Inquinamento fuori controllo

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numero 12

Il Serale

28 maggio 2012

Settimanale quotidiano

Inquinamento fuori controllo

Cosa sono le Arpa e perchĂŠ fanno male alla salute


Fumi e conflitti d’interesse


Chi protegge l’ambiente da chi vorrebbe inquinarlo? Viaggio nelle regioni dove l’Arpa non fa il suo lavoro di Filippa Deditore

I

n effetti dell’Arpa non sappiamo quasi niente. È l’Agenzia che per conto delle regioni si occupa di monitorare l’ambiente e tutto ciò che potrebbe minacciarne la salubrità. È l’ente che rilascia le Autorizzazioni integrate ambientali (Aia) e consegna certificati, ma la sua azione è fragile e limitata. Fornendo servizi che sono essenzialmente di consulenza, il parere dell’Arpa viene infatti spesso ignorato e non tenuto in considerazione a seconda degli interessi in gioco. Viceversa, dal momento che le nomine Arpa sono tutte in mano alle giunte regionali, può accadere che gli interessi di questo o quell’altro consigliere passeggino mano nella mano con l’orgogliosa tradizione clientelare del Paese e che l’operato di chi dovrebbe controllare l’ambiente sia influenzato o ostacolato. Dagli scandali amministrativi a quelli disseminati sul territorio, l’Arpa è spesso un inquinamento che controlla chi inquina. L’esponenziale conflitto d’interesse attraversa sì tutta l’Italia - Livorno, Potenza, Taranto, Parma, Milano, Cagliari e Val di Susa - ma è più o meno dannoso a seconda della regione ospitante. Così anche la protesta e la denuncia delle irregolarità sono affidate a voci singole, sparse sul territorio in cui sono radicate; proteste all’inseguimento di chi non controlla e poi dice di averlo fatto, di un’agenzia che non si affanna a coprire gli scandali perché tanto ce ne sono di più grossi, di chi lascia affumicare e poi certifica di non vedere fumi. Dell’Arpa.

Da Livorno a Potenza, da Taranto a Milano: il controllo inquinato che attraversa silenzioso il Paese


Da chi proteggere l’ambiente

Dal referendum del 1993 alle Arpa, buone intenzioni tramutatesi in pessime azioni: quando la politica, invece di depurare, intorbidisce di Pasquale Raffaele

D

a un punto di vista legislativo, le Agenzie Regionali per la Prevenzione e Protezione Ambientale vedono la luce – per essere più esatti il “concepimento”- dopo il maxireferendum abrogativo del 18 aprile 1993 proIl referendum mosso dal Partito del 1993 sottrae Radicale: fra i nove alle Asl parte del quesiti proposti, oltre all'ormai celecontrollo sull’ ambiente, che è berrima abolizione finanziamenti affidato così alle dei pubblici ai partiti, fiagenzie regionali gura anche una cospicua erosione delle competenze delle Asl in materia di controlli ambientali. Il successo plebiscitario del quesito (alle urne il 76,80% degli aventi diritto, con oltre l'80% di risposte affermative, 24 milioni e mezzo di italiani favorevoli) crea così un vulnus colmato dalle Camere con la legge n.61 del 21 gennaio 1994, che demanda i compiti di vigilanza e controllo ambientale ad agenzie regionali ad hoc, oltre ad istituire una Agenzia Nazionale per la Protezione Ambientale (Anpa) che, a seguito di un cambio di denomi-

nazione (Apat, Agenzia per la Protezione dell'Ambiente e per i servizi Tecnici) verrà accorpata nel 2008 all'Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), ente sorto dalla fusione di Icram (Istituto Centrale per la Ricerca scientifica e tecnologica Applicata al Mare), Infs (Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica) e, per l'appunto, Apat, il tutto alle dipendenze del Ministero dell'Ambiente. Le singole Agenzie fanno la loro comparsa alla spicciolata, man mano che le Regioni si adeguano alla legge n. 61/94: pionieristiche Piemonte, Toscana,

Le Arpa nascono alla spicciolata dal 1995 (Piemonte, Toscana, Emilia Romagna e Liguria) fino al 2006 (ultima ad adeguarsi la Sardegna)

Emilia-Romagna e Liguria, che approvano le leggi di istituzione del nuovo ente già nell'aprile 1995, fanalini di coda le isole, Sicilia (2001) e Sardegna (addirittura maggio 2006). Sostanzialmente, le Arpa hanno “fagocitato” tutti i compiti ambientali in


Da chi proteggere l’ambiente

Dal referendum del 1993 alle Arpa, buone intenzioni tramutatesi in pessime azioni: quando la politica, invece di depurare, intorbidisce di Pasquale Raffaele

D

a un punto di vista legislativo, le Agenzie Regionali per la Prevenzione e Protezione Ambientale vedono la luce – per essere più esatti il “concepimento”- dopo il maxireferendum abrogativo del 18 aprile 1993 proIl referendum mosso dal Partito del 1993 sottrae Radicale: fra i nove alle Asl parte del quesiti proposti, oltre all'ormai celecontrollo sull’ ambiente, che è berrima abolizione finanziamenti affidato così alle dei pubblici ai partiti, fiagenzie regionali gura anche una cospicua erosione delle competenze delle Asl in materia di controlli ambientali. Il successo plebiscitario del quesito (alle urne il 76,80% degli aventi diritto, con oltre l'80% di risposte affermative, 24 milioni e mezzo di italiani favorevoli) crea così un vulnus colmato dalle Camere con la legge n.61 del 21 gennaio 1994, che demanda i compiti di vigilanza e controllo ambientale ad agenzie regionali ad hoc, oltre ad istituire una Agenzia Nazionale per la Protezione Ambientale (Anpa) che, a seguito di un cambio di denomi-

nazione (Apat, Agenzia per la Protezione dell'Ambiente e per i servizi Tecnici) verrà accorpata nel 2008 all'Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), ente sorto dalla fusione di Icram (Istituto Centrale per la Ricerca scientifica e tecnologica Applicata al Mare), Infs (Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica) e, per l'appunto, Apat, il tutto alle dipendenze del Ministero dell'Ambiente. Le singole Agenzie fanno la loro comparsa alla spicciolata, man mano che le Regioni si adeguano alla legge n. 61/94: pionieristiche Piemonte, Toscana,

Le Arpa nascono alla spicciolata dal 1995 (Piemonte, Toscana, Emilia Romagna e Liguria) fino al 2006 (ultima ad adeguarsi la Sardegna)

Emilia-Romagna e Liguria, che approvano le leggi di istituzione del nuovo ente già nell'aprile 1995, fanalini di coda le isole, Sicilia (2001) e Sardegna (addirittura maggio 2006). Sostanzialmente, le Arpa hanno “fagocitato” tutti i compiti ambientali in


senso stretto precedentemente affidati alle Asl, su tutti monitoraggio di corsi e falde acquifere, salubrità dell'aria e controllo del suolo, riservando alle Aziende Sanitarie Locali questioni relative a igiene, sanità pubblica, pulizia degli ambienti lavorativi e servizi veterinari. La stortura di fondo è che si tratta di un ente al contempo influentissimo e dai piedi d'argilla. La fragilità riguarda i margini di manovra delle Arpa, dato che si occupano prevalentemente di opere di consulenza, ad esempio redigendo certificazioni ambientali di natura sì tecnica ma non vincolanti che, se considerate “scomode” o comunque in conflitto con interessi particolari, vengono sovente riposte in fondo a un cassetto. Un esempio lampante è il caso “deflagrato” di recente in Val di Susa, durante i lavori per la realizzazione della Tav. Massimo Zucchetti, ingegnere nucleare e docente presso il Dipartimento di Energie del Politecnico di Torino, evidenzia come la presenza di uranio nel massiccio D'Ambin - oggetto dello scavo del tunnel - sia stata reiteratamente ignorata dai vari

La fragilità delle agenzie riguarda i margini di manovra dell’Arpa che, redigendo certificazioni tecniche ma non vincolanti, è spesso ignorata

Governi succedutisi, sebbene risulti accertata già dalle prime rilevazioni del Cnr risalenti al 1965 e, soprattutto, confermata dalle analisi condotte dall'Arpa Piemonte nel 1997. Ha del paradossale quanto è avvenuto a Milano in zona Calchi Taeggi,

Pareri non tenuti in conto: Massimo Zucchetti, ingegnere nucleeare, ha confermato con l’Arpap la presenza di uranio in Val di Susa

paradigma della potenziale “conflittualità” fra area tecnica e dirigenziale delle Arpa: nel novembre 2010 la Procura meneghina pone sotto sequestro l'area situata nella periferia ovest di Milano – circa 300mila metri quadri – in quanto ex discarica destinata a diventare area residenziale, pur senza una bonifica; il pm Paola Pirotta avvia le indagini ed acquisisce una relazione congiunta di Arpa Lombardia e Corpo Forestale dello Stato che


evidenzia le irregolarità nelle autorizzazioni rilasciate dal Comune alle società che avrebbero dovuto edificare, iscrivendo nel registro degli indagati, fra gli altri, Paolo Perfumi, proprio un dirigente Arpa. Per quanto riguarda invece l'influenza delle Agenzie, questa è legata al peso specifico che rivestono in Italia la tradizione clientelare e di lottizzazione: dal momento che le nomine sono appannaggio delle singole giunte regionali, i dirigenti ed i funzionari designati non sempre recidono il “cordone ombelicale” che li lega al politico cui devono l'impiego, con conseguenti omissioni di dati e occhi di riguardo nei confronti di imprenditori e aziende in qualche misura vicini al referente in questione. Sempre in ossequio alla medesima logica di do ut des operano gli amministratori, vale a dire adoperando i posti disponibili nelle agenzie come oggetto

di prebende elettorali. La cronaca recente è tempestata di episodi scandalosi. Nell'ottobre 2009 scoppia lo scandalo Arpa Campania: le indagini della Procura di Napoli scoperchiano un presunto sistema di assunzioni clientelari in

Tra gli indagati anche Clemente Mastella e sua moglie Sandra Lonardo (foto) all’epoca presidente del Consiglio regionale

seno all'Agenzia regionale, rinvenendo su un computer nella segreteria di Luciano Capobianco – all'epoca direttore generale dell'Arpac, iscritto nel registro degli indagati e finito agli arresti domiciliari - un elenco di 665 persone che sarebbero state assunte su raccomandazione di vari esponenti politici locali bipartisan (ad ogni nome era associato un referente politico). 63 gli indagati fra i quali, oltre a Capobianco, figurano i coniugi Mastella (all'epoca Sandra Lonardo in Mastella era presidente del Consiglio Regionale ndr); successivamente, nel marzo 2011, per l'ex Guardasigilli è scattato anche il rinvio a giudizio, disposto dal Gup partenopeo Eduardo De

Nel 2009 scoppia lo scandalo Arpa Campania: le indagini scoprono il sistema di assunzioni clientelari per un elenco di 665 persone indagate


Anche Parma finisce nel tour dell’Agenzia inquinata con un’indagine durata oltre sei mesi coinvolgendo due dirigenti Arpa Gregorio, con l'accusa di abuso d'ufficio proprio in merito all'assunzione a tempo determinato di uno dei segnalati – per l'esattezza il 32° dell'elenco. Abuso d'ufficio è lo stesso capo di imputazione contestato dalla Procura di Roma, nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta P3, al Governatore della Regione Sardegna Ugo Cappellacci reo, secondo i pm, di avere sfruttato la sua carica per agevolare la nomina di Ignazio Farris – anch'egli indagato - alla presidenza dell'Arpas; Farris sarebbe stato segnalato da Flavio Carboni - celeberrimo imprenditore sassarese già coinvolto in numerosi misteri e scandali italiani ma condannato in via definitiva una sola volta nel 1998 – allo scopo di agevolare il suo ingresso sull'isola nel settore dell'eolico, secondo i pm in “combutta” con Denis Verdini, ex coordinatore nazionale del Pdl: per i due l'ipotesi di reato è concorso in corruzione. Impossibile non annoverare in questo poco edificante elenco il caso di Parma, senz'altro uno dei più eclatanti per la portata e l'eterogeneità dei coinvolgimenti. Dopo un'indagine durata oltre

sei mesi e condotta a cavallo fra il 2008 e l'estate del 2009, sono scattati traduzione in carcere e arresti domiciliari per sette indagati, di cui quattro consulenti ambientali, un brigadiere della locale Guardia di Finanza e due dipendenti Arpa – Fausto Allari e Marco Lovati - accusati di concussione: sarebbero coinvolti in un giro di tangenti richieste ad alcuni imprenditori per “ammorbidire” i controlli ambientali di rito. Nell'ottobre 2010, al cospetto del Gup Ferraro, Allari ha patteggiato una pena di 4 anni e 3 mesi di reclusione – in assoluto la più pesante – per avere intascato svariate mazzette, mentre Lovati non ha potuto beneficiare del patteggiamento e del conseguente sconto di pena, giudicato inammissibile - al pari della ri-

Nell’inchiesta P3 il governatore sardo Ugo Cappellacci (foto) è stato indagato per aver favorito la nomina all’Arpas di Ignazio Farris


Giuseppe Rotondaro, coordinatore degli staff dell'Arpa lombarda, anch'egli accusato di avere intascato una tangente da 10mila euro


chiesta di giudizio abbreviato formulata dal suo legale – a causa della gravità del quadro accusatorio nei suoi confronti; per lui il processo è cominciato a marzo dell'anno scorso. “Dulcis in fundo” Ultima, ma non la Regione Lombarultima, la regione dia, il cui ufficio di è stato Lombardia (foto) presidenza falcidiato da avvisi falcidiata da di garanzia e arresti avvisi di garanzia per le indagini più disparate, coinvole arresti gendo 4 membri su 5 – ultimo in ordine di tempo il leghista Davide Boni. Fra di loro figura Franco Nicoli Cristiani, ex vicepresidente del consiglio regionale in quota Pdl, arrestato nella propria abitazione lo scorso novembre con l'accusa di corruzione; durante l'operazione, gli inquirenti hanno anche rinvenuto il presunto corpo del reato, due buste piene di denaro per un totale di 100mila euro. Nell'ambito dell'inchiesta, Nicoli Cristiani è in ottima compagnia, dal momento che le manette sono scattate per altre dieci persone, fra cui Pierluca Locatelli – imprenditore impegnato nello smaltimento di rifiuti – e la consorte Aurietta Pace Rocca (finita ai domiciliari) ma, soprattutto, Giuseppe Rotondaro, coordinatore degli staff dell'Arpa lombarda, anch'egli accusato di avere intascato una tangente da

10mila euro per avere operato da anello di congiunzione fra il politico e l'affarista – i carabinieri bresciani hanno persino intercettato e fotografato l'incontro, avvenuto lo scorso settembre, durante il quale Rotondaro, definito da Locatelli “il portavoce di Nicou”, ha ritirato il denaro per conto dell'esponente del Pdl. Le due mazzette, che peraltro secondo gli inquirenti costituirebbero soltanto la prima metà della dazione illecita, sarebbero servite per sbloccare l'autorizzazione necessaria ad avviare i lavori di realizzazione di una discarica di amianto dal valore potenziale di 15 milioni di euro in un'area di cui Locatelli è proprietario. L'ingerenza delle forze politiche nelle nomine e nelle procedure risulta sempre esiziale per il corretto funzionamento degli enti di controllo e vigilanza; il breve mosaico qui delineato, considerata anche la varietà geografica degli episodi, pare corroborare su scala nazionale questa spiacevole tesi anche per quanto riguarda l'Arpa: politica e amministrazione farebbero bene a tenersi il più alla larga possibile dalla tutela dell'ambiente, già di per sé martoriato

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Basta non voltarsi

di Anita Franzon

Storia di una spiaggia toscano caraibica a pochi passi dallo stabilimento chimico Solvay che riversa gli scarti di lavorazione in mare

S

embra di essere ai Caraibi, sabbia bianca e finissima e mare di un azzurro abbagliante: è la spiaggia di Vada, frazione di Rosignano Marittimo in Toscana, poco più a sud di Livorno

Nemmeno una pineta riesce a nasconderla: la fabbrica Solvay produce bicarbonato proprio alle spalle delle cosiddette “spiagge bianche” di Vada

e non lontano dalle ville di Castiglioncello, dove si svolse gran parte della “dolce vita” di Alberto Sordi e Marcello Mastroianni negli anni Sessanta. Fin qui tutto perfetto, tanto che “le spiagge bianche”, così sono state soprannominate, sono

meta ambitissima dai turisti, ma anche dai Rosignanesi. Quando si arriva alle spiagge bianche, percorrendo una pineta che sbuca direttamente sul mare, bisogna però avere un piccolo accorgimento: non voltarsi. Cosa succede a chi si gira? Semplice, capisce subito di non trovarsi ai Caraibi, ma in Italia, precisamente in uno dei tanti tratti del Bel Paese che è stato devastato dalle industrie e dall'inquinamento. Le spiagge bianche non sono altro che una discarica industriale a cielo aperto. A pochi metri dal mare sorge tra ciminiere, fumi, tubi e torri di raffreddamento, una fabbrica che non avrebbe nulla da invidiare alla simpsoniana centrale nucleare di Springfield, tanto che nemmeno la folta pineta che la separa dal mare riesce a nasconderla. É la fabbrica Solvay, che dà addirittura il nome all'agglomerato di case, oggi una vera e propria cittadina, sorta a partire dagli anni Venti intorno allo stabilimento: Rosignano Solvay. Solvay è un gruppo belga che dal 1917 produce il bicarbonato


che quasi tutti hanno in casa, ma anche acido cloridrico, il carbonato di sodio (soda), polietilene, cloruro di calcio, perossido di idrogeno (acqua ossigenata) e anche policloruro di vinile (Pvc); è uno dei primi dieci gruppi chimici del mondo con circa 33mila dipendenti distribuiti in 42 paesi e la sede di Rosignano è la più grande sodiera d'Europa. La presenza della fabbrica in cento anni di attività non ha solo modificato l'urbanistica, ma anche l'ambiente circostante. A risentire maggiormente dell'inquinamento della Solvay è stato il mare: la flora e la fauna marina hanno subito mutamenti visibili agli occhi di tutti ma, nel caso delle spiagge bianche, a prima vista sembrerebbe un miglioramento del paesaggio. Dallo stabilimento parte un canale che butta costantemente in mare una fanghiglia lattea, un

Qui in foto, il Teatro Solvay. Quando la fabbrica è arrivata in Toscana negli anni Venti ha dato nome persino al villaggio che sorge tra la spiaggia e la fabbrica

fiume bianco composto di residui provenienti dai processi di lavorazione della soda in cui sono presenti anche metalli pesanti bioaccumulabili come mercurio, arsenico, cadmio e cromo. Sono proprio questi fanghi che scaricati in mare in

Dallo stabilimento parte un canale che butta costantemente in mare una fanghiglia lattea: è un composto di residui, tra cui arsenico e mercurio, dei processi lavorativi della soda

quantità grandissime - fino al 2007 circa 300mila tonnellate annue - hanno dato origine alle spiagge bianche. Tra questi scarichi c'era, sempre fino al 2007, anche il mercurio, che in parte arrivava con il calcare estratto dalle colline metallifere e in


parte derivava dal processo di elettrolisi che serviva per ottenere dal cloruro di sodio in soluzione (salamoia) il cloro gassoso e la soda caustica. Secondo uno studio del Cnr di Pisa, il mare in questo tratto di costa è avvelenato fino a una distanza di 14 chilometri dalla linea di battigia da oltre 500 tonnellate di mercurio scaricate in quasi un secolo di attività indu-

Secondo uno studio del Cnr di Pisa il mare in quel tratto di costa è avvelenato per 14 km dalle oltre 500 tonnellate di mercurio scaricate da Solvay per quasi un secolo

striale. In questo caso bianco non è sinonimo di pulito, anzi, le spiagge bianche si sono classificate, secondo un rapporto delle Nazioni Unite, tra i 15 siti costieri più inquinati del Mediterraneo. Nel 2003 venne stipulato un

“Accordo di programma” tra istituzioni locali e multinazionale belga con tre obiettivi da raggiungere: il primo, quello di ridurre del 70% gli scarichi a mare; il secondo quello di chiudere la vecchia elettrolisi a mercurio; per ultimo, diminuire i consumi di acqua dolce di 4 milioni di metri cubi all'anno. Quest'ultimo obiettivo venne ottenuto grazie alla costruzione del depuratore Aretusa. Anche l'elettrolisi a mercurio è stata chiusa nel dicembre 2007 e le vecchie celle a mercurio sono state sostituite con quelle a membrana, ma resta tuttora il problema del mercurio emesso fino a quella data che si trova ancora sepolto in mare e disperso nell'ambiente. Come fa notare in un intervista Maurizio Marchi, dell'associazione Medicina Democratica, movimento di lotta per la salute dei lavoratori nato negli anni Sessanta e che da anni cerca di combattere l'inquinamento causato dalla Solvay, la diminuzione del 70% degli scarichi solidi entro la fine del 2007 non è invece stata rispettata. I fanghi scaricati in mare sono ancora al doppio del valore delle 60mila tonnellate fissate dall'accordo di programma. Pendono infatti sulla Solvay una denuncia alla Procura della Repubblica di Livorno e un’indagine della Guar-


dia di finanza, in quanto il gruppo chimico ha già ottenutocirca 30 milioni di euro per le misure di ambientalizzazione a fondo perduto dallo Stato. Intanto, lo stato di salute della popolazione locale continua a peggiorare, a causa dell'inquinamento da cloro e mercurio. Il cloro è pericoloso in caso di fuga, è cancerogeno e provoca piogge acide e danni alla fascia dell'ozono. Inoltre, è letale per l'uomo nella misura di mezzo grammo per metro cubo d’aria, è fortemente irritante per la pelle, per gli occhi e le vie respiratorie, può provocare edema polmonare e alterazione della funzionalità respiratoria. Nella storia di Rosignano si contano numerose fughe di cloro. Il mercurio, anche se la Solvay ha cessato di emetterlo nel 2007, è ancora tutto qui: ha effetti devastanti sulla salute perché colpisce il sistema nervoso e i reni. L'inquinamento da mercurio non può non riportare alla mente il triste episodio delle acque di Minamata, in Giappone, che nel 1956 causò un'epidemia di malformazioni neonatali. Gli scarichi di uno stabilimento che utilizzava il ciclo cloro-soda, esattamente quello adottato dalla fabbrica Solvay fino al 2007, contaminò molluschi, crostacei e pesci della baia entrando nella catena ali-

mentare e causando l'avvelenamento e la morte di migliaia di abitanti del luogo. Secondo Maurizio Marchi lo stato di salute della popolazione locale è problematica e non sono state fatte indagini epidemiologiche mirate al tipo specifico di inquinamento locale se non per il cloruro di vinile che è stato

Maurizio Marchi del Comitato per i beni comuni della Val di Cecina ha evidenziato lo stato si salute critico della popolazione a causa delle indagini epidemiologiche non effettuate

prodotto fino al 1978. Ci sono anche dei lidi balneari comunali a pochi chilometri e la balneazione non è proibita. Un dossier di Legambiente, pubblicato nel febbraio 2007 e intitolato “Un futuro verde per la chimica italiana”, riporta che il mercurio


presente non è affatto “tombato” o “inerte”, al contrario rischia di andare in circolo a causa delle mareggiate e delle radiazioni solari. Lo dimostra anche uno studio del Cnr di Pisa (Professor Ferrara, anno 2000) che ha rilevato che nelle ore più calde dell'estate l'evaporazione del mercurio espone i bagnanti a un

Intanto l’Arpat controlla, ma la situazione è davvero sotto controllo? Dal 2000 non è cambiato nulla, mentre le spiagge sono addirittura state insignite della Bandiera blu

grave rischio. Con queste premesse risulterebbe difficile per chiunque pensare che un ambiente del genere, per quanto veramente spettacolare, possa essere incontaminato e sicuro. Invece, i locali hanno la risposta pronta per

i turisti che, giustamente, chiedono quanto possa essere salutare fare il bagno in quelle acque di cui non si vede il fondo e provare per credere - sembra di camminare su un tappeto di sabbie mobili: «È bicarbonato. Disinfetta, deh!» sono pronti a rispondere i Rosignanesi. Non sono dello stesso avviso i pescatori che di pesci, invece, ne pescano pochi. Perché allora si permette ai turisti di frequentarle? Cosa c'è dietro? Dietro quest'angolo di finto paradiso c'è l'Arpat. L’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente in Toscana che da anni tiene sotto monitoraggio la zona, ma la situazione è davvero sotto controllo? A questo punto sembra un controsenso, ma dal 2000 spiaggia e mare di questa parte di costa toscana sono stati addirittura contrasseganti dalla Bandiera Blu e anche i cartelli che vietavano la balneazione sono stati rimossi. A quanto pare, secondo le indagini chimiche ed epidemiologiche svolte da Arpat e Asl gli indici di mortalità della popolazione sono nella media regionale e anche i valori di concentrazione degli elementi inquinanti sono nella norma. Nel report Arpat sul controllo delle acque di balneazione nella


stagione 2011 si legge: «le criticità riguardano le zone dove confluiscono in mare i corsi d’acqua che ricevono apporti di acque più o meno depurate: Fiume Cecina, Botro Cecinella ed il Fosso Nuovo. [...] Invece, tutti i controlli effettuati presso la foce del Lillatro, che veicola a mare gli effluenti della zona industriale di Rosignano Solvay, compreso lo scarico dello stabilimento Solvay Chimica Italia, mostrano una assenza di contaminazione fecale. La presenza, però, di scarichi di tipo industriale fa ritenere necessario il mantenimento del divieto permanente a titolo precauzionale». Novità di quest'anno è una staccionata in legno, 50 metri a nord e 50 a sud dello scarico del fosso bianco per rendere ben visibile il divieto di balneazione e per impedire che venga rimosso come è accaduto finora. Complici i bagnanti, fino a oggi nessuna autorità si è posta il problema di vietare completamente la frequentazione di queste spiagge che sono addirittuara diventate set cinematografici, tanto che è recentemente nata la “Rosignano Film Commission”. Sono molti gli spot e i film girati a Vada senza dover volare fino ai Caraibi, come il film di Fausto Brizzi “Maschi contro femmine” nel 2010 e la più recente pubblicità della Tim con Neri Marcorè.

Anche in questo caso vale la regola del non voltarsi: basta non riprendere le ciminiere o, in fase di post produzione sostituirle con qualche palma o montagna e l'effetto caraibico è assicurato. Quello che invece andrebbe fatto sarebbe uno spot sul vero rischio di queste spiagge. È importante, siccome queste spiagge sono molto frequentate, che almeno la gente sappia i rischi che

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Fino ad oggi nessuna autorità si è posta l’obbligo di vietare del tutto la balneazione di queste spiagge, diventate addirittura luoghi per set cinematografici

corre e che non voltarsi verso la fabbrica non basta a scongiurare il rischio di un serio inquinamento


Taranto, l’Ilva e l’Aia infinita

L’industria di Riva produce senza avere l’Autorizzazione integrata ambientale. Dal 2007 il diritto alla salute e alla vita viene beffato, calpestato e, infine, strumentalizzato di Marta Cioncoloni

G

rande due volte e mezzo Taranto, con i suoi tredicimila dipendenti e una produzione fino a trentamila tonnellate al giorno, l’Ilva è la prima acciaieria d’Europa. Questo colosso della siderurgia targato Riva dal 1995, anno che decretò il passaggio definitivo dalla gestione pubblica a quella privata, fattura in media dieci miliardi di euro all’anno, in denaro, e quasi milleduecento morti all’anno, per cancro. È responsabile dell’emissione del 96% di idrocarburi policiclici aromatici, del novantadue percento di diossine, dell’ottantacinque percento di ossido di carbonio e di piombo, e del ses-

santotto percento di mercurio, e il tutto su scala nazionale. Ogni tarantino ha almeno un parente vittima dell’Ilva, o morto per tumore o per incidente sul lavoro, e le tombe del cimitero sono rosse di “minerale”, come viene chiamato qui il misto letale di benzo(a)pirene, diossina e piombo che fuoriesce dalle alte ciminiere, o che si leva dalle cokerie costruite a ri-

Città a rischio dal ‘91, ma i primi controlli arrivano solo nel 2007, mentre l’Ilva richiedeva l’autorizzazione

dosso del quartiere Tamburi. I neonati assumono costantemente diossina dal latte materno, nel quale la concentrazione media è quattro volte superiore a quella europea. Taranto è considerata “area a elevato rischio ambientale” dal 1991, ma i primi controlli ufficiali risalgono al 2007. L’Ilva è una di quelle 200 aziende italiane per le quali l’iter di elaborazione e rilascio dell’Autorizzazione Integrata Ambientale, unico lasciapassare per non chiudere i battenti, è competenza riservata direttamente al ministero dell’Ambiente, tramite l’istituzione di una Commis-


sione Ippc (Integrated Pollution Prevention and Control). In questi casi il parere della Regione è obbligatorio, ma non vincolante. La data di scadenza per il possesso di tale autorizzazione era stata fissata dalla Comunità Europea per il 30 ottobre 2007, con “soli” undici anni di preavviso, ma i Riva pensarono di presentare domanda solo nel febbraio 2007, rendendo pertanto impossibile rispettare il termine. Come la collega tarantina, molte altre

Ma al 2007 scadono i termini per l’Aia: i tempi d’attesa così si allungano e l’Ilva continua a inquinare

aziende italiane presentarono domanda tardivamente, tant’è che il Governo, anche in seguito a ostacoli nati da procedure interne viziate e rallentamenti nel recepimento della normativa europea, emise proprio il 30 ottobre 2007 un decreto legge con cui differì il termine prefissato. Il risultato, oltre alla procedura d’infrazione contro l’Italia (l’ennesima) con conseguenti sanzioni economiche da parte della Commissione Europea, fu l’ulteriore espansione dei tempi di attesa, che si tradusse fondamentalmente in una “licenza a continuare a inquinare”. La riservatezza che ha circondato la presentazione della domanda dell’Ilva al ministero era quasi riuscita a proibire ai cittadini e alle associazioni di esercitare il proprio diritto alla presen-

tazione di obiezioni. Tuttavia il 10 agosto dello stesso anno gli ambientalisti di Altamarea riuscirono a porre le “primissime osservazioni” e a integrarle in settembre con circa 100 pagine descrittive di anomalie e inadempienze, scovate tra le righe della documentazione allegata alla domanda di autorizzazione. È da questo

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momento che ha inizio l’infinita serie di denunce da parte di organizzazioni ambientaliste, semplici cittadini e associazioni sanitarie, e anche l’infinita procedura che porterà solo cinque anni dopo al rilascio di un’autorizzazione ancora discussa, ancora insufficiente a garantire la salute dei cittadini. Fatto sta che nell’agosto del 2011, il ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo l’Aia la firmò, per giunta con parere positivo della Regione Puglia, giustificato dalla registrazione di un abbassamento delle emissioni tossiche rilevato da Arpa. Ci si arriva attraversando peripezie varie,

che fanno intuire una certa simpatia della Roma di allora nei confronti di Riva, come ad esempio la convocazione in dirittura d’arrivo di un incontro a porte chiuse tra il dicastero e i vertici Ilva, oppure la minaccia, sempre da parte della Prestigiacomo, di im-

Riva fece parte della cordata di imprenditori che “salvò” Alitalia: nel 2011, nonostante le rilevazioni contrarie del Noe, la Prestigiacomo firma l’Aia con il parere favorevole della Regione

pugnare davanti alla Corte Costituzionale la legge regionale antidiossina adottata dalla Puglia. Sorge spontaneo il dubbio che la presenza di Riva tra gli imprenditori della cordata salvifica per Alitalia abbia fatto chiudere un paio di occhi sulle nubi tossiche prodotte dalla sua industria. O magari è solo pura coincidenza. Nel frattempo i carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico chiesero il sequestro dello stabilimento, alla fine di quaranta giorni di rilevazioni effettuate tra maggio e giugno 2011, che avrebbero dimostrato una gestione illecita dello smaltimento di fumi e polveri nell’aria. L’inchiesta viene affidata al Gip Patrizia Todisco, che dispone l’elaborazione di un’ indagine epidemiologica per verifi-


care le accuse a carico dei vertici dell’azienda: disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato e getto di cose pericolose. Viene da chiedersi come mai i rilevamenti effettuati da Arpa Puglia non fossero stati così incisivi come quelli del Noe. La risposta è che l’Arpa è tenuta solamente a eseguire un tipo di procedura denominata “manuale”. Questa avviene mediante tre campagne in un anno, ognuna di otto ore, per tre giorni di seguito, durante il giorno, che per un’industria che lavora ven-

tiquattro ore su ventiquattro è statisticamente il momento di minore attività. Il tutto avvertendo educatamente in anticipo della visita. D’altra parte, anche se il sopralluogo avvenisse “a sorpresa”, è dimostrato che i tecnici impiegano ben novanta minuti per arrivare

Già l’Arpa fece le sue valutazioni, che risultarono meno incisive di quelle del Noe. Questo perché le rilevazioni Arpa avvengono secondo procedura “manuale” e con largo preavviso all’azienda

dai cancelli esterni fino al camino E-312, dove avviene la misurazione, contando che qui c’è da montare l’attrezzatura. Tutto il tempo necessario sicuramente non per azzerare, ma comunque per addomesticare i valori. Oltretutto in questo modo si vanno a monitorare solamente settantadue ore delle 8760 effettive. Probabilmente una media un po’ troppo bassina per raccogliere risultati veritieri. L’unico metodo per avere costantemente sotto controllo la situazione sarebbe introdurre nell’Aia l’obbligo del “campionamento in continuo” (previsto dalla prima stesura della legge regionale, sparito dopo la revisione del 2009), che consisterebbe semplicemente nel posizionamento, a carico dell’azienda, di un


Vendola contro Riva e l’Arpa alza la voce: l’Aia è da rivedere; intanto il ministero ricorre al Tar

rilevatore fisso. Tuttavia Taranto sembra essere uno di quei casi in cui Arpa ha le mani legate dalle direttive ministeriali: non può che limitarsi a denunciare, ma viene sistematicamente ignorata. Ad esempio, lo stesso giorno della firma della Prestigiacomo, pubblicò dati inequivocabili sulle sorgenti di benzo(a)pirene, raccolti grazie alla cosiddetta tecnologia “ventoselettiva”, che consente di misurare gli inquinanti e allo stesso tempo di individuarne la provenienza. Inutile specificare dove fu individuata la sorgente primaria. Ci sarebbe da chiedersi come mai l’azienda regionale abbia cominciato ad alzare la voce solo quando il governatore Nichi Vendola si è apertamente schierato contro Riva, oppure possiamo aggiungere anche questa all’elenco delle abituali coincidenza. Al momento è la stessa Arpa a spingere perché nella nuova Aia sia inserito l’obbligo del campionamento continuo. Sì, perché il documento del 2011 è stato recentemente rimesso in discussione, una volta resi noti i risultati della perizia epidemiologica

disposta nell’ambito dell’incidente probatorio. Gli esperti incaricati dello studio hanno sostenuto che «Nei sette anni considerati, per Taranto nel suo complesso, si stimano 83 decessi attribuibili ai superamenti del limite Oms di 20 microgrammi al metro cubo per la concentrazione annuale media di Pm10. Nei sette anni considerati per i quartieri Borgo e Tamburi - rilevano ancora i periti - si stimano 91 decessi attribuibili ai superamenti Oms di 20 microgrammi al metro cubo per la concentrazione annuale media di PM10. E ancora nei sette anni considerati per Taranto si stimano - sempre secondo la perizia - 193 ricoveri per malattie cardiache attribuibili ai superamenti del limite Oms di 20 microgrammi al metro cubo per la media annuale delle concentrazioni di Pm10 e 455 ricoveri per malattie respiratorie». A comunicare l’avvio delle pratiche di riesame ci ha pensato lo stesso ministro dell’ambiente Corrado Clini, a inizio marzo, tra il plauso di Legambiente e la rabbia di Riva, il quale ha recentemente annunciato il ricorso al Tar.


Ricomincia dunque la storia infinita dell’Aia dell’Ilva, farcita di troppi appelli ai diversi punti di vista e che, forse, non tiene troppo conto dell’oggettiva necessità di inserire tutti gli accorgimenti possibili per contenere i danni futuri di un’industria che, in virtù del ricatto occupazionale, non può essere semplicemente e definitivamente chiusa. L’unica strategia attuabile è trovare il compromesso migliore tra salute e lavoro, un compromesso che, se raggiunto, comincerà a dare frutti solo tra diversi decenni. Il presente non può che prendere tristemente atto dello status quo. L’inquinamento incrociato provocato da Ilva, Eni e Marina Militare, ha negato a qualsiasi altra forma di economia alternativa il diritto di esistere e svilupparsi. L’ASL ha messo i sigilli alla mitilicoltura nel Mar Piccolo, unica al mondo proprio per la peculiarità di questo habitat ma-

rino agrodolce, nel momento in cui sono venute a galla cozze tarantine imbottite di diossina e pcb. Per lo stesso motivo si sono dovuti abbattere interi capi di bestiame. I siti archeologici sono abbandonati al degrado. Il turismo, ormai, è solo un ricordo. Si parla di una bonifica del territorio, e si bisbiglia che debba essere portata avanti attingendo alle casse dello Stato, ma sembra più una strategia da campagna elettorale che una prospettiva concreta. Certamente fa riflettere che l’Italia resti uno Stato sfavorevole alla pratica del suicidio assistito, quando anche solo respirare per i tarantini corrisponde a una sorta di eutanasia

Caos e ritardi: l’Aia diventa la ricerca del compromesso che non sporca le mani allo Stato


Arpa e Basilicata: Non fidarsi è meglio

Melfi Ferrandina Val d’Agri


Redimersi per riconquistare la fiducia del territorio: è l’obiettivo della nuova direzione di Raffaele Vita dal 2011 a capo di una delle Agenzie regionali per l’ambiente peggiori d’Italia

«D

iciamo che c’è ancora molto da fare». La Basilicata che esce da un decennio di scandali ambientali sta tutta in una frase ironica di Maurizio Bolognetti, della Direzione nazionale dei Radicali italiani, guerrigliero di lungo corso nella battaglia per la salute lucana. Il suo velato ottimismo parte dal presupposto che fidarsi è bene, non La crisi di Arpab fidarsi è meglio, firaggiunge l’apice darsi dell’Arpab è Lo dimonell’ottobre 2011 dannoso. strano anni di gecon l’inchiesta su stione folle del Fenice e l’arresto controllo sull’ambiente, culminati di Sigillitto con la dirigenza di Vincenzo Sigillitto, arrestato per l’inchiesta Fenice. Nel 2011 a capo dell’Agenzia è salito Raffaele Vita e con lui un sensibile cambio di rotta; il cambiamento fa ben sperare per il futuro, ma non fa certo dimenticare gli sfaceli perpetrati sul territorio lucano, soprattutto perché i loro effetti si sentono ancora.

di Lorenzo Ligas

lorizzatore di Melfi Fenice, del gruppo francese Edf. L’inceneritore, secondo i dati forniti da Arpab nel 2011, ha inquinato dal 2002 al 2007: nichel, piombo, mercurio, cromo esavalente, cadmio sono stati ospitati per cinque anni (quelli accertati) nel suolo lucano, ma non è solo questo il punto. Il punto è che Arpab quei dati non solo li ha pubblicati nel 2011, che è equivale a dire che Ritardi, per nove anni li ha omissioni, dati occultati, ma si è occultati: dal 25 anche rifiutata di riottobre 2011 lasciarli alla Procura l’Arpab prova a melfitana che nel 2009 affidò al prof. cambiare rotta Francesco Fracassi l’incarico di consulente tecnico in relazione all’inchiesta sul termovalorizzatore Fenice. Nella sua relazione del 24 maggio 2010 il professore scrive infatti che dopo aver trasmesso la richiesta dei dati alla Procura e «nonostante i dati richiesti fossero indispensabili per stabilire se le anomalie riscontrate fossero

La religiosa assenza di Arpab si I luoghi simbolo del disastro sparso da Arpab per la Basilicata: l’inceneritore di Melfi, la Mythen sparge su tutto il territorio ludi Ferrandina, il Centro oli in Val d’Agri cano. A cominciare dal termova-


Nel 2010 la Provincia di Potenza rilasciò un certificato sostitutivo della pur necessaria Autorizzazione integrata ambientale

stati o siano ancora pregiudizievoli per l’uso delle acque da parte di agricoltori, alcuna delle analisi richieste è stata consegnata al sottoscritto da Arpab o dalla Procura della Repubblica di Melfi». Così i dati sono stati nascosti. Del resto il 6 luglio 2011, il neo direttore Vita afferma che «rispetto alle diossine noi non eseguiamo il controllo, ma stiamo in questo momento definendo con la regione un processo per l’acquisto delle strumentazioni». La sveglia dell’Arpab suona in ritardo di nove anni; 108 mesi durante i quali nessuno controlla le emissioni del gigante termovalorizzatore e, cosa ancora più grave, senza che il termovalorizzatore abbia l’Autorizzazione integrata ambientale. Nel 2010 la provincia di Potenza infatti senza fatica

bypassa l’Arpab, rilasciando l’autorizzazione alla Edg; un anno dopo è però costretta, quasi controvoglia, a rimangiarsi la parola e, in seguito alle analisi dell’Agenzia e all’inchiesta della Procura, a imporre un arresto del Fenice per 150 giorni. Ma omettere i controlli e arrivare tardi è specialità Arpab anche sulle rive del fiume Basento: qui nel 2009 segnalazioni della Guardia forestale prima, e una video inchiesta di Bolognetti

A fine 2011 esce la verità sul Fenice e, dopo 9 anni in cui Arpab ha occultato i dati, la provincia chiude l’inceneritore per 150 giorni

poi, hanno scoperto un tubo di scarico di sostanze inquinanti presumibilmente collegabile alla Mythen, azienda chimica e petrolchimica sorta a Ferrandina (MT) nel 2003. L’Arpab ha im-


piegato più di due anni a effettuare le analisi e riportarne i risultati, che sono poi tutt’altro che rassicuranti: «Sia a valle, sia a monte, sia in corrispondenza dell’impianto Mythen sono stati riscontrati valori anomali rispetto al Cod ossia la domanda chimica di ossigeno, da cui la morìa dei pesci. A causare questo stato: la presenza di metanolo». Così l’informativa della Prefet-

Nel 2009 la Mythen di Ferrandina suscita scandalo per uno scarico non a norma. L’Arpab impiegherà più di due anni per far partire le analisi

tura, datata 22 novembre 2011, vieta «l’attingimento delle acque sia per scopi irrigui, che per dissetare mandrie e greggi». L’industria viene chiusa lasciando a casa 70 dipendenti della linea biodiesel, ma ormai il danno è fatto. Sul sito della Mythen si

Maurizio Bolognetti. Insieme alle segnalazioni della Guardia forestale, fu una sua video inchiesta a denunciare l’inquinamento Mythen

legge: «Se è vero che l’impresa è rischio ed il rischio è impresa, l’unica e vera domanda per chi è certo di voler fare impresa ed è pronto ad affrontare la sfida del rischio è: che cosa fare?». Svegliare l’Arpab. E il 2011, come visto, forse segna davvero una svolta nel comportamento dell’Agenzia. Ma, per il momento, ciò che ha fatto Raffaele Vita nei suoi primi mesi di direzione è una normale amministrazione in cui l’unica cosa eccezionale è stata succedere a un’amministrazione disastrosa. Così qualsiasi provvedimento appare sceso dalla luna ed evidenzia una falla nel sistema precedente. Come l’accordo Eni-Arpab firmato il 17 maggio scorso che definisce i termini del


Trasferimento della rete di monitoraggio della qualità dell’aria del Cova (Centro oli della Val d’Agri). L’accordo stabilisce che il sistema di controllo della qualità dell’aria dell’area attorno al giacimento petrolifero della Val d’Agri, il più importante dell’Europa continentale, passi finalmente dal controllo dell’Eni, gestore del giacimento, all’Arpab. Si tratta di una conquista notevole rispetto al passato: chi potenzialmente inquina (Eni) non può anche avere il controllo del proprio inquinamento. Il conflitto d’interessi, tanto stupido quanto tollerato, cessa così aprendo all’implementazione di nuovi strumenti per la rilevazione ambientale: «Una rete di centraline per il rilevamento della qualità dell'aria che prenda in considerazione oltre agli inquinanti tradizionali anche H2S,

benzene, IPA, COV, metalli pesanti; il monitoraggio del rumore all'esterno del Cova con campagne periodiche; stazioni di biomonitoraggio per la verifica del livello di criticità ecologica; il monitoraggio dello stato degli ecosistemi (microclima, suolo e

L’inquinamento in Val d’Agri c’è: lo provano i valori oltre norma di stagno e idrocarburi pesanti, rilevati nel vicino lago del Pertusillo

sottosuolo, ambiente idrico superficiale e sotterraneo ecc); raccolta dati da un idoneo numero di stazioni di rilevamento della sismicità naturale e indotta nell'area del giacimento; una campagna di monitoraggio delle componenti ambientali». Oltre a ciò si aggiungono le nuove centraline e un nuovo mezzo mobile per un miglior controllo dell’inquinamento della zona. Perché l’inquinamento c’è: proprio i dati dell’Arpab e una video inchiesta di Basilicata24 evidenziano al luglio 2011 gli eccessi di stagno e idrocarburi pesanti tra i sedimenti fluviali prelevati dal vicino lago del Pertusillo. Gli idrocarburi quindi ci sono e la Regione prova a metterci

Val d’Agri, provincia d’Eni. La società petrolifera si è sempre auto controllata, gestendo tutto il sistema di controllo ambientale


una pezza. Ma il passaggio del controllo dell’ambiente da chi non dovrebbe gestirlo a chi invece dovrebbe avviene ad un condizione, questa: «Eni si impegna a sostenere i costi della ge-

A maggio viene ufficializzato il trasferimento del controllo ad Arpab, ma la responsabilità economica sarà ancora di Eni

stione delle Reti di Monitoraggio Ambientale [...] Al fine esclusivo di consentire ad Arpab di ultimare le procedure necessarie per l'assegnazione di contratti, Eni s'impegna a garantire temporaneamente il servizio di manutenzione». Il cane a sei zampe quindi continua a metterci i soldi e temporaneamente prolunga la manutenzione delle centraline, mentre Arpab eredita tutta la gestione della rete. Se è vero che

l’accordo ripete come un mantra l’obbligo di Eni a collaborare con l’Agenzia regionale in tutto e per tutto, è pur vero che il filo tra Arpab e la società petrolifera rimane teso dalla parte dell’azienda, ovvero dalla parte di chi mette il denaro e di chi, fino ad oggi, si è sempre controllato da sé. La storia di Arpab è una costellazione di omissioni, parole e dati sciorinati come contentino agli ambientalisti, buoni propositi per il futuro da prendere per quello che sono: proposte catartiche avanzate da un’ente che per oltre un decennio ha fatto malissimo e che, nell’eredità che violenta la Basilicata, vede la sua più grande responsabilità «Eni si impegna a sostenere i costi della gestione delle Reti di Monitoraggio Ambientale» si legge nel testo dell’accordo


Dolce far (finta di) niente

Dietro Rotondaro e il giro di arresti che ha falcidiato la Lombardia, dalla discarica nel cremonese alle scorie dei cantieri Bre.Be.Mi: la sonnolenza complice dell’Arpa

I

l 30 novembre 2011 l’ex cava Retorto, a Cappella Cantone, in provincia di Cremona, viene sequestrata al termine di un’inchiesta che porta in manette il vice presidente del Consiglio regionale Franco Nicoli Cristiani e il coordinatore dello staff regionale di Arpa Lombardia, Giuseppe Rotondaro. Il nodo della questione è costituito da un tangente di 100mila euro che Pierluca Locatelli, proprietario dell’omonima ditta e dei terreni su cui sorge la cava, avrebbe versato a Nicoli Cristiani per l’elusione dei controlli e il facile rilascio dell’autorizzazione ambientale alla costruzione di una discarica per amianto. L’autorizzazione in effetti viene rilasciata dalla Regione nel 2009, ma si fonda su basi tutt’altro che sicure: le rilevazioni piezometriche sono state alterate. Esse dovevano infatti accertarsi che il fondo della discarica avesse un margine di distanza dalla falda superiore ai due metri; a metà novembre del 2010 la comunità esulta: i due metri dall’acqua non ci sono e il progetto non può che essere in teoria abortito. In teoria.

di Emanuele Salomone


In pratica non è così. Nonostante il dietro L’imprenditore Locatelli, proprietario dei terreni su cui front della Provincia di Cremona, la Regione sorge la cava di Retorto Lombardia vuole imporre la discarica: qualche mese più tardi si scopre infatti che sono state presentate di nascosto delle modifiche al regolamento e che consistono nell’aggiungere uno strato di m 1,40 di materiale isolante; l’Arpa perciò prosegue tranquillamente le misurazioni della falda “facendo finta” che esistesse questo strato aggiuntivo di terreno. Che fare? L’amianto a Cappella Cantone c’è e si deve smaltire con un progetto che non rischi di entrare in contatto con una falda acquifera alla prima pioggia. Il progetto però non muore e va avanti. Poi, l’intercettazione: LOCATELLI: Pronto. Dopo gli arresti, sulle ROTONDARO: Buongiorno, come stai? responsabilità di Arpa LOCATELLI: Eh non lo so, ti farò sapere indaga anche una domani. ROTONDARO: Eh...dai...vedrai che commissione dell’Ue domani starai meglio. LOCATELLI: Dici? ROTONDARO: Si, si, si. Dove sei? LOCATELLI: A Grumello. ROTONDARO: Ah. Niente, io...penso che sia tutto a posto. Ho fatto anche delle verifiche … LOCATELLI: Hai fatto un po’ di verifiche? ROTONDARO: Si, son stato giù anche l'altro giorno lì...dalle tue parti, non te l'han detto? Rotondaro è il tramite della tangente che viaggia da Locatelli a Franco Nicoli Cristiani: i carabinieri però fotografano addirittura la


flagranza di reato e il trio finisce in manette. Per Il direttore di Arpa Lombardia Enzo Lucchini, alle spalle di Arpa Lombardia inizia il valzer dello scarica Roberto Formigoni barile. Nelle dichiarazioni immediatamente dopo l’arresto, Rotondaro diventa un faro espiatorio da puntare lontano dall’Agenzia, che sostiene a spada tratta che il tramite della tangente in realtà sia alle dipendenze della Regione e non proprie. Anche fosse così, questo scagionerebbe l’Arpa dalla corruzione, ma non da quelle modifiche nascoste al regolamento. Dopo gli arresti l’Arpa Rotondaro però non viene solo indagato per prova a far finta di corruzione, ma anche per traffico illecito di nulla e scaricare tutta rifiuti: quali? I diecimila euro con cui fu la colpa su Rotondaro “ringraziato” da Locatelli includevano infatti anche l’elusione dei controlli ambientali su Brebemi, ditta costruttrice proprietaria di alcuni cantieri finiti sotto sequestro nell’inchiesta. Brebemi utilizzava rifuti pericolosi e speciali come sottofondi stradali; non solo inerti (calcinacci e resti della demolizione) ma anche cocktail di veleni quali il cromo esavalente, che andrebbe smaltito da ditte specializzate a costi altissimi. Dalle indagini emerge che nei cantieri sequestrati della Bre.Be.Mi «Finivano rifiuti tossici tra cui anche scarti di lavorazione dell'acciaio tra cui anche cromo» spiegò il maggiore Dionisio De Masi, comandante del Reparto operativo dei carabinieri di Brescia.


Rotondaro avrebbe quindi aiutato a eludere i controlli. Ma, fosse vero quanto dichiarato dall’Arpa, la domanda sarebbe lecita: perché lui? Quanto dichiarato dall’Arpa in prima battuta però non è vero. Rotondaro è un suo funzionario e l’Agenzia non può continuare a far finta di nulla; così ripiega: «Noi non abbiamo titolo di verifica del materiale di costruzione, la responsabilità del controllo tocca al costruttore che paga per averlo, e in particolare al direttore dei lavori». Falso. O meglio, non esistente. Se nella L.R. 14 agosto 1999 n.16 istituente l’Arpa si legge che «le attività di controllo ambientale consistono nei controlli dei fattori fisici, chimici e biologici di inquinamento acustico, dell'aria, del suolo e del sottosuolo», nel regolamento interno di Arpa Lombardia si scende nello specifico: «Sono escluse [dalla responsabilità dell’Agenzia, ndr] le attività di controllo connesse all'esercizio di altri Enti. Resta fermo l'obbligo di comunicare all'Autorità giudiziaria eventuali violazioni». Bre.Be.Mi non è un’Ente e andava controllata in ogni passo, ma l’Arpa, in oltre 200 visite di controllo ai cantieri, ne ha omesso uno. Rotondaro invece era un dipendente e bisognava assicurarsi che rispettasse l’obbligo di denuncia delle violazioni. Quindi controllare e sorvegliare. E non fare finta di niente

I controlli dell’Agenzia su Brebemi sono 200, ma non riguardano mai i sedimi utilizzati


Settimanale quotidiano*

*Un tema a settimana, un aggiornamento ogni sera.


Redimersi per riconquistare la fiducia del territorio: è l’obiettivo della nuova direzione di Raffaele Vita dal 2011 a capo di una delle Agenzie regionali per l’ambiente peggiori d’Italia

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iciamo che c’è ancora molto da fare». La Basilicata che esce da un decennio di scandali ambientali sta tutta in una frase ironica di Maurizio Bolognetti, della Direzione nazionale dei Radicali italiani, guerrigliero di lungo corso nella battaglia per la salute lucana. Il suo velato ottimismo parte dal presupposto che fidarsi è bene, non La crisi di Arpab fidarsi è meglio, firaggiunge l’apice darsi dell’Arpab è Lo dimonell’ottobre 2011 dannoso. strano anni di gecon l’inchiesta su stione folle del Fenice e l’arresto controllo sull’ambiente, culminati di Sigillitto con la dirigenza di Vincenzo Sigillitto, arrestato per l’inchiesta Fenice. Nel 2011 a capo dell’Agenzia è salito Raffaele Vita e con lui un sensibile cambio di rotta; il cambiamento fa ben sperare per il futuro, ma non fa certo dimenticare gli sfaceli perpetrati sul territorio lucano, soprattutto perché i loro effetti si sentono ancora.

di Lorenzo Ligas

lorizzatore di Melfi Fenice, del gruppo francese Edf. L’inceneritore, secondo i dati forniti da Arpab nel 2011, ha inquinato dal 2002 al 2007: nichel, piombo, mercurio, cromo esavalente, cadmio sono stati ospitati per cinque anni (quelli accertati) nel suolo lucano, ma non è solo questo il punto. Il punto è che Arpab quei dati non solo li ha pubblicati nel 2011, che è equivale a dire che Ritardi, per nove anni li ha omissioni, dati occultati, ma si è occultati: dal 25 anche rifiutata di riottobre 2011 lasciarli alla Procura l’Arpab prova a melfitana che nel 2009 affidò al prof. cambiare rotta Francesco Fracassi l’incarico di consulente tecnico in relazione all’inchiesta sul termovalorizzatore Fenice. Nella sua relazione del 24 maggio 2010 il professore scrive infatti che dopo aver trasmesso la richiesta dei dati alla Procura e «nonostante i dati richiesti fossero indispensabili per stabilire se le anomalie riscontrate fossero

La religiosa assenza di Arpab si I luoghi simbolo del disastro sparso da Arpab per la Basilicata: l’inceneritore di Melfi, la Mythen sparge su tutto il territorio ludi Ferrandina, il Centro oli in Val d’Agri cano. A cominciare dal termova-


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