persona senza motivazione o al di fuori dei casi consentiti dalla legge. Più recentemente, due sentenze della Corte di Giustizia datate 2006 e 2011, hanno sanzionato l’Italia proprio a causa della legge Vassalli: perché non era stata ancora modificata al fine di comprendere i casi di violazione del diritto comunitario, e perché limitava la responsabilità dello Stato al dolo e alla colpa grave del giudice. Tutto questo, unito a un minimo di logica – nonché di conoscenza della legge comunitaria in quanto strumento per adeguarsi agli standard dell’Unione europea – giustificherebbe le modifiche apportate da Pini e suggerirebbe che queste si muovessero nel senso dell’allargamento della responsabilità civile. Vero, solo per metà. Da una parte, ai vincoli del dolo e della colpa grave, l’emendamento aggiunge la «violazione manifesta del diritto »; dall’altra viene introdotta la possibilità di agire non più solo contro lo Stato, ma anche direttamente contro il giudice o il magistrato stesso. Peccato che manchino i ritocchi circa l’estensione della legge Vassalli alle norme comunitarie, e che l’Unione non abbia mai parlato di responsabilità diretta dei giudici, dichiarando responsabile sempre e solo lo Stato. Stupiscono allora quei 264 sì all’emendamento, e stupiscono molto meno le reazioni a questa votazione – sulla cui richiesta di segretezza, forse adesso ci saranno meno punti interrogativi. Il ministro Paola Severino
ha storto il naso e si è detta disposta a modificare la norma, magari ricorrendo però a un unico intervento, anziché un emendamento qui e una modifica là, anche in vista della prossima riforma sulla giustizia. Dello stesso parare si è espresso il Pdl nella figura di Angelino Alfano, che pure si era impegnato con il governo a non far passare l’emendamento Pini. Si è arrabbiato l’Idv, che, per bocca del suo capogruppo in Senato, Felice Belisario, ha denunciato una «decisione che puzza di imbroglio e di vendetta ». Ma soprattutto si sono arrabbiati i diretti interessati. I magistrati hanno gridato al rischio di stallo e di perdita di indipendenza: un giudice, di fronte all’eventualità di essere chiamato in giudizio, potrebbe finire per decidere di non decidere. D’accordo anche Anm e Csm: la prima ha annunciato lo sciopero di protesta a quella che interpreta come una minaccia alla terzietà dei giudici; il secondo ha bocciato l’emendamento, denunciando il rischio di implosione. Al momento il disegno di legge è sottoposto al giudizio della Commissione giustizia del Senato. Dopo le dichiarazioni del ministro Severino e visto che il governo si accinge a riformare la giustizia, parrebbe poco presumibile il via libera. Ma è pur facile immaginare che dietro al voto del 2 febbraio a Montecitorio si nascondano quegli schieramenti dell’epoca berlusconiana, che potrebbero riaffiorare al Senato. Non sappiamo dirvi se l’emendamento passerà. Resteranno, senza dubbio, quelle 264 luci che si sono accese in segno di approvazione, abbagliate dall’interpretazione di chi sbaglia con coscienza
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Con l’emendamento Pini risponderebbero direttamente i giudici dei propri sbagli
Passato alla Camera, l’emendamento è attualmente in discussione al Senato
L’obiezione del giudice
L’Anm ha accolto con una sassaiola di critiche l’emendamento Pini. Intervista a Caterina Marotta* che ci spiega le motivazioni dei magistrati di Silvia Fiorito
A
sostegno delle modifiche introdotte dalla proposta di emendamento, il relatore Gianluca Pini adduce un triplice ordine di ragioni sostenendo che: le novità servono ad armonizzare il diritto interno a quello comunitario, poiché, negli altri stati europei, è prevista una responsabilità diretta del magistrato; precisa, inoltre, che non vi è alcuna ragione per la quale i giudici non debbano rispondere dei propri errori allo stesso modo dei liberi professionisti e degli altri funzionari dello Stato e che la minaccia della responsabilità civile varrà ad indurli a maggior cura e prudenza. RITIENE VEROSIMILI QUESTE MO-
TIVAZIONI?
«Quanto al primo aspetto va evidenziato che non esistono sentenze della Corte Ue che traccino un percorso nel senso di cui all’emendamento. Difatti il Consiglio d’Europa, con Raccomandazione del 17/11/10, nel delineare quella che è stata definita la “Magna Charta” dei giudici europei, ha espressamente limitato ai casi di dolo e colpa grave la responsabilità civile dei magistrati, escludendo l’azione civile diretta, con l’ulteriore precisazione che “i giudici non de-
*Il giudice Caterina Marotta lavora come consigliere della sezione lavoro presso la Corte di Appello di Potenza
vono essere personalmente responsabili se una decisione è riformata in tutto o in parte a seguito di impugnazione”. Quanto al secondo aspetto, non è assolutamente vero che
«La responsabilità diretta espone il magistrato a potenziali minacce da parte di privati cittadini dalle grandi disponibilità economiche»
una norma simile a quella di cui all’emendamento trovi equivalenti negli altri stati europei, a differenza di quanto sostiene il ministro della Giustizia Paola Severino. È vero esattamente il contrario dal momento che in alcuni Stati la legislazione è ancora più garantista di quella italiana. La terza motivazione è più sostanziale e suggestiva. Concordo in tal senso con l’Anm e il Csm, i quali affermano che l’emendamento non tiene conto delle ca-
ratteristiche dell’attività decisoria del giudice che rende diversa la sua posizione rispetto a quella di ogni altro pubblico impiegato o professionista; è altresì un’esigenza costituzionale quella di salvaguardare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura quale presidio indispensabile per la tutela dei diritti fondamentali di ciascuno. La prevista azione diretta rischia di compromettere l’indipendenza e la serenità del giudizio del magistrato in quanto lo espone a potenziali minacce da parte di privati cittadini dalle grandi disponibilità economiche. Del resto, anche per altre categorie è prevista la citazione solo dello Stato con diritto di rivalsa, come ad esempio la pubblica dirigenza e il personale scolastico, proprio per la particolarità e de-
La legge Vassalli tuttavia è pesante e richiede altre riforme, come confermato da Rodolfo Sabelli (foto), presidente dal 2012 dell’Anm
licatezza delle funzioni esple- facilmente attaccabile; si rischia, tate». inoltre, un’involuzione del preQUALI SAREBBERO I RISCHI SE L’E- sidio di legalità: attraverso la reMENDAMENTO VENISSE APPROVATO sponsabilità diretta ci si potrebbe ANCHE IN SENATO E DIVENISSE facilmente liberare di un giudice LEGGE? scomodo o non gradito, essendo sufficiente, per il sistema delle incompatibilità, una citazione «La “Magna Charta” dei giudici per evitarne il giudieuropei ha espressamente limitato ai pretestuosa zio. Un effetto alquanto perverso casi di dolo e colpa grave la dunque. In un passo di una relaresponsabilità civile dei magistrati» zione del 1984 su "Il ruolo del giudice nella società che cambia" «Innanzi tutto un giudice po- Rosario Livatino, nell’affrontare trebbe preferire ruoli con coeffi- anche l'argomento spinoso della ciente di rischio inferiore, anche responsabilità civile del magia costo di sacrificare propensioni strato, riassume così le pericolose e competenze individuali, e ri- conseguenze di cui ho parlato: cercare soluzioni che risultino “sarebbe quindi inevitabile ch'emeno dannose per sé stesso piut- gli – il giudice - si studiasse, più tosto che conformi al diritto e ai che di fare un provvedimento fatti. giusto, un provvedimento innoAltra potenziale insidia è la cuo”». nascita di una frattura definitiva fra giudici singoli e giudici colleA destra Cosimo Ferri, segretario di giali, essendo evidente che il giu- Magistratura indipendente durante l’audizione all’ Anm dell’emendamento Pini dice singolo è più esposto e più
COM’È
POSSIBILE MIGLIORARE LA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE IN ITALIA?
«Si può ridiscutere della macchinosità del sistema disegnato dalla Legge Vassalli, ovvero del singolare scarso ricorso da parte dello Stato. Ciò non può, però, giustificare la scelta di una soluzione che bypassi lo Stato ponendo il magistrato direttamente di fronte al cittadino. È certo che l’emendamento Pini ponga il problema degli errori giudiziari, anche gravi, che sconvolgono la vita delle persone. Ma introduce, come ho detto prima, il problema della qualità delle decisioni giudiziarie. A questo scopo dovrebbero operare in primis la disciplina delle impugnazioni e del controllo dei provvedimenti, la responsabilità penale per gli abusi, quella disciplinare per le mancanze per limitare le progressioni di carriera in presenza di accertate inadeguatezze. Al
medesimo scopo dovrebbe tendere l’auspicato potenziamento di strumenti e risorse a supporto nell’attività giurisdizionale : si pensi non solo al piano più strettamente organizzativo, ma anche a quello tecnologico e informatico, aspetti che certamente richiedono oggi di essere perfezionati e resi più efficienti. Se è il giudice europeo che deve fungere da modello per una figura di magistrato responsabile, è al complessivo sistema giudi-
«Immediate le conseguenze sul principio del giudice naturale, poiché ci si potrebbe facilmente liberare di un giudice scomodo»
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ziario in Europa che occorre guardare per realizzare, in concreto, una più efficace tutela del cittadino»
Lascia e raddoppia
La giurisprudenza dell’Unione europea impone la responsabilità civile agli Stati. L’emendamento Pini è sbagliato e l’Italia non solo ha una normativa discorde, ma è lenta a recepire le direttive, trovandosi spesso a pagare due volte
S
e un cittadino subisce un torto giuridico in un ambito nel quale legifera l’Unione europea, allora lo Stato membro dell’Unione europea risarcisce quel cittadino. Questa regola definita di “responsabilità civile dello Stato a seguito di una violazione del diritto comunitario” non è un articolo né un comma né una legge scritta su carta: è un principio generale invalso negli anni grazie all’applicazione della giurisprudenza comunitaria e vale solo se il giudice sbaglia o interpreta male una legge dell’Ue. Ed è ciò per cui l’Italia è stata condannata con una sentenza del 2006. Nel 1981 la Traghetti del Mediterraneo citò la Tirrenia per concorrenza sleale e abuso di posizione dominante (ambiti di diritto comunitario). In tutti e tre i gradi di giudizio il Tribunale di Napoli respinse il ricorso, ma secondo la Traghetti del Mediterraneo nell’ultimo grado (l’unico di fronte al quale secondo l’Unione valga la responsabilità dello Stato) il giudice aveva ignorato la normativa europea, violando quindi il diritto
di Lorenzo Ligas
comunitario. La società, nel frattempo finita in liquidazione, citò in giudizio lo Stato italiano e si rivolse al Tribunale di Genova che rinviò tutto alla Corte di giustizia europea. Quest’ultima, nel 2006, non solo condannò lo Stato italiano a risarcire la Tdm, ma stabilì che il principio generale europeo di responsabilità civile degli Stati membri s’imponeva sulle leggi nazionali e quindi anche, e soprattutto, su quella italiana. Indipendentemente da ciò e indipendentemente dalla sentenza Traghetti del Mediterraneo, c’è da dire che la lentezza cronica dell’Italia nel recepire
La responsabilità civile degli Stati membri non è una legge scritta, ma un principio generale invalso negli anni con l’applicazione della giurisprudenza europea
(adeguarsi alle norme europee, ndr) le direttive comunitarie pone i giudici italiani spesso nella condizione di non saper che pesci pigliare. Seguire le leggi italiane o quelle comunitarie? Le soluzioni sono due. La prima è che il giudice rinvii pre-
Con la particolarità della Spagna, in cui c’è il filtro di un Tribunale che valuta la sussistenza dei requisiti, negli altri Paesi membri non esiste la responsabilità civile diretta
giudizialmente il caso alla Corte di giustizia europea che però condanna l’Italia perché la legge discorda da quella comunitaria. La seconda è che il giudice preferisca la normativa nostrana: allora però il cittadino si rivale in sede europea e la Corte con-
La nostra legislazione in materia di responsabilità civile è due volte limitata, ma la Corte di giustizia europea (in foto) non ci punisce perché non esiste quella dei giudici danna l’Italia non solo perché è stato violato il diritto comunitario, ma anche perché la nostra legge sulla responsabilità civile dello Stato discorda con il principio europeo. Comunque si muova il giudice, lo Stato italiano paga o, come nel secondo
caso, paga due volte. Dal 2006 la Commissione europea non ha fatto altro che ricordare più volte all’Italia che la sua legge Vassalli è sbagliata e che va corretta perché a) non comprende la violazione del diritto comunitario e perché b) è limitata ai soli casi di dolo e colpa grave del giudice. I nostri governi non hanno mai risposto ai richiami europei fino alla sentenza del 2011 (quella che viene ossessivamente citata in aula alla Camera, ma che in realtà è solo un ricorso figlio della sentenza Traghetti del Mediterraneo) che accoglie il ricorso della Commissione contro il nostro Stato, obbligando quest’ultimo a pagare le spese del procedimento. Nel Regno Unito vige il principio della “immunità giudiziaria”: i magistrati non rispondono degli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni e ciò al fine di tu-
telare la loro indipendenza ed autonomia di giudizio; in Francia lo Stato, se condannato, può rivalersi sul giudice solo in caso di una mancanza “particolarmente grave”, ossia in caso di dolo; in Germania, Portogallo e Belgio la situazione è, grosso modo, paragonabile alla nostra, ma non si prevede la responsabilità diretta per gli atti connessi all’esercizio delle funzioni; in Spagna lo Stato e il magistrato possono essere chiamati in giudizio in solido, ma dopo una verifica preliminare da parte di un’Alta corte che abbia accertato la sussistenza del dolo o della colpa grave del magistrato; nei Paesi Bassi è prevista solo l’azione civile contro lo Stato che non ha azione di rivalsa contro il magistrato. Gli altri Paesi non violano il principio di responsabilità dell’Ue, nonostante alcuni ordinamenti, come quelli francese e
spagnolo, siano simili al nostro. Il panorama è variegato, frastagliato e, a volte, interpretabile; le norme presentano limitazioni e oscillano tra l’estremo britannico e quello spagnolo. Ma da un dato non si può scappare: dobbiamo adeguarci alle norme europee e la responsabilità degli errori dei funzionari pubblici, e quindi dei giudici, deve cadere sempre in
L’Italia è lenta ad applicare le direttive europee e i giudici si trovano spesso di fronte a un bivio: scegliere le leggi comunitarie o quelle del nostro Paese?
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primo luogo sulle spalle dello Stato. Altrimenti, proseguendo con questa riforma o lasciando le leggi in vigore, finiremo per pagare sempre. Due volte
ÂŤDovevo fare il mafioso, non il Giudice...Âť
L’inchiesta della Boccassini sulla ‘ndrangheta in Lombardia continua a scavare nella cosiddetta “zona grigia”. Ultimo arrestato il gip di Palmi Giancarlo Giusti. Assolto e poi promosso dal Csm
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uesto è il meccanismo di base sul quale si fonda la criminalità mafiosa». Non ha usato mezzi termini il gip Giuseppe Gennari per definire i reati contenuti nell’ordinanza di cattura emessa il 28 marzo nei confronti del suo ex collega Giancarlo Giusti, magistrato di Palmi (Reggio Calabria), ora agli arresti nel carcere di Opera a Milano con l’accusa di corruNel 2010 parte l’inchiesta della zione aggravata da mafiosa. Boccassini sugli finalità E proprio dalla affiliati alle Direzione distretcosche calabresi tuale antimafia del Valle-Lampada capoluogo lombardo è partita nel luglio 2010 l’inchiesta contro gli affiliati alle cosche Valle-Lampada, portata avanti dal pool del procuratore aggiunto Ilda Boccassini, in cui si inserisce adesso la vicenda del giudice Giusti, per cui gli inquirenti ipotizzano un’assidua collaborazione con il boss Giulio Lampada. Premi e regali in cambio della sua disponibilità verso la ‘ndrangheta, sostiene l’accusa. In realtà il nome del gip Giancarlo Giusti era spuntato fuori
di Nicola Chiappinelli
già nello scorso novembre, quando tra gli altri erano finiti in arresto il giudice del Tribunale di Reggio Calabria Vincenzo Giglio, l’avvocato del Foro di Palmi Vincenzo Minasi, e il consigliere regionale Francesco Morelli, eletto nella lista "Pdl-Berlusconi per Scopelliti". Per i tre si andava da imputazioni come corruzione e favoreggiamento personale, fino al reato di concorso esterno in asIl nome di sociazione mafiosa. Giancarlo Giusti In quell’occasione salta fuori già a Giusti era stato solo novembre perquisito, e gli inquirenti milanesi, scorso, ma viene che hanno compesolo perquisito tenza territoriale perché il reato al centro dell'inchiesta è quello di associazione mafiosa riguardo agli interessi del clan Valle, legato a quello dei Lampada e con base operativa tra Milano e Pavia, dovevano ancora chiarire in che modo il magistrato calabrese avesse potuto ricambiare le attenzioni del boss Giulio Lampada. Corruzione aggravata da finalità mafiosa è l’accusa che pende su Giusti: «È il meccanismo su cui si fonda la mafia» ha commentato il Gip
Le relazioni pericolose prese in esame si sviluppano dalla fine del 2008 fino al 2010, confermate dagli incontri “pericolosi” di Giusti
Il materiale raccolto nelle settimane successive, grazie anche alle testimonianze degli arrestati, è quindi servito a rinforzare l’apparato accusatorio del Tribunale di Milano, che ha chiesto il fermo per il giudice di Palmi anche perché la sospensione dalle funzioni e il blocco dello stipendio, a cui era stato sottoposto a dicembre, sono state ritenute misure insufficienti; la sua pericolosità deriva piuttosto «dalla intensissima rete di relazioni che egli ha maturato e che non è affatto legata al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali». E infatti il gip Gennari lo descrive anche «come mediatore di relazioni sociali e moltiplicatore di obblighi di riconoscenza e debito». Lo scenario elaborato trova un
In alto a destra l’ex giudice di Palmi la cui pericolosità secondo il Tribunale deriva «dalla intensissima rete di relazioni maturata [...]»
suo apice nel diario elettronico tenuto da Giusti, interamente ricostruito dagli inquirenti, in cui venivano annotati incontri con i Lampada, ma anche performance amorose e stati d’animo. «Donne, amore, vino e affari», scrive il giudice, che davanti al pc si spoglia dei connotati pubblici e arriva a consigliare a se stesso «più utilitarismo anche nello scegliere con chi stare». Le relazioni pericolose prese in esame dalla magistratura si sviluppano soprattutto dalla fine del 2008 al 2010, e sembrerebbero confermate da una serie di incontri in cui gli inquirenti rivedono il fulcro della presunta attività illecita di Giusti, all’epoca ancora giudice delle esecuzioni immobiliari presso il Tribunale di Reggio Calabria: si parla ad esempio di una sua partecipazione in una società occulta del clan Lampada che avrebbe acquisito immobili alle aste di cui lo stesso magistrato si occupava; si parla della "Indres", la società immobiliare intestata in maniera fittizia all’avvocato Vincenzo Minasi (arrestato il 30 novembre 2011), ma riconducibile in realtà ai Lampada, che
così avrebbero partecipato in maniera anonima alla vendita di proprietà pignorate; si parla delle 116 consulenze su aste immobiliari affidate al perito “amico”, l’architetto Fabio Pullano, con in più i 34 incarichi conferiti alla di lui moglie, l’architetto Concetta Delfino; si parla di Gabriele Quattrone, un medico che ottiene di fare il perito per il Tribunale della città dello Stretto, legandosi così a doppio filo, secondo il teorema inquirente, sia con il magistrato e sia con la famiglia ‘ndranghetista che lo sostiene in maniera attiva. A queste gravi accuse si deve poi aggiungere che in precedenza il giudice era già risultato coinvolto in una vicenda poco limpida, che gli aveva causato guai amministrativi, per poi essere assolto e addirittura promosso dal Csm. È il 2005 quando la società “Tridea” si aggiudica un lotto immobiliare del valore di 600 mila euro in un’asta regolata proprio da Giusti, allora in funzione presso il Tribunale di Reggio Calabria. Ma a chi appartiene questa “Tridea”? Nientemeno che a
Nel 2005 la Tridea, dell’ex suocero di Giusti, vince un’asta fallimentare presieduta dallo stesso Giusti, che verrà poi assolto e promosso dal Csm
Santo Puntillo, padre di Teresa Puntillo, ex moglie di Giusti, nonché suo avvocato difensore nell’inchiesta milanese. Altri soci sono l’architetto Delfino, già citata moglie del “perito di fiducia” Pullano, e un tale Giovanni Catalano, che risulta avere come le-
La disinvoltura dei legami tra il giudice e i diretti beneficiari dell’asta costringe il Csm ad aprire l’indagine per illecito disciplinare
gale proprio l’avvocato Teresa Puntillo. Considerata l’eccessiva disinvoltura dei legami tra il giudice e i diretti beneficiari del suo operato, il Consiglio superiore della magistratura si vede costretto ad aprire un’indagine per illecito disciplinare, ma nel 2007 la sentenza di assoluzione riconosce a Giusti la buona fede «nel tentativo di riorganizzare un ufficio
ereditato in condizioni disastrose», ed esclude così «una compromissione del prestigio dell'ordine giudiziario». Diversamente dal Csm la pensa però il Consiglio giudizia-
Il Consiglio giudiziario di Reggio è però contrario allo scatto di carriera. «Parere negativo dei bastardi di Reggio» commentò Giusti sul diario
rio di Reggio Calabria, che nell’aprile del 2010 dà parere negativo su un suo possibile scatto di carriera sostenendo che, nella vicenda “Tridea”, Giusti «ha di fatto operato una totale delega gestionale a suoi stretti collaboratori [..] cosi offrendo prova di scarse capacità organizzative, effettive e non meramente formali del proprio lavoro». Per il gip di Milano Giuseppe Gennari, con queste parole, «nei limiti del linguaggio
burocratico consentito dalla sede e dalla natura dell’atto, i colleghi di Giusti gli danno sostanzialmente del delinquente». E lui lo capisce benissimo, tanto da annotare nel suo diario elettronico, alla data 4 agosto 2010: «Parere negativo dei bastardi di Reggio». Eppure, nonostante il parere del Consiglio giudiziario, un anno dopo arriva anche la tanto agognata promozione, con il riconoscimento da parte del Csm del «positivo superamento della terza valutazione di professionalità». Decisione che vede l’intervento dello stesso Giusti, il quale si attiva per spiegare le difficoltà in cui si sarebbe ritrovato a svolgere le sue funzioni. Alla fine i consiglieri scriveranno che i dubbi sulla regolarità della prassi seguita comunque «non possono
A differenza del Csm, il Consiglio ha ritenuto che giusti «ha di fatto operato una totale delega gestionale, offrendo prova di scarsa capacità»
«Sono una tomba, peggio di...ma io dovevo fare il mafioso, non il giudice» disse Giusti al telefono con il boss Giulio Lampada (in foto)
fare dimenticare il buon operato registrato nell'attività» del giudice.
È il novembre del 2011. Neanche due settimane dopo, da Milano, scattano gli arresti del magistrato Giglio, del consigliere regionale Morelli e dell’avvocato Minasi. Saranno le loro testimonianze ad aiutare gli inquirenti a fare luce sulla vita e gli affari di Giusti, che nel primo interrogatorio si è detto consapevole di aver commesso degli errori «in riferimento ai viaggi, alle cene pagate e alle escort», ma senza esser stato mai in accordi con la ‘ndrangheta. Intanto arriva la notizia che il magistrato, oltre che dalla procura lombarda, è indagato anche dalla Dda di Catanzaro, in un procedimento però staccato che lo vede sotto inchiesta per episodi specifici risalenti a quando prestava servizio nel tribunale di Reggio Calabria, dove ha ricoperto vari incarichi. Torna allora alla mente la grande «fiducia istituzionale» che gli aveva espresso solo pochi mesi fa il Csm. Recentemente, al programma di La7 Omnibus, il vicepresidente dell’organo di au-
togoverno della magistratura Ugo Vietti, alla domanda di possibili errori riguardo alle valutazioni professionali positive su Giusti, ha concesso un «forse», aggiungendo però che «del senno di poi sono piene le fosse». Quella del Csm è stata insomma, secondo Vietti, una valutazione regolare fatta in base agli atti di cui si aveva disponibilità in quel momento, che non potevano immaginare cosa sarebbe scoppiato di lì a breve. A confermarlo, paradossalmente, è lo stesso giudice imputato, che durante una telefonata col boss Giulio Lampada, senza troppi giri di parole, ammette: «Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice...»
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Solo un falso mediatico
Nel 2008 i titoli dei giornali ci hanno raccontato di una battaglia tra la procura di Salerno e quella di Catanzaro. Quando un titolo è lontano dalla realtà. di Michela Mancini
L
’omino in giacca e cravatta che prendeva il caffè al bar e sbirciava il quotidiano del suo vicino si sarà immaginato una bizzarra corsa agli armamenti, toghe schierate, aria di complotto, e dulcis in fundo l’intervento salvifico del Csm, che come ogni deus ex machina che si rispetti, risolve l’intreccio, ristabilendo l’ordine lì dove regna il caos. “Guerra tra Procure”: i giornali titolavano così la battaglia di Catanzaro contro Salerno, ma di tutto questo una cosa sola era vera: il caos. Il personaggio chiave attorno cui si snoda tutta la vicenda è Luigi De Magistris, ora sindaco di Napoli, allora pubblico ministero alla procura di Catanzaro. Furono tre le inchieste che il pm mise in piedi: Why Not, Posei-
done, e Toghe Lucane. Furono tre le inchieste da cui fu allontanato: Why Not, Poseidone e Toghe Lucane. Poseidone gliel’ha tolta il suo allora capo della procura di Catanzaro, Mariano Lombardi; Why Not gli è stata avocata, quindi tolta anch’essa dal procuratore generale, Dolcino Favi. A
Poseidone tolta dal capo della procura di Catanzaro, Why Not gli è stata avocata. De Magistris è la chiave di una guerra che non esiste
De Magistris era rimasta la terza indagine, quella sulle Toghe Lucane, che aveva fatto in tempo a completare, nonostante il trasferimento. Mentre stava scrivendo le richieste di rinvio a giudizio,
da Napoli è partito l’ordine di trasferimento immediato. Di tre inchieste, a De Magistris, non gliene hanno lasciata concludere neppure una. E come se non bastasse, l’ex pm venne allontanato
Prima di essere trasferito a Napoli, De Magistris si rivolge alla procura di Salerno, allla quale spetta di controllare l’operato di Catanzaro
dalla procura di Catanzaro e trasferito a Napoli. Prima che De Magistris venisse trasferito a Napoli, sentendosi nel mirino di molti colleghi, di ispezioni ministeriali e interrogazioni parlamentari, decise di rivolgersi alla procura di Salerno, alla quale spetta il dovere di controllare l’operato della procura di Catanzaro. È importante sottolineare che la competenza di Salerno su Catanzaro non è una “competenza
incrociata”. A vigilare sull’operato di Salerno ci pensa Napoli, non Catanzaro. Da qui l’inesattezza della dicitura “guerra tra procure”. Mentre De Magistris si rivolgeva a Salerno per denunciare presunte irregolarità all’interno della procura di Catanzaro, quest’ultima di rivolgeva a Salerno per accusare il pm di tutte le possibili nefandezze. Salerno fa le indagini su entrambi i fronti: le denunce del pm ai colleghi di Catanzaro e le denunce dei colleghi sul pm. Dopo mesi di indagini la procura di Salerno arriva a delle conclusioni. De Magistris si è comportato bene, è stato corretto, tutte le denunce a suo carico vengono archiviate. Mentre si scopre che, le denunce di De
Il controllo incrociato tra le procure non esiste più. Se su Catanzaro la competenza spetta a quella di Salerno, su Salerno vigila Napoli
L’inchiesta “Poseidone” riguardava una decina di depuratori che avrebbero dovuto essere costruiti in Calabria per ripulire il mare sporco. Questi depuratori erano stati finanziati dall’Unione europea con circa 800 milioni di euro. Conclusione: i depuratori non sono mai stati costruiti e i soldi sono spariti. Un gravissima
truffa ai danni dell’Europa, un enorme danno erariale e un’amara offesa all’economia delle Calabria. De Magistris indagava sui presunti profili penali della vicenda. Ancora una volta nelle carte spuntano nomi ingombranti: politici, prestanome, società fantasma.
Magistris sui colleghi di Catanzaro hanno un fondamento: viene scritto il decreto di perquisizione e di sequestro probatorio della Procura della Repubblica di Salerno per andare a prendere quelle famose carte a Catanzaro. Le faLe carte di Why mose carte altro non Not sono contese sono che i fascicoli tra la procura di dell’inchiesta Why Not. Sì, proprio Catanzaro e dove risultava quella di Salerno quella indagato l’allora ministro Mastella. Così un bel giorno, l’omino in giacca e cravatta andando al bar legge sul quotidiano del vicino: “Guerra tra procure”. E, magari, ci crede. Ma i fatti sono altrove. Antonello Tomanelli, avvocato e curatore del sito di informazione giuridica Difesa dell' informazione, ha scritto:
«Tutto inizia la mattina del 2 dicembre 2008, quando un drappello di carabinieri e agenti della Digos irrompe negli uffici giudiziari e nelle abitazioni di alcuni magistrati della procura di Catanzaro, con in mano un decreto di perquisizione e sequestro. I magistrati di Salerno avevano scoperto che l’inchiesta “Why not”, tolta a De Magistris, era stata spezzettata e affidata a svariati pubblici ministeri privi di un coordinamento e, in al-
cuni casi, della necessaria competenza. Sembra che fossero sparite relazioni tecniche e verbali di polizia giudiziaria redatti sotto De Magistris. Risultato: netta prevalenza delle richieste di archiviazione, soprattutto nei riguardi dei politici. Il tutto, pare, in cambio di favori. Per questo la procura di Salerno decide di procedere nei riguardi di decine di persone, tra cui otto magistrati di Catanzaro, per reati che vanno dalla corruzione giudiziaria, al falso in atto pubblico, al favoreggiamento. I fascicoli della “Why not” vengono così sequestrati e portati a Salerno. Ma i magistrati campani non fanno in tempo ad aprirli. La procura generale di Catanzaro, formalmente titolare della “Why not”, emana un decreto di sequestro che le permette di rientrare in possesso di quei fascicoli, avviando un procedimento nei confronti dei magi«I fascicoli di strati salernitani Why Not sono per abuso d’ufficio sequestrati e e interruzione di pubblico servizio. portati a Salerno, ma non si fa in Un provvedimento “eguale e contra- tempo ad aprirli» rio” a quello dei colleghi salernitani, che fonda l’impostazione mediatica della cosiddetta “guerra tra procure”. Un’impostazione che
L’inchiesta Toghe Lucane. L’indagine metteva luce su intricate vicende fra cui spiccavano nomi di magistrati, avvocati, imprenditori e funzionari che avrebbero gestito affari in Basilicata. Durante le indagini, l’allora
ministro Mastella (sì, proprio quello che risultava indagato nell’inchiesta Why Not) chiese al Csm il trasferimento cautelare d'urgenza di De Magistris, per presunte irregolarità nella gestione del caso. Irregolarità scon-
fessate nel 2009 dal gip di Salerno Maria Teresa Belmonte che ha prosciolto De Magistris dall'accusa di rivelazione di segreti d'ufficio e abuso d'ufficio. Nel marzo 2011 l'intera inchiesta è stata infine archiviata dal gup
di Catanzaro Maria Rosaria di Girolamo, che ha definito l'impianto accusatorio «lacunoso» e tale da non presentare elementi «di per sé idonei» a esercitare l'azione penale. Tutti e trenta gli indagati sono così stati prosciolti.
Anche nell’indagine Why not si parla di finanziamenti pubblici europei scomparsi nel nulla. Ingenti somme che avrebbero dovuto sviluppare attività economiche nel settore informatico magicamente scomparse nelle tasche dei soliti noti. L’ imputato principale era Antonio Saladino, leader della Compagnia delle
Opere, in Calabria. Un’inchiesta particolarmente scomoda che ha visto iscritti nel registro degli indagati nomi illustri. Uno fra tanti: l’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella per i suoi rapporti con Saladino e con altri faccendieri come l’ ex piduista Luigi Bisignani.
genera uno dei più clamorosi casi di disinformazione degli ultimi decenni». Il cosiddetto “controsequestro” dei fascicoli avviato da Catanzaro è giuridicamente inammissibile. Come già detto, Salerno è competente sulla procura calabrese. Catanzaro avrebbero dovuto, per ottenere giustizia su Salerno, rivolgersi ai magistrati della procura di Napoli, che è il tribunale competente per i reati commessi dai magistrati di Salerno. La simmetria fra le due procure è inesistente. La competenza incrociata è decaduta dal 1995. Ma il ministro della Giustizia Angelino Alfano si comporta come se tale principio di simmetria esistesse ancora e chiede il trasferimento dei due magistrati di Salerno che hanno firmato il decreto di sequestro, dei tre magistrati di Catanzaro firmatari del cosiddetto “controsequestro”, nonché dei rispettivi capi (il procuratore di Salerno Luigi Apicella e il procuratore generale di Catanzaro Enzo Iannelli). Così i magistrati di Salerno si ritrovano puniti per aver compiuto il loro dovere. Il loro operato viene equiparato a quello dei magistrati catanzaresi, i quali hanno esercitato i propri poteri nonostante la presenza di un evidente interesse personale e in palese violazione delle norme che regolano la competenza territoriale
nei procedimenti penali contro i magistrati. Dal caos mediatico viene fuori una rissa tra magistrati irresponsabili. E senza possibilità di smentita, visto che ai magistrati è fatto divieto rilasciare interviste sui procedimenti che trattano. Ma l’opera di disinformazione non si ferma qui. Il 9 gennaio il tribunale del riesame di Salerno, al quale alcuni indagati si erano rivolti per l’annullamento del provvedimento di perquisizione e sequestro emesso dalla procura di Salerno, ha rigettato il relativo ricorso. In sostanza, secondo il tribunale, l’impianto accusatorio approntato dai magistrati della procura di Salerno, con particolare riferimento alla qualificazione del fascicolo “Why not”, è corretto. Salerno aveva ragione a reclamare quelle famose carte. Di questo poco è stato detto. Le due procure rimangono ai due lati della bilancia, nonostante un terzo Disinformazione tribunale abbia dato e confusione: dal ragione a Salerno. caos mediatico Quello che riviene fuori una mane è un titolo di giornale. Se l’omino rissosa guerra tra in giacca e cravatta magistrati immaginasse cosa vi si nasconde dietro, forse rimarrebbe a leggere il resto dell’articolo
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Settimanale quotidiano*
*Un tema a settimana, un aggiornamento ogni sera.