numero 18
Il Serale
22 ottobre 2012
Settimanale quotidiano
Dove sono i tifosi? Tessera, stadi e tv: cosĂŹ hanno debellato il tifo
Accomodatevi!
Per combattere la violenza negli stadi si è fatta demagogia e utilizzo di stereotipi. Ora il tifo si è spostato in posti più confortevoli di una gradinata
P
rima c’erano i violenti. Poi quei violenti sono stati chiamati ultras. Poi quegli ultras sono stati cacciati via dalle curve con leggi, tessere, prezzi rialzati. La storia del tifo in Italia è un compromesso tra le tv e le società, un comodo cenno tra le telecamere che si muove agevolmente sulla trequarti dello stereotipo del tifoso, hooligan e con il fumogeno sotto il braccio. Sotto il braccio ci sono finite valigette e giornali: la classe media è sbarcata sui gradoni o è quello che ci si augura con gli stadi proprietà: restituire alle famiglie la domenica calcistica, gli spalti e il calore dell’evento sportivo. Ma qui (non) sta il tassello: non c’è un evento sportivo. I nuovi impianti piegheranno le tribune alle telecamere, i prezzi piegheranno per sempre i tifosi che, tra un abbonamento a Sky o in curva, si faranno i conti in tasca e preferiranno il primo. er questo motivo protesta la curva bianconera della Juve, per questo protestano i giocatori dell’Arsenal che accusano i loro sostenitori di non essere “calorosi”. Per forza: portare dei divani negli stadi rende molli tanto quanto abituare il tifo al divano non rende liberi.
P
di Filippo Desabato
Lo stadio che si morde la coda
Le tv spezzano il palinsesto, le leggi sfiancano i tifosi e le società sognano gli impianti di proprietà: ma essere o non essere allo stadio non fa più differenza di Nicola Chiappinelli
«I
n silenzio e a muso duro dello stadio di Brindisi? Perché, contro un calcio senza fu- paradossalmente, è molto più loturo». gico aspettarsi pieno lo stadio coBrindisi, domenica 21 ottobre, munale Franco Fanuzzi che non pomeriggio assolato di finto au- il Carlo Castellani di Empoli, in tunno, serie D, girone H, sfida serie B. I motivi sono essenzialinterna con l’Ischia. Protesta, mente tre: 1) I tifosi del Brindisi gradoni vuoti e tifosi sparpa- o vanno allo stadio, oppure posgliati: da una delle tante realtà sono solo immaginarle le proprie della periferia del calcio italiano maglie che corrono sul manto sale un grido d’allarme; che for- verde; 2) Vedi il punto uno e agtunatamente non è ancora di resa, ma il rischio è alto. È in Copertura tv e prezzi: è più logico questo contesto per nulla paraaspettarsi pieno il Fanuzzi di digmatico, e generalmente defiBrindisi che non il Castellani di nito soltanto da un immaginabile Empoli. Tuttavia non accade disinteresse per la quinta serie italiana, che prendiamo coscienza di come anche la pas- giungi quindi la pay-per-view: sione locale stenti sempre più a con soli 6 € un tifoso dell’Empoli trovare appigli a cui tenersi le- ha la possibilità di comprare gata. quando vuole la visione di una Perché partire dalla curva singola partita, sul decoder
drammaticamente definita come “evento”, senza per forza sottoscrivere abbonamenti totalitari; 3) A Brindisi è semplicemente meno complicato scegliere di vedere la partita allo stadio: infatti se nei Dilettanti si gioca di domenica, come da vecchia e frustrata tradizione, la serie B va invece in onda il sabato pomeriggio, ossia in un orario in cui (chi può) lavora; poi c’è l’ormai mitologica “Tessera del Tifoso”, che nei campionati professionistici, e quindi anche in serie B, è necessaria non soltanto per chi voglia abbonarsi ad inizio stagione, ma anche per il tifoso empolese che voglia tornare a vedere la sua squadra, diciamo Empoli-Ternana, ma abbia la “sfortuna” di essere residente in Umbria. Non si può, l’hanno deciso Governo italiano, Lega calcio e Figc: puoi fidarti. Le premesse sono, come al solito, fondamentali. Esiste un problema “tifo” in Italia; e non è, spero non vi sembri strano, quella della violenza negli stadi. Anche perché oramai gli spalti nostrani vivono tuttalpiù dell’eco di gesta antiche. Il problema sono i vuoti a perdere,
Esiste un problema “tifo” in Italia e non la violenza negli stadi. Gli stadi, al contrario, sono vuoti a perdere come il Meazza per la Nazionale
il depauperamento di un fenomeno collettivo trasformato in episodio sociale alla stregua di una birra al bar con gli amici. Anzi, a dirla tutta, il problema vero è che forse tutto ciò non è nemmeno più un problema. Di cosa stiamo parlando esat-
In occasione di Italia-Danimarca, terminata 3-1, le curve di San Siro erano deserte. Gli spettatori sono stati poco più di 35mila
tamente? Di questo, ad esempio: martedì 16 ottobre la Nazionale di Prandelli, comunque una delle più guardabili degli ultimi anni, sfida a San Siro la Danimarca. Non una partita decisiva, ma gli azzurri a Milano hanno sempre richiamato il pubblico delle grandi occasioni, e c’è la possibilità che il campo offra uno spettacolo apprezzabile. Risultato: l’Italia vince 3-1, “tutto molto
A poco vale la difesa d’ufficio di Prandelli: «Era martedì sera e il pubblico delle partite della Nazionale non supera i 25mila spettatori»
bello”. Ma anche no. Il Meazza, dall’alto della sua storica imponenza, è pressoché deserto: circa 37 mila i presenti. La gente ha altro a cui pensare, a chi importa di una gara della nazionale a metà ottobre in questo momento storico? Verrebbe da dire, sbagliando: in tv la partita fa il 35,53% di share, con un ascolto medio di 10.440.000 spettatori. Il ct tenta n’improbabile difesa d’ufficio: “«Era martedì sera e il pubblico delle partite della Nazionale, in genere, non supera i venticinquemila spettatori». Le telecamere, le tanto amate portatrici di dettagli, fanno meno giri di parole: i deserti dietro le due porte sono malinconicamente dominanti. Così Demetrio Albertini, l’ex geometra del Milan ed ora vice-
presidente della Federazione, che quel teatro lo conosce molto bene, non può davvero far finta di nulla: «Il fenomeno non riguarda soltanto la Nazionale: basta guardare i dati delle partite casalinghe di Milan e Inter - e non solo quelli - per capire che gli stadi italiani sono sempre più vuoti. Perdere il pubblico negli stadi è grave, perché l'emozione televisiva è diversa. Il tifoso va valorizzato, lo stadio deve essere un posto più accogliente».
Albertini, vice presidente della Federazione non si nasconde: «Perdere il pubblico è grave perché l’emozione tv è diversa»
Bene, quale che sia il motivo, almeno su un punto pare siamo tutti d’accordo: gli italiani tendono ad andare sempre meno allo stadio. E non perché il calcio
sia passato di moda come più diffusa attività di svago e di condivisione di euforie, o almeno non principalmente per quello; piuttosto perché non è più scontata, e nemmeno più conveniente, la rappresentazione dello stadio come trait d’union tra il tifoso e la sua squadra del cuore. Per dirne una, a settembre i dati sugli abbonamenti tra i club di serie A registravano una più o meno ampia riduzione del numero di tessere per ben 12 delle venti squadre del campionato, e tra queste anche delle “big” come Milan, Inter, Lazio e Napoli. C’entra la crisi, è naturale, c’entra sempre la crisi. Ma è qualcosa di più. Le condotte societarie, la partenza dei giocatori più quotati, gli scandali che nel calcio non sono mai mancati, hanno sempre inciso relativamente sul fattore presenze: chi voleva vivere la partita, alla fine trovava il modo per essere sugli spalti. Ed il punto è esattamente questo: essere, o non essere allo stadio, adesso, non fa più differenza. I colpi letali sono stati tanti, e da varie direzioni. Le tv hanno spezzettato il calcio a misura di palinsesto; le “leggi per la sicu-
I dati sugli abbonamenti registrano una riduzione delle tessere per 12 delle venti squadre di serie A. Le “big” (Milan, Inter, Napoli) incluse
rezza” hanno trasformato l’accesso agli impianti in un iter burocratico snervante e invasivo; i controlli e le repressioni prefettizie preventive hanno sfibrato il tessuto emotivo da sempre più colorato e caldo del mondo pallonaro, ovvero le curve; i prezzi
Le “leggi per la sicurezza” hanno trasformato l’accesso agli impianti in un iter burocratico snervante e i prefetti hanno sfibrato le tifoserie
e i trattamenti da carne al macello degli occupanti di spalti vetusti e scomodi, confrontati con i più accessibili pacchetti “tuttocompreso” del calcio in poltrona, hanno perso banalmente la contesa. E’ stato rovesciato lentamente sul calcio un secchio pieno di liquami e pezzi di idee diverse, pensando che “sicurezza” e “profitto” potessero mischiarsi in questo magma sociale
Tra i tifosi, proporzioni impietose: solo il 23% si dichiara amante dello stadio. Il 53% guarda il calcio con le pay-tv. il 64% invece in chiaro
sconfinato. Invece no. Il calo del tifo è del 13% negli ultimi tre anni, stando ai numeri pubblicati qualche settimane fa dall’istituto di ricerca DemosCoop. Tra i tanti, emerge però soprattutto un dato: è relativo alla proporzione di tifosi amanti dello stadio, pari solo al 23%, contro il 53,5% di chi segue lo sport tramite piattaforme televisive a pagamento e il 64,7% di chi lo guarda in chiaro. Le menti hanno chiara la soluzione: stadi di proprietà. Si veda il Bayern Monaco, che a luglio aveva già esaurito tutti i biglietti dell'Allianz Arena per questa stagione di Bundesliga. L’esempio della Juventus d’altronde è sotto gli occhi di tutti, o quasi. Non molto tempo fa infatti, per il tanto atteso esordio casalingo in Champions League contro lo Shakhtar Donetsk, i bianconeri hanno dovuto fare i conti con la protesta dei propri sostenitori per il caro-prezzi: solo poco più di 29 mila i biglietti venduti, circa un quarto in meno della media della scorsa stagione, e spazi vuoti che non hanno fatto onore a una squadra che vuole primeggiare in Italia e in Europa.
La soluzione? Stadi di proprietà. Gli esempi sono illustri: Arsenal, Bayern Monaco, Juventus. Il recinto è stato aperto e ora lo si vuole rifare
Eppure la dirigenza non si è lamentata granché: 1.515.836 euro di incasso non sono mica pochi. Eccola la soluzione allora: alzare i prezzi, e rispondere così alla scomparsa del pubblico. Sperando magari che quel ceto medio-basso che ormai non può permettersi lo stadio, venga definitivamente sostituito da una fascia agiata di spettatori, a cui riservare però gli stessi confort del salotto di casa. Insomma il recinto è stato aperto, e i buoi sono scappati. Gli stadi si suono svuotati perché sono vuoti. Non è una ripetizione, né un refuso: non si va allo stadio perché non ha più senso, economico e pratico, farlo. Intanto stanno ristrutturando il recinto, nell’attesa di una mandria più selezionata e distinta.
Il dogma dello stadio di proprietà Edilizia, scuole, centri commerciali. Sono presentati come l’unica soluzione alla crisi del nostro calcio, ma l’impatto degli impianti privati è più complesso dell’iter che si segue per costruirli
È
di questi giorni l’ultima polemica sollevata da alcuni esponenti del Pd e dell’Idv riguardo alla definitiva approvazione da parte del Senato della cosiddetta “legge sugli stadi”, che permetterebbe di snellire il farraginoso iter burocratico al momento inevitabile per chi volesse costruire uno stadio in Italia. La disputa nasce principalmente dalla speculazione edilizia che tale disegno di legge porterebbe con sé, giacché permetterebbe la creazione di ampie aree urbane limitrofe agli stadi,in deroga alle ordinarie procedure di costruzione. Gli emendamenti presentati da Pd e Idv (rispettivamente 26 e 17), rischiano di paralizzare nuovamente la situazione, rendendo assai difficile l’approvazione della legge in tempi brevi, come invece tutte le principali società di calcio italiane continuano a chiedere a gran voce. L’attenzione riservata dai grandi imprenditori del mondo del pallone alla questione, si spiega agevol-
mente considerando l’ingente aumento degli introiti che uno stadio di proprietà sarebbe in grado di generare. Cosa che in effetti è già una realtà in altri di Daniele Di Corcia Paesi europei come L’Inghilterra, la Spagna o la Germania, dove, quantomeno le squadre di maggior rilievo, possiedono già tutte un proprio stadio. E i loro bilanci ringraziano. Il Real Madrid, ad esempio,con 480 milioni è la squadra con i maggiori introiti del 2011: di questi, 149 milioni arrivano dai proventi dello stadio di proprietà e 153 dai diritti tv. Spostandoci in Inghilterra, l’Arsenal ha entrate per 283 milioni, di cui 103 derivanti dallo stadio e 95 dai diritti televisivi. In Italia invece, dove solo la Juventus può vantare uno stadio tutto suo, la situazione cambia radicalmente. Il Milan, ricava solo 30 milioni dallo stadio, mentre ben 110 dai contratti con le tv. E la situazione non cambia di molto se si valutano le entrate delle altre “grandi”. Questa disparità di guadagni, rende assai semplice
Lo Juventus Stadium. In occasione della partita di Champions contro lo Shaktar, la curva ha protestato contro l’alto prezzo del biglietto
Il nuovo modello di stadio è infatti basato su una concezione polifunzionale della struttura, che non va più intesa come luogo dove recarsi solo ed esclusivamente per assistere a esibizioni sportive, bensì come fulcro di una serie di attività commerciali non sempre direttamente collegate alla “fede sportiva”. Centri commerciali, ristoranti ed eventi del più vario genere all’interno dei nuovi stadi lo testimoniano. Ecco che quindi i fruitori di tali impianti cambiano e si diversificano, rendendo lo stadio
un punto d’incontro anche per persone decisamente non rispondenti all’identikit del “tifoso”. E ciò porta con sé una maggior esigenza di sicurezza, necessaria per garantire l’afflusso di queste nuove categorie di clienti: si sfocia in una maggiore e più costante attenzione nell’evitare disordini o forme di violenza e automaticamente in un disincentivo ad affollare gli stadi per quelle frange di tifosi più calorosi di altri, quelli strumentalizzati ed etichettati semplicisticamente come “ultras” o, peggio, “facinorosi”.
comprendere il perché le società italiane non vedano l’ora di poter intraprendere lo stesso processo di "privatizzazione" degli stadi che tanto ha dato ai loro colleghi europei. Come ben noto però, ogni cambiamento porta con sé delle conseguenze, in parte volute e in parte semplicemente fisiologiche e coerente con questo tipo di politica di rinnovamento, è la generale tendenza ad aumentare il prezzo medio dei biglietti per gli incontri sportivi e a creare forme di fidelizzazione del cliente sempre più specifiche. Ottimo esempio di ciò è l’”Emirates stadium”, nuova casa dell’Arsenal dal 2006. L’idea dei massimi dirigenti del club londinese è quella di pretendere dal cliente/tifoso, uno sforzo economico più sostenuto, a fronte però di una maggiore offerta di servizi. Ed è per questo che se il biglietto più economico non scende mai al di sotto dei 50 euro (non proprio un prezzo popolare), vi sono addirittura posti di cosiddetta “categoria premium” che portano, ognuno, una media annua di guadagno al club di circa 4500 euro e rappresentano
da soli il 35 per cento dei ricavi totali derivanti dallo stadio. Esempio molto simile a quello dell’Emirates è anche quello dell’”Allianz arena” del Bayern Monaco, anch’esso inaugurato nel 2006 e fiore all’occhiello degli stadi tedeschi. Ciò che appare evidente da quanto detto sino ad ora è che l’obiettivo dei grandi club europei, sia quello di portare ad un sostanziale cambiamento nel modo di vivere gli stadi, in maniera tale da poter andare a coprire un bacino d’utenza sensibilmente più ampio di quello rappresentato dai soli “ultras” e così facendo potersi rivolgere sempre più spesso e con sempre maggiore facilità a quelle fasce di popolazione più abbienti, che possano garantire mediamente una maggior spesa pro capite. In quest’ottica va visto il forte legame che agli stadi di proprietà viene imposto con il territorio che li circonda: per tornare all’esempio londinese dell’Arsenal, la società si è impegnata a finanziare servizi scolastici nell’area circostante, ha attivato dei corsi di formazione calcistica. Il ritorno
alla comunità dei vantaggi offerti dallo stadio di proprietà è nella concezione britannica fondamentale, ma deve camminare sulla china delle insoddisfazioni popolari e non. Penultime sono state le lamentele degli abitanti della zona di Holloway Road: metro chiusa, code, traffico, chiasso, caos. E poi c’è la protesta, veniale ma ottima cartina tornasole di quanto detto finora, dei “gunners” stessi, capaci di arrivare a biasimare il poco calore con cui l’Emirates li accoglie nei match casalinghi. Altri tempi rispetto a un tempio come Highbury. In Italia il ddl al vaglio del Senato si muove nella stessa direzione: chi vuole costruire un impianto di proprietà deve «prevedere un piano per la realizzazione di impianti sportivi scolastici nel Comune dove sorge il nuovo impianto sportivo, nel limite di costo pari al 2% di quello di costruzione». Lungo tutto lo stivale l’unico esempio di stadio di proprietà, costruito sulla falsariga di quelli inglesi o tedeschi, è lo “Juventus stadium”. Ultimato ormai poco più di un anno fa, è ad oggi un’assoluta novità nel panorama italiano,
ancora (colpevolmente?) indietro rispetto ai diretti concorrenti europei, e rischia effettivamente di rimanere una rarità ancora a lungo data la situazione delle altre grandi, ancora alle prese con i propri problemi economici e con la burocrazia italiana, un nemico troppo forte, persino per loro. Burocrazia, edilizia, scuole, tifosi, multifunzionalità, calcio. Gli stadi di proprietà sono certamente una svolta. Per chi? Non certo per i vecchi affezionati delle curve, almeno non in positivo. Ridisegnare il concetto di evento calcistico, ridisegnando i tifosi, può essere indubbiamente un bene sotto alcuni punti di vista, ma non un dogma. E quando una struttura a misura di consumo e di telecamere viene idolatrata come “casa”, allora bisogna fare un passo indietro, sedersi sul divano di casa, accendersi una sigaretta. O un fumogeno.
di Francesco Berlingeri
Contro Frankenstein
Un nuovo modello di tifoso per sostituire il calore delle curve: cronologia del parto di un mostro incontrollabile
N
on è una pia speranza da ultrà. Un movimento autocelebrativo del cervello sociale delle curve, un atto di training autogeno da alcolisti anonimi. Ma la spassionata, disacerbata, sconsolata realtà. Il calcio senza
C’erano le curve piene, colorate, infiammate di passione, di torce e bandieroni. Le televisioni hanno trasmesso per anni le “cornici di pubblico” e il “colpo d’occhio”
tifosi non è calcio. Non è gioco, non è spettacolo, non è niente. Si dice: “Il calcio (e si aggiunge: “come lo conoscevamo noi”) è morto con le televisioni”. Fila. Ma prendete un servizio della Domenica Sportiva degli anni Ottanta; uno di 90° minuto,
o finanche uno di Pressing, Italia 1, primissimi Novanta. C’è una curva nella prima inquadratura. Piena, colorata, infiammata di passione. O di torce rosse, bandieroni, fumogeni intossicanti. A volte col sonoro originale, prima della prima parola del commentatore. Come i mister hanno disposto le squadre in campo. La “cornice di pubblico”; il “colpo d’occhio”. Elementi identificativi del livello di guardia, della gradazione calorica, nella fornace del campionato più bello dello sport più bello del mondo. Schegge di un monoblocco che pareva inscindibile: la cultura di un Paese, la furbizia di fingersi spettatori nel momento di massima partecipazione. Di assoluto protagonismo. Perché le curve, i settori popolari, come spazi liberati, di svago e d’impegno, sono sempre state uno dei luoghi più significativi dell’autorappresentazione popolare, oltre che – lo dicono tutti, ormai – la cartina di tornasole della società. Delle sue manie, battaglie, leggi. Prendete l’archivio mobile di Youtube e guardate quanta gente, ancora nel 2002, popolava
il “Castellani” di Empoli. E mettetele a confronto – quelle immagini preistoriche – con quelle dell’ultimo derby di Milano. Quello per cui i giocatori del Milan sono giunti a confezionare uno spot per invitare la gente a recarsi a “San Siro”. Ironico. E tragico. Che la sorte abbia scelto proprio la squadra del magnate modernista, del picconatore del monopolio di mamma Rai, del grande rivale commerciale di Sky, per mostrare i segni della resa definitiva del calcio. Così come l’abbiamo conosciuto.
Economia, repressione, cultura. Un magma incandescente. Ambiti separati, eppure mobili. Segmenti vivi che si intrecciano e si compensano. Agosto 1993. Lazio-Foggia si gioca di sabato. In notturna. L’Italia sperimenta la pay-tv. All’ Olimpico ci sono 35mila spettatori. Tele+ detiene il monopolio degli anticipi, concetto misconosciuto alla tradizione nostrana. Soltanto un paio di anni prima sul Corriere dello Sport, in uno di quegli schemini che riempivano le pagine dell’epoca eroica, ancora ci si sbizzarriva in statistiche riguardanti le presenze negli stadi. Per Rozzi, Anconetani, Mantovani, il business era quasi tutto nella gente che popolava i gradoni. Nel 1997 nasce Stream Tv. E la concor-
renza si fa spietata. A suon di quattrini, di cifre esorbitanti. Martello e scalpello, si plasma il nuovo modello, quello che dovrà servire da riferimento alle generazioni più giovani. E scaricare le vecchie, refrattarie ad ogni innovazione in un mondo tradizionalista per eccellenza. E mentre le voci dei telecronisti stravolgono anche la narrazione dei novanta minuti, per le società il nuovo si tramuta in de-
Nel 1993 Lazio-Foggia si gioca in notturna di fronte alle telecamere di Tele+ che ne deteneva i diritti. Nel ‘97 la nascita di Stream Tv ha dato via alla concorrenza spietata
naro. Le partite si giocano dal venerdì al lunedì. Mentre l’idea malsana di trasformare il confronto agonistico – parodia della guerra – in uno spettacolo gladiatorio più simile al wrestling statunitense che alla battaglia di Bouvines, mina alle fondamenta
l’adesione. Il concetto di divertimento – estraneo alle dinamiche di compenetrazione della gente nel suo giocattolo preferito – slitta semanticamente dal prato verde del sacchismo alle tv a pagamento. E, nel suo nome, si procede ad abbattere ogni tabù codificato. Il cosiddetto “calcio moderno”. Nel 1999 s’afferma il Gruppo Snai. Nel 2003, dalla fusione delle due tv rivali, nasce
Nel 2003, dalla fusione delle due tv rivali nasce Sky Italia, nel 2005 la serie B passa al sabato per smembrare il palinsesto e nutrire la bolla finanziaria: i diritti televisivi
Sky Italia. Nel 2005 la serie B passa al sabato. «È l’economia, bellezza!» direbbe qualcuno. Un’immensa, insensata, sovradimensionata bolla finanziaria. I diritti televisivi, le scommesse legalizzate, gli introiti pubblicitari, l’individuazione di singoli
calciatori da trasformare in clown per promuovere macchine, rasoi o dopobarba, riempiono parzialmente gli asfittici bilanci delle società maggiori nella nostra serie maggiore, sempre meno competitiva, sempre meno bella, sempre meno seguita. I presidenti inseguono la grana per evitare il rosso fisso. E non fingono neppure un interesse di facciata nei confronti di quei Mohicani che, inspiegabilmente, preferiscono il gelido cemento di impianti vetusti – in gelide giornate di febbraio – al tepore del divano full-immersion, dove seguire calci al pallone da ferragosto al “Birra Moretti” dell’anno successivo, riprendendo fiato qualche raro martedì. Riemergendo mai da un’apnea che ha trasformato i veri protagonisti di un fenomeno popolare in mere utenze affette da sindrome di Stoccolma. Rapiti da un elettrodomestico al quale si piegano i signori. Nel 1995 la serie A vantava una media di 30mila presenze a partita. Nel 2011 è scesa a 23mila. E il dato è in calo anche nel 2012. Per non parlare delle serie minori, dove le squadre locali sono state “suicidate” dal modello. L’abbonamento Premium costa quanto una curva in C1. E il Barcellona, con tutto il rispetto, non è la Tritium.
Ma questo lasso di tempo non è andato sprecato. Il campo sportivo è diventato terreno fertile per una sperimentazione sulla massa in assottigliamento. Sui Mohicani del venerdì, del sabato, della domenica e degli altri turni infrasettimanali, alle 12:30, alle 18, alle 20:30 e alle 21, sono stati piazzati elettrodi. E testate le reazioni di fronte agli stimoli. Un tempo gli stadi possedevano le biglietterie. Erano spazi angusti. Buchi nel cemento che occultavano stanzette simili a celle turche, dove il bigliettaio – conosciuto per nome – staccava anonimi tagliandi da un blocchetto. Se capitava un accidente, si poteva giungere allo stadio anche a 2 minuti dall’inizio. Il bigliettaio era lì. A dire che la curva era esaurita, ma c’erano ancora biglietti per la gradinata. Davanti alle porte c’era lo “staccabiglietti”, il cui nome diceva quasi tutto della sua funzione sociale. Dal tipo delle fave secche si compravano fave secche. Da quello delle bibite, bibite. Se qualcuno avesse annunciato che, un giorno non lontano, sarebbe stato introdotto il biglietto nominale, sarebbe stato irriso come pazzo conclamato. Invece, nel 2005 è successo. Nome e cognome, data di nascita e precedenti. Tutto scritto. Per arginare la “violenza negli stadi”. Una
violenza che aveva si visto apici inemendabili nei primi anni Novanta, ma che oltre ad essere in costante calo, era stata “codificata” a rito dagli stessi gruppi Ultras – veri folk devils della nazione che “benpensa” – e rimaneva tuttavia imparagonabile a quella delle epoche arcaiche, quando di lame e scazzottate vivevano gli aggregati umani adulti, ben prima dell’introdu-
C’erano il bigliettaio e lo “staccabiglietti”. Se qualcuno avesse annunciato l’introduzione del biglietto nominale sarebbe passato per pazzo. Nel 2005 è successo
zione dei settori ospiti (quando fu alzato il vetro in Curva Nord, prima di un Foggia-Barletta del 1990, la gente era incredula come alla vista dei treni al cinema). La morte di Raciti ha fatto il resto. Norme sempre più restrittive hanno isolato i “vio-
lenti” ed hanno permesso allo Stato di sperimentare in vitro una repressione destinata ad un largo utilizzo nella vita di tutti i giorni. Basti osservare l’involuzione del reato di “resistenza a pubblico ufficiale”, inasprito fino a tre volte e applicato sugli Ultras ben prima che sugli scioperanti. La Tessera del tifoso, decreto ministeriale del 2009, non è che l’approdo di questa
Nel 2009 arriva la Tessera del tifoso mentre il mondo Ultras viene accusato d’essere la causa di ogni repressione. Come l’apartheid in Sudafrica fu responsabilità dei neri
parabola di naufragio. L’albo degli striscioni, l’Osservatorio del Ministero, i divieti di circolazione sul territorio, l’abuso del Daspo in luogo del processo civile o penale. E l’art.9 della Tessera, che prevede l’esclusione pressoché a vita dei diffidati dai
campi di calcio e modifica nella sostanza qualsiasi norma giuridica in vigore nel nostro Paese. Persino la Costituzione, nel vuoto pneumatico di proteste che travalichino il mondo Ultras, accusato d’essere la causa prima d’ogni fenomeno repressivo. Come l’apartheid fu responsabilità dei neri, che s’ostinavano a rimanere tali nel Sudafrica boero.
Eppure. Se a un matrimonio si accendeva una torcia, immancabilmente qualche invitato diceva: «E che siamo allo stadio?». Perché lo stadio era il luogo deputato al colore, al calore, alla passione così espressa. Ora le torce – così come i fumogeni, le aste e le bandiere più grandi della norma, o con qualche scritta che lascia dubbi alle forze dell’ordine – sono bandite. Accenderne una significa rischiare l’identificazione e la diffida. E una multa alla società. Quando, poco più di dieci anni fa, lo spettacolo pirotecnico delle curve si guadagnava la prima inquadratura d’ogni servizio. Quando lo spettacolo del tifo era un vanto per tutti. E tutti partecipavano alla partita degli spalti. Oggi, che anche il tifoso medio s’è fatto distante, scostante, precario, disabituato com’è a ragionare coi propri sensi, capita sempre più di frequente sentire cori di bia-
simo verso l’agire degli “esagitati”. E raccordarsi ai questori, ai presidenti, agli anchorman televisivi nell’invocare le famose “pene esemplari” per i “reati da stadio”. Fossero pure una scazzottata o un coro politicamente scorretto. Un cambio di mentalità di questa portata è il risultato di venti anni di assedio. Un attacco coordinato che ha ridotto il tifoso a monade solitaria, incapace di vivere lo stadio come luogo d’aggregazione e non come semplice posto a sedere sull’orgia di trapezisti e nani. Basta vedere come si dispongono i tesserati in trasferta per capire che non c’è vita, per loro, oltre la partita. Una siffatta mutazione genetica ha dato vita ad un Frankenstein ideale tanto per le indagini di mercato quanto per il controllo sociale interno. Se non fosse che la lobby degli scienziati pazzi, destinati allo smantellamento dello sport popolare per eccellenza, non ha considerato la volubilità della creatura posta dinanzi al soddisfacimento di un bisogno singolo. E cioè: il crollo del desiderio. Perché il tifo sta al calcio moderno come l’amore ai siti porno. E il calcio del futuro di sensuale avrà solo l’impotenza. E morirà di noia. Perché il calcio senza tifosi non è calcio.
Vent’anni d’assedio hanno portato a un cambio di mentalità nel quale il tifoso è ridotto a monade solitaria. Oltre la partita non c’è vita né tifo. E senza tifo non c’è calcio
UltraStrumentalizzati
l’idea distorta del tifoso in 4 mosse L’eccessiva copertura mediatica diventa forzatura e ciò che avviene all’interno dello stadio per i media è solo generalizzata violenza
I
l 27 febbraio del 2011 Davide Tenerani, carrarese di 24 anni, viene fermato insieme ad altre tre persone per l’omicidio di Jonathan Esposito, spezzino. I quattro di Carrara arrivano in macchina, importunano una donna, Esposito reagisce e viene accoltellato. Nessuno dei cinque è legato a gruppi ultrà delle proprie città. Il fatto avviene a 7 km dallo stadio, dove quel giorno si era giocata SpeziaPergocrema 2-2. La Carrarese quell’anno non milita nello stesso campionato dello Spezia. «Jonathan Esposito è morto accoltellato davanti a un locale di La Spezia, durante una rissa tra tifosi rivali dello Spezia e della Carrarese, innescata dalle avances a una ragazza e da qualche bicchiere di troppo. [...] Fra spezzini e carraresi esiste da sempre una rivalità, che vede nel calcio momenti di forte tensione».
Il calcio e il tifo in questo episodio non c’entrano nulla; eppure, che siano UltraS o ultrà o tifosi o Boys o Irriducibili o suore in gita all’Olimpico, le generalizzazioni mediatiche portano i sostenitori di una squadra a diventare degli ultras e poi gli ultras a essere responsabili di qualsiasi efferato atto. Questo, secondo una ricerca del dr. Alberto Testa intitolata The Italian
media and the UltraS, avviene per due ragioni. «Un eccesso di copertura mediatica è una linea guida nel complicato rapporto tra media e UltraS; la densa copertura è una disfunzione che può diventare pericolosa. L'eccesso si focalizza soprattutto, ma non esclusivamente, sulle azioni negative, vere o percepite. E questo sembra radicato in due fattori; il primo è economico, semplicemente il bisogno di
di Lorenzo Ligas
Un ragazzo spezzino accoltellato da alcuni carraresi è bastato per parlare di guerra tra tifoserie, ma le curve non hanno nulla a che fare con l’agguato
vendere notizie. L'altro è specifico dell'identità UltraS, vale a dire la loro logica e caratteristica come movimento di opposizione». Gli UltraS - che nella distinzione di Testa sono i tifosi di orientamento neo-fascista - non
sono ultrà. Nel rapporto UltraSmedia c’è una conca, tra la necessità di fare notizia e la volontà di essere rappresentati al di fuori del sistema, nella quale lo stereotipo prolifera quasi naturalmente. Per quanto riguarda invece gli ultrà, che di politico e antisistemico spesso non hanno nulla, le responsabilità degli organi d’informazione sono più gravi: gli ultrà vengono mediaticamente trascinati fuori dal loro contesto, lo stadio, e ricoperti di usi e costumi che non sono loro propri. L’essenza territoriale dei loro gruppi, che dal punto di vista sociologico rappresenta una complessità ben più articolata dei trafiletti di giornale con cui viene iconizzata, viene sistematicamente bypassata, traslocata e rinchiusa in un altro territorio: la violenza. Tuttavia non è così semplice addossare le colpe della generalizzazione ai media: il percorso che trasforma la notizia in errore stereotipato avviene per gradi.
Ciò che appartiene allo stadio alla curva e alle emozioni del tifo, ciò che biologicamente dovrebbe vivere solo nei 90 minuti della partita, innanzitutto viene adottato da chi sugli spalti non ci mette nemmeno piede. Così a gennaio dello scorso anno lo juventino Marco Borriello viene
criticato con uno striscione dalla curva bianconera per essere un “mercenario”. E Massimo Mauro commenta: «Non capisco perché fenomeni extracalcistici vengano rappresentati dagli striscioni, in questo caso, ingiusti nei confronti di un professionista». Il pezzo di tela e il suo messaggio, posizionati prima della partita e tolti dopo, non avrebbero altro luogo che la curva
Ciò che appartiene biologicamente al tempo di una partita trova invece spazio nei salotti televisivi e sui giornali. Chi sta fuori dagli spalti si appropria di ciò che non è suo
dell’Olimpico di Torino. La polemica però rimbalza dal commentatore Sky e si amplifica in rete, trovando alloggi non suoi, sedi che non ha mai voluto. La velocità del web viene obbligata continuamente a espandere il significato dei gesti e dei
cori che non hanno nessuna intenzione di estendersi al di fuori del campo da gioco. La «copertura» mediatica diventa forzatura, genera polemiche attorno a episodi, come la poca eleganza della curva veronese nei confronti di Morosini - il vilipendio dei morti vale anche per le vittime dell’Heysel? -, e le prolunga per settimane. Portare fuori dalle mura di uno stadio striscioni, cori, gesti non è più così difficile, ma rimane lo scalino più importante della scala che porta all’errore. Per questo, quando i tifosi si muovono e portano spontaneamente i loro messaggi fuori dagli impianti, si concede un grosso favore a chi abitualmente li critica. Durante il derby RomaLazio del 2004 due capi ultrà delle tifoserie si recarono in campo per avvertire i capitani della morte (falsa) di un bambino fuori dall’Olimpico e la partita fu sospesa. Si ricordano ancora i titoli di Repubblica, Corriere e Gazzetta che il giorno stesso sui loro siti, e il giorno dopo nelle edicole, parlarono di “complotto”. Il Messaggero addirittura si spinse in un’analisi: «Ultrà come mafiosi». Il gesto dei capi ultrà certo fu frainteso, ma questo non è giornalisticamente accettabile: il fraintendimento è una mancanza di verifica ed è figlio della supposi-
zione. Le sentenze del 2007 non solo confermarono l’inesistenza di un complotto, ma diedero inizio alla ruota di scarcerazioni e assoluzioni per chi fu arrestato negli scontri con la polizia fuori dallo stadio. Quando lo scorso 21 settembre alcuni ultrà rossoneri si recarono dal patròn del Milan e presidente del Consiglio, Berlusconi, per confermare il proprio
Roma-Lazio del 2004 viene sospesa per l’allarme (falso) di un bambino morto. I giornali gridano al complotto e addossarono agli ultrà comportamenti mafiosi
sostegno alla squadra e per discutere su come “uscire dalla crisi”, l’Amaca di Michele Serra recitava: «Le tifoserie ultras sono entrate a fare pare quasi istituzionalmente della gestione del calcio italiano». Eccessivo e scorretto, perché “tifoserie ul-
tras” comprende tutti e nessuno e in ogni caso nessun ultrà ha ambizioni di gestione del calcio italiano. Ma tanto basta a poggiare il calco delle intenzioni sul nome “Ultras”.
Al di là degli episodi più gravi e importanti, quelli che giornalisti scrupolosi si affannano a raccogliere in video di 5 minuti su Youtube, la connotazione negativa degli ultrà avviene gradualmente. Serra in particolare è un abitudinario di questo modus operandi: chi legge i suoi pezzi incontra frequentemente la parola “ultras” associata a contesti completamente diversi. « [...] di fronte agli ultras (coprotagonisti, per altro, di tutti o quasi gli episodi di violenza politica degli ultimi anni, dalle aggressioni fasciste e omofobe ai saccheggi e agli incendi della primavera scorsa a Roma) [...] Gli ultras non sono più un problema di ordine pubblico, sono un problema di democrazia». Nello stesso articolo del 25 aprile scorso si legge anche: «[...] l’incredibile sequestro di uno stadio intero ad opera di una cosca di ultras del Genoa». Quattro mesi dopo, parlando delle proteste di Taranto, la rubrica termina invece così: «La vita adulta non funziona così. Non è facile spiegarlo agli ultras, non
solo di calcio». Lavorare ai fianchi l’opinione pubblica è il secondo passo del percorso verso la generalizzazione: si associa la parola “ultras” ad altri contesti per connotarla negativamente. Già abbiamo detto che non tutti gli ultrà sono politicizzati (perciò non ha senso il calderone del primo stralcio); inoltre i tifosi non si raggruppano per “cosche” né
«Gli ultras non sono più un problema di ordine pubblico, sono un problema di democrazia», «La vita adulta funziona così, non è facile spiegarlo agli ultras»
hanno a che fare con le proteste tarantine. Inserirli dove non c’entrano diventa pian piano una prassi. Nel maggio 2010 l’Italia viene bocciata da Platini e un articolo di Franco Ordine dal titolo “Alzi la mano chi si meraviglia” argo-
menta così la decisione: «Un contributo negativo alla causa è arrivato anche dalla questione ultrà». Su RepubblicaRoma.it del 2 settembre 2010 un ultrà rimane ferito da un’esplosione perché «forse preparava una bomba carta per lo stadio». Il 2 settembre 2010 fu però un giovedì e in programma all’Olimpico non c’erano partite di calcio; e poi, in che modo una bomba carta va preparata necessariamente per lo stadio? L’associazione violenza-ultras diventa categorica in occasioni come la manifestazione degli indignados italiani il 15 ottobre 2011. I giornali del giorno dopo scrissero “ultras” in ogni occhiello con cui identificavano i protagonisti degli scontri; ma i fermati o condannati Valerio Pascali, Giuseppe Ciurleo, Lorenzo Giuliani, Giovanni Caputi, Leonardo Vecchiolla non avevano e non hanno nulla a che fare con le tifoserie organizzate. Lo scorso 22 ottobre un litigio personale tra tre tifosi del Venezia finisce con un cranio sfondato, forse da una spranga, ma il Messaggero titola così: «Martellate tra ultras del Venezia: 28enne arrestato con l'accusa di tentato omicidio» e racconta di uno «scontro avvenuto ieri tra le due fazioni della Curva sud e del
Gate 22: feriti due giovani di 24 e 21 anni, uno è in gravi condizioni». Altro esempio è Ilvo Diamanti, un affezionato dei sondaggi Demos-Coop per Repubblica. «Le stesse tifoserie, al di là delle posizioni estreme degli ultrà, mostrano orientamenti politici precisi. Sinistra: i tifosi della Fiorentina. Centrosinistra: la bandiera del Napoli.
«Le stesse tifoserie mostrano orientamenti politici precisi. Sinistra: i tifosi della Fiorentina. Centrosinistra: Napoli. Centro: Juventus. Centrodestra: le squadre milanesi
Centro: quella bianconera. Centrodestra: le squadre milanesi». Da Repubblica e Diamanti a Dazebaonews.it e Ramona Giattino, che si occupa della festa in piazza dei tifosi laziali per i 112 anni del club: «Sono i cosiddetti Ultras, una delle lobby più po-
tenti e influenti della classe media italiana, i “padroni dello stadio”». Semplificazioni di questo tipo hanno progressivamente indotto a pensare che gli ultrà siano un blocco compatto di pietra.
Ma la fame di vendere notizie è inesauribile. E avere di fronte un sampietrino chiamato “ultras” e averlo già macchiato di negative accezioni, porta naturalmente al punto dopo: ingi- teppisti «s’introducono nello stagantire i fatti è il gradino dio e devastano il San Paolo». I successivo. O il gradone. siti d’informazione partenopea riportano: «Si indaga quindi nel Pescara-Lazio di quest’anno è tifo violento. Alcuni gruppi orstata preceduta dalla diffusione ganizzati, ostili alla società per la di una foto di un manifesto: re- tessera del tifoso». Ma il giorno cava il disegno di un cacciatore dopo su calcionapoli24.it si legche spara a un’aquila biancoce- gono ulteriori particolari dell’ leste. Apparsa su un sito e rilan- “organizzazione” dei teppisti: ciata da alcuni quotidiani, ha «Sono entrati sul campo del San scatenato la voce che, spargen- Paolo e hanno giocato una pardosi in rete, ha dato seguito a immediate reazioni: chi accuPescara-Lazio è stata preceduta dalla sava gli ultrà pescaresi di antipubblicazione della foto di un manifesto sportività e chi intimava loro di offensivo (foto). Le polemiche sono state togliere l’oggetto dalle strade. fuori luogo: il manifesto comparve del 1992 «Ritornate nella fogna», «gli ideatori... sarebbero da denunciare per istigazione a delin- titella tra amici con il super sanquere», «vittoria a tavolino come tos. I ragazzini hanno ripreso con la Roma». Il manifesto però l’irruzione con il telefonino». nelle strade c’è stato nel 1992 e Se di fatti non ce ne sono, quella era una foto vecchia di spesso si scrive in previsione di vent’anni, tirata fuori per l’occa- qualcosa che “potrebbe accasione. dere”. Così, se i tifosi del PartiNell’ottobre del 2010 alcuni zan di Belgrado arrivano a
Milano per una sfida di Europa League contro l’Inter, la Gazzetta dello sport si preoccupa di lanciare l’allarme, senza però «fare del terrorismo mediatico». L’evoluzione dello stereotipo arriva a imporsi su fatti che non sono mai accaduti. In questa climax non cronologica, RomaNapoli del 2009 è l’apice. Dal capoluogo campano parte un treno assaltato dagli ultrà partenopei: «Un vero e proprio assalto al treno, in mattinata, alla stazione di Napoli. Spintoni, tensioni, urla: così per oltre tre ore l'Intercity Plus 520, diretto a Torino, è rimasto sotto assedio di oltre mille tifosi azzurri che volevano raggiungere la capitale per la partita con la Roma, anche senza biglietto. I tafferugli hanno raggiunto il culmine quando un folto gruppo di ultras, privo del biglietto di viaggio, ha forzato i cordoni di controllo predisposti dalle Ferrovie dello Stato in collaborazione con le Forze dell'ordine ed è salito con la forza sul treno, azione che ha provocato la contusione di quattro dipendenti delle FS. Il tutto davanti ai passeggeri allibiti. I passeggeri dell'Intercity, quando si sono resi conto della situazione, non hanno avuto altra scelta che scendere dal treno». Ma le cose non andarono così. Il racconto, in Italia riportato solo da Oli-
viero Beha, di un giornalista sportivo tedesco, Reinhard Krennhuber, smentì l’accanimento dei media italiani sui tifosi azzurri. «Innanzitutto è scorretto dire che i tifosi del Napoli aggredirono e spinsero 300 passeggeri fuori dal treno. Non abbiamo nemmeno visto alcun controllore attaccato. Il treno doveva partire alle 9.24, ma dopo le 11.00 i responsabili di
Roma-Napoli è l’apice dello stereotipo: le tensioni alle stazioni ferroviarie non ebbero motivazioni legate ai gruppi ultrà. A smentire i media italiani fu solo Oliviero Beha
Trenitalia sono saliti a bordo e ci hanno detto di prendere un altro treno. Siamo partiti alle 12.30 in un treno completamente pieno. Quando siamo arrivati la partita era già iniziata da 52 minuti; una vergogna aver pagato il biglietto sia del treno
che dello stadio. I tifosi frustrati hanno iniziato a demolire i bagni, ma non sono sicuro che i danni raggiungessero 500mila euro. Mi sembrano strane anche le notizie di gas lacrimogeni a Termini».
È così che si arriva all’errore. La differenza tra la notizia dell’intercity Napoli-Roma e quella dell’omicidio di Jonathan Esposito è che, nella seconda, c’è un meccanismo automatico che porta a identificare l’ultrà con la violenza. La scorsa domenica di campionato, “complici” un gemellaggio e l’accordo tra le questure, ultrà e tifosi sampdoriani sono entrati allo stadio Tardini senza tessera del tifoso. La partita è terminata 2-1 per i padroni di casa e non ci sono stati scontri, violenze e neppure beghe. Il piano mediatico da decenni macchia e isola il tifo, valorizza
i DASPO, le pene esemplari e le gogne generalizzate; così risulta naturale eliminare dai giornali qualsiasi riferimento di non violenza ultrà e che, tra tutte le testate nazionali, l’unica a parlare della domenica di Parma sia stato il Corriere dello Sport.
Domenica scorsa ultrà e tifosi della Sampdoria senza tessera del tifoso sono stati lasciati entrare al Tardini di Parma. Né violenze o scontri, ma nessuno ne ha parlato
Il campionato più vuoto d’Europa
Dal rifiuto di Farfan all’esodo dei grandi campioni verso competizioni più attraenti: gli stadi deserti non sono solo una questione di numeri, ma incidono nel mercato di Pasquale Raffaele
J
efferson Farfan, ala dello Schalke 04 in Germania, non è esattamente Lionel Messi. Sebbene faro della – modesta - nazionale peruviana da oltre un lustro, non si può di certo considerare un top player da copertina. Eppure, in diverse sessioni di calciomercato il suo nome è stato accostato insistentemente a due club italiani di prestigio assoluto: l'Inter e, soprattutto, la Juventus. Il corteggiamento della vecchia Signora farebbe gola a chiunque anche in tempi di vacche magre, figuriamoci se si concretizza dopo aver apposto il tricolore sulle maglie zebrate battendo il Cagliari il 6 maggio, con una giornata di anticipo e terminando il (fu) campionato più bello del mondo da imbattuti. I presupposti di due destini sportivi che si incrociano sembravano es-
serci tutti dato che in quel periodo Marotta, direttore generale dei bianconeri, si era rimesso sulle tracce del calciatore sudamericano. Invece, tre giorni dopo il ritorno sul tetto d'Italia della squadra torinese Farfan dichiara alla Sport Bild quanto segue: «La maggior parte degli stadi italiani sono vuoti, la Juventus è un grande club ed è campione d'Italia, ma lì si gioca un calcio diverso. trasferirmi in Serie A sarebbe voluto dire reinventarmi, è molto più attraente lo Schalke...». Ecco: le dichiarazioni del calciatore peruviano danno la cifra dell'attuale stato di salute del settore in Italia, sia in termini di attrattiva per le stelle del pallone mondiale (non è il caso di Farfan, figuriamoci quale può essere la considerazione di un vero fuoriclasse), sia per la drastica emorragia
Jefferson Farfan ha rifiutato la Juve: «La maggior parte degli stadi italiani sono vuoti, la Juve è un grande club, ma è molto più attraente lo Schalke»
delle folle policromatiche che un tempo infiammavano le domeniche negli stadi. Sembrano lontani anni luce gli sfavillanti anni ottanta che "globalizzarono" il calcio nostrano attirando a sè l'elite del calcio planetario (gli appassionati sobbalzano dalla sedia alla vista di Maradona, Careca, Gullit e Van Basten tutti sulla stessa copertina dell'album Panini 1987-88), per non parlare del decennio successivo segnato da folli spese miliardarie a tre cifre – per rimanere soltanto al mercato interno, è sufficiente ricordare il passaggio di Bobo Vieri dalla Lazio all'Inter nell'estate del 1999, operazione complessiva da 200 miliardi del vecchio conio fra costo del cartellino ed emolumenti al centravanti. Insomma, il polo industriale della Ruhr sembra ormai fare più gola rispetto ai sempre meno verdi prati del Belpaese, nonostante lo Schalke - che non vince una Bundesliga dalla remota stagione 1957-58 e un trofeo internazionale dalla Coppa Uefa 1997, peraltro unico alloro europeo nella loro bacheca - si trovi al cospetto della società italiana più titolata, prima per
supporter a livello nazionale (se nell'ultimo campionato in Italia c'è stata una squadra non afflitta dalla sindrome degli spalti vuoti questa è senza dubbio la Juventus) nonchè decima su scala continentale, secondo quanto sancito da un rapporto di Sport+Markt AG, società di indagini sul mercato sportivo – ironia della sorte - tedesca. Alle 15 dello scorso sabato il ricco Land teutonico è stato teatro del Ruhrgebiet (Revierderby per chi fosse digiuno di tedesco), un classico che ha visto i padroni di casa del Borussia Dortmund opposti proprio ai konigsblau di Gelsenkirchen: si tratta del più sentito fra gli innumerevoli e seguitissimi derby regionali del campionato tedesco, disputato nella splendida cornice del Westfalenstadion, il tempio dei gialloneri di Dortmund e l'impianto più grande del paese con 80.552 posti a sedere, vette irraggiungibili finanche per il "Meazza" di Milano o l'Olimpico di Roma. Dati di affluenza quasi da Superbowl: 80.500 spettatori, praticamente tutto esaurito. Qualcuno potrebbe obiettare che si trattava di una partita parti-
La curva fa differenza: lo Schalke non vince dal 1957-58 eppure per i giocatori è più attraente
colare, un derby è pur sempre un derby e questo può spiegare il pienone. In realtà sfondare il tetto delle 80.000 presenze in casa propria è la prassi per i campioni di Germania uscenti, e a sancirlo provvede nuovamente il conforto dei numeri: l'affluenza media al Westfalenstadion lo scorso anno è stata di 80.521 spettatori, quasi ogni gara sold out. L'ulteriore obiezione potrebbe essere di natura squisitamente sportiva, in fondo stiamo parlando dei detentori del Meisterschale (il piatto più ambito nella Germania calcistica, il trofeo col quale vengono premiati i vincitori del campionato), inevitabile
che la capolista facesse registrare quasi sempre il tutto esaurito. Anche in questo caso, l'obiezione non regge se confrontata con i dati complessivi di affluenza negli impianti tedeschi, spulciando i quali notiamo che a parte i 56.448 di media all'Olympiastadion (a più di qualche pallonaro sfegatato italiano scenderà una lacrimuccia di gioia soltanto a sentirlo nominare ricordando la calda notte mondiale del 9 luglio 2006), secondo stadio del paese e dimora dei neoretrocessi berlinesi dell'Hertha, i numeri sono pantagruelici ovunque: senza scomodare gli incontri domestici del Bayern Monaco, paragona-
Non solo le big fanno il pieno. Il Borussia Moenchengladbach ha una media di 61.129 su 61.482, lo Stoccard invece 57mila su 60mila: in Germania il rapporto tifosi/capienza è del 95%
bili nella caccia ai biglietti a un concerto dei Radiohead, lo Schalke 04 alla VeltinsArena di Gelsenkirchen radunava in media 61.139 supporter su 61.482 posti, il Borussia Moenchengladbach – nobile decaduta da qualche stagione in altalenante ripresa - 51.846 su 54.019, il Bayer Leverkusen 28.633 su 30.210, lo Stoccarda 57.089 su 60.441. E non stiamo parlando esclusivamente di squadre di vertice, basti pensare che le retrocesse Colonia e Kaiserslautern, rispettivamente penultima e ultima forza dello scorso campionato, hanno viaggiato su cifre molto simili: 47.647 su 50.374 la prima, 44.434 su 48.500 la seconda. Se consideriamo che la capienza media degli stadi tedeschi è di 48.640 posti e l'affluenza è stata di 45.133, otteniamo un rapporto capienza/spettatori intorno al 95%, in aumento rispetto ai 42.100 della stagione precedente. Questi numeri fanno della Bundesliga il torneo che vanta la capienza media più alta fra i principali campionati continentali e, al contempo, anche il miglior rapporto capienza/spettatori in assoluto. Tornando al
Westfalenstadion di Dortmund, l'ultima considerazione sollevata da uno scettico potrebbe essere di tipo economico: il Borussia ha il proprio quartier generale in una delle aree più ricche e produttive al mondo e questo non potrà che ricadere sul prezzo dei biglietti. Anche in questo caso c'è da rimanere allibiti, dato che i prezzi dei tagliandi di curva sono grossomodo in linea con quelli italiani, anzi persino molto inferiori se ci si arma di un po' di spirito di sacrificio: scegliendo un posto in piedi, infatti, la spesa media si attesta intorno ai 15 €, l'equivalente del biglietto più economico nella "Curva San Marco" della Juve Stabia, compagine di metà classifica nella nostra serie B. La rivoluzione copernicana degli stadi nell'ex Reich è scattata in vista dei Mondiali 2006, quando buona parte degli impianti sono stati ristrutturati, è il caso di dirlo, alla tedesca: meglio stendere un velo pietoso su Italia '90 ed evitare raffronti avvilenti (chi ha avuto il "piacere" di essere stato almeno un volta al Delle Alpi - la vecchia dimora della Juventus costruita proprio in occasione
della Coppa del Mondo e abbattuta nel marzo 2009 per fare posto allo Juventus Stadium - potrà confermare che di alpino lo stadio poteva vantare soltanto la distanza degli spalti dal rettangolo di gioco). Da allora, stagione dopo stagione, la Bundesliga 1 e persino la Bundesliga 2 – omologa della nostra Serie Bwin hanno fatto registrare un'affluenza in crescita costante, stando ai dati della Deutsche Fussball Liga (DFL) - la lega che rappresenta i club dei due tornei. Lo "stile Bundesliga", caratterizzato da gioiellini architettonici funzionali che garantiscono una buona visuale da tutti i settori, prezzi modici - raramente un posto supera i 50 € di costo, mentre il prezzo medio di un biglietto è inferiore ai 25 € - e facile reperibilità dei tagliandi (tentare di acquistare un biglietto online per un incontro del campionato italiano non di rado è impresa ardua), rappresenta un modello pressocché unico nel panorama europeo. E gli altri? Dietro ai teutonici si piazza la Premier League inglese, con un rapporto capienza/spettatori del 90% circa (34.001 la
Finiti i tempi di Gullit, Van Basten, Maradona insieme sulle copertine degli album Panini
media dei presenti per una capienza di 37.823): numeri da capogiro ovunque se si eccettuano le due "macchie" dell'Aston Villa – club di Birmingham con un'affluenza media di 33.873 paganti su 47.726 posti – e del retrocesso Blackburn Rovers (22.551 su 31.367), ma in entrambi i casi non si può certamente parlare di spalti deserti. Il turning point fra il vecchio e il nuovo oltremanica è da individuare nella tragedia dell'Hillsborough, il campo neutro dove il 15 aprile 1989 si sarebbe dovuta disputare la semifinale di FA Cup – la Coppa di Lega Inglese, nonchè la più antica competizione calcistica della storia,
istituita nel 1872 - fra Liverpool e Nottingham Forrest. La sospensione arrivò dopo soli sei minuti di gioco per via di una fatale inefficenza del servizio d'ordine che, impreparato all'arrivo in ritardo di un gran numero di supporter reds dal Merseyside, non fu in grado di gestire l'ondata, aprendo il "Gate C" dal quale affluirono nel settore altri 5mila tifosi in pochi minuti e tenendo poi bloccato l'accesso al terreno di gioco – unica via di fuga possibile per chi era incastrato – allo scopo di scongiurare scontri fra le due tifoserie: l'errore di valutazione causò la morte di 96 persone rimaste intrappolate. Dopo che una vergo-
E l’Inghilterra segue la Germania anche per i club più modesti: l’Aston Villa ha un’affluenza di 33mila paganti su 47mila. Chi retrocede, come il Blackburn ha un rapporto del 70%
gnosa campagna del tabloid Sun incolpò dell'accaduto gli hooligan del Liverpool definendoli esagitati, il governo Thatcher incaricò il giudice Peter Taylor di presiedere una Commisione ad hoc che produsse il "Rapporto Taylor", poi recepito nel Taylor Act del gennaio 1990, la legge che cambiò per sempre volto al calcio inglese: negli impianti fu vietata la vendita di alcolici, furono introdotti tornelli e barriere metalliche, rivoluzionato il servizio d'ordine e inasprite le pene per gli atti di violenza allo stadio. La Lady di ferro approfittò senza esitazioni della stortura informativa per debellare una volta per tutte il problema del tifo violento in Inghilterra. Soltanto lo scorso settembre, per bocca del premier David Cameron – che ha divulgato le conclusioni a cui è giunta una commissione indipendente - è stata accertata una verità ben diversa rispetto a quella ufficiale, e cioè che la responsabilità era da addebitare quasi interamente al servizio d'ordine. Il Taylor Act ha dato vita all'attuale Premier League (nata nel 1992), tutta un'altra storia rispetto al vecchio campio-
nato inglese; tuttavia, i provvedimenti hanno avuto una consistente ricaduta sul vertiginoso aumento del prezzo dei biglietti. Prendiamo come esempio l'Arsenal, uno degli innumerevoli club londinesi e fra le compagini più prestigiose oltremanica: il costo minimo di un tagliando per assistere a un match di cartello dei Gunners è passato dalle 5 sterline del vecchio Highbury alle 63,50 sterline necessarie per mettere piede nel nuovo Emirates Stadium se si intende assistere a un incontro di categoria A, il tutto a scapito delle fasce di pubblico più giovani e meno abbienti. Volgendo lo sguardo oltralpe, i numeri sono leggermente inferiori ma di certo non disastrosi. Lo scorso anno la Ligue 1 in Francia ha fatto registrare un rapporto capienza/spettatori del 70% circa: su una capienza media di 26.758 posti l'affluenza è di 18.812. I numeri invece diventano impietosi guardando in casa nostra: considerando una capienza media di 42.339 posti e una media spettatori di 23.170, il rapporto capienza/spettatori nella scorsa stagione di Serie A è
stato un misero 52%, ergo spalti per metà vuoti. Esclusa la Juventus (che fa categoria a sè col nuovo stadio di proprietà e un mostruoso +71% rispetto al 2010/2011), piangono anche le big meneghine - per Milan e Inter rispettivamente 49.231 e 44.806 presenze su 80.018 posti del San Siro/Meazza - e la terza forza dello scorso campionato, l'Udinese - 18.595 su 30.642. Un declino di presenze costante, visto che i 25.570 spettatori di media della stagione 2009-10 erano già calati a 23.800 in quella successiva. Un'emorragia perenne che continua a dissanguare il (fu) campionato più bello e ambito d'Europa.
Escluso lo Juventus Stadium, piangono le squadre meneghine: 44mila su 80mila
Settimanale quotidiano*
Lorenzo Ligas, Silvia Fiorito, Elisa Gianni Chiara Esposito
*Un tema a settimana, un aggiornamento ogni sera.