Il cantiere delle morti bianche

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numero 20

Il Serale

05 novembre 2012

Settimanale quotidiano

Il cantiere delle morti bianche I caduti sul lavoro non sono solo numeri


I morti ammassati

di Filippo Desabato

«N

on chiamatele "morti bianche", per favore». L’appello giunge periodicamente e con puntualità. A giugno scorso, un’inchiesta de L’Espresso portava alla luce la discrepanza tra i dati Inail e quelli forniti dall’Osservatorio di Bologna. La differenza è elementare: i primi tengono il conto dei soli assicurati, i secondi no. Si può così ampliare lo spettro delle categorie di esseri umani che rientrano nella definizione di “morte bianca”: lavoratori in nero, pendolari, militari, pensionati ecc...Ognuna di queste categoria viene “esclusa” a seconda di criteri differenti: chi è senza contratto non esiste per il lavoro, chi serve


la patria per i media è un eroe ma non un lavoratore, chi muore in ore non lavorative, chi ha finito di lavorare ma continua per necessità . In tutti i casi si tratta di declinare in modo diverso una parola soltanto, modificandone i confini. Viene allora da chiedersi quali siano i limiti di una definizione parziale che pretende di associare un colore a una scala di zone grigie, che fa dei dati un proprio segno distintivo. Ricapitolare i numeri del problema non è una cura omeopatica, anzi aiuta a farlo sembrare un ammasso di nomi che di mestiere fa impressione. Le morti bianche invece vivono in un habitat vero, un ecosistema diventato cantiere.


L’etichetta non dice nulla

“Morte bianca” è un’etichetta strumentalizzata, utilizzata secondo criteri variabili. È la mappa bucata di un mondo che non è possibile stigmatizzare di Lorenzo Ligas

U

na definizione recinta un concetto ed è allo stesso tempo una riduzione comunicativa, una scorciatoia. Ma quando il significato da imbrigliare è troppo più ampio di quel che si pensa, le briglie diventano catene di comodo e modificano il linguaggio con cui le si descrive. «La dicotomia tra vita e lavoro all’Ilva di Taranto ha prodotto una nuova pagina nera: un operaio di 29 anni, Claudio Marsella, di Oria (Brindisi), è morto schiacciato da un locomotore durante le operazioni di aggancio della motrice ai vagoni. È stato soccorso da alcuni colleghi ma le lesioni riportate al torace erano troppo gravi ed è morto in ospedale». (La Stampa, 30 ottobre) «“La cava era il “suo” posto”. Forse, se avesse potuto scegliere un posto dove andarsene, Gabriele avrebbe scelto proprio quello. La cava di papà, ma anche quella in cui andava a derapare

con la sua Ktm, la moto che era la sua passione. Quella che riempiva le sue giornate divise tra il lavoro (aveva mollato l’anno scorso un istituto professionale), le corse sulla provinciale e le serate con gli amici». (Repubblica, 1 novembre) Queste sono la penultima e l’ultima delle cosiddette “morti bianche”, persone che muoiono sul lavoro. Le notizie riportate sono le elegie di Claudio Marsella, morto all’Ilva di Taranto, e di Gabriele Fazzari, morto a Toirano in Liguria. I toni lasciano

Claudio Marsella e Gabriele Fazzari, rispettivamente da Taranto e Toirano, sono gli ultimi iscritti all’albo dei decessi sul lavoro

spazio alla retorica e agli orpelli stilistici e il linguaggio si insinua nella definizione con agilità, quasi naturalmente: questo tipo di morte va trattato e raccontato così. Di per sé il concetto che sta


dietro alla “morte bianca” è semplice: morire mentre si lavora. Quello che sta dietro alla parola “lavoro” invece si presenta fin troppo vasto ed è proprio il sopraccitato articolo della Stampa che La “morte bianca” fornisce la chiave di riguarda solo i lettura di questa lavoratori complessità: il laregolari. Per gli voro è strettamente legato alla vita. altri la prassi Così definire mediatica è come “morte diversa bianca” solo la morte che riguarda lavoratori regolari, preferibilmente giovani e operai, ha portato con sé la stereotipizzazione mediatica di un identikit falso e una divisione in compartimenti stagni basata sull’orario lavorativo. Ma allora si dovrebbe parlare di una morte “sull’impiego”, non “sul lavoro” e anche escludere, per assurdo, anche gli operai in cantiere durante la pausa pranzo. Perché non includere nella lista anche i pensionati che ancora lavorano per necessità, o i pendolari che lasciano le penne mentre prendono il treno o l’auto, o i militari morti in Afghanistan, o chi è stato assunto in nero? Queste categorie, poste senza motivo fuori dalla definizione, trovano consequenzialmente un trattamento linguistico diverso. «Un uomo di 83 anni di Fa-

sano, Giuseppe Petruzzi, è morto nel primo pomeriggio di oggi in seguito alla caduta dal suo trattore in contrada Cerasina a Fasano. Il pensionato, noto proprietario terriero, pare sia morto sul colpo. Forse a determinare la caduta è stato un improvviso malore. Il corpo senza vita dell’uomo è stato trovato da alcuni passanti che alla vista della tragedia non hanno esitato a chiamare i soccorsi». La freddezza della notizia, di tre giorni fa, è pari alla sua imprecisione: Giuseppe Petruzzi è morto infatti schiacciato dal ribaltamento del suo trattore. Stessa sorte, due anni fa, per Onofrio Pugliari, 67enne di Vibo Valentia, anch’egli pensionato, oppure per Augusto Tomaino, agricoltore morto a 63 anni cadendo da un albero di sua proprietà. La morte da “bianca” diventa

L’uso della definizione ha stereotipato un identikit falso e una divisione in compartimenti stagni basata sull’orario lavorativo

per prassi “tricolore” quando le vittime sono invece militari. Tiziano Chierotti è l’ultimo ragazzo ucciso in Afghanistan e ancora si ricordano i campi di calcio listati a lutto la domenica. «Nell’assalto contro una pattuglia mista di militari italiani e afghani nella provincia di Farah è morto un alpino di 24 anni, il ca-


porale Tiziano Chierotti. Tre suoi compagni sono rimasti feriti. Non sono in pericolo di vita. Morto anche un soldato afgano che partecipava all’operazione». Il linguaggio dei media, ac-

Il linguaggio dei media distingue un impiego da un altro come se morire sul lavoro fosse un concetto variabile a seconda della mansione

compagnato dai minuti di silenzio in tutta Italia, spostano il campo dal lavoro alla passione patriottica. Pur trattandosi di un impiego che dal 2004 ha fatto 52 morti, viene sottratto immediatamente al pericoloso e impulsivo recinto della “morte bianca”; morire lavorando in Afghanistan impone che le istituzioni «si raccolgano intorno alle forze armate italiane, confermando il pieno sostegno al loro impegno nelle aree di crisi ed in particolare al-

l’opera encomiabile che prestano al servizio del nostro Paese». “Morte bianca” è una definizione ed è una comodità, ma, quando ci sono ragioni politiche che s’impongono sulla notizia, allora i media sono costretti a rinunciarvi e un incidente in auto durante il turno lavorativo non rientra più nella definizione. Se infatti il caporale Chierotti è stato vittima di un’azione di guerra, gli altri tre caporali, deceduti a febbraio a causa del ribaltamento del mezzo sul quale viaggiavano, non erano coinvolti in nessuno scontro a fuoco. «Tre militari italiani sono morti questa mattina in un incidente stradale avvenuto nell'area di Shindad, nella parte occidentale dell'Afghanistan. Tutti e tre i soldati appartenevano al 66esimo

I giornali non riportano enfasi né retorica nel trattare i decessi dei militari in Afghanistan. Così come non ne utilizzano per altre categorie


reggimento aeromobile "Trieste" di stanza a Forlì. Un quarto soldato è rimasto ferito, ed è ricoverato nell'ospedale militare da campo di Shindand in ipotermia. Non sarebbe in pericolo di vita». L’etichetta L’asetticità tira le esclude le zone fila della notizia, grigie del lavoro l’appello di Napoliche si preferisce tano alle istituzioni migra nell’occhiello ignorare: ad e si trasforma in esempio i semplice cordoglio, lavoratori in nero ma rimane lì per distinguere questo impiego dagli altri. Infine i lavoratori in nero. Quando a morire è uno di loro, la tecnica è la stessa: freddezza sulla notizia e informazioni mancanti: «Un operaio è morto stamattina a Catania in un incidente sul lavoro. La vittima, Orazio Savoca, 26 anni, è precipitata dall'impalcatura sulla quale stava lavorando ed è rimasta uccisa nell'impatto al suolo». Bisogna affidarsi a CtZen per capire chi davvero sia Orazio Savoca: «Orazio Savoca, 26 anni, è morto questa mattina a San Cristoforo, precipitando dall’impalcatura fatiscente di un cantiere edile. Lavorava in nero, dal 2006 non riceveva un regolare pagamento alla Cassa edile. Una vicenda gravissima per i sindacati di categoria Fillea Cgil Filca Cisl e Feneal Uil, che affermano:

“Questo non è lavoro ma omicidio”». I buchi sono troppi e la mappatura della “morte bianca”, così come viene fornita dall’Inail, non ha senso perché troppo incompleta. Il lavoro è un concetto vago stretto in una tenaglia. Lo conferma Michele Sasso che per l’Espresso scrive: «Ad agosto in Italia si è registrato il picco delle vittime. E anche il dato complessivo dall'inizio dell'anno segna un più 3,2 per cento. La causa? La crisi, che accresce i carichi di lavoro e spinge a tagliare sulla sicurezza». Se i carichi di lavoro si spostano da dove sono abitualmente localizzati allora le “morti bianche” non sono più rintracciabili, non sono più classificabili. Di fatto non esistono. Così Michele Sasso dell’Espresso: «La crisi, che accresce i carichi di lavoro e spinge a tagliare sulla sicurezza»


Local crew

I palchi imponenti sono il guscio accattivante di eventi musicali spesso mediocri. Ma dietro la roboante morte di Matteo Armellini vive un mondo più silenzioso di Francesco Berlingeri

I

n principio fu Samuele Bersani. In villa, nell’estate del 1997. Una telefonata da un mio cugino. All’epoca ignoravo come funzionasse il caporalato di piccolo cabotaggio. Avevo ventuno anni e scelto di iscrivermi alla facoltà di Lettere. Dovevo pagarmi gli «Avevo ventun anni. Mi studi. Mi chiesero di spostare qualche chiesero di spostare baule e di portare un qualche baule e portare paio di amici. 50mila un paio di amici» lire al giorno. Nessuna competenza specifica. «Non è un lavoro complicato», mi dissero. Una cosa facile facile. E, in effetti, il palco che contribuimmo ad allestire era poco più di un tavolaccio con la strumentazione a bordo. Qualche giorno dopo ero già entrato nel giro. Gli amici da

portare erano diventati una decina. A Lucera, al concerto dei Pooh, cominciammo a realizzare. Ci impiegarono al “ferro”, che in gergo è la struttura portante, la base del palco vero e proprio. Poi giunsero i tir, i “bilici”. Non ricordo più quanti. La rampa al suolo. Due ragazzi a bordo, lo stivatore – che di solito è anche l’autista del camion – ai margini, a dirigere le operazioni, a indicare le casse che hanno la priorità, altri ragazzi ai lati della rampa e sotto, a raccogliere e dirottare verso il palco il carico del tir. Un supervisore e qualche collaboratore, sempre d’area tecnica, ad ammassare bauli nelle varie zone del palco. A montare le lunghe teorie di alluminio che faranno da scheletro, che “ospiteranno” le luci.


La “americana” si tira su quel tanto che basta. Poi il tecnico indica i bauli e tira fuori i pezzi: fari par, teste mobili, spot, wash. I facchini – quel che siamo, nonostante l’inglese addolcisca in Local Crew la mansione – seguono i tecnici per l’intera mattinata. C’è chi srotola cavi, chi assembla e fa salire le casse sulle torrette laterali, chi avvita bulloni e stringe sicure attorno alle luci, chi monta l’area del mixer “di sala” e chi quella “di palco”. Non è ancora il momento degli strumenti. Si suda e si fuma tanto. I vecchi del paese si fermano a guardare, fanno domande, confabulano. Mentre il perimetro di un concerto di piazza diviene un piccolo bazar di formiche all’opera. A pranzo un panino, forse due. O quel che passa il convento. Può capitare che ti portino al ristorante, in pizzeria o che resti a mangiare cucinato nei dintorni. Dipende

Local Crew è il termine inglese che abbellisce l’essenza del lavoro: facchini che trasportano bauli, svuotano tir e blilci e poi seguono i tecnici per montare il palco

dall’organizzazione. I tour, quelli a pagamento, sono una cosa. Ma le serate di piazza hanno Comitati Organizzatori che seguono regole loro, ed ogni volta la sorpresa è dietro l’angolo. Quella volta a Lucera ci licenziarono senza troppi

«Ogni volta la sorpresa è dietro l’angolo: quella volta a Lucera ci licenziarono senza troppi convenevoli. Ci dissero di farci rivedere per le quattro»

convenevoli. Ci dissero di farci rivedere per le quattro. Tornammo a casa, con inevitabili spese di benzina e di pasto, da detrarre alla paga. Che sempre di 50mila lire rimaneva. Un accordo preventivo, che vincola i facchini al proprio intermedia-


Lo sforzo adattato ogni volta a una location diversa: una piazza in salita, un lido, un club privato, un campo. Alcune volte c’è preavviso, altre volte la chiamata è improvvisa

rio. Sugli accordi tra intermediari e su quelli tra intermediari e boss di vario grado, non c’è verità storica. Si ragiona su tutto: gli spostamenti, la benzina, le docce, la cena. E l’impressione, maturata sin da subito, è che ogni passaggio sprema ulterior-

«Sugli accordi tra intermediari e boss di vario grado non c’è verità storica, si ragiona su tutto: gli spostamenti, la benzina, le docce, la cena: ogni passaggio spreme il guadagno»

mente il limone del guadagno. Per noi non cambia – non deve cambiare – niente. La paga pattuita va accettata, senza troppe domande. E nell’ordine di idee che quando squilla il telefono, sia qualcuno che ti propone una data. Così cambi scenario e con-

testo una volta ogni due o tre giorni. Ti muovi. Da Oria a Trani, da Bisceglie a Monopoli a Mottola. E ogni volta adatti lo sforzo a una location diversa. Una piazza in salita, un lido, un club privato col giardino, un campo sportivo. A volte le date le conosci con largo anticipo, altre volte lo squillo ti butta giù dal letto. E la richiesta è sempre la stessa: bisogna allestire una squadra. È una specie di piramide virtuale, dove ogni pixel dipende dal pixel che sta un gradino più sopra. E quanti più gradini ci sono, tanto meno sarà il beneficio di quelli che stanno sotto, alla base. La mentalità del caporale, in questo lavoro dove la concorrenza delle altre “squadre” è un getto di calore acido sul collo, è una biscia tentatrice, dalla sommità fino al cuore del facchinaggio. E si sposa con un crumiraggio latente. Chi organizza le squadre, prima o poi,


tende ad appassionarsi al proprio ruolo. Ma, di converso, se le squadre si solidificano, il problema può accasarsi altrove. Perché è vero che non è un lavoro di alta specializzazione, ma non è neppure la catena di montaggio. E quando un palco va issato e buttato giù nel minor tempo possibile, perché i bilici devono tornare in strada, macinare chilometri nella notte e giungere in una piazza lontana il mattino seguente, allora è bene avere delle crew che non siano proprio alle prime armi, ma che sappiano dove mettere le mani. E quando lavori fianco a fianco per anni, un po’ – anche solo per inerzia – il “mestiere” lo impari. E giacché scaricare un tir in venti minuti è diverso da farlo in cinquanta, arriva sempre il momento che la squadra tende a valorizzarsi. E nascono le prime frizioni col caporalato organizzato. Ai tempi dei Pooh favoleg-

Dopo un po’ di anni d’esperienza il mestiere, anche per inerzia, si impara. La squadra così ingrana, si migliora e ambisce a un aumento del compenso

giavamo di facchini nordici che nelle brume – per il nostro stesso lavoro – percepivano il doppio di noi. E l’anno seguente – il 1998 del Mondiale di Francia – il nostro impegno – che si concretizzava in una quindicina di date – valeva ventimila lire in

«Scaricare un tir in venti minuti è diverso che farlo in cinquanta, arriva sempre il momento che la squadra tende a valorizzarsi. E nascono le prime frizioni col caporalato organizzato»

più. Non dipendeva da noi, eh. Ma eravamo diventati bravi. Lo dicevano tutti. Lo dicevano per farci lavorare con entusiasmo, certamente, lo dicevano a tutti prima o poi, ma nondimeno la nostra consapevolezza cresceva. Discutevamo di tutto, sempre.


«Nel 2008 ho ripreso. La paga è di 70 euro al giorno, o di 7 euro all’ora per i palchi maggiori. Mentre non c’ero i miei compagni hanno montato palchi da dieci giorni di lavoro»

Dai rimborsi per la benzina al pranzo. E quando, nel settembre del 1999, bloccammo la costruzione del palco dei Lunapop allo stadio della Vittoria di Bari, chiedendo un aumento di ulteriori 30mila lire per quell’impianto che ci sembrava

«Quando, nel settembre del 1999 bloccammo la costruzione del palco dei Lunapop allo stadio della Vittoria di Bari per un aumento di 30mila lire, ci licenziarono»

mastodontico, la corda si spezzò. Percepimmo l’intera giornata lavorativa e ci staccarono al volo. I tempi erano maturi per una nuova squadra, da far crescere con le molliche, a pane e acqua. All’inizio sarebbero stati lenti e impacciati, come noi, come

tutti. Ma presto avrebbero imparato. E avrebbero cominciato a guardarsi attorno. Ma il principio dominante, che poi è il principio cardine dello sfruttamento a ben vedere, resta evidente: qualsiasi cosa tu faccia, c’è sempre qualcuno che può farlo per meno. E così non resta che accettare. Accettare di spingere bauli, e magari arrampicarsi sulle torrette, o accettare di rimanere a casa. Non pensavo avrei mai più fatto quel lavoro. Eppure. Nel 2008 ho ripreso. La paga è di 70 euro al giorno, adesso. O di 7 euro all’ora, per i palchi maggiori. I miei compagni, negli anni in cui non c’ero, hanno lavorato per Ligabue e per Vasco Rossi. (E io che ritenevo mastodontico il palchetto dei Lunapop!). Palchi da quattro giorni di montaggio, coi ritmi sfalsati e i turni serrati. Impianti da dieci giorni di lavoro. Dai playwood al suolo – per permet-


tere lo scivolamento dei bauli – all’anima di ferro, dall’allestimento alla strumentazione, alle sedie, al catering, fino allo smontaggio. Un mese per il Pop Mart Tour degli U2 al Campovolo di Reggio Emilia. Centinaia di facchini come in un formicaio. Per due ore di spettacolo. Una tendenza che, un tempo, veniva vissuta come frivolezza da stars. I Pink Floyd, gli Oasis. Quasi con leggerezza, come un’esperienza da raccontare. Poi, un paio d’anni fa, al Fossato del castello di Barletta, accettai di far parte della squadra per il concerto di Laura Pausini. Quella di «Marco se n’è andato e non ritorna più». Certo, pezzo da novanta nel mercato sudamericano, ma pur sempre lei. Attaccai alle quattro del pomeriggio. Il primo tir da scaricare giunse passata mezzanotte. Riuscimmo a svuotarne due, sotto le luci elettriche. L’in-

La dimensione-spettacolo, il concetto dell’evento, hanno modificato alla radice il rapporto tra il pubblico pagante e l’artista.

domani, alle sette, ricominciammo da dove avevamo lasciato. Teloni neri, schermi al led, insulsi elementi scenografici, scalinate ornamentali. Il backline, gli strumenti veri e propri. Tre giorni, col caschetto in mano e l’incubo dell’Ispetto-

«Ma il principio dominante, che poi è il principio cardine dello sfruttamento a ben vedere, resta evidente: qualsiasi cosa tu faccia, c’è sempre qualcuno che può farlo per meno»

rato del lavoro. La tendenza. La dimensione-spettacolo, il concetto dell’evento, hanno modificato alla radice il rapporto tra il pubblico pagante e l’artista. Non più la musica a fare da collante. Lo spettatore dev’essere rapito, trascinato in un mondo di effetti



e comparse, spesso del tutto avulso dal concerto stesso. La competizione a suon di palchi ciclopici per mascherare la pochezza dell’offerta musicale. Da Elisa a Tiziano Ferro, non c’è nessun cantante di mezza tacca – oggi in Italia – che non s’avvalga di strutture di primo livello. Enormi e vuote. Dal punto di vista di chi ai palchi ci lavora, si dice: «Bene, più grandi sono, più lavoriamo». Ma anche qui la competizione è diventata spasmodica. Rumeni, albanesi, ucraini, a far la guerra sottocosto ad altrettante squadre italiane a loro volta impegnate nel garantirsi, sottocosto, la garanzia di quante più date possibili. Una divisione zonale che risponde appieno ai desideri – manco tanto reconditi – dei responsabili intermedi e degli organizzatori d’eventi. Palchi sempre più complessi da montare, nella loro apparente semplicità. Una gara all’apparire che frantuma qualsiasi fermento di qualità. L’importante è accumulare ore, strappare la permanenza e fare poche storie. Ad agosto, smaltite le grosse produzioni, ci saranno le piazze di paese, dai ritmi più blandi. Che sembrano quasi vacanze retribuite. Francesco e Matteo sono morti a vent’anni per questo concorso di cause. Inseguendo il proprio bisogno di mettere da parte qualcosa in un

mondo dove prevale la fretta e si lavora accettando orari dilatati e condizioni salariali e di sicurezza assai precari. Il seguito è sempre lo stesso: il lavoro è questo, se non ti sta bene, vai a casa. La loro morte è servita a fingere sgomento. Adesso ci sono le visite mediche e i turni da otto ore. Ma l’attenzione è destinata a scemare. E chi, per bisogno, si troverà di nuovo tra bauli e

«Il lavoro è questo, se non ti sta bene, vai a casa. La morte di Matteo e Francesco è servita a fingere sgomento: ci sono visite e i turni da 8 ore. Ma l’attenzione è destinata a scemare»

americane, ben presto dovrà tornare ad attendere dei tir in piena notte, dopo otto ore di lavoro già assolte. E magari a chiedere di lavorare di più, maledicendo a mezza bocca tutta questa burocrazia di facciata.


Insicurezza sul lavoro

Il Testo Unico è diventato un gioco

Perché, a più di quattro anni dalla firma del quadro normativo che avrebbe dovuto arrestare il fenomeno delle “morti bianche”, quattro lavoratori al giorno non tornano a casa?


I

eri notte, tornando a casa, mi è capitato di dare un passaggio a un vecchio amico. L’ho trovato che camminava a passo svelto, e un po’ infreddolito, per la salita d’ingresso del nostro paese, probabilmente cercando di rispondere il più presto possibile al richiamo del letto, giunto qualche mezz’ora prima. Un pezzetto di strada insieme, quattro chiacchiere, la fermata, obbligatoria, per comprare le sigarette, e ognuno di nuovo per la sua strada fino al prossimo incontro. Un incontro come un altro, a conclusione di una serata come un’altra. Ma un incontro che ha seriamente rischiato di non potere mai avvenire. Qualche anno prima quel ragazzo si trovava arrampicato su un palo del telefono. Era il suo lavoro: quella mattina, come tante altre, doveva controllare che una linea funzionasse. Le protezioni le aveva. Era saldamente ancorato a quel palo. Ma nessuno si era preventivamente assicurato che la struttura fosse solida. E a un certo punto è crollata, portandosi dietro il mio amico. A salvarlo ci ha pensato un provvidenziale muretto, cha ha impedito che il palo si schiantasse a terra, sul suo corpo. Non ne è uscito propriamente indenne. Ci sono state operazioni alla spina dorsale, ospedali, riabilitazione, cause legali, indennizzi e ingiustizie, ma posso ancora avere la fortuna di incontrarlo davanti a una birra, per lamentarci insieme di quanto sia piatta e noiosa la vita di paese. A lui, come si suole dire in questi casi, «è andata bene». Ma se guardiamo gli ultimi dati dell’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro di Vega Engineering, sono già 392 i casi di infortunio mortale avvenuti in Italia dall’inizio del 2012. A differenza dei dati Inail, che si basa solamente sui propri assicurati, questo

di Marta Cioncoloni


osservatorio istituito nel 2009 prende in considerazione tutti i casi avvenuti durante l’esercizio di un’attività lavorativa, senza distinzione tra assicurati e non assicurati, subordinati e datori di lavoro, regolari o irregolari, e comprendono, inoltre, tutti i lavoratori in agricoltura non assicurati Inail. E’ importante questa puntualizzazione, perché considerando solo l’ultimo rapporto Inail la situazione italiana potrebbe apparire migliorata rispetto agli anni passati, quando in realtà non è così. La caduta dall’alto è la causa principale di morte registrata dall’Osservatorio, seguita dallo schiacciamento per caduta di oggetti pesanti e dal ribaltamento di un veicolo o di un mezzo in movimento. Alti anche i casi di morte dovuta a cause elettriche, dirette e indirette, e, ancora più agghiacciante, per seppellimento o sprofondamento. Contrariamente a come si pensa, non è quello delle costruzioni il settore più a rischio, bensì l’agricoltura, a cui sono attribuibili il 37,4% dei casi di morti bianche di tutto il paese. Gettando un rapido sguardo indietro, nel 2010 i casi di infortuni fatali sul lavoro, secondo l’Osservatorio indipendente di Bologna, sono stati 1080, e nel 2011 sono arrivati a 1170. Questi numeri, queste percentuali, sono la testimonianza palese che c’è qualcosa di sbagliato nel sistema di prevenzione per la sicurezza e nel meccanismo normativo. Non si può vestire di fatalismo il fatto che ogni giorno 3 o 4 persone sul posto di lavora ci lasciano la vita. Le norme vigenti in materia di prevenzione e sicurezza fanno riferimento al Testo Unico per la Sicurezza sul Lavoro, Dlgs 81/08, la cui storia inizia con la firma del 9 Aprile del 2008. Si trattava di una legge piuttosto innovativa che introduceva, tra le altre cose, sanzioni e pene


più elevate è maggiore formazione per i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, rispetto al quadro normativo precedente. Il problema è che per la piena attuazione avrebbero dovuto essere emanati ben 38 decreti attuativi, missione praticamente impossibile per un governo Prodi allora ormai dimissionario. Impugnato dal successivo governo Berlusconi, il Testo è stato modificato, con un decreto correttivo di 149 articoli, il Dlgs 106 del 3 Agosto 2009, che ne ha praticamente annullato la potenziale azione incisiva e di controllo. Molte sanzioni ai datori di lavoro sono state dimezzate, sono state introdotte proroghe a 90 giorni per fare la valutazione dei rischi, molte categorie di dirigenti sono state preposte e, in alcuni casi, si è sostituito l’arresto con l’ammenda. Pensiamo un attimo a un lavoro a tempo determinato, magari di due o tre mesi: è chiaro che sia rischioso il fatto che possano passare 90 giorni dall’inizio delle attività alla consegna della valutazione sui rischi. C’è poi il punto più controverso, la così detta legge “salvamanager”, che mette al riparo i vertici di tutte le aziende dalla responsabilità su tutti gli infortuni sul lavoro. Per fare un esempio pratico, se un luogo di lavoro è privo di estintori e scoppia un incendio, la responsabilità della negligenza non sfiora nemmeno chi gestisce i budget e ha quindi il potere di comprarli, ma ricade a livello più basso, come potrebbe essere il responsabile dello stabilimento specifico. Fondamentalmente un capro espiatorio, il cui potere sarà sempre e comunque schiacciato da qualcuno più in alto. Che il Dlgs 106/09 non sia propriamente incisivo rispetto alle finalità che dovrebbe raggiungere, se ne è accorta anche l’Unione Europea a seguito di una denuncia effettuata da Marco Bazzoni, un operaio



metalmeccanico e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, insieme all’ingegnere Marco Spezia. Il 30 Settembre 2011 viene recapitata al governo italiano la lettera di messa in mora per la presunta violazione della direttiva UE 89/391, che tratta di sicurezza e salute sul luogo di lavoro. Sotto accusa, oltre alla salvamanager, altri cinque punti del Testo Unico e un ultimatum di quindici giorni per convincere i vertici comunitari di avere preso un bell’abbaglio. Lorenzo Fantini, l’allora responsabile della direzione generale delle relazioni industriali e dei rapporti del Ministero del Lavoro, in un’intervista pubblicata sul sito Inail rispose che si trattava di «un insieme di censure fondate su un presupposto sbagliato: ritenere che le parti della legge siano volte a deresponsabilizzare il datore di lavoro» e che si trattasse di «censure di dettaglio che, a livello generale, si correlano con questa impostazione erronea». Niente da fare. L’italia è colpevole. Le normative comunitarie non sono ancora state ancora recepite. L’attuale Ministro del Lavoro, Elsa Fornero, è tornata a parlare del Testo Unico, quello del 2008, proprio nei giorni scorsi, dichiarando che i lavori sui famosi decreti attuativi rimasti in sospeso sono «in avanzato stato di definizione: l’impegno è completare tutto entro la fine dell’anno». Intanto in Francia la sicurezza sul lavoro è già anni che viene insegnata a scuola. Da noi si continuano a contare le vittime di un sistema che ha fatto dell’illegalità una filosofia di vita e che cerca di nascondere con una mano di bianco le proprie letali crepe strutturali.


Non si vive di soli incidenti «P

Le tecnopatie, o malattie professionali, sono l’alter ego degli infortuni sul lavoro: fanno meno clamore, ma gli stessi danni (e morti) per più tempo di Nicola Chiappinelli

referisco morire di cancro lavorando, piuttosto che di fame per mancanza di lavoro». Taranto. I microfoni sparsi a godere dell’eco della protesta degli operai all’Ilva, raccolgono una frase che mette a tutti gli effetti una lapide sulla dignità dell’essere umano. Non si tratta più di capire se il lavoro nobiliti o meno l’uomo, ormai il dado è tratto: il lavoratore si è tolto dallo storico compromesso, e si è

ticamente ridotto a presupposto del discorso, il rapporto tra condizione occupazionale e salute del lavoratore ne diviene solo una delle possibili storture. Come dire: facciamo si tutte le battaglie per la sicurezza sul posto di lavoro, ma intanto lavoriamo, che è la cosa più importante. Poi arriva, sempre più spesso, l’incidente mortale. E le coscienze politiche, con la società civile, si accoppiano in un’orgia

consegnato nelle mani di un sistema produttivo che per anni gli ha tenuto puntata contro l’arma della disperazione. Così, seguendo la deviazione, se lo sfruttamento si è ormai pra-

di bisogno di “nuova legislatura” e di investimenti. Per poi ritrovarsi a dire che «i dati registrano un calo» positivo; ma se avete avuto la buona idea di leggere gli altri articoli di questo numero,

«I dati segnano un calo positivo».Poi arriva l’incidente mortale e le coscienze politiche, con la società civile, si accoppiano in un’orgia di bisogno di “nuova legislatura” e di investimenti


Oltre agli infortuni, mortali e non, si devono considerare tutte le conseguenze dell’essere sottoposti a determinate condizioni per anni

allora dovreste già sapere che non c’è una vera corrispondenza tra statistiche e grandezza effettiva del tragico problema. Numeri e morti, oltretutto, fanno pace solo in guerra o nelle catastrofi. E questo vorrà pur dire qualcosa. Di qualunque colore siano, insomma, le morti sul lavoro esistono, e sono tante. Ma il problema, per triste paradosso,

come un sistema di insiemi impossibile da scindere. Il primo, più facilmente immaginabile, è costituito da quella vasta gamma di situazioni traumatiche legate al posto di lavoro. Oltre agli infortuni propriamente detti, mortali e non, bisogna infatti considerare anche tutte le conseguenze possibili dell’essere sottoposti per tanti anni a determinate situazioni lavorative, soprattutto quelle in cui si ha a che fare con sostanze nocive per l’organismo umano. In questi casi, che la morte arrivi in piena e meritata vecchiaia non può essere certamente ritenuto consolatorio. Questo per-

va ben oltre il solo tragico evento della perdita di vite umane. Vi sono infatti due ambiti più generali di riflessione che circondano la notizia centrale delle “morti bianche”, e che la includono

ché, proprio come un incidente può prolungare i suoi effetti nel tempo, così pure l’assorbimento continuato di elementi tossici rischia di presentare il conto soltanto dopo la pensione.

Il problema delle “morti bianche”, per triste paradosso, va ben oltre il tragico evento della perdita: esiste una vasta gamma di situazioni traumatiche legate al posto di lavoro


A Praia a Mare (CS) è iniziato il processo alla Marlane-Marzotto: lo stabilimento chiuso nel 2004 con 50 morti di tumore e altri 60 malati

Lo sanno bene forse a Praia a Mare, Cosenza, dove da poche settimane ha preso il via a pieno regime la fase dibattimentale del processo alla Marlane-Marzotto, lo stabilimento tessile rilevato dalla ricca famiglia dei tessuti veneta nell’anno del Signore 1987, e chiuso nel 2004 con un bilancio di almeno 50 ex operai morti di tumore, ed altri 60 circa a cui è stata riscontrata la stessa patologia. Ma questo, in realtà, lo deve ancora stabilire ufficialmente il Tribunale di Paola, sempre nel cosentino, dove sono confluite diverse inchieste degli ultimi anni che hanno fatto finire indagati 13 ex dirigenti e tecnici dell’azienda, tra cui Pietro Marzotto, capo della dinastia, e Antonio Favrin, vicepresidente vicario della Confindustria del Veneto, oltre al sindaco di Praia a Mare, Carlo Lomonaco (Pdl). I capi d’accusa? Omessi controlli di sicurezza, disastro ambientale,

delitto e omicidio colposo. Si, perché nella fabbrica Marlane, poi acquisita dalla Marzotto, sin dagli anni ’60 gli operai, per produrre lenzuola e tovaglie, lavoravano a stretto contatto con l’amianto che veniva sprigionato dai freni delle macchine, e si diffondeva su tutti gli altri impianti; poi, come se non bastasse, grazie alla segnalazione di uno dei dipendenti morto mesi fa, i carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico hanno rinvenuto, seppelliti in 11 aree dell’area circostante lo stabilimento, vari rifiuti tossici tra cui anche il cromo VI, ossia quel cromo esavalente che è causa prima di leucemie e altri tipi di tumori. Secondo la recente deposizione del tecnico ambientale della procura, Emilio Osso, la Marzotto ha potuto mandare i veleni in Campania fino a quando il governo regionale non ne ha vietato l’ingresso con un’ordinanza. Poi sono cominciati gli scarichi a Costapisola, frazione fra Scalea e Santa Domenica Talao. E’ stato qui che una notte un blocco di contadini ha fermato uno dei tir con i rifiuti, permettendo che l’Asl qual-


Luigi Pacchiano, ex operaio della fabbrica, si presentò nel 1995 per denunciare ciò che accadeva nella fabbrica durante le lavorazioni

che mese dopo trovasse gli smaltimenti illeciti della fabbrica all’interno della discarica. Ma, questione strettamente giudiziaria a parte, di cui s’è sentito parlare comunque molto poco sui media nazionali, vale la pena riprendere alcuni passi della deposizione del 28 settembre scorso di Luigi Pacchiano, ex operaio della fabbrica: nel 1995 fu proprio lui, dopo essere stato

«Non si vedeva a due metri di distanza tanto era il fumo che veniva sprigionato dalle vasche e dai pozzi dove venivano immerse le lane» - ha detto l’ex dipendente in aula, rispondendo alle domande del pm Roberta Carotenuto - «Gli aspiratori non funzionavano e nell’aria stagnavano le puzze e le polveri, che si sprigionavano dai telai, pregne di acidi e di amianto». E a chi provasse a lamentarsi delle condizioni dannose, il naturale invito a tacere: «Se il lavoro non va bene, la porta è quella». Nessuna mascherina, niente guanti, niente tute: si moriva come mosche e i dirigenti,

operato per un carcinoma alla vescica, a presentarsi alla procura di Paola per denunciare il patto tra lavoro e morte che si stava stringendo alla Marlene-Marzotto.

quando spariva un operaio, dicevano che si era licenziato. Lo ricorda tristemente il signor Pacchiano, che sviscera i nomi di tutti gli operai lasciati morire col solo conforto delle proprie fami-

«Non si vedeva a due metri di distanza tanto era il fumo che veniva sprigionato dalle vasche e dai pozzi dove venivano immerse le lane. Gli aspiratori non funzionavano»


Pacchiano disse anche che agli operai ogni giorno veniva dato un litro di latte. Era per disintossicarsi e ridurre il pericolo di malattie

glie. E le firme di licenziamento fatte fare sul letto di morte, le minacce dai capireparto, le mancate visite mediche: una strage annunciata. Annunciata dalle sue denunce. Ma la fabbrica andava, gli operai sapevano fare il proprio lavoro, e il resto non importava. Poi, tra le memorie, quella breve annotazione che da sola vale più di mille accuse: agli operai ogni giorno veniva dato un litro di latte. Era per disintossicarsi, dicevano. E loro, ignari, lo bevevano come fosse l’acqua di Lourdes. Anche di questo ha parlato Pacchiano. Delle buste di latte che si distribuivano per diminuire il pericolo delle malattie. Senza alcun risultato. Ma a voler fare altri esempi, senza cadere nell’appello scolastico di casi e vittime, si potrebbe anche restare a Taranto, dove nei giorni scorsi la moglie di un ex dipendente dell’Ilva originario di

Grottaglie, morto nel 2003 a seguito di una leucemia acuta mieloide, ha presentato una denuncia penale contro i rappresentanti legali dell’azienda ipotizzando il reato di omicidio colposo. Nella querela si fa notare come all’operaio, deceduto a seguito di ben due trapianti di midollo osseo, fosse stato riconosciuto nel 2001 «il nesso di causalità sussistente tra la malattia e l’esposizione ad agenti inquinanti e sostanze ad azione cancerogena, fra le quali il benzene». Questo scrisse il consulente tecnico dell’Inail, Giuseppe Spinelli, accertando nel paziente il caso di “patologia professionale”. Eccoci arrivati all’altro insieme del sistema: le tecnopatie. Così sono chiamate le malattie professionali, ossia quelle contratte nello svolgimento della propria attività lavorativa. Secondo i dati Inail, in Italia nel 2011 i casi accertati (scordatevi cifre sui lavoratori “neri”) sono stati 46.558, 4 mila in più del 2010, quasi 17 mila in più rispetto al 2007. Il settore produttivo di maggiore pericolosità resta l’industria con 38.101 casi, ma un incremento di rilievo lo fa segnare l’agricoltura,


20 tipi di patologie, molti ancora non riconosciuti dal ministero

con un + 24,8% annuo. In generale tra 20 tipi di patologie, comprese quelle ancora non riconosciute dal Ministero del Lavoro, sono racchiusi il 90% dei casi: malattie osteo-articolari e muscolo tendinee, soprattutto affezione dei dischi vertebrali e tendiniti, di fatto la patologia più frequente; ipoacusia da rumore, o potenziale sordità; malattie respiratorie, anch’esse in aumento;

Malattie articolari e muscolo tendinee, soprattutto affezione dei dischi vertebrali e tendiniti, di fatto la patologia più frequente; ipoacusia da rumore, o potenziale sordità; malattie respiratorie malattie cutanee, invece in costante diminuzione; tumori professionali, ovvero la prima causa di morte per malattia tra i lavoratori, e in un’ottica per di più sottostimata viste le difficoltà di

denuncia e di rilevamento del nesso causale; quindi le malattie professionali di natura psichica, che si concentrano soprattutto nell’attività dei servizi e tra i dipendenti pubblici. A tale proposito, nonostante il numero esiguo di denunce (più di 500 l’anno), vanno citati i “disturbi dell’adattamento cronico” e i “disturbi post-traumatici da stress lavoro correlato”. Si scrive così per la medicina, si legge mobbing per la cronaca. E si ritorna allora, di rovescio, alla dignità psico-fisica del lavoratore. Per il quale, evidentemente, non sono bastate tutte le riforme che l’hanno espropriato, negli anni, del valore dei propri sforzi, togliendo credito al sacrificio.

Ecco perché verrebbe da chiedersi: ma i suicidi dei disoccupati, dei precari, o dei licenziati sono anch’esse morti bianche? Sennò, di che colore sono?


Il Serale

Settimanale quotidiano*

Coordinatori Lorenzo Ligas, , Nicola Chiappinelli, Silvia Fiorito

Chiara Esposito

*Un tema a settimana, un aggiornamento ogni sera.


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