Quote rosa

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numero 6

Il Serale

16 aprile 2012

Settimanale quotidiano

Quote rosa

Una terapia aggressiva, ma che funziona e serve



Non mi muovere

Il Paese da solo non sa accettare la parità di genere. E allora imporre il mutamento culturale per svincolare le quote rosa dalla pubblicità elettorale è la via più sicura per adeguarci all’Europa. di Lorenzo Ligas

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ndietro, sempre più indietro. Le cosiddette “quote rosa”, che sono poi solo la variante per donzelle di quelle che tutta l’Europa chiama “quote di genere”, in Italia faticano a trovare spazio ed essere accettate. Non solo nel lavoro e nella società, e i dati di questo numero ne parleranno, ma soprattutto lì dove gli esempi hanno l’autorità per imporsi come rotta da seguire. Infatti, nonostante nel 2011 il Ddl Carfagna abbia messo mano ai Cda delle società quotate in borsa, che avranno tempo fino al prossimo luglio per assestarsi e provvedere, è la presenza femminile in politica a rimanere ancora orfana di una regolamentazione nazionale e di una legge elettorale non ambientata nel Trecento. Durante l’assenza di questa indicazione, che sia più precisa dell’articolo 51 della Costituzione, tocca alla sensibilità dei Tar e ad un labirinto di statuti regionali e comunali garantire la partecipazione rosa nelle liste. Eppure l’esperimento del 1995 dimostrò che anche in Italia un’inversione di rotta può incidere nel lunghissimo periodo; quindi perché non seguire l’esempio del Belgio? Applicare decreti mirati che impongano i mutamenti culturali e che viceversa ci impediscano di aspettarli in piedi nel salotto di casa, come fossero donzelle dai tempi lunghi. Fischiettando ora una riforma ora una commissione per le pari opportunità, neghiamo, guardandoci allo specchio, la disparità di genere. Per chi guarda noi e lo specchio però rimaniamo sostanzialmente indietro, sempre più indietro. In realtà non ci siamo mai mossi.


Asimmetrie di potere

La sottorappresentanza politica femminile: dopo l’attivismo degli anni Settanta, la partecipazione di elette di Silvia Fiorito ed elettrici in gonnella è calata sensibilmente

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n Italia la presenza femminile in parlamento e nei governi locali è particolarmente fragile: vi è un deficit nel rapporto tra donne e classe dirigente che appare come una vera e propria anomalia del nostro paese. Il conseguimento di una piena partecipazione è un obiettivo ancora in larga parte disatteso per le donne, a causa di processi di lunga durata che le discriminano nell'ingresso alle cariche elettive e nell'esercizio delle responsabilità di governo. L’asimmetria nei poteri è un “indicatore simbolico” del mancato processo di uguaglianza tra i generi: tutti quei sistemi sociali e politici nei quali le donne risultano sottorappresentate, sono da ritenersi democraticamente arretrati. Seppur cittadine, si trovano ancor oggi a combattere per diritti formalmente indiscussi, da quelli socioeconomici fino a quelli politici e istituzionali.

Le donne hanno acquisito la cittadinanza politica nel 1946 ottenendo il diritto di eleggere e di essere elette: alla Costituente vi erano solo 21 donne, ovvero il 3,77% dei membri. Nel 1948, con l’enI minimi storici trata in vigore della si raggiungono Costituzione Renel 1953: 0,32% pubblicana e l’elezione del nuovo al Senato e 2,7% alla Camera Parlamento, le senatrici risultano essere l’1,27% e le deputate ammontano al 6,19%. I minimi storici vengono raggiunti al Senato nel 1953 con lo 0,32%, mentre alla Camera dei deputati nel 1968 con il 2,7%. Solo dopo sessant’anni, nel 2008, la percentuale è del 18,32% in Senato e del 20,95% alla Camera. La crescita, però, non è dovuta soltanto a una maggiore sensibilità politica verso la rappresentanza femminile, bensì è connes-


sa all’intervento di fattori esterni e correzioni legislative; fenomeno agevolato dalle regolamentazioni internazionali sulle pari opportunità (convenzioni Onu, fra cui la La Democrazia Cedaw contro la dicristiana riteneva scriminazione di genere) e dalle diretla politica come tive emesse dall’Uun’attività poco nione Europea, a adatta alle donne partire dalla parità di trattamento e remunerazione. Vi concorrono altri elementi: innanzitutto una maggiore scolarizzazione, il raggiungimento di titoli accademici e professionali che hanno consentito l’ingresso a posizioni di vertice nel comparto pubblico e privato. Pour cause, la maggiore impennata dal dopoguerra in poi (14,44% alla Camera e il 9,21% al Senato) avviene nel 1994, un anno dopo l’entrata in vigore della legge n. 81 del 25-3-1993, che introduce le “quote rosa”, ovvero posti riservati a candidature femminili1. Il dibattito su tale conquista

1) La norma sulle quote di genere infatti ha regolato solo le elezioni comunali tenutesi nel nostro paese dall’aprile 1993 al settembre 1995: un periodo breve, nel quale non tutti i comuni italiani sono andati al voto: con il sistema delle quote hanno votato 7.716 i comuni, mentre 389 comuni non lo hanno mai fatto. 2) In Italia si sono succeduti 11 Presidenti della Repubblica, 16

dura ancora oggi, suscitando innumerevoli polemiche, a seguito di una coalizione bipartisan stretta fra parlamentari uomini, uniti dalla solidarietà di classe e dal timore di perdere la primazia nel settore. Così avviene nel febbraio 2006, quando per ben quattro volte, in un Senato a prevalenza maschile, viene a mancare il numero legale sull’approvazione di una norma favorevole al principio di parità nelle liste elettive. Le ragioni della scarsa presenza di donne nelle istituzioni vanno rintracciate nella leadership dei partiti che decidono le candidature e la loro posizione. La Dc considerava la politica un’attività poco adatta alle donne, tanto da limitarne la presenza; il Pci, pur più sensibile alle tematiche di genere, spesso le relegava a ruoli periferici. Anche se presenti in maniera considerevole, le donne erano difatti scarsamente sostenute da gruppi influenti2. Fino alla fine degli anni Ottanta, a fronte di un

Legislature e 60 governi. A oltre sessant’anni dalla sua nascita, la Repubblica continua a vantare primati negativi: solo 75 donne hanno ricoperto ruoli di governo. - 29 ministre (la prima fu Tina Anselmi nel 1976, nominata Ministro del Lavoro e Previdenza sociale nel III Governo Andreotti); - 2 ministre ad interim; - 17 ministre senza portafoglio; - 1 viceministra (Patrizia Sentinelli

nel II governo Prodi, 2006); - 114 sottosegretarie; - 2 Presidentesse della Camera; L’unica senatrice di nomina presidenziale è stata il Premio Nobel Rita Levi-Montalcini. Non ci sono mai state: né un Presidente del Senato, né una Presidente del Consiglio, tantomeno un Presidente della Repubblica donna.



33% presente nella direzione del Pci, si aveva un’esigua percentuale di donne nella direzione della Dc, pari al 2,5%. Dopo la riforma elettorale del 1993, col passaggio da un sistema proporzionale a uno maggioritario, avCon il maggioritario del viene un profondo nello 1994 si registra il cambiamento sviluppo delle carnumero più alto riere politiche. Oltre di donne elette in ai partiti e ai sindacati, intervengono Parlamento nuovi protagonisti sociali (lobbies e gruppi di pressione femminili), favorendo la trasformazione delle modalità di selezione politica. La loro costante pressione ha dato qualche risultato. Essendo il reclutamento appannaggio della dirigenza dei partiti, diventa più facile per le donne accedere alle candidature solo nel momento di maggiore coesione interna. Tuttavia non accade spesso: le donne, nella migliore delle ipotesi, vengono considerate come una risorsa da utilizzare all’interno del gioco politico e come candidate “riempi lista”. Non certamente da proporre come leader, ma come attrattore per ampliare l’area della ricerca del consenso elettorale. Gli anni Novanta segnano comunque uno spartiacque nella tradizionale rappresentanza fem-

minile. Nelle elezioni del 1994 – tenutesi con un sistema maggioritario misto –, si registra il numero più elevato di donne elette fino ad allora in Parlamento: quasi il 13% (il 12,8% sul totale dei parlamentari). L’effetto è stato conseguente all’introduzione delle “quote rosa”, percentuale tornata sotto la soglia del 10% nel 1996, in successione alla sentenza (n. 422, 1995) della Corte costituzionale che dichiarava la legge contraria al principio di libertà, secondo cui “ogni cittadino può scegliere se votare o farsi votare, indipendentemente dal sesso”. Alle elezioni del 2001, tale limite viene superato di un punto, mentre in quelle del 2006 e del 2008 si ha un ulteriore incremento della percentuale di donne elette, fino a raggiungere il massimo nelle ultime politiche. Analoga la situazione a livello regionale: nelle elezioni del Per le donne è 28-29 marzo 2010 più facile sono state elette accedere alla come consiglieri repolitica quando gionali solo 82 c’è coesione donne su 699 seggi, appena l’11,7%. interna ai partiti L’esigua presenza femminile in politica è indicativa di una “emergenza” sociale, economica e culturale, che come tale va affrontata. Considera-


Nilde Iotti alla Camera dei deputati durante il giuramento di Francesco Cossiga nel 1985.


zione che dovrebbe far riflettere su quanto sia fuorviante trattare il problema della delegazione delle donne come una questione meramente quantitativa e non legata alla qualità della rappresentanza democraLe problematiche tica. Diventa allora di genere sono di necessario indicare quali termini una solito accantonate in loro più consistente come “cose da presenza possa dare donne” dalla maggiore spessore a temi di elevata vapolitica lenza sociale, spesso rimossi o marginalizzati. Le problematiche di genere vengono accantonate dalla politica tradizionale come “cose da donne” e quindi di minor rilevanza. Se come elettrici esse sono state e sono tuttora considerate una risorsa essenziale per il sistema politico, come elette continuano invece a essere situate ai margini dei processi decisionali. Il che significa che non hanno ancora ottenuto un pieno riconoscimento, come esige invece ogni democrazia degna di questo nome. Seppur visibile la crescita di donne al governo, a esse non vengono ancora affidati ministeri “pesanti”; si pensi al governo Berlusconi in cui la massiccia presenza femminile era relegata ai ministeri senza portafoglio. Un’inversione di tendenza si rileva nell’attuale governo Monti,

ove due ministeri portanti come Giustizia e Interni sono affidati alla direzione di Paola Severino e Anna Maria Cancellieri. Vale la pena evidenziare la minore durata della permanenza delle donne elette in carica: vi è uno scarto fra la durata della carriera politica femminile e quella maschile; i colleghi uomini ricoprono la stessa carica per molte legislature. L’unica vera eccezione è segnata da Nilde Iotti, parlamentare per 13 Legislature consecutive, dal 1946 al 1999 (anno della sua morte), e Presidente della Camera dei deputati dal 1979 al 1992, ovvero per tre Legislature consecutive. Il ricambio di eletti va considerato positivamente, ma la differenza di sesso, che si presenta nel turnover, risulta bensì un grosso limite. La Costituzione italiana stabilisce nell’articolo 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli impieghi L’unica vera pubblici e cariche eccezione è elettive in condi- segnata da Nilde zioni di eguaglianza, Iotti, dal ‘46 al secondo i termini stabiliti dalla legge”. ‘99 parlamentare Ciononostante, la per 13 legislature leadership femminile rimane tanto scarsa, quanto precaria

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Quote legate. Giunte sciolte

Le legislazioni regionali sono una rete inestricabile in cui ognuno fa come gli pare. Le quote di genere sono relegate in poche righe di statuto e per farle rispettare si ricorre al Tar


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utare la cultura di un Paese è difficile e deve radicarsi sul territorio. «Rispettare le quote rosa» è invece il mantra rispolverato sotto elezioni dai partiti, l’aperitivo pubblicitario servito freddo, gelido, senza nessuna convinzione, lo stesso che tornerà di moda per le prossime amministrative il 6 e 7 maggio. Ma com’è regolata la presenza femminile a livello regionale? La legge elettorale del 2005, il “porcellum”, la stessa in vigore oggi, cancellò su scala nazionale qualsiasi norma sulle quote rosa nelle liste dei partiti e le relegò al concetto di buona azione. Come nell’ultimo governo Berlusconi in cui s’applaudiva la cascata di ministri in gonna, tutte senza portafoglio, o in quello attuale in cui Fornero, Cancellieri e Severino occupano certo poltrone più importanti rispetto alle colleghe dell’altra legislatura. Sarà vero che gli esempi sono importanti, ma è anche vero che non con soli esempi possiamo abbattere l’arretratezza riguardo alle donne in politica. E mentre osserviamo in religioso silenzio i dettami della più brutta legge elettorale mai scritta, le regioni, le province, i comuni sono abbandonati a se stessi, stretti tra la spinta della parità di genere e la genericità delle leggi regionali e degli statuti. Statuti ai quali nel 2001 la legge cost. n. 3/2001 delegava il compito di rimuovere ogni ostacolo alla piena parità tra uomini e donne nella vita sociale culturale economica. Nel 2003 una nuova legge ristabiliva l’impegno dello Stato sempre per «promuovere con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini». Intanto però le regioni e i comuni si sono organizzati, ognuno per conto suo.

di Filippa Deditore

La legge elettorale del 2005 ha cancellato ogni norma nazionale sulle quote di genere

Le amministrazioni intanto devono fare i conti con la spinta popolare per la parità


Le norme degli statuti sono vaghe. Di rado sono indicate le percentuali di genere

«La Regione riconosce e garantisce i diritti di libertà ed uguaglianza sanciti dalla Costituzione e dalle convenzioni comunitarie ed internazionali ponendoli a fondamento e limite di tutte le proprie attività. La Regione rimuove gli ostacoli economici, sociali, culturali determinati dalle differenze etniche». Questo è l’articolo 5 dello statuto della Campania. Di articoli come questo ce ne sono in ogni statuto regionale e cercano di assicurare un generale rispetto della parità di genere. Solo in alcuni casi, come quello della regione Sicilia o, meglio ancora del Lazio, le leggi regionali elettorali corrono in soccorso alla sacrosanta precisione «In ogni gruppo di liste nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati» stabilendo una norma anche «in caso di quoziente frazionario si procede all’arrotondamento all’unità più vicina. I movimenti ed i partiti politici presentatori di liste che non abbiano rispettato la proporzione di cui al presente comma sono tenuti a versare alla Giunta regionale l’importo del rimborso per le spese elettorali di cui alla legge 3 giugno 1999, n. 157». Specificare però non è sufficiente a togliersi il dentino rosa. Nei casi sopraccitati infatti le liste non sono bloccate: tocca all’elettore esprimere la preferenza e sostanzialmente decidere il numero di donne. Nel caso della Toscana poi, dove le liste sono bloccate, l’elettore non può esprimere nessuna preferenza, ma ai partiti non è imposto l’obbligo dell’alternanza: vuol dire che nella compilazione della lista le donne possono essere lasciate al fondo per fare numero. Gli statuti regionali comprendono con più facilità quelle norme volte ad istituire organismi di garanzia, quali la Commissione o


Consulta per le pari opportunità, in genere interni al Consiglio ovvero alla Regione. In questo senso vanno letti gli articoli 81 e 83 dello statuto abruzzese che istituiscono la Commissione regionale per le pari opportunità (con l’obiettivo, tra l’altro, di «valorizzare» le differenze di genere) e l’Osservatorio sui diritti; l’art. 8, comma 1, dello statuto calabrese. Discorso diverso poi per la composizione delle giunte. L’art. 43, comma 2, dello statuto emiliano romagnolo secondo cui «le nomine degli assessori e le altre nomine di competenza del presidente [della giunta regionale] s’ispirano anche ai principi di pari opportunità» non stabilisce nessuna quota, ma si limita a evocare un principio. Il rispetto di questo principio dagli statuti e dalle leggi defluisca silenziosamente nell’alveo della sensibilità che i vari Tar applicano in materia. Così accade che nel 2010 il Tar della Lombardia giudichi legittima la giunta regionale con un solo assessore donna o che, al contrario, per lo stesso motivo l’anno scorso il Tar del Lazio sciolga quella comunale di Viterbo. Schizofrenia amministrativa. Le quote rosa in politica regionale assumono i contorni di un concetto astratto e lasciato libero di vagare tra statuti e leggi elettorali. Ognuno fa un po’ come gli pare: tolte le regioni diligenti, ci sono quelle che gettano l’obolo alla parità di genere con cinque righe d’etichetta; intanto ignorano la presenza delle donne in politica, pensano che al massimo qualche cittadino pignolo ricorrerà al Tar il quale a quel punto potrebbe anche sciogliere la giunta. A quel punto, forse, si vedrà un rimpasto controvoglia: certo non sarà un mutamento culturale

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Il rispetto delle quote defluisce spesso verso la sensibilità che i Tar applicano in materia


Candidate dal basso o dall’alto

Amministrative 2012: donne che si propongono per una scelta e altre che gonfiano le liste elettorali perché una legge ne impone la presenza di Michela Mancini

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n provincia di Palermo c’è un comune che si chiama l’Isola delle Femmine, la sua giunta è composta da soli uomini. Nota di colore o tristissimo presagio? Le elezioni amministrative sono alle porte per molti comuni italiani e la cosiddetta “rappresentanza di genere” ritorna a far parlare di sé. Prima di addentrarci nel vivo della competizione elettorale, la lente di ingrandimento si posa sulla Sicilia. L’associazione riberese Sos Democrazia ha da poco lanciato un allarme: poche donne nelle stanze dei bottoni. «Il 30,76% dei Comuni siciliani non rispetta la norma sulla rappresentanza di genere nella composizione della giunta prevista dalla legge regio-

nale n. 6/2011». L’associazione è partita dal comune di Agrigento per poi estendere l’analisi sull’intero territorio regionale. Sarebbe Enna la provincia più virtuosa, con soltanto il 15% dei Comuni inadempienti, mentre la peggiore è Messina, con il 37% dei Comuni senza la presenza femminile in giunta. Seguono la provincia di Catania con il 34,5%, Palermo con il 30,5%, Agrigento con il 30,23%, Trapani con il 29,2%, Siracusa con il 28,6%, Caltanissetta con il 18,2% e Ragusa con il 16,7%. «Non mancano le isole felici, so-

L’associazione Sos Democrazia ha lanciato l’allarme: «Il 30,76% dei comuni siciliani non rispetta la norma sulla rappresentanza di genere


In Sicilia è entrata in vigore la nuova legge elettorale che impone alle segreterie dei partiti di inserire nelle liste il 30% di candidati donne

stiene Sos Democrazia. A Solarino (nel Siracusano), ad esempio, su sei assessori quattro sono donne; a Burgio (in provincia di Agrigento) la giunta è composta da quattro assessori di cui due donne e in consiglio comunale ci sono quattro donne». La maglia nera va al Comune di Ventimiglia di Sicilia (nel Palermitano) sottolinea l'associazione riberese - dove sindaco, assessori, presidente del consiglio e consiglieri comunali sono tutti uomini». Ha dell’incredibile quanto avvenuto al Comune di Favignana: dopo dieci giorni dall'entrata in vigore della legge sulla rappresentanza di genere, l'architetto Monica Modia, unico assessore donna, è stato sostituito da un assessore uomo. Leggi fatte per essere violate, o aggirate, a seconda del caso. La corsa verso le candidature femminili si è da poco conclusa con la chiusura delle liste. Senza

voler generalizzare, non è il caso di chiudere gli occhi davanti alla beffa. Massimo Costa, candidato sindaco di Palermo del Pdl, Udc e Grande Sud, nel corso di un confronto con altri candidati ha dichiarato: «Metà della mia giunta sarà composta da donne». È bene ricordare che in Sicilia è entrata in vigore una nuova legge regionale che impone alle segreterie dei partiti e ai comitati elettorali di inserire nelle proprie liste il 30 per cento di candidati donna. Ma per Massimo Costa non è la nuova norma a condizionare le sue scelte. Riferisce che la decisione è per lo più legata a fattori scientifici. «Mi piace la scienza», dice, e, «secondo la scienza - aggiunge - le donne delinquono il trenta per cento in meno degli uomini». Le donne delinquono meno, le donne sono più vicine ai problemi della gente, le donne sì che hanno la giusta sensibilità per governare. A dargli torto, purtroppo, è la storia. Donne come

Massimo Costa, candidato sindaco di Palermo da Pdl, Udc e Grande Sud, ha dichiarato: «Metà della mia giunta saranno donne»


Nelle liste presentate per il comune di Palermo la legge viene rispettata alla lettera: su 50 candidati le donne sono sempre 15 (il 30%)

Margaret Thatcher non vengono certo ricordate per la loro sensibilità: giuste o sbagliate, sono state le loro scelte politiche le hanno rese celebri. Idee forse ancora troppo “progressiste” per buona parte del Belpaese, che si inventa delle leggi per promuoverne la presenza nelle stanze del potere, più per quietarsi la coscienza che per responsabilità. Accade, quindi,

torale non può essere presentata. E in quelle regioni dove la norma ancora non c’è, il meccanismo non cambia: una piccola, innocua presenza femminile, rende l’immagine del candidato sindaco più appetibile, più simpatica, più “sensibile”, appunto. Analizzando le liste presentate a Palermo per le amministrative del 6 e del 7 maggio, viene quasi da sorridere. Il rapporto è costante: su una media di 50 candidati a lista, le donne sono 15. Sempre. Strano, no? Esattamente quanto richiesto dalla legge. L’unica eccezione la fa la lista Pd: 23 donne su 50. Le quote rosa sono utili, o ri-

spesso, che – accanto a valorosissime candidature – si ritrovino quote rosa imposte dall’alto piuttosto che volute dal basso. Imposte, perché senza la percentuale imposta dalla norma, la lista elet-

mangono uno strumento in mano ai partiti gestiti da uomini? La risposta non è sempre univoca. Ci sono anche donne che, in occasione delle amministrative, alle quote rosa hanno detto

«Le donne delinquono meno e sono più vicine ai problemi della gente». Nel Belpaese si fanno leggi per promuovere la presenza delle donne più per quietarsi la coscienza che per responsabilità


no e si sono organizzate da sole. Nessun contentino. Nessuna concessione. A Lucca, per esempio, Gemma Urbani, candidata sindaco per la lista civica Lucca Bene Comune, ha presentato una lista tutta al femminile, per scelta. Un percorso nato lo scorso settembre all’interno di un dibattito sulla

Il rosa integrale è il fenomeno elettorale di queste amministrative: a Lucca Gemma Urbani (in foto) ha presentatato una lista di sole donne.

condizione attuale della donna in Italia, e ispirato dalla campagna “Se non ora quando?” e dalla battaglia sul referendum contro la privatizzazione dell’acqua. Indipendenti, autofinanziate, lontane dai partiti tradizionali, si professano contrarie alle quote rosa e pensano ad un modo più spontaneo di far politica. Le liste di sole donne sono il fenomeno elettorale di queste amministrative. Da Sud a Nord. A Jesolo,sotto la guida di Do-

natella Regazzo, in appoggio all'ex sindaco Renato Martin e Torre del Greco, dove è nata una lista civica tutta rosa. Si chiama "Torre domani", è composta da tantissime under 30, è capitanata dall'assessore uscente Roberta Ramondo ed appoggia Ciro Borriello nella coalizione di centrodestra Uno scenario inedito per l’Italia, Paese senza madre, ancora spaccato a metà. Da una parte le leggi, giuste e responsabili, di cui ci si prende gioco. Norme che ricostruiscono la facciata e dimenticano la partecipazione dal basso. E dall’altro lato, tante donne che queste leggi le mettono da parte, e partecipano alla cosa pubblica come se fosse normale, come se non avessero bisogno di agevolazioni. Speriamo che la storia dia loro ragione e ribadisca la differenza tra diritto e privilegio

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Donne al comando, per forza Una legge obbliga le grandi imprese italiane a fare spazio al sesso debole. Le rafforzerĂ ?


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uattro anni per dar vita a una radicale inversione di tendenza nella concezione che il mondo del lavoro ha delle donne: a questo votarono sì, indistintamente dalla loro posizione politica, i 438 deputati che, nel giungo 2011, approvarono la legge che imponeva il rispetto dell’equilibrio dei generi nei Consigli di amministrazione, negli organi di controllo delle società quotate e nelle controllate pubbliche non quotate. Entro il 2015, i Cda dovranno garantire al “genere meno rappresentato” almeno un terzo dei posti di comando. Un traguardo a cui giungere per gradi, passando per l’obbligo di includere negli organi massimi delle aziende un quinto di rappresentanza femminile nel primo rinnovo di Cda a partire dal prossimo 28 luglio. Le sanzioni per le società che non si adegueranno vanno dalla diffida della Consob fino allo scioglimento del Cda, passando per sanzioni pecuniarie da 100mila a 1 milione di euro, se alla diffida

non dovesse seguire un adattamento della percentuale femminile nell’organo decisionale. Ma, si sa, il tasto rosa è uno di quelli delicati: se da una parte non tutti sono concordi a un ingresso obbligato delle gonne nelle stanze dei bottoni aziendali, dall’altra il valore sociale di mostrarsi sensibili alla causa femminile è un boccone pubblicitario di tutto rispetto. Così le grandi spa italiane hanno impugnato l’uncinetto e si sono dichiarate guerra a suon di comunicati stampa e ligie ottemperanze legislative pro tempore. Quattro esempi per tutti: Generali Assicurazioni ha promesso che nel Cda per il triennio 2012-2014, che sarà rinnovato nei prossimi giorni, sarà rispettata la quota minima di un quinto di donne; Fiat ha rinnovato gli organi di amministrazione sia di Fiat spa, che di Fiat Industrial, e in entrambi figurano due donne su un totale di nove componenti. Si è mostrata diligente anche la Banca Monte dei Paschi di

A sinistra Alessia Mosca, a destra Lella Golfo. Sono le due parlamentari ad aver proposto la legge che entrerà in vigore dal prossimo luglio

di Elisa Gianni


La Fiat ha già inserito due donne nel cda: Joyce Victoria Bigio e Patience Wheatcroft

Siena, che ha presentato delle candidature, attente alle percentuali rosa, per il rinnovo che si terrà a fine aprile; un po’ meno, almeno per il momento, Rcs che approverà il prossimo 2 maggio un cda dalle tonalità cipria molto pallide, con una sola donna annunciata in un gruppo di 12 membri. La legge – guarda caso proposta da due donne: Lella Golfo (Pdl) e Alessia Mosca (Pd) – non è ancora vigente ma sembrerebbe dare già frutti abbastanza buoni in un’Italia dove, ad oggi, la maggior parte delle aziende, di femminile ha poco più del genere del proprio sostantivo. I dati Eurostat, divulgati agli inizi di marzo, mostravano un’Italia al penultimo posto per il tasso di occupazione femminile, con percentuali inversamente proporzionali al numero di figli. Ma le non mamme lavoratrici restano ancora al di sotto del 64%, a fronte di una media europea del quasi 76%: non per sfidarsi in tristi gare alla discriminazione femminile, ma peggio di noi ha potuto solo Malta. Questo a dispetto di quanto dichiarato dai dati del consorzio degli atenei italiani, Almalaurea, che, nel

2010, hanno contato sei lauree su dieci conseguite da studentesse e con una votazione media di tre punti più alta, rispetto ai colleghi maschi. Un rapporto, datato 2009, della Cerved Business Information, posizionava l’Italia 29esima (su 33) per il numero delle donne all’interno dei cda delle società quotate in Borsa. Tra le imprese con fatturato annuo superiore a 10mila euro, erano 0,4% i Cda di almeno due persone composti esclusivamente da donne a fronte di un 55,4% di quelli solamente maschili. All’epoca il rapporto denunciava: «nei consigli di amministrazione delle prime dieci società non vi è nemmeno una donna; tra le prime 15, solo il gruppo Benetton e Vodafone hanno un board non completamente maschile (una donna nel Cda di Benetton e due donne in quello di Vodafone)». La parità netta di genere si riscontrava solo nella Marcegaglia spa con due donne e due uomini ai vertici. Ma se le aziende hanno dimostrato – e stanno dimostrando, casi eccezionali a parte – tanta diffidenza nel


sesso debole, le giustificazioni addotte non dovrebbero appellarsi a una presunta incapacità delle donne: è questo stesso studio infatti a svelare una rendita e una velocità maggiore delle – poche – aziende capeggiate dalle gonne, rispetto a quelle col dopobarba. C’è poi la questione dell’altra fetta di società per cui entrerà in vigore la legge dello scorso giugno – ossia, le partecipate pubbliche – che stenta a dare il buon esempio: la scrivania più influente della Rai affidata a Lorenza Lei al vertice della Rai, controbilancia il vuoto femminile nei cda di società come Eni, Enel, Autostrade e FS, tanto per citarne alcune. Tutt’al più si riscontra qualche donna nei collegi sindacali, come in quello di Anas spa o di Cinecittà Luce. E in Europa? Se l’Italia si svela ancora abbastanza refrattaria ai capi con il rimmel –con 194 donne e 2643 uomini nei cda – le rispettive percentuali europee non lasciano molto spazio alle speranze di cambiamento a breve termine. Gli ultimi dati parlano di solo 12 donne ogni 100 uomini

ai vertici delle aziende presenti in borsa; 3 su 100 le amministratrici delegate. Un’agguerrita Viviane Reding (vicepresidente alla Commissione Europea, ndr) rassicura sull’esistenza di un impegno comunitario per favorire l’ingresso delle gonne nei board. Dopotutto l’Europa non manca di casi esemplari a livello mondiale. Come l’Islanda, candidata all’ingresso nell’Unione, che ha proposto e ottenuto già nel 2006 che le società statali o di proprietà degli enti locali fossero amministrate per il 50% dalle donne; o la Norvegia, dove la quota rosa si ferma poco sotto il 38%. Quindi, donne, dormite pure sonni tranquilli – sembrano dire le autorità: i buoni propositi per colmare il gap di presenze femminili ai piani alti delle aziende non mancano. Ma sono buoni propositi che nascondono dei punti interrogativi a lungo termine: quante saranno, ad esempio, le future manager corteggiate per le loro qualità e quante per pura ottemperanza legislativa? Appunto, solo il tempo saprà darci una risposta

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L’Italia è posizionata 29esima su 33 Paesi per il numero delle donne all’interno dei cda


Danese utopia

I Paesi scandinavi sono i modelli europei da seguire: dietro tutti gli altri, dal Belgio alla Francia, dalle norme di Pasquale Raffaele mirate alle sanzioni che non funzionano

I

l caso più recente ha riguardato Viterbo: lo scorso 20 gennaio il Tar del Lazio ha accolto il ricorso presentato dal Pd, azzerando la Giunta del Comune laziale; motivo della sentenza, la totale assenza di donne nell’équipe del sindaco Marini – ex deputato Pdl, dimessosi due giorni prima in ossequio alla sentenza della Corte Costituzionale che sancisce l’incompatibilità fra le cariche di parlamentare e sindaco di comuni con oltre 20.000 abitanti. Il commento di Daniela Bizzarri, membro della Segreteria Provinciale democratica del capoluogo laziale, immortala la situazione meglio di qualunque istantanea: «In questi ultimi tempi, sia a Roma che a Viterbo, sono stati i ricorsi vinti a permettere che le donne avessero un

posto in Comune, quando sarebbe stato molto semplice rispettare dei regolamenti precisi (anche se in molti Comuni e Province nello statuto non è neanche contemplata la norma che prevede il posto in giunta di donne) e pertanto non potrebbe intervenire neanche la giustizia». Il riferimento è all’analogo provvedimento che, lo scorso 15 luglio, ha imposto anche nella

I ricorsi ai Tar salvano le quote rosa: l’ultimo caso ha riguardato Viterbo: giunta comunale azzerata a causa della totale assenza di donne

Capitale l’azzeramento della Giunta con identica motivazione. L’avvilente conta potrebbe proseguire quasi all’infinito: dal Comune di Taranto (2009) alla Regione Sarde-


gna (2011), l’elenco delle sentenze di condanna per la mancata applicazione delle “quote rosa” nelle nostre amministrazioni – per non menzionare il comatoso quadro politico - costituisce già di per sé un chiaro indizio dell’arretratezza culturale italiana in una materia troppo spesso demandata alle aule giudiziarie. Ad ogni modo, uno sguardo d’insieme al panorama europeo può farci comprendere come tale arretratezza sia non di rado la prassi, sebbene una generalizzazione sarebbe impossibile oltre che mendace, vista le peculiarità – politiche, sociali, culturali - di ogni stato membro.

ECCELLENZA SCANDINAVA. Il primo campanello d'allarme lanciato dalle istituzioni europee risale ad oltre vent'anni fa. Non riscontrando particolare sensibilità in alcuni ambiti nazionali, attraverso la risoluzione 169 del 1988 il Parlamento europeo invitava i partiti politici – non gli esecutivi e neppure i parlamenti – a stabilire quote di riserva per le candidature femminile: dunque, l’Europarlamento “suggeriva” di agire per consuetudine e

I Paesi scandinavi sono il modello: già nell’88 il Parlamento europeo suggerì di agire per consuetudine e non per legge ordinaria

non per legge ordinaria, vale a dire modificando gli statuti dei partiti. Un modello teoricamente virtuoso, ma non sempre sufficiente. In tal senso, fra le realtà più felici spicca la Danimarca, dove il Partito socialista popolare è stato pioniere delle quote

Il Partito socialista danese introduce le quote rosa nel proprio statuto già nel 1977 stabilendo una rappresentanza minima del 40%

rosa su scala mondiale, avendole introdotte nel proprio statuto addirittura nel 1977 (rappresentanza minima per sesso del 40% in ogni assemblea elettiva), seguito negli anni Ottanta dal Partito socialdemocratico con risultati sorprendenti, suggellati lo scorso ottobre dalla vittoria di stretta misura nelle elezioni parlamentari, che hanno condotto il segretario Helle Thorning-Sch-



midt alla poltrona di premier, prima donna danese a ricoprire tale incarico. Per comprendere appieno gli esiti di questo processo di parificazione, basti pensare che il sistema informale delle quote è stato abolito nel 1990, ritenendo che avesse già ampiamente raggiunto i propri obiettivi. Ipotesi suffragata dai dati, dal momento che la rappresentanza femminile nel Folketinget – il Parlamento Danese – è schizzata intorno al 40% rispetto al 10,6% del 1968. Oltretutto, a differenza della maggior parte delle carte costituzionali dei paesi di area Ue, la legge fondamentale danese non contiene nessuna disposizione relativa all’uguaglianza fra i sessi.

l’articolo 85 della Costituzione che, sino al 1994, impediva alle donne la successione al trono. Nello stesso anno, la legge del 24 maggio ha modificato il codice elettorale attraverso l’introduzione dell’articolo 117-bis: quest’ultimo prevede un tetto

Lo scorso ottobre Helle Thorning-Schmidt ha vinto le elezioni, diventando la prima donna danese ad essere Primo ministro

per i candidati dello stesso sesso di 2/3 nelle liste di qualunque tornata elettorale, pena l’esclusione delle liste non a norma. L’effetto deterrente della nuova norma è facilmente desumibile dalle statistiche, che hanno registrato quasi un raddoppio della rappresentanza femminile all’euA VOLTE OCCORRONO LE MA- roparlamento nella decade 1989NIERE FORTI. È possibile giungere 1999 (dal 20,8% al 40%) e, ad un livello soddisfacente di soprattutto, un notevole increrappresentanza femminile anche tramite interventi legislativi mirati, laddove le circostanze socioculturali non siano di per sé risolutrici delle iniquità. L’esempio illuminante di tale percorso è rappresentato dal Belgio, dove un primo macigno è stato rimosso grazie alla modifica del-

È possibile giungere ad un livello soddisfacente di rappresentanza femminile anche tramite interventi legislativi mirati


mento di donne elette al Parlamento nazionale – dato quasi triplicato nell’arco 1995-2003, dal 12% al 35,3%.

LE SANZIONI NON BASTANO. Il modello francese, invece, presenta alcune ambiguità che evidenziano tanto i limiti quanto le potenzialità delle imposizioni legislative. La Francia ha impresso

In Francia è stata fatta una decisa accelerazione attraverso la riforma costituzionale che ha introdotto il “principio di eguale accesso”

una decisa accelerazione nelle politiche sull’equa rappresentanza dei sessi nel 1999, attraverso la riforma costituzionale che ha modificato gli articoli 3 e 4, introducendo il principio di “favorire l’uguale accesso delle donne e degli uomini ai mandati elettorali e alle funzioni elettive” e il conseguente impegno dei

partiti politici in tal senso. Quindi, la legge attuativa 493 dell’anno successivo ha imposto liste col 50% di candidati donne per le elezioni amministrative (a doppio turno), europee e dei membri del Senato (a turno unico); ad ogni modo, l’aspetto degno di nota è l’alternanza obbligatoria, ovvero l’imposizione di presentare nella lista alternativamente candidati dell’uno e dell’altro sesso, neutralizzando così uno dei cavilli più in voga nel sistema politico italiano, che consiste nell’aggirare i paletti sulle quote rosa collocando le donne in fondo alle liste elettorali, dunque con possibilità più che remote di conquistare il seggio. Invece, per quanto riguarda l’elezione dei membri dell’Assemblée Nationale (omologa della nostra Camera dei Depu-

Nell’elezione dei membri dell’Assemblèe Nationale può esserci uno scarto massimo fra candidati di sesso opposto pari al 2%


La decurtazione del 50% dei finanziamenti pubblici ai partiti che non rispettano la norma non è servito ad innescare un trend positvo

tati), la normativa prevede uno scarto massimo fra candidati di sesso opposto pari al 2%, pena la decurtazione dei finanziamenti pubblici fino al 50%. Quest’ultimo è l’aspetto più “zoppicante” e, considerando l'esito, anche il più eclatante: infatti, se in ambito amministrativo ed europeo gli incrementi risultano lusinghieri (con le consigliere aumentate del 22% e le europarlamentari di oltre il 10%), le lacune emergono all’Assemblea Nazionale, dove la crescita è stata pressoché inesistente (dal 10,9% al 12,2%): i partiti hanno preferito subire la sanzione piuttosto che rispettare la

norma. È opportuno evidenziare questa stortura, che illustra appieno come gli ostacoli culturali siano la ragione prevalente nel tarpare le ali all’affermazione politica femminile, soprattutto nelle realtà dell’Europa mediterranea – non ultima l'Italia - dove, spiace dirlo, esclusa l'ottima Spagna (che viaggia intorno al 30%), il modello più proficuamente esportabile pare essere proprio quello belga: lo Stato vigile, interventista e, a tratti, illiberale

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Nessuno sleghi la casta

Dall’homo sapiens all’ultimo prototipo di una società senza volto, la corsa per la scalata delle gonne al vertice si è fatta costantemente più dura. Ancora oggi, giacca e cravatta contraddistinguono nodi intoccabili che è difficile sciogliere.


I

l diritto di pari opportunità stabilito dall’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea e dall’articolo 20 della Carta sociale europea (entrata in vigore nel 1965) ricalcano una questione di genere che riconduce ad un concetto di uguaglianza formale, perno necessario di ogni politica antidiscriminatoria. Nonostante l’Europa abbia compiuto notevoli progressi, molte donne continuano a non avere pieno accesso alla condivisione del potere e della capacità decisionale. Il processo è ancora lungo e l’uguaglianza non è totale. Uno dei settori che più fa discutere è quello della previdenza sociale. Gli ultimi anni hanno visto tutti gli stati dell’Ue procedere al necessario adeguamento normativo per riconoscere i pari diritti dei lavoratori e delle lavoratrici definiti. La riforma che ha investito la previdenza sociale e la definitiva approvazione delle quote rosa hanno aperto un dilemma che le donne stesse sembrano osteggiare. L’imposizione di una percen-

tuale fissa di presenze rosa in politica vuole apparire un felice traguardo concesso al “sesso più debole”, ma di fatto è una disposizione che mina il merito. Si pensa ad un patto egualitario, ma le cifre non fanno sorridere. Nuovo nome in codice della problematica attuale è “discriminazione verticale”: nonostante un accesso al lavoro più paritario e una condizione di pseudo agevolazione, i vertici continuano a essere colorati di cravatte. Se in Europa l’accesso della donna al mondo del lavoro è maggiormente facilitato rispetto al passato, solo 1 donna su 10 occupa una posizione dirigenziale. Infatti, le donne rappresentano oggi il 10% dei Cda delle più grandi società quotate in borsa nell’Unione europea e solo il 3% ne sono presidenti. In base alla strategia del pensiero di genere, la cosiddetta gender mainstreaming, le donne cessano di essere considerate come una categoria da assistere e proteggere, con il rischio, tuttavia, di riprodurre le disparità tanto combattute.

Il settore che fa più discutere è quello della previdenza sociale, dove la riforma europea ha trovato scogli anche nelle donne stesse

di Marta Gasparroni


L’ambizione della strategia europea nel campo dell’occupazione è quella di raggiungere pari opportunità di accesso al mercato del lavoro per il mondo femminile. Nel 2010 il tasso di occupazione medio all’interno dell’Ue è stato del 70% per gli uomini e del 58% per le donne, una percentuale in forte discesa in caso di figli, con il corrispettivo aumento della parte maschile. Un dato che riflette l’ineguale ripartizione delle responsabilità paren-

Solo il 43% delle aziende italiane ha delle donne nei propri Cda, mentre il lavoro rosa è il 3,9%

tali e l’insufficienza delle strutture per la custodia dei bambini, senza considerare l’eterna questione della conciliazione di pubblico e privato. Inoltre, le donne professionalmente attive devono comunque superare un percorso lavorativo costellato di ostacoli: quasi un terzo delle donne europee occupate ha un lavoro a tempo parziale, mentre per gli uomini questo si verifica solo nell’8% dei casi. Infine, i dati della Commissione Europea evidenziano il divario di retribuzione media tra i due sessi, che oscilla tra il 15% e il 17% a svantaggio delle donne. Le donne paiono penalizzate maggiormente se si considera anche l’incidenza delle politiche a favore della famiglia rispetto al PIL e, in maniera più ampia, le responsabilità verso altri familiari, spesso addossate alle

donne stesse. Le cifre rivelano come l’Italia occupi una posizione di inferiorità rispetto agli altri Paesi dell’Ue, registrando una delle percentuali d’occupazione femminile più basse: solo il 43% delle aziende presenta delle donne nei Cda. Con un misero 3, 9% l’Italia si ferma al sestultimo posto nella classifica d’occupazione femminile europea, segnando un’inferiorità rispetto alla metà della media Ue (13, 7%) che precede il Portogallo (3, 45%) ma registra una distanza abissale con i paesi del Nord. In vetta di classifica la Norvegia che, grazie all’introduzione delle quote rosa per legge già dal 2003, si avvicina a quel 40% previsto dall’Ue entro il 2020 e che dovrebbe fare la differenza. Seguono Regno Unito (14%), Francia (12%) e Grecia (10.2%): in Italia solo 15 membri Cda su 282 sono rosa. Le disparità tra sessi riflettono quel modello patriarcale che tanto fatica a cedere, nucleo fondante della maggior parte dei paesi interessati. Resta inte-

In vetta alla classifica c’è la Norvegia che, grazie all’introduzione delle quote rosa già nel 2003, stacca Regno Unito, Francia e Grecia. Nei Cda italiani solo 15 membri su 282 sono donne


ressante notare come diverse combinazioni di politiche sociali in diversi paesi promuovano diverse condizioni d’occupazione per il genere rosa. Danimarca, Svezia e Paesi Bassi raggiungono un soddisfacente equilibrio tra sessi nella condivisione dei compiti familiari, mentre l’età pensionabile è leggermente più bassa per le donne, con un ridotto margine per i meccanismi compensatori a favore delle donne. I servizi di accoglienza per l’infanzia sono notevolmente sviluppati e vengono rispettati i congedi legati alla cura e all’educazione dei figli, con il felice risultato di tassi di occupazione tra i più alti d’Europa. Le efficaci politiche di conciliazione tra vita pubblica e vita privata riescono a ridurre il convenzionale gap che ha sempre comportato la scelta tra dimensione professionale e familiare. Il tempo dedicato che le donne dedicano al lavoro domestico supera gli uomini del 50%, una differenza che nel Bel Paese va oltre il 200%. Anche Belgio, Francia e Germania non registrano discrepanze evidenti nell’ambito della previdenza, con differenti

misure compensative a protezione delle carriere lavorative più accidentate. Nel Reno Unito, infine, il tasso di occupazione femminile è superiore al 60% e si prevede entro il 2020 il raggiungimento della parificazione dell’età pensionabile. Nonostante i discreti risultati ottenuti e i relativi vantaggi gentilmente concessi al popolo femminile, resta ancora una sostanziale disparità tra sessi, evidente nel trattamento sul mercato del lavoro. La persistenza di discriminazioni, segregazioni nel mercato del lavoro, stereotipi nell’educazione, disparità di retribuzioni, lavoro parttime involontario e il forte squilibrio nella suddivisione dei compiti familiari pregiudicano le scelte di vita e l’indipendenza economica di molte donne. Stando ai dati, l’equilibrio tra componenti maschili e femminili ai vertici aziendali incide positivamente sulle prestazioni delle imprese, sui profitti e sulla competitività. Tuttavia, le donne non riescono ancora a detronizzare la Casta in cravatta e le rispettive remunerazioni evidenziano una drastica

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sproporzione. In testa la Germania, con un margine imbarazzante del 21,6% a sfavore delle donne. In Italia le donne guadagnano meno di quanto lavorino. Le equazioni sembra debbano restare invertite ancora a lungo


Auguri e figli maschi A

Più lavoro femminile, ma l’Italia congela, ancora per un po’, le differenze di genere

di Luigi Loi

nche se negli ultimi anni è aumentata la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, il nostro Paese si distingue negativamente in ambito europeo per le più alte differenze di genere a svantaggio della popolazione femminile. In genere le analisi si soffermano sull’alta percentuale di donne meridionali inattive e dei cosiddetti Neet (Not in education employment or training): le donne sono il 25 % del totale in questa categoria. Dati decisamente scoraggianti, alla luce di questi risulta veritiero e benaugurante l’adagio “auguri e figli maschi”. Per una quota importante della popolazione italiana, la differenza di genere è un ostacolo insormontabile. L’unico ammortizzatore sociale presente in questo contesto pare essere, oggi come nel diciannovesimo secolo, soltanto il matrimonio. Il contesto dell’analisi infatti si inquadra alla luce di pochi ma esplicativi indicatori. Dal 1980 al 2008, l’età media del primo matrimonio è salita dai 26 ai 30 anni. L’Italia ha inoltre una quota di nati al di fuori del matrimonio del 17% a fronte del 33% della media europea. Questi due indicatori lasciano ad intendere la fortissima difficoltà delle donne ad inserirsi nel mondo del lavoro attivo prima dei 30 anni senza una sorta di tutela derivante dal vincolo matrimoniale, e quindi in buona sostanza l’inconciliabilità per troppe italiane a coronare il binomio famiglia –

Per una quota importante della popolazione italiana la differenza di genere è un ostacolo insormontabile e l’unico ammortizzatore sembra essere il matrimonio


lavoro. Solo un 2% di donne single con un minore a carico vive in Italia, a fronte del quasi 4% della media di donne europee nella stessa situazione e del 7% tra quelle inglesi. La disparità in Italia è anche un fattore geografico: il 65% delle donne single con minori abita e lavora nel centro nord. Si potrebbe ridurre questa fotografia della situazione femminile ad una banale stigmatizzazione che la società italiana fa scontare alle donne sole o più precisamente indipendenti. Ma degli impietosi dati economici svelano una sottigliezza nascosta in questa apartheid di genere: sono infiniti i distinguo e i “se” da utilizzare quando si parla di donne. Se negli anni ottanta le donne iniziavano a lavorare giovanissime e uscivano dal mercato del lavoro molto presto per sposarsi e avere bambini, in trent’anni si è destrutturato questo modello di partecipazione delle donne: oggi si accede al lavoro nell’età in cui prima se ne usciva, inoltre con un notevole spostamento in avanti negli anni dell’uscita definitiva. Un mostro bicefalo che impedisce alle donne giovani di poter lavorare ed avere figli, perché impossibilitate nel trovare occupazione per una fortissima disparità di trattamento in entrata e per una numerosa presenza di donne più anziane di loro ancora attivamente occupate. In Italia poco più della metà delle donne è occupata o cerca lavoro. Sono il 51,1%. Il tasso di occupazione medio europeo per le donne supera il 58% e in paesi virtuosi come la Svezia e la Danimarca si arriva a punte del 70%. La forbice tra nord e sud in Italia è ancora una volta ampissima: in Campania solo una donna su quattro è occupata, ma se si supera il quarantunesimo parallelo i numeri si ribaltano. In Emilia Romagna più del 60% delle donne

Apartheid di genere: il solo ammortizzatore sociale per le donne è il matrimonio


Il differenziale retributivo di genere (gender pay gap): le donne guadagnano il 72% del salario degli uomini


infatti è occupata. Inoltre in Italia il tasso di occupazione delle donne straniere è più alto di quello delle italiane perché ancora meno tutelate delle pari sesso italiane e perché occupate in ambiti lavorativi ritenuti umili o mal retribuiti. Se gli uomini sono occupati nei settori tradizionalmente appannaggio maschile (industria e costruzione) otto donne su dieci lavorano nel settore dei servizi. Se il genere sessuale con il possesso di un titolo di studio permette di diminuire le differenze tra i tassi di disoccupazione, l’Italia è ancora una volta il fanalino di coda poiché le donne laureate italiane sono le meno occupate in tutti i 27 paesi dell’Unione. Se in Italia quasi una donna su due non trova un adeguato sfruttamento occupazionale è vero che trova uno sfruttamento reale quando essa è occupata: le donne guadagnano il 72% del salario degli uomini, percentuale che si solleva per le donne inserite nei quadri dirigenziali. L’unadjusted gender pay gap è ancora più forte per un operaia che guadagna il 68% rispetto al collega operaio. La legge nazionale 125 del 1991che dovrebbe favorire l'occupazione femminile e la realizzazione dell'uguaglianza tra uomini e donne nel lavoro, è lettera morta dicono i pragmatici. È invece un correttivo superfluo, dicono gli ingenui, in virtù dell’esistenza dell’articolo 3 della Costituzione che sancisce che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale senza distinzione di sesso

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Negli anni Ottanta le donne iniziavano e finivano di lavorare presto per sposarsi

Oggi invece si accede alla carriera lavorativa nell’età in cui prima se ne usciva


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