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#005 Copertina CHARLES BURNS – ANTEPRIMA X’ED OUT 32

Visioni MOTORE! CIAK! (CONTAMIN)AZIONE! 06 PETER GREENAWAY – LA MORTE DEL CINEMA E IL TRIONFO DELLA NUOVA NARRAZIONE 08 FALSO MOVIMENTO 09 THE DARK SIDE OF FAIRYTALES: CAPPUCCETTO ROSSO (SANGUE) 10

Arte JOSHUA HOFFINE 12 RETRADOS PINTADOS 14 I VORTICISTI - ARTISTI RIBELLI A LONDRA E NEW YORK 18 TAMARA DE LEMPICKA - LA REGINA DEL MODERNO 20

Life SPIRITO A PEZZI 22 MODA - NEXT GENERATION 24 SOCIAL MEDIA - WORK IN PROGRESS 28

Libri LA LINEA SCURA DI CHARLES BURNES 30 CARATTERI MOBILI - COLLISIONE DI MONDI NARRATIVI 40 ROCK STARS DON’T DRESS FOR THE WEATHER 43 AEREI DI CARTA 44

Musica IL FUTURISMO, CHIAVE DI VOLTA DEL CONTEMPORANEO 47 PUSH UP – SOSTIENI L’ETICHETTA 48 LET’S GO SURFING - L’INDIEPOP SBARCA A NEW YORK 56 THE PAINS OF BEING PURE AT HEART - INTERVISTA 59 DISFUNZIONI MUSICALI 62

Hi-Tech L.A. NOIR – IL DETECTIVE STORY SI TINGE DI NERO 64


Editoriale Abusata, deteriorata, mistificata e perennemente invocata, la contaminazione è ormai elemento inscindibile dalla poiesi artistica, ultimo baluardo di interesse prima della resa incondizionata per totale sfinimento del fruitore/consumatore. L’incessante rincorsa alla next big thing anestetizza i modalioli più irreprensibili, dando l’apparenza che tutto cambi alla velocità della luce affinché nulla nel nostro Paese possa realmente mutare in alcun modo. Operare oggi nel campo della cultura nazionale significa assistere ad un’imperante operazione di necrofilia, compiaciuto amarcord fintamente rassicurante con cui annientare le deboli istanze rinnovatrici che le nuove leve provano a far circolare attraverso media digitali ed organizzazioni carbonare. Volgere lo sguardo a quanto di peggio la

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cultura popolare ha dato in eredità alla generazione di questi anni ’10 sta comunque portando un risultato acclarato: annientare la coscienza civile, omologare il pensiero comune, ripiegare sulle ovvietà di un passato ormai tramontato. Ecco dunque che il recupero di movimenti artistici del primo novecento appare ancora una risposta attualissima su quel che serve per operare una rivoluzione del pensiero creativo, ma anche come necessario sprone a tutta quella schiera di intellettuali onanisti ed incapaci di opporre alcuna resistenza dai loro tristi boudoir. Accanto a tutto questo, c’è ancora un manipolo di artisti che prova a distinguersi operando in contesti inediti, senza l’inutile smania di mantenere una millantata purezza stilistica bensì nutrendosi di scenari alternativi che suggeriscano nuove ipotesi creative. Ecco dunque che le possibilità procurate dai nuovi media si rivelano sostanziale occasione di contaminazione e straordinario acceleratore di scambi. Proprio l’estro nell’innovazione è il comune denominatore degli articoli di questo numero, non solo nei momenti di pura esaltazione dell’intreccio di stili, ma anche quando viene provocatoriamente adottata quale sprone nella proposta di percorsi inediti. Una resistenza estrema all’ordinario, un atto di lotta contro l’uniformità dilagante. Michele Casella


A sinistra: David Bomberg, Fanghi (1914) Olio su tela, Tate (Londra) Sotto: Blast No. 1: Review Of The Great English Vortex, 20 giugno, 1914. copertina disegnata da Wyndham Lewis. Rivista pubblicata da John Lane. The Poetry Collection Of The University Libraries, University At Buffalo

REDAZIONE Michele Casella Direttore Responsabile Vincenzo Recchia Creative Director Irene Casulli Fashion Editor Giuseppe Morea Multimedia Developer Giancarlo Berardi Visual Designer Annarita Cellamare, Gianna Colamaria Redattrici Vincenzo Pietrogiovanni Caporedattore cinema Daniele Raspanti Caporedattore hi-tech COLLABORATORI Simona Ardito, Luigia Bottalico, Sergio Bruno, Elisa Caivano, Emma Capruzzi, Antonello Daprile, Roberta Fiorito, Alessandra Fossanova, Valeria Giampietro, Enrico Godini, Ambrosia J.S. Imbornone, Paolo Interdonato, Ninni Laterza, Giovanna Lenoci, Francesca Limongelli, Ilaria Lopez, Paola Merico, Simona Merra, Stefano Milella, Alessandra Recchia, Beppe Recchia, Laura Rizzo, Davide Rufini, Veronica Satalino, Mimma Schirosi. FOTOGRAFI Gennnaro Navarra, Daniele Raspanti STAMPATO PRESSO Sedit – Servizi Editoriali

POOL Registrazione n. 31 del 08/09/2009, presso il Tribunale di Bari www.ipool.it Cercaci su Facebook, Twitter, Myspace, Issuu. PUBBLICITÀ Imood Via Cristoforo Colombo, 23 - Putignano (BA) Tel. 080.4054243 www.imood.it Vincitore del concorso Principi Attivi Giovani Idee per una Puglia Migliore ERRATA CORRIGE Sul numero 4 di Pool Magazine, nelle pagine 30, 32 e 33, appaiono foto che sono state erroneamente non accreditate. Ci scusiamo con l’autore Giovanni Durante.


Motore! Ciak! (Contamin) Azione!

La commistione fra le arti visive attraverso l’ibridazione del cinema di Vincenzo Pietrogiovanni

Visioni

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Contaminare. Contaminarsi. Sembrano queste le sorti dell’arte, non solo contemporanea. E tale situazione risulta ancora più evidente se si guarda al cinema, che tra le arti è la più giovane, nonostante abbia ormai già da qualche anno superato il secolo di vita. D’altronde il cinema è sin dalla sua nascita un corpo ibrido, aggregato, contaminato dunque. I progressi tecnologici cui giunsero l’ottica, la fotografia e la meccanica verso la fine del XIX secolo permisero di mettere a punto le prime macchine che catturavano le immagini in movimento. È vero, le prime immagini cinematografiche erano assai realistiche, quasi documentaristiche (si pensi all’uscita degli operai dalle officine Lumière) ma dopo pochissimo tempo il cinema sembrò ricucire i suoi legami stretti con la lanterna magica, sua madre legittima. Provate a recuperare i film di inizio secolo, come quelli di – solo per citare il più famoso dei registi dell’epoca – George Méliès, che prima di iniziare a fare cinema aveva studiato dal celebre illusionista inglese Maskelyne, e vi ritroverete immediatamente davanti a spettacoli di vera e propria magia. Sfruttando il montaggio, le sovrimpressioni di immagini, le dissolvenze, era possibile far sparire personaggi, mozzare loro la testa oppure vederli camminare decapitati. Tutto ciò generava un grande stupore negli spettatori. Era il cinema dell’illusionismo. Poi si passò al cinema di narrazione, in cui il plot prese il sopravvento sulle immagini e sul loro potere incantatore. Il cinema incontra la letteratura. Altra ibridazione. Ma in quel periodo, grazie all’approssimarsi al cinema di artisti e pittori, arrivò come un fiume in piena una grossa carica vitale ed


avanguardistica. La sequenza topica, paradigmatica, del taglio dell’occhio de Un Chien Andalu di Luis Bunuel e Salvador Dalì è sufficiente di per sé a riflettere l’importanza di tale nuova ibridazione del cinema. Che il cinema fosse in qualche modo figlio non solo della fotografia ma che avesse progenitori anche nella pittura è un dato di fatto facilmente comprensibile se si considera la vicenda della “famiglia” dei Renoir: Auguste, pittore, tra i più autorevoli esponenti dell’Impressionismo, e suo figlio Jean, uno dei mastri del cinema, autore di film considerati dei capolavori come La grande illusione, in cui Jean Gabin e Eric von Stroheim ci donano una tra le più belle lezioni di recitazione della storia del cinema. Cercare di illustrare tutti i punti di contatto tra il cinema e le altri arti, ovvero tutti i momenti di contaminazione è opera assai faticosa che ha impegnato centinaia di studiosi per decine di anni. È però utile sottolineare che il cinema è un’arte fluida, che certamente ha conosciuto momenti di cristallizzazioni, irrigidimenti, sclerosi e, a dire dei critici odierni, anche di vere e proprie necrosi, ma che in qualche modo è sempre riuscita a reinventarsi, a sgusciare via dal pantano, a cambiare la muta come solo i serpenti sono in grado di fare. Tra il 1957 ed il 1984, Stan Brakhage ha prodotto decine di film seminali per intere generazioni di filmmaker e videoartisti, i quali hanno trovato grande ispirazione nelle immagini di queste pellicole graffiate e colorate a mano, gesti quasi a-cinematografici o pre-cinematografici attraverso i quali Brakhage cercava di fissare il movimento degli occhi e ogni altra esperienza correlata all’attività ottica. Avanguardia, si dirà, ancora una volta avanguardia. Ma quello che colpisce maggiormente, rileggendo la storia del cinema, è la sua incredibile voglia di imbastardirsi, soprattutto attraverso le intrusioni nel cinema di ciò che cinema non è, che si tratti di altre arti o scienze varie non importa. Il cinema mostra questo suo carattere un po’ strano, quasi da

puttana pronta ad unirsi carnalmente con chiunque. E probabilmente la più importante fonte di salvezza del cinema risiede proprio in questo suo modo di essere. La purezza, d’altronde, non è di questo mondo. Allora tanto vale fare di necessità virtù. Dalla metà degli anni Ottanta, molti film hanno subito il fascino del videoclip, un genere che è stato incoronato grazie ai canali televisivi musicali (sì, Mtv!). Hong-Kong Express, capolavoro del cineasta Wong Kar-wai, è un esempio di come la commistione tra linguaggi visivi possa portare nuova linfa alle strutture filmiche e al modo di narrare per immagini. Ci sono stati, inoltre, videomaker che si sono affermati prima nel campo dei videoclip musicali per poi approdare al cinema. Gli esempi, noti anche al grande pubblico, certo non mancano: Spike Jonze e Michel Gondry, innanzitutto. Nuovamente, è stata una pura e semplice contaminazione di generi ad aver permesso al cinema di ritrovare uno slancio che ai più sembrava impossibile. Quando l’arte cinematografica si trova a dialogare con altre espressioni artistiche, con altri linguaggi o formati, il risultato non è mai scontato. Ad entrare in ballo sono, spesso, le strutture basilari delle teorie filmiche e della sintassi che investono il rapporto tra il film ed il pubblico, il modo con cui esso percepisce l’esperienza cinematografica. Per questo abbiamo scelto un artista che più di altri ha sondato i limiti del cinema, spesso oltrepassandoli in maniera irreparabile: Peter Grenaway. Sappiate farvi contaminare, dunque. Perché così come accade da sempre nel cinema, non vi resta altra chance.


Peter Greeanway

La Morte Del Cinema E Il Trionfo Della Nuova Narrazione “Non so quali siano i progetti futuri di Tarantino, Oliver Stone o Moretti ma sono sicuro che continueranno ad illustrare testi e a proporre prodotti assolutamente tediosi” Peter Greenaway

di Michele Casella

Visioni

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Fra i pochissimi autori intestatari di una poetica autenticamente innovatrice, costantemente alla ricerca di nuove forme espressive, con i suoi lavori Peter Greenaway ha tenacemente cercato di staccarsi della dittatura della sceneggiatura, dall’imposizione del testo sull’immagine. Consapevole dei limiti in cui il cinema è stato costretto nell’ultimo secolo – con registi che sfruttano in maniera pedissequa uno stilema abusato perfino dai fratelli Lumière – Greenaway ha utilizzato lo schermo di proiezione come base di un montaggio multiforme, in cui accostare linguaggi differenti e liberare l’occhio dalle gabbie della narrazione stantia. Partito dalla pittura e poi arrivato al cinema come espediente per mostrare le proprie abilità coi dipinti, il maestro inglese è l’emblema della contaminazione artistica, sia quando scardina il testo shakespeariano de La Tempesta trasponendo in immagine la corporeità della parola, sia quando si cimenta con l’inferno dantesco in una visione multimediale ante litteram; sia quando spazia nelle costruzioni cerebrali de Il Ventre Dell’Architetto, sia quando gioca con lettere e numeri ne Lo Zoo Di Venere ed in Giochi Nell’Acqua. Si arriva poi ai suoi veri capolavori, I Racconti del Cuscino ed il progetto Tulse Luper. Con il primo, Greenaway utilizza lo schermo come strumento essenziale di racconto, incrociando visioni e suggestioni, ampliando le possibilità dell’occhio, spingendosi nella metanarrazione e soprattutto utilizzando il cinema per realizzare un appassionato, sensuale, corporeo, mortale elogio della scrittura. Con la saga di Tulse Luper si va ancora oltre, poichè è proprio il concept del progetto a vedere più media affiancati gli uni agli altri; dvd, cd-rom, siti internet, lungometraggi, serie tv e libri servono ora per rivelare la storia di un uomo attraverso le sue valigie. Al centro di tutto, l’uranio, emblema delle inquietudini della storia moderna ma anche simbolo numerico sulla tavola degli elementi. Un’opera ambiziosa e visivamente impressionante, in cui una fotografia d’eccezione si intreccia al vero gusto per l’affabulazione, ma anche un punto di ripartenza per il recente lavoro di installazioni che Greenaway sta portando il giro per il mondo.


SUBMARINE

POETRY

Oliver Tate è un ragazzo di 15 anni che affronta l’inverno di Swansea, in Galles, avvolto dal suo duffle coat scuro. Un po’ strambo agli occhi del mondo che lo circonda, Oliver filtra la realtà a modo suo e trascorre la sua età di passaggio come un sottomarino. Ma ha due obiettivi: il primo, cercare di ricomporre la crisi che ha investito la vita matrimoniale dei suoi genitori; il secondo, perdere la verginità prima di compiere 16 anni con la sua compagna di scuola, Jordana Bevan. Tratto dall’omonimo romanzo del 2008 di Joe Duntorne, questa commedia dalle venature drammatiche si sta rivelando come uno dei migliori film inglesi degli ultimi anni. Opera prima di Richard Ayoade (1977), autore ed attore britannico già noto per le sue esperienze televisive (The It Crowd) e teatrali (Garth Marenghi’s Netherhead), avvicinatosi alla regia attraverso l’esperienza feconda dei videoclip - suoi sono proprio diversi video degli Arctic Monkeys e dei Last Shadow Puppets di Alex Turner che firma 6 brani della colonna sonora. Con la produzione esecutiva di Ben Stiller, Submarine segna un’ulteriore brillante tappa della “neonata” Warp Film, divisione cinema della mitica etichetta musicale: la pellicola di Ayoade, infatti, ha incassato elogi in quattro importantissimi festival per le produzioni indie, ovvero Sundance, Toronto, Londra e Berlino. Mica male. Che sia nato davvero il Wes Anderson inglese, come qualcuno sostiene? Non ci resta che attendere.

Dopo le ottime prove degli anni passati con una interessate serie di lungometraggi (Green Fish 1996; Peppermint Candy 2000; Oasis 2002; Secret Sunshine 2007), Lee Chang-dong (scrittore, sceneggiatore, ex ministro della cultura nonchè regista pluripremiato) arriva in Italia con la sua nuova pellicola. POETRY, best script a Cannes, è la storia di Mi-Ja, attiva 66enne: fa la badante, convive col nipote di 16 e con le sue colpe. La scoperta della malattia e della poesia le dona la disposizione inconscia per estraniarsi dalla sofferenza e maturare scoprendo la bellezza insita nelle cose, mentre la memoria muta la facoltà di nominarle. L’ottima prova degli attori scruta le pulsioni umane senza pietà, evitando trappole di patetismo, mentre lo spettatore può arricchirsi di nuove sfumature dialogando con le emozioni del suo vissuto personale; ma se coglie le immagini con mente preconcetta, non godrà i dettagli, passivo come il recipiente di pop-corn di cui non avrà avuto coscienza di cibarsi in due ore, perché lo stile ellittico richiede immedesimazione, le inquadrature sono significanti, l’analisi sociale supera i rapporti uomo-donna-malattia-felicità. Il naturalismo gestuale fonde sintesi neorealista e processo creativo: mostra l’embrione poetico, non dimostra.

di Richard Ayoade UK/USA

Vincenzo Pietrogiovanni

di L. Chang-Dong Sud Corea

Domizio DiNicolantonio

Falso Movimento


The Dark Side Of Fairytales: Cappuccetto Rosso (Sangue) di Annarita Cellamare

Visioni

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Spesso sono stati riportati su pellicola cinematografica, fedelmente o quasi, racconti e fiabe della nostra infanzia. Per alcuni di questi si è creato il caso socio-culturale, in certi casi fanatismo – si veda il fenomeno Alice in Wonderland, uscito al cinema diretto da Tim Burton per Disney, piuttosto atteso ed alquanto anticipato da una serie di produzioni di moda, shooting fotografici a tema, tran-tran sui vari social network – per altri no. Probabilmente perché poco accattivanti nel tema e nei personaggi, o forse pubblicizzati non a dovere. Questo è il caso di Red Riding Hood, nella traduzione italiana Cappuccetto Rosso Sangue, film diretto da Catherine Hardwick , la stessa regista del primo capitolo della saga di Twilight. Del film si sta parlando poco, c’è poca attenzione nei confronti della sua uscita. Cosa riconducibile probabilmente all’idea generale che si ha della storia, ovvero una favoletta esclusivamente per bimbi, una storia da raccontar loro prima di andare a dormire. Ebbene, il film (forse) farà cambiare idea. “Liberamente” ispirato alla fiaba di Charles Perrault, che tutti abbiamo ascoltato infinite volte durante la nostra infanzia, questa rivisitazione alquanto gotica ha ben poco della storia originale. Cappuccetto rosso è Valerie, una ragazza contesa fra due uomini: Peter, giovane outsider del villaggio, di cui lei è innamorata, ed Henry, benestante e facoltoso promesso sposo di Valerie. Nonostante il matrimonio fosse già organizzato, i due amanti decidono di fuggire, non volendo rinunciare al


Nuova canzone dei Fever Ray per Cappuccetto Rosso Sangue

I Fever Ray hanno scritto e prodotto una canzone, non ancora titolata, appositamente per la colonna sonora del film e già inserita nel trailer ufficiale. Il duo svedese veste perfettamente la parte, ed il pezzo, in linea con l’impronta ed il sound unico che ha caratterizzato il loro primo album, rievoca naturalmente i paesaggi gotici e oscuri del film. Karin ha comunque smentito ufficialmente sul sito feverray.com le voci che la vedevano protagonista di un cameo nel film.

loro amore, ma la morte della sorella di Valerie, per mano di un lupo mannaro che si aggira nella foresta intorno al loro villaggio, mette in serie difficoltà il loro piano. Per molti anni, infatti, gli abitanti del villaggio hanno tenuto “sotto controllo” la bestia, offrendogli ogni mese in sacrificio un animale. Ma la grande luna rossa ha cambiato tutto: la posta in gioco si alza e il lupo pretende in sacrificio una vita umana. È a questo punto che gli abitanti del villaggio, in preda al panico e alla disperazione, ingaggiano Padre Solomon, un celebre prete cacciatore di lupi mannari, in modo tale da aiutarli a liberarsi della bestia. Il padre porta ulteriore scompiglio, in quanto rivela agli abitanti che il lupo, durante il giorno, assume sembianze umane e che quindi potrebbe essere chiunque nel villaggio. E Valerie sospetta che il lupo mannaro possa essere una persona a lei vicina, cara. Il risultato è quello di una storia generalmente horror, a tratti romantica, che conserva pochi elementi dell’originale fiaba: il quasi onnipresente cappuccetto rosso indossato dalla protagonista, la presenza di un lupo e di un cacciatore nonché la figura di una nonna (interpretata da Julie Christie) tutt’altro che malata. Il tutto incorniciato in un’ambientazione decisamente dark, elemento ormai abusato nel cinema d’intrattenimento degli ultimi anni fino ad essere diventato un tratto glamour per il mondo cinematografico. Una mistificazione fantasy che dal mondo cyberpunk ha oggi raggiunto l’immaginario collettivo fino ad assumere una nuova veste di ostentazione in celluloide. Visioni da incubo patinato, che in alcuni casi si propongono come strumento

privilegiato di merchandising globale (si veda l’exploit commerciale di Twilight, cash machine per vampiri dell’establishment assetati delle liquidità degli adolescenti) mentre in altri raggiungono eccellenti vette di video-making. Un esempio su tutti, il video degli Health girato da Eric Wareheim per il brano We Are Water, un angosciante rivisitazione di Cappuccetto Rosso in cui lo splatter della clip si incrocia ad una fotografia fulminante e ad un impatto visivo decisamente superbo. Red Riding Hood possiede molti punti di contatto con la saga di vampiri – dal triangolo amoroso ai lupi mannari, per arrivare alla forte impronta della regista – ma ambisce a porsi come stravolgimento post-moderno di un’idea classica, quella legata al racconto per ragazzi ed alle sue affascinanti paure ambientate nel mondo della notte.


Arte

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Joshua Hoffine Incubi in celluloide e riflessi di realtà

diAlessandra Fossanova Istanti di paura, ecco cosa sono gli scatti del fotografo americano Joshua Hoffine. I piccoli set fotografici ricreano scenari spettrali da casa degli orrori e dimensioni oniriche in cui la variazione cromatica e la plasticità delle pose dei soggetti giocano un ruolo fondamentale nell’impatto con il pubblico. Ciò che c’è nel backstage è un gruppo di amici che si presta volentieri ai capricci di questo eccentrico artista, che non utilizza effetti speciali per i suoi lavori se non macchine per il fumo e trucchi, e che coinvolge nei suoi scatti perfino componenti della propria famiglia.

Con una lunga serie di mostri che sbucano sotto il letto o dentro un armadio – mummie, cadaveri, clown e licantropi – ­ Hoffine trae linfa vitale dall’inconscio infantile traducendo letteralmente nella fotografia paure dimenticate. Egli pone l’osservatore nella condizione psicologica necessaria per immergersi completamente nell’istante immortalato, pronto a domandarsi quale sarebbe la propria reazione se ciò che sta guardando non fosse una mera illusione bensì una condizione reale. L’osservatore verrà quindi catapultato nei suoi incubi di bambino, stabilendo un contatto empatico con il proprio inconscio grazie anche agli innumerevole elementi di connessione con il passato presenti sulla scena. La scelta dei soggetti si inserisce, quindi, in un più ampio progetto: quello di attrarre non solo presentando personaggi tipici dell’immaginario collettivo, ma soprattutto stabilendo una fitta rete di incroci subliminali sia tra le varie opere, che tra queste e lo stesso pubblico. Lo scopo di Hoffine è di dare vita, forma e senso a quell’inquietudine che ritiene insita negli animi, puro riflesso di paura. Forte è l’illusione, secondo l’artista, di riuscire a tenere questi mostri chiusi in uno schermo, tra le pagine di un libro o nei sogni, facendo finta di niente quando s’incontrano per strada, quando si sfoglia un giornale, quando ci si guarda allo specchio. Tuttavia la sua arte non va considerata come una condizione esistenziale necessaria, bensì come un’ammissione di umanità, uno specchio che riflette la nostra appartenenza ad un mondo instabile e precario, costruito da esistenze incerte. Hoffine sottolinea con i suoi scatti che “i mostri sono tutt’intorno a noi” e che le certezze in questo mondo, dove purezza ed innocenza sono vittime di continui attacchi, sono più che deludenti.


Retratos Pintados

La storia della fotografia brasiliana incontra la pittura in una serie di inediti scatti della collezione di Titus Riedl. di Valeria Giampietro

Arte

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Retratos Pintados è il titolo di un libro assolutamente imperdibile per gli appassionati del genere. Edito da Titus Riedl e Martin Parr - che ne ha curato l’introduzione - e pubblicato da Nazraeli Press nel 2010, il libro è disponibile presso la Yossi Milo Gallery di New York. www.yossimilo.com


Nelle zone rurali del nord-est del Brasile, dalla fine dell’800 all’ultima decade del ‘900, era fortemente diffusa nelle case la tradizione di esporre fotografie che illustravano ritratti dipinti a mano. Ritratti di famiglia, riflessi di una percezione mesta, spesso tragica, del decadimento fisico. Tra il rigore e la tradizione, il ricordo e la feroce necessità di sublimarlo, regnava il bianco e nero e la fedele trascrizione fisionomica dei soggetti ritratti. Secondo i canoni della ritrattistica di tipo ottocentesco, l’arte fotografica, intesa nella sua autonomia di linguaggio, doveva restare esclusivamente fotografica. “È solo a questa condizione assoluta”, scriveva lo storico dell’arte Armando Albert, “che essa può essere ammessa come arte. Essa non deve cercare di imitare nè il pastello, nè lo sfumino, nè la matita, nè l’acquerello. È necessario che resti una fotografia e cioè una cosa che non si può ottenere che con mezzi visibilmente fotografici”. Poi tutto cambiò. La ricerca artistica del Novecento ci insegnò a sconvolgere i consacrati miti della fotografia-documento, a superare i limiti della veridicità nel campo della rappresentazione, a proporre una lettura del reale in chiave luministica, più intima e drammatica dei personaggi ritratti. Il crollo della fiducia nell’imitazione del vero naturale concesse alla fotografia il privilegio di godere di dignità estetica, e

non solo. La possibilità di non essere più considerata un prodotto meccanico, una copia servile della realtà ma un veicolo irrazionale e sanguigno capace di descrivere la dinamica di una sensazione. I Retratos Pintados («ritratti dipinti») sono la prova tangibile di questo (dis)ordine creativo. Titus Riedl, ricercatore accademico, si interessa alla fotografia vernacolare brasiliana e inizia a documentare la memoria culturale del paese dove ha vissuto per quindici anni. È il 1998 e nel corso di una sua ricerca sul memento mori (ritratto dei morti) nel nord-est brasiliano viene a conoscenza dei ritratti dipinti. Fotografie, originariamente in bianco e nero, affidate dalle famiglie delle zone rurali a commercianti di strada, i bonequeiros, privi di alcun tipo di conoscenza sul processo di lavorazione pittorica a cui le foto sarebbero state sottoposte. Diretti verso le grandi città, gli intermediari viaggiavano per settimane fino alla consegna del materiale fotografico ai puxadores (addetti all’ingrandimento delle foto) e ai pittori. Questi ultimi lavoravano alle fotografie in uffici-laboratori nascosti nel retro degli edifici. Non avevano indirizzo e rappresentavano un’intera economia informale. Sfruttando i lavaggi con colori ad olio ed altre tipiche tecniche regionali, gli artigiani locali praticavano atti di manipolazione



sulle foto incredibilmente unici ed esemplari. Come spettatori di un film muto, gli artigiani si aprivano al visibile, all’immaginazione. Regalavano ai soggetti ritratti prestigio sociale, cravatte e beni di lusso, ai bambini abiti d’avorio e agli anziani lisciavano le rughe. Al semplice contatto visivo il colore assume forza poetica e intimità. Stabilisce la recondita connessione tra l’incessante lavorio della morte, intenta a consumare anche il più romantico idillio familiare, la disperazione di una perdita e la sua negazione. Questa connessione si lega all’ «incorporeità» dell’immagine, alla sua iconizzazione o santificazione. Prendiamo Mark Rothko. Egli nutriva un’idea romanticamente disperata del colore. Le sue varianti cromatiche vivevano di contrasti, di tensioni drammatiche. Poi la depressione gli impedì di lavorare e morì suicida, tagliandosi i polsi nella cucina del suo studio di New York. Rothko ripeteva che esisteva una distanza ideale per osservare i suoi dipinti: 45 centimetri. La distanza ideale, sì. Per sentirsi totalmente inglobati e assorbiti dai colori. È probabile che i Retratos Pintados, in qualche modo, attraverso l’utilizzo spirituale del colore, mirassero a questo. Ad allontanarsi dalla realtà, creando una distanza «ideale», manipolandone l’immagine discernibile, e ad ampliare la visione delle cose, migliorandola. Al ritrarre il malessere di una società che espelle la sofferenza e che rifiuta l’idea di morte.

Retratos Pintados Unique hand-colored Gelatin Silver Prints Courtesy Yossi Milo Gallery, New York


I Vorticisti Artisti ribelli a Londra e New York di Mario Fava

Arte

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Nello stagnante immobilismo della cultura contemporanea – quotidianamente smossa da effimere suggestioni di lanci promozionali, da recensioni lusinghiere realizzate alla velocità di un copy/paste e da memorabili pubblicazioni pronte al più repentino degli oblii – il recupero di movimenti storici provenienti dall’avanguardia del primo ‘900 ci riempie la testa di un turbine di idee dotate ancora di reale forza espressiva. La mostra di Venezia sui vorticisti, ospitata dalla Collezione Museo Peggy Guggenheim e curata da Mark Antliff, ostenta ancora quell’urgenza espressiva figlia di due elementi catalizzanti: le tensioni estetiche di inizio secolo e le accese conflittualità della prima guerra mondiale, entrambe foriere di una mutazione genetica che colpisce con vivacità ed impatto deflagrante le istanze innovatrici di una nuova schiera di artisti. Così, mentre la Francia sviluppa un rivoluzionario senso visuale che trova nel cubismo uno sguardo ultra-prospettico, l’Italia apre le porte alla cinetica ed alla sfrontatezza del futurismo, infierendo con vigore sulle matrici culturali ormai obsolete e predisponendosi con entusiasmo verso un avvenire ricco di prospettive. In un panorama tanto instabile e stimolante, l’Inghilterra prima e gli Stati Uniti poi si approcciano all’arte mutuando le forme dell’era meccanica e declinandole in maniera personale ed inedita, dando forma a visioni avveniristiche o semplicemente astraendo le immagini del contemporaneo. Questo entusiasmante cambio di direzione ha dato vita alle oltre 100 opere


Edward Wadsworth Rotterdam, 1914 Xilografia Collezione George Eastman House, Rochester, NY Courtesy of George Eastman House, International Museum of Photography and Film

Alcune sale espositive della mostra I Vorticisti: artisti ribelli a Londra e New York, 1914-1918. Collezione Peggy Guggenheim, 29 gennaio – 15 maggio, 2011 Foto Andrea Sarti/CAST1466

esposte nel capoluogo veneto, fra le quali è possibile ammirare le tele di Lawrence Atkinson, David Bomberg, Wyndham Lewis e Dorothy Shakespear. Si tratta di quadri che risentono direttamente dell’esperienza artistica europea, sui quali entrano in collisione architetture visionarie e linee intersecanti, colori piatti e prospettive illusorie. Accanto ad essi assumono particolare rilievo le xilografie di Edward Wadsworth, che anticipano con grande efficacia gli stilemi grafici delle decadi successive e creando intarsi geometrici in cui caos e regolarità coesistono in uno schema di grande stabilità formale. Sono poi le sculture di Jacob Epstein (in particolare Martello Penumatico) a colpire il visitatore per la modernità delle forme, archetipo cyborg cooptato perfino dall’immaginario pop di un recente passato e direttamente ispirato dalle straordinarie opere sul movimento e sulle sollecitazioni muscolari di Boccioni. Fondamentali si rivelano anche le fotografie di Alvin Langdon Coburn, sia nei ritratti che nelle stravaganti sperimentazioni;

è grazie ai suoi scatti che possiamo ammirare le fotoincisioni di due protagonisti indiscussi di questo periodo: Ezra Pound e Wyndham Lewis. Il primo può essere considerato il teorico del movimento nonché l’ideatore del nome “vorticismo”, termine coniato alla fine del 1913 per descrivere l’energia che queste opere erano destinate a suscitare nella scena londinese. Il secondo autodefinitosi leader di questa compagine artistica, ma soprattutto fondatore della memorabile rivista Blast, le cui pagine possono essere considerate il vero manifesto del vorticismo grazie ad un’eccezionale opera di contaminazione creativa. La parte finale della mostra si chiude con le foto realizzate da Coburn, un compendio di ingenuità tecnica dotata di un intrigante fascino caleidoscopico, quasi il corrispettivo visivo di quel che Russolo cercava di realizzare nella musica futurista.


Tamara De Lempicka

La regina del moderno Emancipazione femminile, eleganza e trasgressività nelle opere dell’artista simbolo dei folli anni Venti

Le sale del Complesso Monumentale del Vittoriano a Roma accolgono fino al 10 luglio 2011 una delle più corpose retrospettive mai realizzate su Tamara De Lempicka (1898-1980), artista polacca emblema della modernità e riconosciuta icona dell’Art Déco, autrice di quella geniale rappresentazione della società mondana che ha caratterizzato gli anni tra le due guerre. La curatrice, Gioia Mori, ha raccolto novanta dipinti e trenta disegni insieme a cinquanta fotografie d´epoca che presentano la De Lempicka come una diva del cinema anni Trenta, cui si aggiungono dipinti di pittori polacchi che l’artista ebbe occasione di frequentare tra Parigi, Polonia e Stati Uniti. Diverse le opere mai esposte in Italia, tra le quali l’eccezionale prestito di cinque dipinti della collezione di Jack Nicholson e un dipinto, Portrait de Madame P. del 1923, finora considerato perduto e noto solo attraverso una vecchia fotografia in bianco e nero.

di Giovanna Lenoci

Moderna, stravagante, eroica, anticonformista, complessa, provocatoria, cocainomane, dichiaratamente bisessuale e con tre matrimoni all’attivo. Tutto ciò che è stato detto su di lei ha incrementato il mito di una delle regine del Novecento. La fascinosa De Lempicka ha creato immagini simbolo dei “ruggenti” anni Venti e Trenta di cui lei stessa è diventata la più brillante interprete. Tamara De Lempicka è pseudonimo di Tamara Gorska, giovanissima sposa del russo Tadeusz Lempicki da cui l’originale pseudonimo (la sostituzione della vocale finale è il primo manifesto del suo essere icona della

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01. Il telefono II (1930) Olio su tavola, 34,9 x 26,9 cm ©1980 TAH ©Tamara Art Heritage

libertà femminile). Visse per più di ottant’anni tra la Russia, Parigi e l’Italia per poi approdare negli Stati Uniti e concludere la propria esistenza in Messico; proprio in questo Paese, per sua volontà, le ceneri vennero disperse sul vulcano nei pressi di Città del Messico, che l’artista scorgeva dalla finestra della propria casa. Gli anni Venti e Trenta rappresentano il momento di massima creatività, quello in cui le opere create divengono immediatamente il documento più fedele dello spirito del tempo. Riconducibile al monumentale geometrismo Déco in pittura, il suo stile resta piuttosto originale in quanto unisce linguaggi figurativi di varie correnti come il futurismo, il cubismo russo e francese, il realismo e il classicismo italiano. Le sue opere ritraggono i simboli della modernità e del “nuovo” che avanza come il telefono, i grattacieli, le auto di lusso ma soprattutto le donne, personaggi dell’alta società, amici, amazzoni (sinonimo a quel tempo di lesbiche), amanti, prostitute e fascinose modelle. I tratti sono marcati, i volumi ingigantiti, l’espressione dello sguardo delle donne raffigurate è sognante; i corpi nudi, solidi e monumentali quasi fossero sculture, risultano sensuali e pieni di erotismo e pare vogliano fuoriuscire dalle grandi tele spesso a dimensione umana. L’artista polacca seppe capire l’importanza dei mezzi di comunicazione, ed infatti disegnava anche per la pubblicità, realizzando copertine per importanti

02. La bella Rafaëla (1927) Olio su tela, 63 x 90 © Sir Tim Rice ©Tamara Art Heritage

riviste; amava vestirsi in modo elegante, guidava una fiammante automobile sportiva (celebre il suo Autoritratto in Bugatti Verde del 1925) e frequentava i locali più in voga di Parigi. La moda e il design erano dunque parte integrante della sua arte e della sua vita. Era solita dire: “Io la moda non la seguo, la faccio”. I colori accesi e sempre ben definiti, restituiscono immagini patinate molto vicine ai toni delle fotografie di moda. Labbra vermiglie e capelli come trucioli, abiti eleganti, gioielli sfavillanti e sicurezza da vendere, sono le caratteristiche essenziali delle donne dipinte da Tamara De Lempicka, testimone consapevole di una stagione speciale. Tamara De Lempicka è stata un’anticipatrice sia nell’arte sia nella vita, amante della bella vita, trasgressiva, libera, artista di grandissime potenzialità, personaggio fuori dagli schemi usuali e femminista ante litteram. Quello che resta a noi, attraverso i suoi quadri è un’immagine di raffinatezza e seduzione, la figura di una donna dallo sguardo sicuro e di sfida che ha attraversato il XX secolo con la potenza degna di un’amazzone. Un’artista chiaramente ambigua, senza dubbio libera, di sicuro un mito. Tamara de Lempicka - La regina del moderno In mostra fino al 10 luglio 2011 Roma, Complesso del Vittoriano, Ala Brasini Dal Lunedì al Giovedì: 9.30-19.30 Venerdì e Sabato: 9.30-23.30 Domenica: 9.30-20.30


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In Shylock, scritto e diretto da Roberto Andò e Moni Ovadia, gli attori recitano la messa in scena della commedia shakespeariana: Ovadia veste i panni del regista e Ruggero Cara quelli del produttore. Proprio così: recitano la messa in scena. Shylock è, infatti, un’opera metanarrativa, il racconto del racconto che evidenzia i meccanismi stessi della narrazione, adattandosi a forme e stilemi oggi abusati. Il teatro che mette in scena il teatro, il cinema che recita il cinema, il fumetto che narra il fumetto… Tutte le opere metanarrative rispondono a una regola che il giallista catalano Andreu Martin ha ben riassunto spiegando che, nei suoi gialli di impianto sociale, ama spostare all’indietro la macchina da presa della narrazione per riuscire a catturare ambienti sempre più vasti; a volte, però, non riuscendo a muoversi alla stessa velocità della carrellata, lo scrittore rimane imprigionato nel racconto che sta tessendo.

Spirito a pezzi di Paolo Interdonato sparidinchiostro.wordpress.com Chi abbia visto in teatro Shylock, il Mercante di Venezia in Prova, ha portato a casa un ricordo da conservare gelosamente: il corpo, erotico e conturbante, di Lee Colbert. La cantante e attrice vestiva sul palco i pochi panni dell’infermiera incaricata di accudire il vecchio Shylock, interpretato da Shel Shapiro. Di quello spettacolo, purtroppo, si ricorda poco altro e non perché, come insegna Jorge Luis Borges, l’oblio sia la forma di vendetta migliore, ma, molto più banalmente, perché quella rappresentazione annoia tantissimo.

Ne abbiamo viste e lette ormai tantissime di storie che ragionano su loro stesse. Qualche volta (raramente), sono gioielli narrativi, come I protagonisti di Robert Altman, film del 1992, o Animal Man dello scozzese Grant Morrison, serie a fumetti uscita negli Stati Uniti tra il 1989 e il 1990. Più spesso sono lavori noiosi. Proprio come neI caso dello Shylock di Ovadia, il cui senso profondo è la ricerca dell’intrecciarsi delle radici dell’antisemitismo attorno al personaggio del mercante e alle interpretazioni che gli attori nei secoli hanno dato al suo tragico monologo (“se ci pungete non sanguiniamo, e se ci fate il solletico non ridiamo?”). Un punto interessante che, volendo, Ovadia avrebbe potuto affrontare in un articolo, bello e importante, di 3 o 4 pagine. Oggi, il postmodernismo, di cui il metaracconto è filiazione diretta, dovrebbe essere già stato superato e nessuno dovrebbe più sentire il bisogno di racconti che indagano sui propri ingranaggi, scoprendone meccanica e funzionalità. L’unico ambito del pensiero umano che – ne sono certo – esige, per propria natura, di essere metanarrativo è la politica. Per essere buona deve necessariamente essere società che indaga i meccanismi della società: cosa pubblica che mette in luce le proprie strutture interne, cercando di curarsi, autorigenerarsi e migliorarsi. Diventa cattiva, la politica, quando ha pulsioni narrative, quando si ostina a parlare di amore e di morte, quando mette in scena l’erotismo o la destrezza atletica delle carni, quando agisce sesso e violenza e non per dare loro regole di convivialità e accettabilità sociale. In quel momento la partecipazione che i discorsi e le scelte intorno alla società dovrebbero scatenarci si assopisce: diventiamo spettatori, ai bordi di lettoni, ville o caserme, inerti e intenti a scrutare morbosamente corpi bellissimi. Carni fredde e immote che nulla hanno di erotico e conturbante.


Moda: Next Generation Un viaggio all’interno della Gianfrate Rappresentanze, l’azienda che sta portando lo stile in una nuova era di servizi di Giuseppe Morea

Life

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C

ondizionato da un panorama internazionale in costante mutazione, il mondo della moda si trova oggi ad un fondamentale punto di svolta per coloro che gravitano al suo interno. Sono proprio gli impulsi verso il cambiamento a suggerire le sfide del prossimo futuro, con un ventaglio di possibilità e stimoli che spingono i professionisti più avventurosi a trovare nuove soluzioni e inediti ambiti di azione. Gianfrate Rappresentanze si colloca sicuramente all’interno di quel piccolo gruppo di aziende italiane che interpreta il lavoro creativo in maniera dinamica e rivoluzionaria, sviluppando percorsi che intrecciano ricerca e aggiornamento, strumenti di promozione e idee per l’interazione sul web. Il nuovo sito, appena pubblicato all’indirizzo gianfraterappresentanze.it, presenta infatti un approccio decisamente alternativo rispetto alle solite vetrine digitali che si ripetono su internet; alla completezza della sezione istituzionale


viene infatti affiancata un’area dedicata ai servizi pensati per le aziende del settore, un’efficace risposta alle esigenze che la competizione quotidiana presenta agli operatori più accreditati. Gli elementi alla base delle attività di Gianfrate Rappresentanze si basano su principi duraturi ed insostituibili, che affondano i loro principi nel valore della sartorialità e della cura artigianale per i prodotti. La modernità e la scioltezza di una struttura imprenditoriale giovane e sempre in movimento si incrociano all’esperienza delle maestranze ed all’attenta meticolosità dei procedimenti di lavoro, costituendo un unicum di tradizione e modernità. Una passione perfettamente interpretata dalle bellissime foto in bianco e nero che l’artista Gennaro Navarra ha realizzato appositamente per il sito, compiendo una fondamentale operazione di ricerca ed unendo l’eleganza del suo stile all’accuratezza per i dettagli, la bellezza dei paesaggi ai profondi significati di queste immagini. La ricerca di simboli che possano raccontare storie e svelare concetti è anche alla base del dente di leone, il nuovo

logo che sintetizza l’armonia formale di un nucleo unito ma anche il valore dei singoli elementi; un’idea di libertà espressiva, di leggerezza nel movimento e di ibridazione del pensiero, cristallizzato nella sua raffinatezza geometrica ma allo stesso tempo animato nella sua predisposizione al cambiamento. La scelta di Gianfrate Rappresentanze di puntare sul lavoro di squadra – raggiunto con la creazione di un team altamente professionale e preparato – si congiunge ora ad un ampliamento delle soluzioni per sviluppare il business, stimolando l’utilizzo dei nuovi media e incentivando le tante prospettive della creatività.


(In)Formazione del personale addetto alle vendite Elemento di estrema importanza e di notevole portata innovativa, la formazione del personale è uno dei servizi in cui Gianfrante Rappresentanze investe maggiormente il proprio know-how. È proprio dalla cura del cliente e delle sue aspettative che si deve ripartire per ripensare la funzione dell’abbigliamento nella vita quotidiana, ed in questo senso il lavoro del personale all’interno degli store si rivela essenziale. Non solo, infatti, è necessario riaffermare il ruolo di queste figure altamente professionali, ma è altrettanto fondamentale analizzare ed approfondire le specificità di questo lavoro. Gianfrate Rappresentanze offre dunque un supporto nell’aggiornamento professionale, nella spiegazione dei materiali e nell’interazione con la clientela, realizzando anche incontri in negozio pensati appositamente per la presentazione delle collezioni. Uno strumento fondamentale per rispondere alle esigenze di un mercato in profondo cambiamento, in cui il lavoro negli spazi commerciali deve caratterizzarsi non solo per competenza ma anche per impegno nella ricerca e capacità di analisi.

Interazione con le arti La moda si nutre costantemente di suggestioni sensoriali, per uno scambio in perfetta sinergia che finisce per coinvolgere tutti gli aspetti di questo affascinante universo: dalla fase creativa a quella promozionale, dalle scelte commerciali ai riverberi sociali. Grazie alla consulenza di esperti ed artisti, Gianfrate Rappresentanze attinge quotidianamente a questi immaginari, scegliendo le interazioni più innovative, le modalità più suggestive e creando uno scambio efficace con le scelte di stile. Visioni, ascolti e letture si intrecciano in un percorso multimediale che mescola arte e strategie di marketing, proponendo soluzioni innovative per rafforzare l’identità delle aziende di settore. Uno studio proiettato nel presente per immaginare store che si rivelino sempre inediti ed aggiornati, vero stimolo per la clientela di questi anni ’10.

Organizzazione di eventi La profonda conoscenza del settore moda e la continua interazione con le sollecitazioni culturali contemporanee ha permesso a Gianfrate Rappresentanze – grazie ad una stretta collaborazione con agenzie specializzate – di sviluppare una rete di rapporti artistici che possono mettere in comunicazione diretta questi due universi così vicini. L’organizzazione di eventi, l’allestimento di mostre multimediali e la realizzazione di festival diventano dunque elementi di grande importanza nella comunicazione delle aziende che gravitano nel tessile, strumenti di esposizione mediatica ma soprattutto di sollecitazione di un immaginario moderno e attento alle nuove tendenze. Discorso a parte va fatto per la partecipazione alle fiere, per le quali possono essere realizzati progetti ad hoc per allestimenti e personalizzazioni, ma anche per l’organizzazione di grandi eventi in cui far confluire abbigliamento, spettacolo e visibilità su tutti i media.

Comunicazione aziendale La costante presenza sui mezzi di informazione è ormai elemento irrinunciabile di qualunque strategia aziendale, tanto più per le imprese che operano nel campo dell’abbigliamento e che hanno la necessità di promuovere un vero e proprio immaginario contemporaneo. La realizzazione di campagne pubblicitarie è ormai una minima parte delle necessità comunicative dei nostri tempi e lo staff che affianca Gianfrate Rappresentanze ha la prerogativa di proporre un ventaglio di strumenti per agire con efficacia sui classici mezzi di comunicazione così come sui nuovi media. Social network, blog, collettori di informazioni web e community virtuali vengono costantemente aggiornate sulle attività aziendali, in modo da creare un network di enorme potenza divulgativa e di portata innovativa nel marketing. A ciò si deve aggiungere la possibilità di realizzare siti che utilizzino i nuovi linguaggi di programmazione, così come la produzione di video che uniscano gli elementi imprescindibili del fashion alle nuove forme di arte multimediale.

Ideazione e


rielaboazione degli spazi espositivi

gianfrate rappresentanze.it

Oggi i negozi di abbigliamento hanno la necessità primaria di rendersi luoghi dotati di un concept unico ed innovativo, che suggestioni il cliente e gli comunichi un’identità ben riconoscibile. A tal fine gli esperti che affiancano Gianfrate Rappresentanze si occupano non solo di ideare e allestire nuovi spazi di contatto con la clientela, ma anche di elaborare una strategia di comunicazione grazie alla quale creare corner dedicati a prodotti culturali ed artistici, realizzare selezioni musicali personalizzate, ideare e produrre divise per il personale, organizzare eventi di grande richiamo mediatico.

Un sito di abbigliamento creato per formare ed informare

Blog Il sito di Gianfrate Rappresentanze presenta inoltre una sezione dedicata all’informazione e alla promozione della creatività, nella quale è possibile essere aggiornati su quel che accade nel mondo dell’arte e della moda, della cultura e dell’intrattenimento. Un ampio spazio viene inoltre riservato alle opere di artisti affermati ed alle nuove leve emergenti nel campo della musica, della fotografia, dell’arte contemporanea e del videomaking. Questa sezione viene curata in partnership con Pool Magazine, mettendo in connessione le più interessanti realtà internazionali con le strutture che operano con lungimiranza nel settore moda. Uno strumento essenziale per creare un‘identità aziendale forte ed inconfondibile.

Charity Attraverso un’apposita sezione del sito, Gianfrate Rappresentanze si propone di offrire assistenza logistica e finanziaria alle persone in difficoltà, proponendosi di andare incontro a coloro che hanno reale necessità di aiuto dovuto a situazioni di svantaggio o disagio. Le richieste possono essere inviate allo staff dell’azienda, in modo che siano valutate con assoluta attenzione e riservatezza.

Con il nuovo sito appena presentato online, Gianfrate Rappresentanze punta particolare attenzione all’aspetto visuale e alla selezione dei materiali fotografici, incrementando la facilità di navigazione e ampliando decisamente la varietà dei servizi. A ciò si unisce la possibilità di interagire con il sito sia per gli utenti del settore che per tutti coloro che hanno fatto dell’arte il proprio modo di comunicare con il mondo.


Social media: work in progress Life

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Prospettato da anni come l’evento che avrebbe rivoluzionato il modello di informazione globale, il completamento del percorso verso il web 2.0 ha ormai ribaltato i vecchi schemi piramidali della circolazione dei contenuti. L’accelerazione del flusso di informazioni e l’incredibile mole di dati ai quali è quotidianamente possibile arrivare hanno costretto le redazioni di tutto il mondo a ripensare drasticamente al loro ruolo di protagoniste mediatiche. Un processo di progressiva democratizzazione che sta imponendo nuovi standard nella diffusione delle notizie e che sta ovviamente influenzando le scelte di pianificazione a medio termine di un enorme numero di aziende. In un mondo lavorativo che non ha più il privilegio

“Il web editor, una nuova figura lavorativa”


Professione Web Editor - Il Master Con l’affacciarsi sul mercato internazionale di questa particolare figura professionale, nasce il nuovo Master Post-laurea Professione Web Editor, progettato da Studiodelta per formare professionisti della comunicazione in grado di progettare, ideare, comunicare ed informare utilizzando in modo esaustivo i nuovi media. Il progetto formativo (patrocinato dll’Ordine dei Giornalisti di Puglia e dal Dipartimento Di Psicologia dell’Università di Bari) trova rispondenza con le competenze di ben due profili professionali ISFOL

di poter scegliere le sue fonti di informazione, sono i protagonisti dell’universo digitale a dettare le regole della circolazione dei contenuti, strutturando reti di interazione che permettono di monitorare con estrema precisione target e territorio di riferimento. È in questo contesto che la figura del Web Editor trova rispondenza privilegiata in ambito professionale, divenendo fulcro di un variegato ventaglio di competenze: dalle conoscenze di carattere giornalistico alla comprensione delle dinamiche editoriali, dalla padronanza dei differenti registri di scrittura alla capacità di animare i social network, dalla scioltezza nella creazione di contenuti digitali all’utilizzo delle nuove tecnologie per la comunicazione. Tutte cognizioni oggi richiestissime da un numero di aziende in straordinario aumento, imprese sempre più consapevoli che i media canonici stanno repentinamente perdendo la vecchia posizione di predominanza per lasciar spazio ad un inarrestabile flusso di dati e notizie.

(Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori): il “Content Creator” ed il “Virtual Community Manager”. La figura del Web Editor corrisponde a quella di responsabile e ideatore dei contenuti editoriali digitali, per i quali definisce le strategie di impostazione e garantisce il loro continuo aggiornamento. Egli partecipa al progetto complessivo e alla definizione dei suoi obiettivi, alla stesura del piano editoriale e di organizzazione redazionale. Il Web Editor,

inoltre. coordina e svolge il ruolo di animatore nelle di comunità virtuali, impostando il funzionamento quotidiano delle attività, proponendo i temi da affrontare nei notiziari e nei dibattiti, creando eventi. Il master, della durata di 600 ore d’aula più 300 ore di stage in azienda, si svolgerà a Bari da settembre 2011 a settembre 2012. Per informazioni: www.professioneblogger.it

Accade dunque che l’utilizzo di blog per comunicare, influenzare e imparare, diventi parte integrante di una importante strategia marketing, mettendo al centro dell’azione l’utilizzo consapevole e professionale dei social media. Il Communication Manager dunque, grazie alla sue competenze trasversali, diventa una figura richiestissima nella gestione del rapporto con il pubblico, vero portavoce delle strutture imprenditoriali e principale interlocutore per clienti e stakeholder. Un opinion leader della nuova generazione, interprete delle tendenze culturali ed economiche che stanno modificando alla radice questi primi anni del nuovo millennio.


La linea scura di Charles Burns di Paolo Interdonato

Libri

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A

nche quando è in grado di produrre narrazioni profonde e complesse, il fumetto è semplice. Si compone di segni su carta, che mescolano parole e immagini. A volte è a colori, ma non necessariamente: spesso il bianco del foglio e il nero della china sono più che sufficienti a raccontare un mondo in cui il bene e il male si fronteggiano in una contrapposizione manichea che può essere assoluta. Charles Burns è un maestro del bianco e nero. Un autore incredibilmente dotato che ha esordito nel 1981, su “Raw”, la rivista voluta dall’autore di Maus, Art Spiegelman, che ha rivoluzionato l’idea statunitense di fumetto, gettando le basi per la costruzione del mercato del graphic novel e definendo un modo più adulto di leggere fumetti. Fin dall’esordio, Burns ha messo in pagina le ossessioni che avrebbero caratterizzato tutti i suoi lavori successivi: la mostruosità dell’adolescenza, i dolori della crescita, la trasformazione del corpo, l’impossibilità di capire il mondo. Lo ha fatto affastellando i frantumi di immaginario popolare di cui la sua generazione si è nutrita. In questo modo, gli economicissimi albi a fumetti seriali, la televisione tesa a saturare tutti i momenti conviviali domestici e il cinema di massa visto di preferenza nei drive-in sono gli ingredienti di una miscela narrativa decisa a raccontare i segreti negati della provincia statunitense. Segreti lontani che tutti i lettori occidentali sentono come propri. Dopo aver centellinato racconti su riviste importantissime, come “Raw”, “Heavy Metal” e l’italiana “Alter”, Burns raggiunge la piena maturità con Black Hole, lungo fumetto dalla gestazione travagliata (una dozzina di anni di lavoro per 350 pagine fitte di inchiostro). Questo straordinario graphic novel racconta di come la vita di una comunità possa essere sconvolta da un virus che si trasmette sessualmente e colpisce solo gli adolescenti. Questo male è visibile e mostruoso: trasforma le carni dei ragazzi che già si ritrovano a dover convivere con i brutti scherzi che gioca loro un corpo in sviluppo. Gli adolescenti di Black Hole oltre a sentirsi brutti e inadeguati, vittime delle incontrollabili trasformazioni della pubertà, diventano realmente mostruosi, sviluppando deformità che deturpano visi e corpi. Guardando la nettezza delle campiture nere e la quantità dell’inchiostro steso su ogni pagina è facile percepire quanto Burns sia l’esegeta di uno stile di disegno in cui i toni scuri dominano. Una “linea scura” la cui distanza stilistica e letteraria dalla pulizia formale di alcune scuole di fumetto europee

non potrebbe essere più netta. Il suo lavoro si contrappone nettamente alla “linea chiara” tipica di molto fumetto belga e, in particolare, del Tintin di Hergé. La “linea chiara” presenta un approccio alla narrazione che si manifesta in un’enorme pulizia del tratto, ma tocca tutti gli elementi della costruzione della storia. Le caratteristiche di cui fumetti sono un segno netto e privo di tratteggi e tessiture, l’uso di colori privi di sfumature e ombre, il lettering in stampatello minuscolo all’interno di balloon rettangolari e le sceneggiature particolarmente semplici, che fanno scorrere la narrazione senza intoppi ma anche senza faciloneria. Esemplare per capire cosa possa essere la “linea chiara” è I Gioielli della Castafiore di Hergé, un racconto di vorticosa complessità in cui il giovane Tintin e il capitano Haddock discutono, si inseguono, indagano, ricostruiscono un crimine forse mai accaduto e cadono dalle scale per 64 pagine serratissime, inseguendo con linearità disarmante la fabula e il susseguirsi logico e cronologico degli eventi. X’ed Out, il lavoro più recente di Charles Burns, è un omaggio a quel modo di raccontare. È un nuovo episodio di Tintin che dà un senso nuovo alla purezza formale di Hergé aggiornandola con le ossessioni di Burns. Accanto alla meravigliosa struttura narrativa del libro, il fumettista statunitense ci presente il saggio definitivo sull’opera del narratore belga. Attraverso le sue dense ombre di china Burns ha metabolizzato pienamente lo stile del racconto e del disegno di Hergé. Ora, alleggerendo il buio con colori piatti che possono essere tanto tenui quanto opprimenti, ci presenta un nuovo tassello della sua dolorosa storia dell’adolescenza, raccontandoci un Tintin, che si muove su due piani di realtà, devastato dagli psicofarmaci.

Le due copertine in edizione originale firmate da Hergè e Burns. X’ed Out uscirà nelle librerie italiane il 18 maggio.

Nelle pagine seguenti vi proponiamo un estratto in anteprima dell’opera visionaria e caleidoscopica del maestro.










Caratteri Mobili Collisione di mondi narrativi di Alessandra Recchia

Libri

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CaratteriMobili è una giovane casa editrice indipendente nata a Bari nel 2010. Il nome suggerisce elementi in divenire che generano inesplorato senso, ignote connessioni. Annuncia lavoro di menti, occhi, mani. Riecheggia l’interscambio culturale generatosi 6 secoli fa. Nel XXI secolo, il regno delle parole scritte è ancora un luogo complesso da conoscere ed esplorare. I nuovi media accelerano il cambiamento di rotta verso dispositivi e piattaforme di lettura in metamorfosi perenne. Chi sceglie di immergersi nel magma incandescente dell’editoria contemporanea deve essere mosso da una forza viscerale, da un’idea che riesca a superare l’attuale débâcle della conoscenza a favore di un lauto profitto privo di sostanza. “CaratteriMobili è innanzitutto un progetto di politica culturale” racconta l’editore Arcangelo Licinio, “certo, il libro è una merce, produrre libri significa confrontarsi con le logiche che dominano la gestione di un’attività imprenditoriale. Ma noi siamo convinti che un libro non sia solo questo. Azzardando un’immagine iperbolica: il modo d’essere di un libro è più simile a quello di una persona che a quello di una qualsiasi altra merce: di


un libro noti in primo luogo l’aspetto sensibile, la sua bellezza, per averci a che fare devi comprenderlo, dialogarci, la relazione che stabilisci con lui comporta delle tonalità affettive (siano pure indifferenza o nonpiacere) e nuove possibilità di esperienza”. CaratteriMobili al momento cura l’edizione delle collane Formiche Elettriche, Molecole e Questioni di Storia. Nell’universo digitale si occupa inoltre delle riviste online Biblioteca Husserliana di fenomenologia e Uzak di cultura cinematografica. Formiche Elettriche è dedicata alle culture pop. Stili urbani, musica, moda, fotografia, comunicazione televisiva si inseriscono nel discorso pluridisciplinare dei Cultural Studies, campo che attinge all’antropologia, alla sociologia, ai Gender e Ethnic Studies, al criticismo letterario, alla storia, alla psicoanalisi, alle scienze politiche, alla filosofia. Molecole ha come punto di partenza la letteratura e si apre alla collisione di mondi narrativi tra i più disparati, intersecando gli orizzonti del racconto con i linguaggi dell’arte (cinema, musica, pittura, cucina e tanto altro). Questioni di Storia è una collana diretta da autorevoli storici italiani, divulga ricerche che altrimenti

rimarrebbero chiuse all’interno dell’accademia e lo fa rivolgendosi non solo ad esperti della materia, ma ad un pubblico più vasto. I CaratteriMobili Arcangelo Licinio, Elena Manzari, Clara Patella e Grazia Turchino scelgono di celebrare inediti riti ibridatori, multidisciplinari: “i libri sono aperture di mondi (belli o brutti), come gli esseri umani”, sostiene Licinio, “per questo, partendo dai nostri vissuti (tutti in qualche misura dentro alla filiera dell’industria editoriale italiana), volevamo fare libri che - nei contenuti, come nella forma - si presentassero come aperture di possibilità: di riflessione, certo, ma anche estetiche, tattili”. Da Marzo 2011 i titoli di CaratteriMobili sono distribuiti in tutta Italia da NdA nei circuiti Feltrinelli, Mondadori, Librerie Coop, Fastbook, Fnac, Melbookstore, Internet Book Shop, Arion, Galla 1980, nel circuito delle librerie Interno 4, ovvero piccole/medie librerie specializzate nei centri storici delle città italiane, nei punti vendita di manifestazioni musicali e artistiche, nei centri sociali, presso associazioni culturali, radio, musei.


LA CITTÀ DEL SESSO

VIDEOSOFIA

Dominazioni e prostituzioni tra immagine e corpo

Sentieri della filosofia attraverso la televisione, intorno alla televisione.

di Leonardo Palmisano

La città del sesso è innanzitutto un lavoro di inchiesta, nel quale cinquantacinque protagonisti raccontano le vicende della prostituzione, delle escort, delle donne di

Il protagonista del romanzo, un liceale quattordicenne, racconta un anno per lui cruciale, il 1975. Tra episodi grotteschi, comici e quasi

strada, dei clienti e dei “papponi”, dei debiti, della droga, dello stupro e delle mancate redenzioni. Nel vorticare delle testimonianze dirette, crude e crudeli, senza pregiudizi, prende corpo il colore delle voci di strada, in un territorio che è al confine tra il quotidiano e lo straordinario.

di Valentina De Carlo

Cosa ha da dire e ha detto la filosofia sulla televisione? Si può fare filosofia in TV? E, ancora, si può fare filosofia con la TV, trasformando la filosofia in una videosofia?

1975 Nonostante Pasolini, e purchè Buzzanca non lo sappia, al liceale piacciono le donne

CASTELLI MEDIEVALI

di Franwz Krauspenhaar

di Raffaele Licinio

surreali – l’intolleranza scolastica, l’estremismo di destra vissuto in maniera interiorizzata e al contempo goliardica, una timidezza che pare senza via d’uscita – 1975 è anche la fotografia di un capitale periodo storico, in una metropoli che da lì a non molto sarebbe diventata per tutti la “Milano da bere”.

o pieni di misteri, avventure e trabocchetti. Il senso della riedizione di questo libro di Licinio è quello di far comprendere come la realtà storica del castello meridionale, fulcro di un vero e proprio “sistema” e metafora del potere, sia altrettanto interessante della sua immagine “fantastica”.

Puglia e Basilicata: dai Normanni a Federico II e Carlo I d’Angiò

Dietro ogni castello medievale ci sono le immagini del “castello” prodotte in secoli estranei al Medioevo: castelli gotici, romantici,

I libri di Caratteri Mobili Libri

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Videosofia risponde a ciascuno di questi interrogativi indagando e ricostruendo gli studi filosofici, interrogandosi sulla presenza dei filosofi e della filosofia nella televisione e decostruendo il giudizio negativo sulla congruità filosofica del mezzo televisivo.

IL PROSSIMO VILLAGGIO

Racconti e macchine del tempo

di Lorenzo Esposito

Racconti popolati di angeli e demoni, lettere spedite da zone di frontiera, donne e uomini che resistono alla logica del caos, identità ed esilio, città in

declino e mondi smarriti. Trentadue capitoli – di volta in volta fantastici, surreali, politici – che costituiscono l’organismo di un’unica architettura, la materia di un unico romanzo. Trentadue microcosmi luminosi, scritti, fotografati, filmati in vertiginosa alchimia e in forsennato romanticismo.


Rock Stars Don’t Dress For The Weather di Antonello V. Daprile New York. 1972 – 1979. Lydia Lunch, Alan Vega, Patti Smith, Debbie Harry, David Bowie, Arto Lindsay, New York Dolls, etc... In due parole, Underground zone. Opera ibrida tra saggio e book fotografico, “incisa” a quattro mani da Claudia Attimonelli ed Antonella Giannone, impreziosita dall’introduzione di Luca de Gennaro e dagli scatti inediti di Paul Zone. Immagini e testi che descrivono e analizzano momenti della scena musicale underground newyorkese degli anni Settanta, nella fase di passaggio tra glam rock e nascita del punk. Lo schema compositivo adottato dalle autrici risulta particolarmente congeniale alla rappresentazione del rapporto privilegiato che in quegli anni la cultura

underground ha sviluppato tra l’artista e l’uso della sua immagine. La pop star che si interfaccia con il successo musicale non può sottrarsi alla visibilità ed agli effetti dell’esposizione al telemondo:“[…] Nell’atto della reificazione, quando cioè l’immagine diventa un feticcio, il soggetto al contempo ne gode e se ne raccapriccia, si ripossiede in uno scambio erotico mortale tra Narciso e la propria icona”. Impiegare l’impronta del proprio “corpo pop” su stili vestimentari sempre più arditi è strettamente funzionale alla trasposizione iconografica della rockstar. In questo contesto, il dandismo è tecnica dell’abito finalizzata non solo al superamento della differenza di genere tra maschile e femminile, ma soprattutto alla creazione di un nuovo immaginario attraverso pratiche di doing gender. Transformer per elezione, solo per citarne alcuni, sono Lou Reed, Iggy Pop, David Bowie e Brian Eno. Le Polaroid di Mapplethorpe e gli scatti di Paul Zone restituiscono in pieno questa eterogeneità stilistica. Tutto viene fatto per diventare simbolo… per farsi fissare dalla gente. Icona per eccellenza del genere iperfemminile “candito”, in antitesi alla androginia punk di Patti Smith, è Debbie Harry, voce dei Blondie e copertina del libro. Sguardo stupito/allucinato, labbra dischiuse, sensualissime ed ammiccanti. Congelata per sempre nella sua dagherrotipica essenza, quasi a dire: “I’m a poseur, and I don’t care to make people stare” – Sono una poseur, non mi interessa, mi piace farmi fissare dalla gente (x Ray Spex, 1978, I’m a poseur).

Underground Zone Dandy, punk, beautiful people

di Claudia Attimonelli e Antonella Giannone edito da Caratteri Mobili - pp.119


Aerei di carta

SHANE JONES

RICHARD BRAUTIGAN

Io Sono Febbraio Isbn Edizioni 176 pagine | 13,50 euro

Pesca Alla Trota In America Isbn Edizioni 150 pag. | 16,00 euro

Io Sono Febbraio è una favola postmoderna, un’allegoria poetica, un racconto fantastico e un romanzo corale allo stesso tempo. La trama si racconta con poche parole: in un villaggio americano, Febbraio decide di non andare via secondo il normale alternarsi delle stagioni. Febbraio vieta il volo e rapisce i bambini spalleggiato da preti che si prodigano a farne rispettare le regole. Febbraio vive in una casa fuori città insieme alla sua sposa, “la ragazza che sapeva di miele e di fumo” e le sue orme nella neve cambiano forma. Gli abitanti del villaggio cominciano così ad organizzarsi per combattere Febbraio e cacciarlo una volta per tutte. La scrittura di Shane Jones è surreale e dà voce a diversi personaggi che raccontano, ognuno dal suo punto di vista, la vicenda. Febbraio è la depressione, visto che si cura con l’erba di San Giovanni, ma è anche l’immobilità del tempo, la crisi creativa e, probabilmente l’incarnazione narrativa dell’autore. Io sono Febbraio è un libro bellissimo.

L’opera più famosa di Brautigan (‘61, ma pubblicata nel ‘67) è una stravagante raccolta di raccontiricordi-nonsense dove il titolo stesso del libro diventa (quasi) assurdamente il nome con cui identificare personaggi, luoghi, oggetti, messaggi propagandistici. Ma questa divertente trovata stilistica in realtà vuole esprimere il bisogno di definire con un unico nome un intero immaginario legato a quell’ideale americano di un eden adamitico in cui uomo e natura trovano il loro legame spirituale. Come svelato nella postfazione “Brautigan non è un rivoluzionario, non incita all’azione, ma osserva, con un misto d’indolenza e nostalgia, la perdita di quel rapporto privilegiato con la natura così importante per l’America e per la sua storia”. Da catalogarlo, più che tra i primi beatnik, tra gli ultimi trascendentalisti.

di Cristò

di Gennaro Azzollini


VIOLA DI GRADO

VICTOR GISCHLER

Settanta Acrilico Trenta Lana Edizioni e/o 192 pagine | 16,00 euro

Black City. C’era una volta la fine del mondo Newton Pocket 320 pagine | 6,90 euro

L’oblò è forzato, il vortice risucchia le vite, sovrasta le canzoni di Björk. Una svista al volante e due amanti cadono nella vagina della terra. Lui è padre di Camelia e marito di Livia. Il lutto trascina in un destino muto e circolare madre e figlia, che adottano il dizionario degli sguardi in una reclusione sciatta e implosiva. Ma le storie si appostano ovunque ed ecco l’omino delle uscite di sicurezza nel giovane cinese, che cura l’anoressia verbale di Camelia svelandole le chiavi degli ideogrammi e cela quella del proprio cuore in inverno. Ambientazione inglese in Settanta Acrilico Trenta Lana (ed. e/o, gennaio 2011), tra le strade di una gelida Leeds dove è sempre notte a confondere il tempo, che è inutile scandire. Trama dalla consistenza di un petalo per l’esordio della ventitreenne Viola Di Grado, che sublima la parola nel regime ideografico, oltre la cantilena spensierata dell’alfabeto. Un trucco nella dedica to someone Else. Ma quale?

Lo spirito imprenditoriale americano è sopravvissuto ad una comica serie di catastrofi e Joey Armageddon ha rimesso in moto la civiltà attorno ad un semplice principio, il franchise. In ogni sede dello strip club Sassy a Go-Go, il “dollaro Armageddon”, unica valuta circolante, può comprare sesso, tabacco, alcool e divertimento. Tra sbornie colossali, cannibali, sparatorie e generatori umani di energia rinnovabile, un ex-assicuratore, una stripper e un cowboy compiono un viaggio epico per la salvezza dell’umanità. Abilissimo nel ricombinare i temi più comuni dell’hard-boiled, dell’horror e della fantascienza, Victor Gischler dimostra nuovamente la sua familiarità con l’intero immaginario pulp. Il suo stile asciutto, dinamico e ironico, che ricorda il Lansdale de La notte del drive-in, fa di Go-Go Girls of the Apocalypse un must-have per ogni appassionato della letteratura di genere.

di Paola Merico

di Sergio Bruno


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Fortunato Depero La grande selvaggia (1917) Tempera su tela 197x129 cm Collezione privata


Il futurismo, chiave di volta del contemporaneo di Michele Casella Pervaso ancora da un’esasperazione provocatoria che mostra i segni di una straordinaria potenza immaginifica, il movimento futurista mantiene una stretta connessione con le avanguardie contemporanee dopo oltre un secolo di sollecitazioni e suggestioni. Dal 1909 i percorsi intrapresi da questi artisti hanno dato vita a soluzioni inedite ed opere sorprendenti, rivitalizzando il panorama nazionale e aprendo altri orizzonti ai protagonisti della nuova creatività. In un panorama così vitale, dinamico, talvolta contraddittorio ma sempre avventuroso, le forme sonore hanno finora assunto un ruolo secondario rispetto ad un corpus artistico che ha stravolto le molteplici forme della cultura del ‘900. A mettere ordine in questa memorabile esperienza uditiva ci pensa oggi Daniele Lombardi, docente di pianoforte al conservatorio di Milano ed autore di una monumentale opera di critica e catalogazione legata alla musica futurista nelle sue forme più eterogenee. Sono ben otto, infatti, i cd contenuti nel cofanetto

Musica Futurista, ai quali si affianca il bellissimo volume Nuova Enciclopedia del Futurismo Musicale, due pezzi dello stesso puzzle culturale che ha visto l’Italia imporsi a livello internazionale. Nelle otto raccolte audio sono dunque racchiuse le esperienze sonore che hanno caratterizzato l’intero percorso futurista e che partono proprio dal suo teorico più utopista, Luigi Russolo. È su di lui che è necessario soffermarsi per comprendere appieno il grado di innovazione e suggestione che questa musica è stata in grado di creare, una mutazione espressiva che ha preso corpo negli intonarumori e che ha avuto dirette ripercussioni sullo sviluppo degli strumenti elettroacustici. A fianco di Russolo è quindi possibile scoprire una lunga lista di compositori e interpreti per un manifesto artistico di eccezionale potenza sovversiva: primo fra tutti Filippo Tommaso Marinetti, rimasto celebre anche per la sua carismatica arte declamatoria, per proseguire con Francesco Balilla Pratella, Franco Casavola o col ribelle Silvio Mix. La velocità, il mito della macchina, il contrasto fra silenzio e rumore così come la fiducia nel futuro sono oggi tematiche che si dimostrano decisamente attuali, figlie di una modernità ben lungi dal risolvere le sue contraddizioni interne. Il movimento futurista e le sue esperienze musicali ci aiutano a comprendere lo spirito che anima un reale rinnovamento culturale, quella necessità di fare tabula rasa che rende concrete le idee più affascinanti e astratte. Una lezione di non poco conto in un momento in cui la musica (e l’arte tutta) deve necessariamente rielaborare il proprio sistema di valori e priorità.


Sospiri per la musica Arriva il primo contest che supporta le etichette indipendenti Musica

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In un mercato ormai privo di riferimenti e costantemente assoggettato alle logiche imposte dalla grande diffusione, operare nel mondo delle etichette indipendenti si rivela un impegno particolarmente avventuroso. Alla soddisfazione di dar voce ad artisti che animano la scena culturale del nostro tempo si contrappone la difficoltà di farsi strada nei meandri della discografia nazionale, troppo spesso affogata dallo strapotere delle major e dalla miopia dei grandi network dell’informazione. Dall’analisi di questo stato delle cose nasce Push Up, il contest rivolto specificamente alle etichette indipendenti per un progetto di valorizzazione degli artisti e del management nazionale. Per la prima volta, infatti, lo scopo dell’iniziativa non è

quello di premiare solo la creatività dei musicisti, bensì di dare supporto concreto all’imprenditorialità del settore, mettendo in palio una borsa di 16.000 euro che vada a contribuire alle spese di promozione, distribuzione e booking del vincitore. Presentato all’ultima edizione del Meeting delle Etichette Indipendenti di Faenza, l’evento è diventato in breve tempo un vero caso nazionale ed ha raccolto un’ampia partecipazione dai quattro angoli della penisola. Dopo la fase di selezione, la giuria ha annunciato i progetti sonori che accedono alla fase conclusiva della manifestazione, per un finale interamente ambientato nella splendida cornice di Bisceglie. Un’occasione doppia per gli operatori musicali, i quali potranno


tuffarsi in una full immersion dedicata alla musica, dialogando con esperti del settore ed assaporando il turismo culturale della cittadina pugliese. “Si tratta di un evento di particolare rilevanza per Bisceglie – afferma il Sindaco Francesco Carlo Spina – poiché porta la nostra città alla ribalta culturale in un progetto che abbraccia l’intera penisola italiana. La prospettiva è quella di promuovere Bisceglie come centro focale di un network di professionisti, supportando le realtà regionali ed aprendo nuove prospettive nella nostra eterogenea proposta turistica”. Dello stesso tenore le parole di Vittorio Fata, Assessore alle Politiche Giovanili: “Con questa manifestazione Bisceglie si fa capofila di un evento decisamente inedito per il panorama

musicale nazionale, cominciando un percorso di posizionamento strategico all’interno del tessuto economico legato all’industria discografica. Per questa prima edizione, la città potrà vivere un’esperienza di incontro con importanti realtà italiane, diventando per tre giorni il centro di aggregazione per i più interessanti operatori del settore”. Il programma, fittissimo di eventi, prevede le esibizioni degli otto finalisti nei giorni 8 e 9 aprile, mentre nella serata successiva la band vincitrice potrà dividere il palco con gli headliner Marta Sui Tubi. In parallelo con il contest, è prevista inoltre una serie di eventi immaginata per riunire sia gli appassionati che i professionisti della musica: si parte dalla riflessione sul diritto

d’autore e sulle modalità di interazione fra SIAE e Creative Commons, per proseguire con le iniziative del salotto Push Up, nel quale saranno ospitati artisti ed operatori. Discorso a parte va fatto per la partnership con Puglia Sounds, l’ente pugliese che per questa prima edizione coordina un “Acceleratore Musicale” grazie a cui i titolari delle etichette indipendenti potranno confrontarsi con professionisti di calibro nazionale. I risultati di questo incontro diverranno poi fulcro di una conferenza pubblica durante la terza giornata, chiusura perfetta per un evento che vuole intrecciare performance live, lezioni musicali libere e propositività imprenditoriale.


Intervista agli organizzatori Push Up è frutto di un lavoro partito nel 2010 che ha visto un manipolo di associazioni ed enti strutturare un progetto che ha convinto gli operatori musicali di tutta Italia. Alla guida del gruppo troviamo Giordano Campalani, Elvis Ceglie e Marco Valente – tre figure di primo piano del panorama culturale pugliese – che ci raccontano in questa intervista i funzionamenti di una macchina organizzativa così interessante e perfettamente elaborata. Push Up è un contest che cambia radicalmente l’approccio con la discografia nazionale; quali risultati vi aspettate di ottenere con questo supporto per le etichette? Il primo obiettivo di Push Up, in linea con gli intenti di A.N.C.I. e Ministero della Gioventù, è quello di manifestare la centralità di un settore culturale che attraversa l’Italia a trecentosessanta gradi, indipendentemente dall’età o dalla latitudine. È questo il nocciolo della questione quando si puntano i riflettori sulla scena musicale indipendente italiana, la cui presenza è spesso ignorata dai principali canali d’informazione. Il mondo della musica indipendente è sempre ricco di proposte sonore innovative, quali pensate siano le

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maggiori difficoltà che si incontrano nel lanciare una band in questo mercato? L’industria musicale come ambito d’intervento ha dinamiche complesse, di “sistema”, che fanno sì che il buono o cattivo esito di un’uscita dipenda da più fattori che interagiscono e si influenzano costantemente. Il primo passo per aiutare il settore musicale è preoccuparsi di supportare il processo, nella sua interezza, piuttosto che un singolo aspetto del tutto. Questo è necessario ogni volta che si usa la parola “mercato”, si tratti di artefatti materiali come un frullatore o intellettuali come la pubblicazione di un disco. Che tipo di feedback avete avuto dalle label che hanno partecipato a questa prima edizione del concorso? È stato estremamente dolce constatare l’entusiasmo e la passione di tante persone che hanno fatto della musica la propria vita. Ogni occasione per confrontarci con i destinatari del concorso ci ha aiutato a capire qualcosa delle reali esigenze di una piccola etichetta indipendente. Il massimo sarebbe se questo spirito di collaborazione, fermentando in quel di Bisceglie durante Push Up, desse vita a nuove possibilità di incontro e di confronto fra gli operatori del settore. In questo senso è stato molto importante il supporto di Giordano Sangiorgi del M.E.I. di Faenza, che ci ha seguito sin dal principio, e la collaborazione di tutte le strutture associative locali (giovanili e non) che hanno coadiuvato la direzione nella stesura e nella promozione del progetto. Con Push Up avete avuto l’opportunità di monitorare lo stato dell’arte della discografia indipendente nazionale, che idea vi siete fatti? Quale direzione stilistica si sta perseguendo? La musica italiana ha la melodia nel dna. Non c’è da


Nella pagina precedente: da sx Marco Valente, Giodano Campalani, Elvis Ceglie A sinistra: Marta Sui Tubi In basso: da sx il Sindaco di Bisceglie Fracesco Carlo Spina e l’Assessore alle Politiche Giovanili Vittorio Fata stupirsi delle differenze tra la musica del bel Paese e quella anglosassone d’America o di Gran Bretagna. E questa è un po’ la croce e la delizia della nostra coscienza musicale collettiva. Ciononostante, nella vasta varietà di produzioni che si sono candidate per Push Up si sono distinti alcuni episodi, delle schegge impazzite, che hanno preso piede da sfumature del “fare musica” innovative. Ciò che ci è risultato lampante, ma non avevamo bisogno di conferme in tal senso, è la grande creatività che si nasconde nelle piccole scatole preziose della discografia indipendente. Quanto a qualità, non siamo secondi a nessuno. Avete notato delle differenza marcate fra le etichette del nord, del centro e del sud Italia? In che modo si può avere una maggiore interazione fra i diversi settori del music business? La storia recente della musica italiana ha portato alla ribalta numerosi casi che testimoniano come la discografia indipendente possa scoprire grandiosi talenti, dalle pendici delle Alpi alla Sicilia più remota. Caparezza, Negroamaro, Marta sui Tubi, la nostra Erica Mou, Vasco Brondi o Violetta Beauregarde, tutte le differenti espressioni del fare musica “indipendente” in Italia meritano un ruolo di primo piano tra gli ascolti della popolazione. Le ataviche difficoltà della discografia nel meridione stanno lentamente disciogliendosi nel mare magnum delle nuove tecnologie, le quali permettono a un’etichetta del Trentino di ascoltare e lavorare con una band del profondo Sud, che consente ad un’artista che eccelle nel suo genere di andare a cercare consensi fino alla grande mela. Indubbiamente però il primo sistema per far scorrere nuova linfa nel settore è proprio quello di tornare a comprare dei dischi di buona musica. Per noi che l’ascoltiamo, per gli altri che non la seguono, per loro che la producono.

10 APRILE MARTA SUI TUBI live A pochi giorni dall’uscita del loro nuovo album, i Marta Sui Tubi arrivano a Push Up per presentare il live che li porterà in giro per tutta l’Italia e che si annuncia come il tour di consacrazione della band. È proprio la recente prova in studio – dal titolo Carne Con Gli Occhi – ad aver

già convinto i media specializzati, creando un’enorme attenzione su un suono così originale e fuori dagli schemi. Una scelta decisamente di prim’ordine per un gruppo che ha marchiato a fuoco la musica indipendente italiana degli anni zero.


Artista:

Artista:

MANGIACASSETTE

WALKING THE COW

Label: TROVAROBATO

Influenzato da un mito dell’underground americano come i Joan Of Arc e da una leggenda come Sparklehorse, Mangiacassette prepara canzoni lo-fi in lingua italiana per voce, chitarra sovradimensionata e (di quando in quando) due pezzi di batteria. Partito nel 1999 come Hoechst e divenuto Notbremse a partire

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Label: A BUZZ SUPREME dal 2002, la musica di Mangiacassette sviluppa sentimenti apparentemente non costruttivi come la tristezza, la pena d’amore, la malinconia e l’incomprensione. Il suo motto: il rock’n’roll può cambiare le persone.

I Walking the Cow nascono a Firenze nel 2005, amano i brani pop e gli arrangiamenti bizzarri. Il loro lavoro di de-costruzione sonora procede per contrasti e miscela folktronica, noise e weird folk, con un pizzico del suono cinematico di Stelvio Cipriani ed Ennio Morricone. I loro brani sono stati realizzati con cura, pignoleria e

follia, facendo ricorso ad un largo impiego di strumenti acustici, strumenti elettrici e intrusioni elettroniche. Influenzati (fra gli altri) da Broadcast, Daniel Johnston, Coco Rosie, Pavement e Pixies, mostrano una certa avversione per il post rock.


Artista:

Artista:

MARCO PANETTA

JOLAURLO

Label: CINICODISINCANTO

Marco Panetta nasce artisticamente nel 2002, quando fonda la Marcosbanda, con cui inizia un cammino florido di premi e riconoscimenti che da subito sottolineano la qualità dei messaggi dell’autore. Nel 2010 il gruppo si scioglie e Marco comincia a comporre Il Mostro, un progetto elaborato in un concept album il cui tema è la parte oscura,

Label: IRMA ciò che non si conosce di sé, ciò di cui si ha paura. La scrittura va di pari passo con la storia biografica dell’autore che trasforma, riscrivendo in musica, la sua esperienza personale di paura e convivenza con gli attacchi di panico.

Nel 2001 gli Jolaurlo risiedono in Puglia, luogo in cui nascono e da cui si spostano per trapiantarsi a Bologna. Il nuovo album Meccanica e Natura, previsto per l’inizio della primavera ed edito da Irma Records, sarà frutto di un sound prettamente elettronico che miscela una forte esperienza rock e punkwave in quello che ora si può definire new rave, electro-punk, con tratti

che rievocano quella techno pop degli esordi come Divo, Ultravox, Erasure, Soft cell. I testi raccontano un mondo di sessualità, di alcool e droga, di disagio sociale, di voglia di vivere, di amore e libertà.


Artista:

GIRL WITH THE GUN Label: LOBELLO

I Girl With The Gun sono Matilde Davoli e Populous; lei ha alle spalle anni di chitarre elettriche e soavi vocalizzi nell’indie-pop band Studiodavoli, lui continua a condurre le sue sperimentazioni elettroniche con la cult label berlinese Morr Music. Insieme danno vita a un progetto che azzera i loro trascorsi.

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Girl With The Gun ha come punto di partenza il folk, il jazz e la musica cinematica. Una band di grande raffinatezza, con lo sguardo rivolto agli Stati Uniti e la sensibilità legata all’Europa di qualche decennio fa.

Artista:

MADRE

Label: MINUS HABENS Madre nasce nel 2007, ed è un progetto, uno spazio ed un esperimento. Un luogo in cui Ugo De Crescenzo e Luca Lezziero provano a fondere molte cose insieme: canzone, suono, video, grafica e poesia. Un suono che è frutto di una ricerca elettroacustica in cui interagiscono loop e pianoforte, percussioni e bassi. Canzone

d’autore, visual, grafica e contemporaneità sono parte integrante del progetto assieme ad uno spiccato interesse per la poesia e la parola pura.


Artista:

Artista:

NOBRAINO

ESMEN

Label: MARTELABEL

Dopo una la prima demo autoprodotta del 2004, i Nobraino partono con la loro avventura discografica che sforna Pressapochismi nel 2006 e Nobraino Live al Vidia Club nel 2008. Nei due anni successivi i Nobraino suonano per oltre 200 date e vincono premi e riconoscimenti importanti come DemoRai e il premio band rivelazione dell’anno al MArteLive.

Label: GREEN FOG Dopo la pubblicazione del loro nuovo disco NO USA! NO UK!, nel gennaio 2010 i Nobraino vincono il sondaggio di XL Nuova Musica Italiana come miglior gruppo dell’anno.

Gli eSMEN sono una rock band genovese, formatasi nel 2007 come naturale sviluppo di un progetto solista di Fabrizio Gelli. I riferimenti musicali più evidenti sono da ricercare nel cantautorato e nel rock anglo-americano, anche se le influenze dei componenti della band sono le più svariate. La voce calda, la ricerca accurata di suoni ed il generoso utilizzo di effettistica, gli intrecci

sonori di chitarra e tastiere e una solida sezione ritmica, sono le caratteristiche più evidenti della band, alla quale sono riconosciute ottime qualità nel songwriting ed un sound decisamente personale.


Let’s Go Surfing! L’indiepop sbarca a New York

“To be poor in New York was humiliating, a little, but to be young – to be young was divine. If you’d had more money than they had that year, you’d simply have grown old faster” (Keith Gessen, “All The Sad Young Literary Men”) di Beppe Recchia

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Sono passati venticinque anni da quando il settimanale britannico New Musical Express coniava inconsapevolmente l’espressione “C86” che, da scarno titolo per una cassetta che metteva insieme una manciata di gruppi di guitar pop di belle speranze, sarebbe divenuto simbolo di un vero e proprio movimento prima e – usato nella variante meno criptica di indiepop – di vera e propria attitudine ed identità stilistica poi. Che quel movimento abbia lasciato il segno è testimoniato non solo dal reverenziale omaggio che a quel nastro continua a farsi (qualche tempo fa ne è stata realizzata una versione tributo chiamata CD86), ma ancor più dal numero di band che al pop cristallino dei primi Primal Scream o alle serenate slabbrate dei Wedding Present continuano ad ispirarsi. Se fino ad oggi tuttavia l’indiepop è stato patrimonio tipicamente europeo – edito da etichette di allora come Sarah Records e di oggi come Fortuna Pop!, o ancora dalla svedese Labrador o dalla spagnola Acuarela – nel giro degli ultimi due anni la sua rinascita sembra affidata a un manipolo di giovani newyorkesi le cui band hanno nomi fortemente adolescenziali come The Pains of Being Pure At Heart o Vivian Girls. Si potrebbe dire senza eccessiva sorpresa che in fondo

le città più europee degli Stati Uniti hanno sempre guardato con un misto di affetto e nostalgia a una Londra idealizzata e forse mai esistita, oppure, con quel gusto un po’ cinico di chi osserva il susseguirsi delle mode musicali, che dopo aver saccheggiato la new wave dei primi ’80 con Strokes e Interpol, il passo successivo non poteva essere che quello di reinventare gli Smiths e i suoni dell’underground indipendente della metà degli anni ’80. Eppure ci sono una serie di segnali che raccontano non dell’ennesima macchinazione dell’industria discografica ma di un vero e proprio circolo di artisti e musicisti. Le collaborazioni incrociate si sprecano, e chiunque abbia assistito all’edizione del 2009 del Primavera Sound festival di Barcellona avrà notato il sostegno reciproco ai bordi del palco. A questo va aggiunto che l’indiepop della Grande Mela condivide molti dei fattori ispiratori del movimento originario. In primo luogo, la reazione da un lato allo strapotere dell’hip-hop e dall’altro al pop ultralucido e commerciale che da anni domina le classifiche di vendita ne fanno un fenomeno insieme tremendamente rivoluzionario e conservatore, che partendo dall’assorbire e liberarsi delle ultime vestigia del più grigio e monocorde post-punk, ritrova


l’ispirazione della melodia nelle chitarre più robuste. Né va trascurato il contesto storico e sociale nel quale questa nuova musica cresce, reduce da anni di ineguaglianze e di impoverimento progressivo della gestione Bush jnr., trovando una propria dimensione politica nella fuga da ogni ideologizzazione e nel riparo in una intimità tutta individuale. Se queste le premesse, diverse sono invece le declinazioni di questo comune sentire. Da una parte c’è chi si affida maggiormente all’elettricità come Blank Dogs, dietro il quale si cela la ricerca melodica e paranoica di Mike Sniper, alchimista di chitarre e synth sempre dai toni assai scuri rigurgitati in una successione di sprazzi pop di vivace malinconia, e come i Crystal Stilts, il cui nobile classicismo traccia con agilità la linea che lega il garage rock all’indiepop, i Velvet Underground ai Pastels. Dall’altra c’è invece la grezza esuberanza delle Vivian Girls, cui, complice una dichiarata carenza tecnica, piace sporcare melodie semplicissime con battute pestone ed assoli grezzi, come avevano già fatto gli scozzesi Vaselines; ed ancora la contagiosa semplicità di The Drums, i primi ad arrivare ad un successo di massa grazie allo spensierato fischiettare di Let’s Go Surfing. Star del lotto sono sicuramente The Pains Of Being Pure At Heart, il cui album di debutto ha avuto il pregio di suonare già come una raccolta di singoli perfetti nella

loro effervescenza e universali nel loro quasi imberbe romanticismo, ed oggi pronti fare il salto verso il grande pubblico con un secondo lavoro che amplifica ed elettrizza la loro sensibilità. Dietro di questi, si muovono già nuovi protagonisti, come Beach Fossils, Minks (entrambi sull’etichetta di Sniper, la Captured Tracks), The Depreciation Guild ed i talentuosi Violens, che in un video “apocrifo” apparso su Youtube fanno cantare la loro Already Over dal George Michael di Careless Whisper. E il corto circuito musicale/culturale è perfettamente compiuto. Discografia selezionata The Pains Of Being Pure At Heart – s/t (2009, Slumberland); Belong (2011, Slumberland) Vivian Girls – Share The Joy (2011, Polyvinyl) The Drums – The Drums (2010, Moshi Moshi) Beach Fossils – (2010 Captured Tracks) Crystal Stilts – Alight Of Night (2009, Angular) Blank Dogs – Under And Under (2009, In the Red)


The Pains Of Being Pure At Heart Intervista con Kip Berman di Beppe Recchia

Il vostro album di debutto è stato uno dei successi del 2009. C’è stata qualche pressione nello scrivere e registrare il secondo disco? Sin dall’inizio abbiamo cercato di scrivere le migliori canzoni possibili e di registrarle al meglio. Ma suppongo che la maggiore esperienza in studio da un lato e l’ingresso in formazione di Kurt Feldman alla batteria abbiano permesso di concentrarci di più sulla scrittura. Ed io mi sono potuto liberare della drum machine; come programmatore sono un disastro! Siamo entrati in studio solo quando pienamente soddisfatti dei pezzi che avevamo a disposizione, cercando poi di trarre il massimo dalle registrazioni.

Belong non include i due singoli Higher Than The Stars e Say No To Love. C’è un qualche motivo particolare? C’è differenza tra scrivere un album e realizzare una raccolta di singoli. Nonostante la gioia che il singolo da 3 minuti e mezzo può darti, abbiamo voluto affrontare Belong tenendo a mente come sarebbe stato il suo ascolto per intero e cercando di dare un senso alla sequenza delle canzoni. C’è comunque un vantaggio: piuttosto che aspettare 2 anni, abbiamo avuto la possibilità di continuare a suonare dal vivo e al contempo pubblicare nuovo materiale con una certa regolarità. Credo che sia una soluzione allettante anche per chi ci segue; ricordo come da ragazzino mi piaceva scoprire qualcosa di nuovo delle mie band preferite scorrendo l’ordine alfabetico in un negozio di dischi, fosse anche solo una b-side, senza il peso dell’aspettativa (o semplicemente l’attesa) di un intero album. Avete recentemente dichiarato di amare tanto i Pastels quanto gli Smashing Pumpkins. È questa la musica con cui siete cresciuti? È vero che si fa più bella figura a citare band dell’underground – e di certo ho amato molto indiepop scozzese e svedese - ma non ha senso far finta di essere stati diversi da tutti gli altri adolescenti americani. Gruppi come Weezer,


Nirvana, Smashing Pumpkins e Sonic Youth sono stati una base di partenza per esplorare il rock e il pop. Crescendo, ho capito che i miei gruppi preferiti sono quasi tutti originari di Glasgow (The Pastels, Teenage Fanclub, Orange Juice, The Vaselines, Belle and Sebastian, ecc.), ma ho passato tanto tempo ad ascoltare e riascoltare dischi come The Bends dei Radiohead, 1977 degli Ash, Siamese Dream degli Smashing Pumpkins, Pinkerton dei Weezer e Nevermind dei Nirvana. E onestamente, li amo ancora molto. Visti un paio di anni fa al Primavera Sound Festival di Barcellona, sembravate già più adatti alle arene che ai club, e Belong ne è conferma. Possiamo parlare di indiepop da stadio? C’è una vera emozione a suonare per tante persone, ed il Primavera è stata un’esperienza particolare non solo perché era la nostra prima volta ma anche perché, sebbene abbia un numero impressionante di spettatori, resta un festival del circuito underground. Se ne avessimo la possibilità, non diremmo di no a suonare nei grandi stadi, ma ci divertiamo allo stesso modo anche davanti a cento persone. Trovo sciocco voler rimanere a tutti i costi una band di nicchia ma certamente non voglio dimenticare il piacere del contatto fisico con il pubblico.

Uno dei pregi dei Pains of being Pure At Heart è la capacità di scrivere pezzi di presa immediata. Immaginate di dover compilare una scaletta con quelle che a vostro giudizio sono le canzoni pop perfette. Eccola! Outer Limits Recordings – Julie; Ash – Girl From Mars; The Left Bank – She May Call You Up Tonight; The Clientele – Saturday; Velocity Girl – Forgotten Favorite; The Sundays – Here’s Where the Story Ends; House of Love – Christine; Strawberry Switchblade – Since Yesterday; The Wake – Crush the Flowers; Rocketship – I Love You the Way I Used to Do; The Pastels – Comin’ Through; Smashing Pumpkins – 1979; O.M.D. – She’s Leaving. New York ha assistito recentemente ad un’esplosione di gruppi che suonano indie pop. Volete consigliarci qualche nome? C’è ottima musica in tutto il mondo e senza aver bisogno di una grande città a far da cassa di risonanza, ma come appassionato di musica, mi sento fortunato a vivere a New York ed avere la possibilità di vedere tanti buoni gruppi così spesso. Posso fare i nomi di Murder Mystery, Minks, Big Troubles, Crystal Stilts, Beach Fossils, Young Friends, The Hairs, Vivian Girls, My Teenage Stride, Hooray for Earth. Ma potrei andare avanti davvero a lungo…


a sinistra i Pains Of Being Pure At Heart sotto la copertina di Belong

The Pains Of Being Pure At Heart Belong Slumberland Records/Self di Michele Casella Sintesi perfetta di un’intera generazione d’ascolti indipendenti, i Pains Of Being Pure At Heart arrivano al secondo album come una delle maggiori attese del 2011, anello di congiunzione fra l’alternative degli anni ’90 e la scena scozzese orbitante attorno a Pastels e Delgados. La matrice pop resta dunque il fulcro su cui far ruotare gli elementi

tipici di questo genere, dai feedback in stile My Bloody Valentine alla psichedelia dei Primal Scream, dai rumorismi dei Jesus & Mary Chain alla malinconia poetica degli Smiths. Una band newyorchese che suona come la migliore formazione britannica, soprattutto in brani come My Terrible Friend e The Body in cui risulta evidente l’impronta dei Joy

Division. Appassionato e felicemente melodico, Belong si concede a continui climax emotivi, per un guitarpop confezionato in maniera mirabile in cui un’esaltante elettricità si incrocia con una sezione ritmica regolare ed equilibrata. Senza dubbio uno degli album che segnerà questa nuova stagione di ascolti e di esibizioni dal vivo.


Disfunzioni Musicali A cura di: Beppe Recchia Ninni Laterza Stefano Milella Michele Casella

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ARCHITECTURE IN HELSINKI Moment Bends (V2) Voto: 8/10 Dopo un silenzio di quattro anni, il quarto lavoro della band di Melbourne è insieme una conferma e una sorpresa. La conferma è quella di un gruppo felicemente instabile nella propria cifra stilistica, così che Moment Bends mette da parte l’elettro-twee del fortunato In Case We Die ed il massimalismo pop di Places Like These, virando verso un fresco rimaneggiamento del synthpop, grazie anche all’amico e collaboratore Francois Tetaz in veste di coproduttore e “guida spirituale”. La sorpresa sta nel fatto che, compiendo un’operazione non troppo dissimile da quella già realizzata di recente dai

Cut Copy, gli AIH mettono in pista in quaranta minuti il loro album più coeso, e anche quando strizzano l’occhio alla paccottiglia sonora anni ’80 (Yr Go To ruba a piene mani le tastiere e l’andamento di Last Christmas) si rivelano più astuti e coinvolgenti nel combinare un atteggiamento da dancefloor alle coloriture più complesse del pop. Sexy e funky non sono due aggettivi che prima d’ora si sarebbe pensato di associare alla loro musica, ma l’elettricità di That Beep, le percussioni sintetiche di Contact High e l’omaggio impudico a Prince di Everything’s Blue costringono a rivedere tutte le coordinate di giudizio. (B.R.)


DUM DUM GIRLS He Gets Me High (Sub Pop) Voto: 6/10 Primo extended play dopo la pubblicazione dell’album di debutto dello scorso anno, He Gets Me High raccoglie quattro brani dal forte 13 & God Own Your Ghost (Anticon) Voto: 7/10 Rieccoli a 6 anni di distanza dal primo lavoro targato Anticon. Quasi in sordina danno alla luce questa nuova opera frutto della collaborazione di due grandi realtà del panorama internazionale musicale. Stiamo parlando dei tedeschi Notwist (autori di una rara gemma quale Neon Golden che ha segnato lo scorso decennio creando il perfetto mix tra indie e pop) e del duo californiano Themselves, membri anche dei Subtle e collaboratori con una lista infinita di artisti quali Funkstörung, Prefuse 76 e Mike Patton. Riecco qui l’emcee Doseone (all’anagrafe Adam Drucker) intrecciare le sue metriche serrate dai toni nasali – quasi gremliniane – con la calda ed inconfondibile voce di MarKus Acher. In Own Your Ghost ritroviamo i tredici nel punto in cui li abbiamo lasciati, ma qualcosa è decisamente cambiato: si ha la sensazione che non esista più Il Momento cantato ed Il Momento

impatto indie-rock e dalle chitarre felicemente frastornanti. Coinvolgenti e rutilanti nelle prime due tracce grazie a ritornelli in rima baciata e cori un po’ ammiccanti, le Dum Dum Girls si mostrano più introspettive con l’ appassionante ballata di Take Care Of My Baby. L’EP si conclude con la cover degli Smiths There Is A Light That Never Goes Out, peggior brano della collezione a causa di un approccio troppo rumoroso e superficiale che non cattura l’essenza di questo classico contemporaneo. (M.C.)

freestyle, finalmente questo supergruppo è riuscito in quello che tanti artisti hanno cercato di fare: creare un album che si identifichi come tale, senza la sensazione di trovarsi difronte a due poli opposti che si alternano, ma di un’unica band con una sua identità. Inoltre quest’album ha il pregio di lasciarsi ascoltare tutto d’un fiato e di cancellare definitivamente quella sottile linea che divide le due band, creando un mix perfetto tra orchestre, glitch, beat frenetici, incrociando dub, alt-hop, chitarre romantiche e fiati. Non sarà l’album della svolta, nè la rivelazione di quest’anno ma di certo questo lavoro conferma i 13&god come un progetto coraggioso e pieno di quella voglia di sperimentare che spesso manca nel panorama musicale. (S.M.)

AGF & CRAIG ARMSTRONG Orlando (AGF Produktion Records) Voto: 8/10 Inquieto e notturno come un’esperienza onirica dai continui cambi di atmosfera, Orlando mette nuovamente insieme AGF

e Craig Armstrong, due visionari della musica di ricerca da sempre dediti alla sperimentazioni nell’elettronica contemporanea. In queste venti tracce continuamente sospese in territori minimali e fortemente suggestivi, le voci sussurrate ed i field recording si sovrappongono al testo di Virginia Woolf per ricreare una narrazione emozionale che sembra sconfinare nei meandri dell’inconscio. Una prova di alto profilo per un’opera docilmente appassionata. (M.C.)

JOSH T. PEARSON Last Of The Country Gentlemen (Mute) Voto: 8/10 È un sottile dolore quello che trasmette Last Of The Country Gentlemen, una sorta di sofferenza dell’anima che traspare chiara sia dalle note che dai testi. Il malessere e la malinconia che per molti anni, dopo lo scioglimento del suo storico gruppo, hanno attanagliato e tenuto Josh T. Pearson per lungo tempo lontano dalle scene musicali. Un disco questo, molto scarno e minimalista dal punto di vista musicale e della produzione, in cui oltre alla chitarra acustica suonata da Pearson nelle appena sette e lunghissime ballate, risalta in alcuni pezzi il violino di Warren Ellis (assieme a Nick Cave nei Bad Seeds). Sicuramente un’opera difficile e fuori tempo rispetto ai dettami

dell’attuale panorama musicale, ma di una dolcezza e di un’intensità infinite. Si potrebbero, come si fa ogni volta, citare ed accostare a Pearson le opere e l’influenza di Leonard Coen, di Nick Drake o di Jeff Buckley, ma in questo caso sarebbe forse un po’ riduttivo. Questo perché nei prossimi anni, quando ci ritroveremo ad ascoltare o commentare un disco di folk americano vecchia maniera, a cercarne origine ed influenze, non potremo non accostare ai maestri su citati il nome del grande poeta e musicista texano Josh T. Pearson. (N.L)


L.A. Noire

Il detective story si tinge di nero di Daniele Raspanti

Hi-Tech

64

È difficile, dopo oltre 30 anni di mercato videoludico, inventare un nuovo genere e riuscire al tempo stesso ad attirare l’attenzione. Ma L.A. Noire è uno di quei titoli che, dopo un minuto di trailer, riesce ad incollare allo schermo e a lasciare acceso l’interesse fino alla sua uscita. Sviluppato dal team Bondi per Xbox360 e PS3, L.A. Noire è definito dagli stessi sviluppatori e dalla critica come un “nuovo genere” di gioco. Vestirete i panni di Cole Phelps, giovane recluta della polizia nella Los Angeles del 1947 ed ex marine, per l’occasione interpretato da Aaron Staton, (conosciuto per il ruolo di Ken Cosgrove nella serie Mad Men), Nella vostra carriera da investigatore, avrete a che fare con decine di casi da risolvere. Nei vari momenti di gioco, sarete chiamati ad analizzare le scene del crimine, trovare indizi, affrontare inseguimenti e sparatorie. E, soprattutto, ad interrogare i possibili sospetti, forse la migliore caratteristica del gioco. L.A. Noire fa uso di una nuova tecnologia, il Motion Scan, che riproduce fedelmente non solo il volto degli attori coinvolti nella produzione del gioco, ma anche ogni singolo movimento facciale. Dovrete quindi fare affidamento su tutte le vostre doti di osservatore per analizzare i comportamento dei vari testimoni e sospetti ad ogni vostra domanda e accusa, per capire se stiano mentendo o se potete metterli sotto pressione per ottenere qualche informazione in più.


Heavy Rain Emotional thriller Stati confusionali, emozioni, tensione e paura. Condizioni psichiche difficili da trasmettere attraverso un film. Ancor di più attraverso un gioco… anzi no, “film interattivo”. Heavy Rain è stato questo e molto di più. Per quanto incredibile possa sembrare, il gioco Quantic Dream per PlayStation3 è riuscito nell’intento di coinvolgere il giocatore dall’inizio alla fine, fino quasi a farlo del tutto immedesimare con i vari alter ego sullo schermo. La visione della storia dal punto di vista di ogni personaggio, attraverso le normali azioni quotidiane, gli stati mentali e gli avvenimenti più improbabili, riescono a ricreare nel giocatore una serie di stati che (nella maggior parte dei casi) possono sorprendere e lasciare quasi spaesati davanti alla propria TV. Si rimane affascinati da come il vostro personaggio possa cambiare umore in base alle vostre scelte, rendendovi più o meno difficile il compito di eseguire azioni o dare risposte. Una storia che si dirama tra le varie sotto-trame (ci sono 19 finali differenti da scoprire, e i percorsi per raggiungerli sono tantissimi), colpi di scena, flashback. Il tutto condito da un taglio cinematografico senza precedenti. Un titolo che è già entrato nella storia.

Le killermarionette di Fahrenheit Passano 6 anni e ci sono ancora titoli che fanno parlare di sé, del loro coinvolgimento, della ventata di novità che hanno portato alla loro uscita. Fahrenheit (Quantic Dreams per PS2, PC e Xbox) è stato sicuramente il pioniere delle avventure di nuova generazione, con qualche anno di anticipo. Precursore di quello che sarà Heavy Rain, riesce a tenere incollati allo schermo per svariate ore. Non il solito gioco ma, come la definiscono gli sviluppatori, un’avventura cinematografica con influenze da “psychological thriller”. Un continuo susseguirsi si cambi di scena, decisioni da prendere in pochi istanti e il fiato sul collo di chi vi sta “alle costole”, per un gioco in cui ogni vostra scelta influirà sulla storia e sulla possibilità di proseguire nell’avventura. Il tutto, condito da una splendida colonna sonora a cura di Angelo Badalamenti, uno dei compositori più presenti nelle pellicole di David Lynch.





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