Impatto Magazine / Num. 10 / 18 Aprile 2015

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!MPATTO NUMERO 10 5 - -1118MARZO APRILE 2015 2015

MAGAZINE

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BARRIERE DELLA VERGOGNA PAGINA 4

LE TRAME DEGLI STATES NEL GOLFO Un destino intrecciato quello degli Stati Uniti e del medioriente

RUMORE DELLA VITA

PAGINA 22

I FALSI MITI SULLE IMPOSTE

La colonna sonora nacque per accompagnare l’immaginazione. La musica esalta e sottolinea le emozioni.

Ma davvero la riduzione delle aliquote è propositiva all’economia nazionale?

PROTAGONISTI DEL MAGAZINE

BARACK OBAMA

XI JINPING

HILLARY CLINTON

ENNIO MORRICONE 1


!MPATTO - SOMMARIO N.10 | 18 Aprile 2015

CONTENUTI LA POLVERIERA MEDIORIENTALE Gli Stati Uniti d’America hanno incrociato il loro destino con quello dell’antica Mezzaluna fertile. Siria, Iraq, Israele nell’interesse americano tra guerre, petrolio e terrorismo in un intreccio politico in cui gli scenari restano sempre gli stessi.

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La riduzione della povertà la Cina sostiene di aver risollevato seicentoventi milioni di persone dalla povertà. Quanto è stata determinante la strategia ufficiale nel record della riduzione di povertà?

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I tanti falsi miti sulle imposte La riduzione delle aliquote impositive, tanto urlata dai politici, è una strada realmente di successo?

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Are You Enjoying This Tax Season? Happy Tax Day! How has your filing gone? If you needed any help from the IRS, chances are it has been awful.

MURI E VERGOGNA Ottomila barriere distribuite nel mondo. Muri di cemento, mattoni, filo spinato e confini imposti, eretti per dividere, disperdere ed evitare il contatto.

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La nota giusta, lo strumento giusto, il compositore adatto possono, più di qualsiasi elaborato effetto visivo, imporre imperativi quanto mai categorici.

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IMPATTO MAGAZINE È UNA TESTATA GIORNALISTICA REGISTRATA PRESSO IL TRIBUNALE DI NAPOLI CON DECRETO PRESIDENZIALE NUMERO 22 DEL 2 APRILE 2014. 2

Il rumore delle emozioni

Le colonne sonore Dreamworks Uscito il nuovo film della Dreamworks Home - A casa, con la colonna sonora firmata dalla pop star Rihanna, in questa occasione, anche doppiatrice della protagonista.


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Unesco come garanzia di sviluppo l’importanza del patrimonio immateriale in quanto fattore principale della diversità culturale e garanzia di sviluppo.

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Mediterranea: la dieta della vita La “diaita” in greco significava regola di vita. La dieta mediterranea descrive tutte le pratiche che conducono al benessere e oggi diviene patrimonio dell’UNESCO.

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Tutta l’arte della vera pizza

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La pizza napoletana probabile candidata al patrimonio UNESCO. Un alimento che è simbolo di cultura, rito e filosofia. 3


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POLVERIERA MEDIORIENTALE

Gli Stati Uniti d’America hanno incrociato il loro destino con quello dell’antica Mezzaluna fertile. Siria, Iraq, Israele e l’interesse americano a centro di guerre, petrolio e terrorismo, in un intreccio politico in cui gli scenari e gli interlocutori restano sempre gli stessi. articolo di Valerio Varchetta

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!MPATTO - ATTUALITÀ N.10 | 18 Aprile 2015

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n concetto di Stato avvicinabile a quello che oggi conosciamo ha iniziato a germogliare in epoche lontane nella “culla della civiltà”. Un insieme di Stati intorno alla Mezzaluna Fertile e alla Mesopotamia, che oggi prendono il nome di Iran, Siria, Iraq, Israele. Se l’orologio della storia tornasse dietro bisognerebbe considerare per la nostra civiltà un altro luogo d’origine, che si trova dall’altra parte dell’Atlantico, e che, in un’ideale staffetta di lingua e cultura ha via via raccolto il testimone dei popoli mesopotamici, dei Greci, dei Romani, e dell’Europa nata dopo il Medioevo. Gli Stati Uniti portano la bandiera dell’Occidente e da diversi anni hanno incrociato il loro destino con quello dell’antica culla dell’umanità, in un intreccio non culturale, ma fatto di guerra, petrolio e terrorismo. In principio fu Israele, poi - Dalla nascita di Israele, nel 1948, l’America ha avuto altri 11 Presidenti, è stata impegnata in altri conflitti sul fronte asiatico, ha visto cadere alleati e nemici come l’Iran degli Scià o l’Unione Sovietica. Eppure il fronte mediorientale continua a rappresentare una spina nel fianco, a impegnarla costantemente nonostante i vari propositi (almeno dichiarati) di un progressivo disimpegno. Troppo alta la posta in gioco, troppo alti gli interessi che ci sono dietro, troppi i nemici nati nel corso degli anni. Durante la Guerra Fredda gli schieramenti erano ben definiti: I CAMBI DELLA POLITICA ESTERA US L’Iraq di Saddam Hussein è passato da alleato nella guerra con l’Iran nei primi anni ‘80 a nemico solamente dieci anni dopo, con la guerra contro l’Iraq (2003 - 2011).

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gli Stati Uniti con Israele, l’Unione Sovietica con parte dei Paesi Arabi che si opponevano allo stato ebraico. Venuto meno il nemico d’oltre cortina, per Washington è iniziato un periodo in cui si è trovato ad essere unico arbitro esterno dei destini dell’antica culla della civiltà. Al netto della questione israeliana, però, gli alleati degli Stati Uniti sono spesso cambiati, a seconda della loro situazione interna e delle vicende nelle quali si venivano a trovare in politica estera: ne è un esempio l’Iraq di Saddam Hussein, passato da alleato nella guerra con l’Iran nei primi anni ‘80 a nemico solamente dieci anni dopo. Partner storico della Casa Bianca in Medio Oriente è l’Arabia Saudita, culla dell’Islam, nel cui territorio si trovano le città sante di La Mecca e Medina. Terre in cui un non musulmano non può mettere piede. Uno dei luoghi più lontani dall’Occidente che, d’altronde, negli anni ha stretto numerosi

accordi, soprattutto petroliferi, con le compagnie americane. Il governo di Riyad ha sempre coltivato in vari modi i rapporti con l’Occidente, per esempio attraverso l’organizzazione di eventi sportivi come la Coppa Re Fahd, torneo calcistico che è diventato l’odierna Confederations Cup. Ciò le ha permesso di diventare l’antesignano delle location esotiche per eventi di tale portata ed è stato imitato negli anni successivi da Bahrein e Qatar. Ha creato l’immagine di Paese moderato, soprattutto in politica estera, ponendosi come Paese amico degli Stati Uniti e riuscendo quindi ad avere le mani libere in politica interna, dove sussiste un concetto di libertà e democrazia del tutto particolare. Attualmente, anche in politica estera, gli Stati Uniti sono chiamati ad intervenire in aiuto dell’alleato saudita, impegnato militarmente contro i ribelli sciiti nello Yemen.


È raro sentir parlare di questo Paese, diventato famoso negli anni scorsi più che altro per i sequestri di persona; ha attraversato invece una fase storica molto complessa, giungendo ad una piena riunificazione nel 1990, alla quale l’Arabia Saudita si opponeva. Nello Yemen, più precisamente nell’ex Yemen del Sud si trova la città di Aden, terra di conquista nel corso dei secoli, dapprima portoghese, poi ottomana, infine britannica. Il motivo per il quale Aden è stata ambita nel corso dei secoli è la sua posizione geografica: il suo Golfo, dove si trova un importantissimo porto, è una fondamentale via d’acqua, e costituisce la porta verso il Mar Rosso. Uno snodo commerciale di fondamentale importanza nel Mondo. È lì che, in questi ultimi tempi, sta scoppiando l’ennesimo conflitto a base religiosa di quella regione, con i ribelli sciiti, minoranza nel Paese, che dopo aver conquistato la capitale Sana’a, si sono avvicinati ad Aden, base petrolifera non

solo yemenita, ma anche saudita. Lasciare lo Yemen, e quindi Aden, in mano agli sciiti, sarebbe inaccettabile per l’economia di Riyad, e di conseguenza anche per quella statunitense. Non a caso gli Americani fanno parte della coalizione anti-sciita guidata dall’Arabia Saudita. Non è solo questo il motivo per cui gli Stati Uniti si sono trovati coinvolti in una guerra tra sunniti e sciiti. Il problema riguarda soprattutto le basi militari americane presenti sul territorio: molte sono già state chiuse e i reparti speciali sono stati ritirati. In una zona dove il Califfato sta facendo proseliti, non è possibile arretrare militarmente, ecco perché c’è l’interesse a riportare ordine nella zona. I ribelli sciiti, però, al contrario dei Curdi in Turchia, non sono soli, ma hanno chi li sostiene: sono supportati da chi si trova dall’altra parte del Golfo Persico, dal più grande stato sciita al Mondo, anch’esso con una storia millenaria che lo annovera tra le culle della civiltà.

LASCIARE LO YEMEN in mano agli sciiti, sarebbe inaccettabile per l’economia statunitense. Non a caso gli Americani fanno parte della coalizione anti-sciita guidata dall’Arabia Saudita. Patto col Grande Satana - Il 4 Dicembre 1997, a Marsiglia, ebbe luogo il sorteggio dei gironi per i Mondiali di calcio del 1998. L’Iran, erede della storica Persia di Ciro il Grande, fu inserito nel girone F insieme a Germania, Jugoslavia e Stati Uniti. L’esito del sorteggio fece subito scalpore: due Paesi senza relazioni diplomatiche da vent’anni, da quando l’Ayatollah Khomeini aveva rovesciato l’ultimo Scià. Il 21 Giugno dell’anno successivo a Lione si giocò una partita blindata, senza che però succedesse alcunché; l’Iran vinse 2-1, ma questo risultato non servì a molto per il prosieguo del torneo, dato che al termine del girone entrambe le squadre furono eliminate. Il risultato fece però grande rumore in Iran: era stato battuto il Grande Satana, come lo 7


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GLI SCIITI CONTRO I JIHADISTI DELL’ISIS pongono gli Americani in una situazione di ambiguità: da un lato la lotta al fianco dei Sauditi, dall’altro l’interesse verso i combattenti sciiti contro le bandiere nere chiamava Khomeini, al quale l’esito della partita sarebbe certo piaciuto. Probabilmente non gli sarebbe andato a genio l’accordo stipulato di recente tra l’Iran, dove è ancora in vigore la forma di governo da lui introdotta, e il nemico per eccellenza. I termini dell’accordo, alla cui base ci sono esigenze precise per tutti i contraenti: rinuncia all’atomica da parte di Teheran e revoca delle sanzioni da parte occidentale. Non si può vivere sempre di sanzioni; è questo che deve aver spinto il presidente iraniano Hassan Rohani al tavolo. Anche da parte statunitense, però, l’accordo ha una serie di conseguenze importanti. Gli sciiti che combattono nello Yemen sono sostenuti dall’Iran, che potrebbe decidere di sostenerli in maniera aperta. Assicurarsi una rinuncia ad un programma nucleare con fini militari rappresenta per gli Stati Uniti una tutela in una situazione come questa. C’è da dire anche che gli sciiti sono in prima fila contro i jihadisti dello Stato Islamico, il che pone gli Americani in una situazione di ambiguità: da un lato la lotta al fianco dei Sauditi, dall’altro l’interesse verso i combattenti sciiti contro le bandiere nere. Prima che l’accordo entri effettivamente in vigore Obama dovrà superare numerose resistenze interne. In primis quella del Congresso ormai in mano ai Repubblicani. Ad un anno e mezzo dalle elezioni, questo accordo può essere un tema per attaccare il Presidente, specialmente se non dovesse essere ben accetto dall’opinione pubblica. Se i cittadini dovessero 8

mostrarsi contrari al patto con lo Stato canaglia – risposta americana Americani alla definizione di Grande Satana - il Presidente USA potrebbe trovarsi con oppositori all’interno del suo stesso partito. In vista delle presidenziali, il partito potrebbe optare per un altro candidato dissociandosi così dalla decisione della Casa Bianca per recuperare in una corsa che lo vede in svantaggio. Da alleati ad oppositori - Non è solo in casa che l’accordo con Teheran non è piaciuto. Anche gli alleati di Washington in Medio Oriente hanno

preso male la svolta che secondo Obama rende “Il Mondo più sicuro”, a cominciare proprio dall’Arabia Saudita. Tra Arabia e Iran i rapporti sono sempre stati in bilico: per anni in clima di guerra fredda e, secondo le rivelazioni di Wikileaks, Riyad era sul punto di trasformarla in vera guerra. Inoltre l’intesa potrebbe aprire le porte anche ad accordi di stampo commerciale, scalzando l’Arabia dal ruolo di partner privilegiato degli Americani. Ma c’è un altro spettatore al quale l’intesa di Losanna non è piaciuta per niente: Israele, il primo alleato


degli Americani nell’antica culla della civiltà. Il Paese nel quale è tornato al potere Netanyahu ha subito espresso preoccupazione per i risultati del vertice internazionale, manifestando scarsa fiducia nelle intenzioni pacifiche dell’Iran. Il ministro dell’intelligence di Tel Aviv Yuval Steinitz ha chiaramente affermato che, se non avranno altra scelta, gli Israeliani sono pronti anche all’opzione militare. Minaccia reale o meno, per gli Stati Uniti si può rivelare un problema, visto l’aiuto dato ad Israele negli anni scorsi, che ha alimentato il risentimento

islamico nei loro confronti. Lo storico patto con Teheran può essere interpretato anche come un messaggio verso gli storici alleati utilizzato dagli Stati Uniti per affermare di non avere l’intenzione di appoggiarli incondizionatamente come in passato cercando di avere le mani libere da accordi che li hanno condizionati fin troppo. La culla della nuova civiltà sta cercando di cambiare gli scenari e gli interlocutori in quella vecchia. Cosciente che il Medio Oriente di adesso non è più quello in cui la storia bellica, lunga decenni, era cominciata.

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MURI DELLA VERGOGNA

Ottomila barriere distribuite nel mondo. Muri di cemento, mattoni, filo spinato e confini imposti, eretti per dividere e disperdere. Storie di muri e delle loro recinzioni, di strade pattugliate e disseminate di mine, di separazioni fisiche testimoni del passato e simbolo di soluzioni future. articolo di Giorgia Mangiapia

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BARRIERA ISRAELIANA Il muro d’Israele simbolo di un contrasto tra Israele e Cisgiordania. Dal 2002 Sharon diede iniziò alla costruzione per bloccare l’infiltrazione di terroristi nel territorio israeliano.

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CONFINE MEXICO - STATES Il muro di Tijuana, è una barriera di sicurezza costruita dagli Stati Uniti lungo la frontiera. Il suo obiettivo è quello di impedire agli immigranti illegali di oltrepassare il confine.

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na torre in mattoni costruita per arrivare al cielo. Per ascendere dall’acqua all’aria, dall’Eufrate a Dio. Per congiungersi a Lui o per superarlo? In un tempo in cui si parlava la stessa lingua perché “tutta la terra aveva le stesse parole” fu Dio a creare confusione e disordine. Gli uomini plasmarono mattoni e li cossero sul fuoco e “il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento” ma la promiscuità li allontanò e li rese distanti e separati. Non compresero più la lingua l’uno dell’altro, quel che era un solo popolo fu disperso e la città non fu più costruita. Colpa di un re, Nimrod, e della sua superbia. Dissoluto e corrotto, fu punito perché voleva raggiungere il cielo come se fosse un dio e la torre divenne simbolo di disordine e caos. “Per questo la si chiamò Babele perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra”. Così, nella Genesi, prende forma l’incomprensione tra gli uomini e si assiste al loro disperdersi. La superbia li ha costretti a lingue diverse, ad ascoltarsi senza comprendere significati ma solo recependo suoni, rumori, parole a cui non si riesce a dare un senso. Così i mattoni cotti assurgono a simbolo di separazione tra Dio e gli uomini e tra uomini e uomini ma, nel libro della creazione, i significati si moltiplicano e la costruzione di una torre occorre a rappresentare anche il darsi un nome, l’acquisire una fama. Un nome che, gli uomini dispersi, hanno ottenuto simbolicamente LA BARRIERA CIPRIOTA Rintraccia la sua origine in una mappa disegnata dall’esercito Britannico nel 1964. Il suo scopo è quello di dividere la popolazione turca della capitale Nicosia da quella di origine greca.

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prendendo il proprio posto sulla Terra. Ognuno con una propria lingua, ognuno con uno spazio da occupare finché non inizieranno ad appropriarsene e a contenderselo . Finché non inizieranno ad innalzare mattoni su mattoni. Da un Dio punitivo o realizzatore di un piano, una simbologia di spaccatura: parole afone l’una sull’altra creano lontananze, divari, diversità. Parole spesse come il cemento, s’intrecciano in catene di filo spinato, resistenti e inviolabili danno origine a muri divisori di potere, di protezione e di incomunicabilità. La sottilissima sabbia del Sahara diventa muro, dal 1975, per dividere il territorio occupato dal Marocco. Il Berm o muro Marocchino costruito per difendersi dal Fronte Polisario, voluto da re Hassan per custodire le miniere minerali, i giacimenti petroliferi e la costa pescosa, è una vera e propria zona militare. Bunker, campi spinati con la più alta

concentrazione di mine antiuomo proibite dalla convenzione internazionale, fossati, con otto fortificazioni che si estendono per circa duemilasettecento metri con basi ogni cinque chilometri. Tutto altamente militarizzato. La costruzione fu ultimata nel 1982 riducendo drasticamente le capacità offensive del Polisario e aprendo la strada al piano di pace ONU del 1988 e alla successiva tregua del 1991. Un muro strategico con i suoi ventimila chilometri di filo spinato è il muro della vergogna, una grande muraglia che separa un popolo non solo dal suo territorio ma anche da un quarto di secolo lasciandolo alla sua chiusura. Una muraglia di pietre e sabbia che ha causato vittime da entrambe le parti tra civili saharawi che hanno tentato di attraversarlo. Un altro muro della vergogna, il muro Messicano, come una barriera d’acciaio per separare la ricchezza dalla povertà, San


Diego da Tijuana. La California divisa dalla città messicana, nel 1994, per arginare l’immigrazione clandestina proveniente dal Sud America partendo dall’Arizona e dal Nuovo Messico dove ne furono edificati i primi tratti tra filo spinato, sensori elettronici, veicoli ed elicotteri armati, torri radar, illuminazione ad alta intensità e telecamere infrarossi. Una barriera di sicurezza lunga millecento chilometri che si estende fino al mare. La rigidità dell’acciaio s’impone contro le onde cristalline dell’oceano che lì s’infrangono mentre ancora i sudamericani rischiano la vita pur di attraversare la frontiera e poter entrare negli Stati Uniti. Una barriera di fossati e doppio filo spinato anti-immigrati tiene distanti Grecia e Turchia dal 2012. Lungo le rive del fiume Evros, la Grecia ha voluto l’edificazione di un vero e proprio muro per arginare l’ondata di clandestini provenienti dalla Turchia. Ed un ulteriore alt è stato approvato di recente tra la Turchia e la Bulgaria per centosette

chilometri con un muro che impediva ai cittadini dell’Unione Sovietica di scappare verso l’Ovest. Dopo la costruzione del muro greco, infatti, i flussi migratori provenienti dall’Africa, dal Medio Oriente e dall’Afghanistan, si sono spostati verso la Bulgaria perché, con l’avvicinarsi dell’estate, si presuppone che tenteranno di raggiungere le zone di confine più scoscese non ancora recintate. Muri edificati dove altrettanti muri furono smantellati, campi minati dove negli anni novanta si cercò di eliminare una per una le mine di un’altra recinzione e di un altro isolamento. Ad Ovest sei metri di filo spinato separano l’Africa dall’Europa: Ceuta e Melilla, due enclave spagnole in terra marocchina, garantiscono una posizione strategica sullo Stretto di Gibilterra e sulla Costa Orientale del Marocco. In zone dilaniate dalla guerra, dalla fame e dalla miseria, rappresentano un’oasi e la meta sicura per poter entrare in Europa. Negli anni ’90 erano già

SEPARAZIONE DI CEUTA E MELILLA Il confine è composto da due distinte barriere fisiche di separazione tra il Marocco e le città spagnole di Ceuta e Melilla al fine di impedire immigrazione e contrabbando state innalzate barriere, rafforzate poi da una doppia recinzione elettrificata di filo spinato, lungo un muro metallico di 8 km per Ceuta e 12 per Melilla. Un giro di cordone spinato isola due città dal resto dell’Africa con strade pattugliate giorno e notte e vigilate da sensori elettronici e telecamere infrarossi. Nel continente dall’anima istintiva, nella terra dell’attrazione per una natura vergine, incontaminata, vera, primordiale, ancora sentinelle che limitano, obiettivi che controllano e fili che separano. I luoghi della vergogna - La storia dei muri del mondo non è sempre la stessa e ci sono luoghi in cui non esiste un vero e proprio muro, a volte basta un parallelo a creare un confine limitante: il 38° parallelo funge da barriera tra 17


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la Corea del Nord e la Corea del Sud. In origine rappresentava la separazione tra le zone d’influenza sovietica e americana. Dal 1948 ha segnato il confine tra le due nazioni coreane. La Guerra Fredda ha lasciato un segno tangibile in una lingua di terra che divide villaggi, città, strade, ferrovie e milioni di persone. Ad angolo acuto da sud-ovest a nord-est la zona demilitarizzata coreana rappresenta, in stridente contrasto col suo nome, il confine più armato del mondo. Una terra di nessuno disseminata di mine, sorvegliata da soldati con armamenti convenzionali e nucleari, dove le due Coree si fronteggiano, sfidano e minacciano in un continuo cessate il fuoco in attesa ancora di un trattato di pace mai firmato. Ci sono, poi, luoghi in cui non esiste solo un muro ma il luogo stesso è un muro continuo tra moschee, alberghi, ospedali, ville. A Baghdad i muri sono ovunque: lungo i fiumi, tra le carreggiate delle strade, tra sunniti e sciiti. Qui i muri si sovrappongono ai muri, come la storia si sovrappone con i suoi strati. Dopo quelli del Rais, è subentrato il turno dei muri americani e dei loro alleati fino a dividere la città in undici quartieririfugio come la roccaforte sunnita sulle rive del Tigri circondata da distretti sciiti o il regno delle milizie di Moqtada circondata da una barriera di cemento innalzata in una sola notte. Tre metri di apnea all’indomani della caduta del regime di Saddam Hussein. Si potrebbe continuare ancora a scrivere di muri, le loro storie sono innumerevoli: ottomila chilometri di barriere distribuite nel mondo. Da Cipro divisa in due dalla linea verde a Belfast con le Peace Lines dell’Irlanda del Nord. Barriere in cemento e mattoni, in 18

lamiera o semplici staccionate per dividere comunità cattoliche da quelle protestanti. Dalla barriera metallica tra India e Bangladesh pattugliata da guardie con l’ordine di sparare a vista ai muri in Israele che aumentano e si fortificano. Dalla barriera di sicurezza con la Cisgiordania al confine barricato con il Libano fino al confine con l’Egitto e alla striscia di Hamas pattugliata lì dove non si possono erigere muri. In attesa che la bandiera nera dell’ISIS spinga alla costruzione di altri muri e di altre barriere. L’emblema della guerra - Un ricordo lontano ma impresso nella Storia è rappresentato da una data: il 9 novembre 1989 un muro cadde, emblema della fine della Guerra Fredda. A Berlino non si ricongiunsero solo due città

ma l’Europa intera abbattendo a picconate la striscia della morte, simbolo della cortina di ferro. Per un muro che cade, chilometri di divisioni ancora restano erette. Ve n’è uno che non divide ma unisce culture, razze ed etnie. Il Muro del pianto di Gerusalemme, fulcro per le tre religioni monoteiste. Luogo sacro per gli ebrei perché punto più vicino a Dio, per i cristiani perché è qui la Basilica del Santo Sepolcro di Cristo, per i musulmani perché meta del viaggio spirituale compiuto da Maometto. Lingue diverse e credi diversi s’inginocchiano per pregare insieme. Con mani che toccano il muro, con preghiere infilate nelle crepe della memoria invalicabile. Un muro di fronte al quale tutta la Terra torna ad avere le stesse parole e a parlare la stessa lingua.

MURO DI BERLINO impediva la libera circolazione delle persone tra Berlino Ovest e il territorio della Germania Est. È stato l’assoluto simbolo della cortina di ferro, linea di confine europea tra la zona d’influenza statunitense e quella sovietica durante la guerra fredda.


IL RECORD DELLA RIDUZIONE DELLA POVERTÀ Gli abitanti di Dingjiayan sopravvivono di patate e verdure mentre un po’ più a monte un altro villaggio aspetta sussidi... ma intanto la Cina sostiene di aver risollevato seicentoventi milioni di persone dalla povertà. Quanto è stata determinante la strategia ufficiale nel record della riduzione di povertà? TRADUZIONE DI LUISA ERCOLANO

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li abitanti di Dingjiayan sopravvivono di granturco, patate, girasoli e le poche verdure che coltivano. Vendono l’eccesso e comprano carne e pochi altri beni di prima necessità nella vicina cittadina di Tianzhen. I suoi edifici di fango e mattoni e la sua posizione tra polverose colline nell’angolo nordest della provincia di Shanxi, offrono poco all’occasione visitatore per distinguerla dalle innumerevoli altre parti della Cina dove il duro lavoro porta solo un esiguo guadagno. Tuttavia, la contea di Tianzhen, di

cui Dingjiayan è una parte, è una delle 592 aree che il governo centrale designa come “impoverite”. La designazione di “impoverita” porta sostanziali sussidi. Ma Ding Tianyum che ha vissuto a Dingjiayan per tutti i suoi 73 anni, dice di accorgersene a malapena. Molte famiglie guadagno circa 10000 yuan l’anno, afferma, e ricevono un sussidio di 80 yuan per ogni mu (614 metri quadri) di terra coltivata. “Ho cinque mu”, dice il signor Ding. “Quando c’è abbastanza pioggia sto bene, e quando ho il sussidio mi sento un po’ più ricco”. Con negozi trafficati e un bel numero

di auto costose sulle sue strade, la città di Tianzhen non sembra, per gli standard cinesi, impoverita. Non viene divulgato molto riguardo a come vengono usati i sussidi, afferma il proprietario di un ristorante. “Ci viene detto che una grossa parte va all’unione di credito locale e che possiamo chiedere loro dei mutui, ma vengono concessi solo a chi ha buone connessioni”. Bella sulle montagne - Nel 2012, quando la lista è stata aggiornata l’ultima volta, fu aggiunta la contea di Xinshao nello Hunan, nella Cina centro-meridionale. I funzionari 19


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NEI VILLAGGI RURALI le famiglie sono costrette a vivere in condizioni quasi medioevali. locali hanno usato il sito web ufficiale della contea per strombazzare questa “eccezionale buona notizia” dopo due anni di “ardui sforzi” e “indicibili difficoltà”. Un ampio cartello sul ciglio della strada aggiungeva le sue “ardenti congratulazioni”. Dopo le critiche nazionali, i funzionari hanno riconosciuto che le loro parole erano state scelte male. Ma il loro entusiasmo era comprensibile: la designazione ufficiale era valsa 560 milioni di yuan extra per la contea ogni anno da parte del governo centrale. L’episodio ha fatto sì che molti mettessero in dubbio il valore del sistema e i perversi incentivi che crea per i governi locali. Un commento lo scorso anno sul Legal Daily sosteneva che molti luoghi abusano dei fondi e hanno falsificato i loro conti per qualificarsi come impoveriti. Funzionari dell’Ufficio Principale del Consiglio di Stato per la Riduzione della Povertà e lo Sviluppo (State Council Leading Group Office of Poverty Alleviation and Development), che si occupa della lista, ha riconosciuto gli abusi diffusi. A febbraio ha vietato nuovi edifici sfarzosi e “progetti di immagine” in aree ufficialmente designate come povere. Le televisioni di Stato hanno 20

fornito un resoconto su due contee, una in Ningxia e una in Hubei, dove i governi locali hanno speso 100 milioni di yuan ognuno in nuove sedi centrali. A marzo, durante l’annuale sessione legislativa plenaria cinese, il capo del consiglio per la povertà, Liu Yongfu, ha sollevato una diversa questione sul programma. Ha riferito al giornale Southern Metropolis che centinaia di contee saranno rimosse dalla lista entro il 2020. “Se esiste ancora un’area povera grande quanto una contea, la Cina può ancora essere

detta moderatamente prospera?” ha chiesto. Il raggiungimento di una “società moderatamente prospera” è un traguardo che i precedenti leader cinesi si sono posti e che Xi Jimping, l’attuale presidente, ha adottato a sua volta. Si sono avuti molti progressi dalle riforme iniziate sul finire degli anni Settanta. La Cina sostiene di aver risollevato 620 milioni di persone dalla povertà da allora. Altri potrebbero cavillare su quella cifra – la Banca Mondiale sostiene siano 500 milioni – ma in pochi mettono in questione che la Cina meriti immenso credito per aver alleviato così tanto la povertà. Resta ancora tanto. Un po’ più a monte rispetto a Dingjiayan si trova un villaggio più piccolo, Dingyanyao. La sua maggior altitudine comporta un minor apporto di acqua, e un residente sostiene che la maggior parte dei suoi 90 abitanti guadagnerà al netto solo 1000 yuan dopo aver pagato sementi e fertilizzanti. Qualcuno possiede motociclette e televisori, e sono grati dell’assicurazione medica di base. Ridono all’unisono quando viene loro chiesto se ricevono sussidi. Sono tutti d’accordo sul fatto che l’arrivo dell’elettricità trent’anni fa sia stato un vasto miglioramento. Ma poco è cambiato nelle loro vite da allora.

NELLE GRANDI METROPOLI la popolazione è costretta a vivere in grandi agglomerati.


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I TANTI FALSI MITI SULLE IMPOSTE

Articolo di Marco Tregua

La pressione fiscale è al centro di dibattiti politici ed economici a seguito della crisi economica e delle imprese, ed i nuovi candidati alla Casa Bianca ne sono stati investiti fin da subito. Ma la riduzione delle aliquote impositive è una strada realmente di successo? Per arrivare ad una risposta soddisfacente bisogna indagare sugli effetti a breve e a lungo termine di questa manovra.

L’

imposizione fiscale è al centro del dibattito in molte economie occidentali, soprattutto alla luce della riduzione dei consumi che, sebbene in parte tenda a ridursi, continua a rendere problematiche le condizioni reddituali e finanziarie di molte imprese. I principali governi hanno allo studio interventi volti alla riduzione delle imposte, quale modalità di rilancio dei consumi, soprattutto sulla base delle pressioni emergenti da parte delle famiglie e derivanti dalle evidenze

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delle analisi degli istituti nazionali. Negli Stati Uniti il dibattito è più acceso che mai, sia a livello dei singoli stati sia nell’intero paese, anche in vista dell’imminente boom della campagna elettorale presidenziale, che proprio nei giorni scorsi ha svelato i nomi dei nuovi pretendenti alla Casa Bianca. Le richieste di riduzione dell’imposizione fiscale, però, provengono dai governatori di alcuni stati, Arkansas e New Mexico su tutti, e spesso sono riferiti a specifici ambiti o tipologie di consumo e non alla possibilità di

ridurre il complessivo carico fiscale che colpisce i redditi familiari. Ma la riduzione delle aliquote impositive è una strada realmente di successo? Senza dubbio, l’effetto nel breve periodo è l’incremento delle disponibilità di spesa delle famiglie e la conseguente ripresa dei consumi, ma le ricadute sulla spesa pubblica e sulle voci del bilancio pubblico, nonché gli effetti nel medio periodo non vanno trascurate. A conferma di quanto appena detto, è possibile valutare cosa accaduto in due realtà che, seppur non appartenenti al


mondo occidentale in senso stretto, possono dare maggior consistenza alle considerazioni sull’imposizione. Spicca, difatti, il caso di Zanzibar, la cui politica fiscale ha subito numerose modifiche negli ultimi mesi, cercando di privilegiare gli ambiti economici maggiormente sofferenti, tra cui l’agricoltura e le attività turistiche. La politica intrapresa ha dato frutti particolarmente apprezzabili nel breve periodo, dimezzando l’inflazione dal 2012 al 2013, soprattutto vista la ripresa dei consumi di alcune referenze alimentari di tipo basilare. Dal 2013 al 2014, però, gli effetti benefici intravisti nei 12 mesi precedenti sono svaniti, in quanto il debito pubblico è cresciuto quasi del 20%, compensando i positivi risultati che avevano fatto registrare il business agroalimentare (crescita raddoppiata dal 2012 al 2013) e i servizi turistici (passati da crescita zero a un incoraggiante +7%). Altro teatro di importanti modifiche in termini fiscali è stata l’Ungheria, dove il decadimento dei depositi bancari e degli investimenti aveva comportato la necessità di pianificare interventi in favore del settore bancario che, tuttavia, sono stati rinviati per compensare l’utilizzo del fondo di supporto del sistema bancario, utile a ridare vitalità ad alcune delle imprese che versavano in condizioni particolarmente critiche. Riduzioni dell’imposizione e rinuncia alle stesse sembrano essere gli strumenti di più frequente utilizzo, tra stimoli al consumo e vincoli del bilancio pubblico, ma qual è la soluzione ideale per il medio periodo? Le prossime scelte e i risultati conseguiti chiariranno lo scenario.

L’OPERAZIONE MARKETING

Hillary Clinton si veste di normalità Moglie, madre, nonna, militante per i diritti di donne e bambini, ex-First Lady, senatrice, appassionata di completi pantalone, candidata alle presidenziali 2016. Così, sul suo account Twitter, si descrive Hillary Clinton, ex first lady della presidenza del marito Bill. Il lancio della sua campagna elettorale avviene in Iowa – il primo Stato a tenere le primarie, nel gennaio 2016 – e mentre la macchina organizzativa si mette in moto la candidata disegna il messaggio da veicolare agli elettori: una donna “normale”, attenta ai bisogni della classe media, capace di guardare alla vita con lo sguardo, affettuoso, di una “moglie, madre, nonna”.

Are You Enjoying This Awful Tax Season? written by David Shipley for Bloomberg View

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appy Tax Day, America! How has your filing gone? If you needed any help from the Internal Revenue Service, chances are it has been awful. Lines of taxpayers seeking assistance have looped around the block at some IRS branches this year. Waiting times have stretched into hours. An estimated six in 10 callers to the agency’s toll-free lines haven’t been able to get through, and those who have could get help with only the most basic questions. Everyone else is free to try their luck on the agency’s bewildering website. This dysfunction shouldn’t really be a surprise, as Bloomberg reports. The IRS has become a terrible place to work in recent years, with stagnant salaries, staffing shortages, archaic technology and budget cuts so severe that some employees are buying their own office supplies. Not to mention the extravagant rhetorical assaults from Capitol Hill. It didn’t have to be this way. Since 2010, the IRS budget has been slashed by $1.2 billion, its workforce has declined by 11 percent, and its funding for training has plunged by 83 percent. Congress enacted these cuts even while giving the agency more elaborate responsibilities -- such as the tax provisions of the Affordable Care Act and the Foreign Account Tax Compliance Act -- and even as tax-related identity fraud has soared. Some members of Congress have said that the budget cuts were intended to punish the IRS for past misdeeds or to force improvements in management. Set aside the peculiar logic of “punishing” a federal agency. In imposing the cuts, Congress is simply making life harder for taxpayers, especially the poor and elderly who often need assistance with their filings. Cutting back on training, persisting with obsolete systems and encouraging competent staff to find work elsewhere only intensifies the IRS’s problems. And it enables tax cheats of all variety: With audits and investigations plummeting, the government will forgo at least $2 billion in revenue that should have been collected this year. In short, Congress has written an outrageously complicated tax code, repeatedly cut funding to help voters with their returns and made cheating easier than ever. You don’t need an accountant to figure out that this is a formula for disaster.

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IL RUMORE DELLE EMOZIONI Cultura & Spettacolo Liliana Squillacciotti

Cosa riesce ad evocare una sensazione più delle note giuste, poste nel luogo giusto dello spartito? La nota giusta, lo strumento giusto, il compositore adatto possono, più di qualsiasi elaborato effetto visivo, imporre imperativi quanto mai categorici.

Prima del sonoro e i tanti mitici sodalizi

Precedentemente all’innovazione tecnica del sonoro, i film erano accompagnati normalmente da musica eseguita dal vivo. Nel 1916 Victor Schertzinger registrò le prime musiche da utilizzarsi specificamente per una pellicola cinematografica, mentre la vendita di colonne sonore di film divenne una consuetudine a partire dagli anni trenta. Alcune colonne sonore, o alcune canzoni da queste estratte, sono rimaste memorabili nella storia del cinema. Alcuni sodalizi celebri tra compositori e registi hanno finito per diventare tratto distintivo della filmografia di questi ultimi: si pensi a Sergej Prokofiev per Sergei Eisenstein, Bernard Herrmann per Alfred Hitchcock, Nino Rota per Federico Fellini, Ennio Morricone per Leone e per Giuseppe Tornatore, Nicola Piovani per Benigni o Badalamenti per David Lynch.

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gni storia, sia essa vissuta, osservata, raccontata, scritta, diretta, interpretata, suona le proprie note. Ogni storia, porta con sé un interminabile ed intricato groviglio di onde sonore, pronte a districarsi dando vita a parole, rumori, musiche e silenzi. Ogni storia vive di immagini, di figure, destinate a muoversi seguendo un ritmo, fosse anche solo quello del motore che

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IL PIANISTA SULL’OCEANO è un film del 1998 diretto da Giuseppe Tornatore, tratto dal monologo teatrale di Alessandro Baricco.

le tiene in vita. Quel groviglio di onde sonore, viene impresso sulla pellicola, nella mente e nei ricordi. Piccolissimi segnali luminosi, pronti a completare, creare, suggerire. Oltre le parole, oltre i rumori, tra quei piccolissimi segnali luminosi, la musica sembra configurarsi come strada maestra, come la stella polare pronta ad indicare la via, a suggerire, quasi come una benevola compagna di banco. “La musica per il film è il gesto del bambino

che canta nel buio per proteggersi, la colonna sonora nacque per attutire l’impatto dei fantasmi sullo schermo.” Nascondersi dai fantasmi, nascondersi da ciò che incute paura, in maniera istintiva, primordiale, come fanno i bambini. Associare il timore al silenzio, al muto, al non detto, e non riuscire a trovare altro modo per fuggirne se non quello di riempire quello stesso silenzio, inducendolo a scomparire continuando a parlargli,


a cantargli contro. Quasi come una sfida, una guerra, dove basta una singola parola, per far sì che il nemico sventoli bandiera bianca. Per riuscire a condurlo alla resa, semplicemente indicandogli la via. La colonna sonora ha un ruolo cardine all’interno della struttura di un prodotto che è sì prevalentemente, ma non unicamente, visivo. Un ruolo che è andato modificandosi durante il corso dei decenni, ma che non è mai stato realmente al “grado zero”. L’immaginario collettivo pone infatti le prime proiezioni cinematografiche in un silenzio assordante che, in realtà, non è mai esistito. Da un pianoforte suonato per coprire il ronzio del proiettore, a “2001: Odissea nello spazio”. La musica diventa, nel tempo, parte integrante di una rappresentazione basata sul ruolo delle immagini, che nasce dallo stupore visivo, ma che in esso non va ad esaurirsi. Uno stupore che cerca, nell’accompagnamento sonoro, la propria completezza. Ricerca una sorta di aderenza alla realtà, che nel suo essere ossimorica, va a delineare il perimetro di un mondo al confine; di un cuscinetto pronto ad assorbire le scosse di ciò che si pone come nuovo, estraneo, alieno. Il sistema è, senza ombra di dubbio, gerarchizzato; le immagini in movimento prima, i suoni poi. Ma quanto, realmente, questa gerarchizzazione risulta essere figlia di una presunta superiorità di ruolo e quanto, invece, nasce da una questione meramente tecnico-cronologica? Cosa riesce ad evocare una sensazione più delle note giuste, poste nel luogo giusto dello spartito? La nota giusta, lo strumento giusto, il compositore adatto possono, più di qualsiasi elaborato effetto visivo, imporre imperativi quanto mai categorici. Emozionati, piangi, ridi, abbi paura, arrabbiati. Aderenza perfetta tra

ciò che ci si aspetta di vedere, di provare e ciò che si ascolta. Quell’ aderenza che riesce a rassicurare rispetto a quei fantasmi tanto temuti dai bambini che spesso riescono ancora ad albergare negli occhi di chi “bambino” non si ritiene più da tempo. Ma cosa accade quando quell’aderenza viene a mancare? Quando i suoni non corrispondono alle immagini, a ciò che ci si aspetta di vedere. Quando i suoni, pur esistendo e sussistendo, non riescono a far zittire la sensazione di inatteso, quando, anzi, la alimentano, cosa succede? In che modo i bambini ospitati da occhi adulti riescono a proteggere loro stessi? Semplicemente non lo fanno, ma ciò che ne guadagnano è una sensazione di continuo stupore. Ciò che si guadagna dalla non aderenza dei suoni alla realtà è

la necessità della riflessione. Capire il perché di determinate scelte, interrogarsi su cosa possa volerci suggerire una simile discrepanza, dubitare di ciò che si è sempre configurato come un aiuto, rendersi conto che forse pretendere un qualsiasi tipo di certezza assoluta da quella che risulta poi essere una caduca scia di mollichine di pane, può essere stato un errore. Una capricciosa folata di vento, e il percorso con tanta cura creato assume connotati completamente diversi e sconosciuti. Tornare indietro, all’origine di fatti, delle scelte, delle indicazioni, diventa una sorta di caccia al tesoro. Ma è durante quella ricerca, di strade e significati, che ci si potrà rendere conto che perdersi può rivelarsi la via più sicura da intraprendere. Nelle orecchie la spensieratezza di

CANTANDO SOTTO LA PIOGGIA (Singin’ in the Rain) è un famoso film del 1952 diretto da Stanley Donen e Gene Kelly, interpretato daGene Kelly, Donald O’Connor e Debbie Reynolds.

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“I’m singing in the rain”, negli occhi l’incredulità ed il disgusto generati da un’aggressione ed uno stupro. In quale altro modo sarebbe stato realmente possibile fare in modo che lo spettatore entrasse in contatto con l’insensatezza di una violenza che vuole apparire e configurarsi come “gratuita”. Più del contrasto, della perdita di aderenza, più del profondo straniamento generato dall’associazione di registri così lontani, cosa avrebbe potuto davvero rendere così concreto un disagio che è tutto psicologico e dunque, per propria definizione, inaccessibile? Cosa avrebbe potuto portare lo spettatore ad avere un’idea, seppur artefatta, dello stesso disgusto provato da Alex durante la sovrapposizione di immagini violente al “dolce, dolce, Ludovico Van”? Nulla. Nulla, se non la giusta colonna sonora. Nulla, se non la perfetta discrepanza di quest’ultima rispetto ai fantasmi dello schermo. A John Williams sono bastate, letteralmente, un paio di note per incutere terrore; “Lo Squalo”. Il mondo di Amèlie sarebbe “favoloso” allo stesso modo, se si facesse tacere l’arte di Yann Tiersen? Rocky correrebbe allo stesso modo una volta eliminata “Eye of the tiger”? Quale suono avrebbe il selvaggio West, senza Morricone? Ogni vita che viene raccontata, ogni sogno in pellicola che prende forma urla a gran voce il diritto ad essere musicato. Ogni storia ha i propri rumori, i propri silenzi, le proprie musiche. Le proprie parole e le proprie pause. Ogni immagine ha il desiderio di potersi esprimere, attraverso un fruscio, una nota, una sillaba. “La musica per film dovrebbe lampeggiare e scintillare. [...] Nella sua attitudine a sparire subito, la musica riprende tuttavia l’esigenza in cui consiste il suo inevitabile peccato cardinale nel cinema: l’esigenza di esserci”. 26

Le colonne sonore Dreamworks da Madagascar a Home con la pop star Rihanna

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uscito il nuovo film d’animazione della Dreamworks, Home - A Casa. La pellicola racconta la storia dell’amicizia tra Oh, un piccolo alieno viola, e una ragazzina di nome Tip, doppiata nella versione originale da Rihanna. La cantante, oltre a dare la voce alla protagonista, ha deciso di produrre un vero e proprio concept album di dodici tracce, che compongono la colonna sonora del film. Nella soundtrack, prodotta dalla Roc Nation di Jay Z, sono presenti tre inediti della popstar delle Barbados: Towards the Sun, As real as you and me e Feel The Light. Quando si parla di musica, i film della Dreamworks non creano mai qualcosa di banale. Ripercorrendo le pellicole passate, infatti, si possono scovare brani che sono diventati tormentoni ma anche pezzi di artisti di alto livello, che ormai sempre più spesso si cimentano con l’animazione. Pronti a farvi una scorpacciata di note e divertimento? Vanni Paleari per TV Sorrisi e Canzoni

IL FAVOLOSO MONDO DI AMÉLIE (Le Fabuleux Destin d’Amélie Poulain) è un film scritto e diretto da Jean-Pierre Jeunet ed interpretato da Audrey Tautou, Rufus e Mathieu Kassovitz.


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L’UNESCO E ANTICHI PATRIMONI N.10 | 18 Aprile 2015

L’Unesco restituisce l’eredità delle generazioni del passato. Esiste un passato fatto di mestieri che rischiano l’estinzione: il Patrimonio Immateriale dell’Umanità. È così che nasce una lista con i capolavori da tutelare per evitarne la scomparsa.

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er patrimonio culturale immateriale s’intendono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana”. Recita così l’Art.1 della Convenzione Internazionale per la salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale, conclusasi a Parigi il 17 ottobre 2003. Ma cos’è il patrimonio culturale immateriale? Da chi, e perché, deve essere protetto? Partiamo dall’inizio… La tutela della cultura - L’UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura), istituzione

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intergovernativa dell’ONU, nasce con lo scopo di «contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza, favorendo, mediante l’educazione, la scienza e la cultura, la collaborazione fra nazioni al fine di assicurare il rispetto universale della giustizia, della legge, dei diritti dell’uomo… senza distinzione di razza, di sesso, di lingua o di religione». Ma la pace che l’UNESCO, sin dal suo atto costitutivo, si impegna a sostenere, non è mero auspicio di accordi economici e politici tra Governi. È una pace fondata sul rispetto della dignità degli uomini. Una solidarietà intellettuale e morale verso i singoli individui, e il tutto cui appartengono. Il tutto è il mondo, che contiene paesi, e i paesi comunità, uomini e donne. Tra mura e su strade si muovono tutti, calpestando e toccando la loro storia. Ammirano le fantasie tessute da dominatori e dominati. Leggono di strade, palazzi e monumenti, testimoni di antichi fasti. Studiano i regni e il loro massimo splendore, osservano le scie degli evi più bui. Guerre e distruzioni, bonifiche e ricostruzioni. Ancora ere, religioni ed eresiarchi, tutto e tutti sono

ù articolo di Francesca Spadaro


gli artefici, pennelli inconsapevoli, del caleidoscopico disegno di un luogo. Perché ricco di forme, toni e colori è il patrimonio mondiale che l’UNESCO protegge. Identifica, scova e tutela, ogni anno, bellezze naturali e beltà decadute di epoche lontane. Restituisce alle generazioni del presente e del futuro, l’eredità delle generazioni del passato. Ma c’è un passato che non si vede e non si tocca, è quello che si ascolta e si ricorda. È un passato fatto di tradizioni orali, di arti e di spettacolo. Riti e feste di cui si conserva lontana memoria, che canti, balli e poesie antiche, provano a salvare dall’oblio. Artigianato, arti e mestieri orfani di codificazione scritta, che rischiano l’estinzione. Tutto questo è ciò che l’UNESCO definisce Patrimonio Immateriale dell’Umanità: cultura e storia non tangibile, capolavori tenuti in vita dal solo verbo che, di padre in figlio, si tramanda da secoli. Il processo di salvaguardia dei beni non materiali ha inizio nel 2001, quando l’UNESCO propone una lista di 19 voci denominata “capolavori del patrimonio orale e immateriale dell’umanità”, da tutelare per evitarne la scomparsa. Questo primo passo è mosso dal bisogno, e si muove nel tentativo, di arrestare l’ingravescente fenomeno di globalizzazione, e la degenerazione dei suoi effetti negativi. Se è vero che il villaggio – sempre più globale – in cui viviamo, accorcia le distanze, sfida i limiti del tempo e dello spazio, favorendo il contatto e lo scambio fra gli uomini, allo stesso modo è causa di omologazione sociale e appiattimento culturale, cui diretta conseguenza sono la perdita delle tipicità e delle umane diversità. Nel 2003 alle prime diciannove voci della L’ORO DI NAPOLI La Commissione italiana Unesco ha dato il via libera all’iscrizione della pizza napoletana nella lista del patrimonio UNESCO.

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lista, ne vengono aggiunte altre 28 e, nello stesso anno, la trentaduesima Conferenza generale dell’UNESCO (tenutasi a Parigi dal 29 settembre al 17 ottobre), ha stabilito una Convenzione Internazionale per la salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale, atto formalizzato che definisce il concetto – e i criteri di inclusione – in maniera più rigorosa. Liste e programmi - Tre sono le liste previste che ogni anno si arricchiscono di elementi, adeguatamente valutati da diverse commissioni: “Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità”; “Lista del patrimonio culturale immateriale che necessita di essere urgentemente salvaguardato” per i patrimoni a rischio di estinzione; “Lista di programmi, progetti e attività per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale”, ovvero le iniziative locali che meglio riflettono i principi della Convenzione e che riceveranno l’assistenza internazionale. Oggi i patrimoni sono 348 e di questi fanno parte tante tradizioni che ruotano intorno alla tavola, alla cucina, ai prodotti dei territori. Scavando nella storia delle “colture”, della lavorazione della terra, così come nei piatti, negli ingredienti e nei modi in cui vengono trasformati, si trovano i segni e i simboli dei popoli che hanno abitato il mondo. Ogni festa, ogni rito, ogni credo sono stati accompagnati, rafforzati nei loro significati, da cibi e pratiche culinarie. Nelle pratiche agricole si celano, invece, i segreti del terreno, si riconoscono le antiche credenze, forme di rispetto per la terra e per chi ce l’ha donata. Radici profonde dei più vari gruppi umani, i rituali del cibo e dei prodotti, sono elementi di profonda identificazione. Fonte di contatto tra gli uomini di un popolo e tra i popoli del mondo, consentono di comunicare le proprie differenze. Poliedrico linguaggio, universalmente comprensibile. A rischio. E il rischio che tutto questo scompaia, viene evitato, allontanato, schivato, dalle azioni promosse dall’UNESCO – e non solo. Negli ultimi anni l’organizzazione 30

Il patrimonio immateriale è garanzia di uno sviluppo duraturo ed è fattore di diversità culturale da valorizzare

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a 32° Conferenza generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura (UNESCO) riunitasi a Parigi nel 2013 ha stabilito e formalizzato una “Convenzione Internazionale per la salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità”. Attraverso 40 articoli la convenzione sancisce i criteri di appartenenza alle liste di patrimoni da tutelare e i diritti e i doveri di tutti gli “Stati Contraenti”.

La tutela delle diversità Considerazione fondante tale Convenzione è “l’importanza del patrimonio immateriale in quanto fattore principale della diversità culturale e garanzia di uno sviluppo duraturo”, come sottolineato nella Raccomandazione UNESCO sulla salvaguardia della cultura tradizionale e del folclore del 1989, nella Dichiarazione universale dell’UNESCO sulla diversità culturale del 2001 e nella Dichiarazione di Istanbul del 2002. Si fonda inoltre sul riconoscimento del ruolo che le comunità, in particolare quelle indigene, i gruppi e in alcuni casi gli individui, svolgono per “la salvaguardia, la manutenzione e il ripristino del patrimonio culturale immateriale, contribuendo in tal modo ad arricchire la diversità culturale e la creatività umana”. Le eccellenze italiane Tra i siti italiani legati alla gastronomia e all’agricoltura, compaiono la Dieta Mediterranea, la vite ad alberello di Pantelleria, il paesaggio vitivinicolo delle Langhe piemontesi e quest’anno è stata candidata, grazie ad una ampia raccolta di firme, la pizza napoletana. Francesca Spadaro

LE LANGHE E LE SEI AREE UNESCO La zona classificata dall’Unesco ha una estensione di oltre 10.000 ettari e comprende numerosi comuni e sei precise aree.


Japenese, Mexican and France Cuisines in UNESCO

GLI ALBERELLI DI PANTELLERIA Gli alberelli pantesi tra i patrimoni culturali: nessun Paese, prima dell’Italia, è mai riuscito a iscrivere nella lista una pratica agricola. si è impegnata nella tutela della “Italian way of Life”, dicitura riferita allo stile di vita, emblema del bel paese: è lo stile slow che si oppone all’imperante fast dei tempi moderni. È arte, moda, clima, paesaggio, gastronomia. Il 2010 è stato l’anno della Dieta Mediterranea: la daita scoperta da due increduli scienziati americani, è diventato patrimonio culturale immateriale dell’umanità, e per questo strenuamente difesa nelle sue pratiche e nelle sue tradizioni. Il 2014, un sì unanime levatosi dalla commissione di Parigi, ha conferito lo stesso riconoscimento alla vite ad alberello di Pantelleria, alla sua coltivazione e al paesaggio che i piccoli arbusti disegnano sulla terra arida, arsa dal sole che batte tra la Tunisia e la Sicilia. Ci si perde nella ricerca dei siti italiani, patrimoni naturali, culturali e immateriali. Dalle Langhe Piemontesi, dal loro paesaggio vitivinicolo frutto dell’attento lavoro dell’uomo, rispettoso di un’antica tradizione agricola, ci si sposta a Napoli, dove oggi la pizza è nuova candidata. Ma è del mondo che l’UNESCO protegge il folclore, espresso nelle cucine e nell’agricoltura. Tra i 348 patrimoni immateriali dell’umanità, si legge della cucina tradizionale messicana, della produzione di Pan di Zenzero della Croazia, il Festival della Ciliegia in Marocco. E tanti altri. Ma il riconoscimento non è un premio, una medaglia da esibire. È un diritto/dovere che esorta all’impegno. Ognuno degli Stati “contraenti”, per i quali cioè la Convenzione Internazionale per la salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale è in vigore, e ai cui territori – mutatis mutandi – si applica, è tenuto a salvaguardare e valorizzare il proprio patrimonio. L’obiettivo è cercare – attraverso la politica, l’istruzione, la scienza – una rete di trasmissione e comunicazione mondiale che educhi, gli uomini dell’oggi e quelli che arriveranno domani, alla cultura, tangibile, intoccabile, in via di estinzione. Alla storia di ieri.

UNESCO Designates Traditional French And Mexican Cuisines Cultural Treasures - The United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization just added 46 new items to the Representative List of the Intangible Cultural Heritage. Things, they said, that are cultural treasures worth preserving. Among them was Spanish flamenco, traditional gastronomic meal of the French and traditional Mexican cuisine. Most of the things on the list didn’t seem to cause much of a stir. After all, of the 47 nominated, 46 were approved and the committee was going review the last submission (“symbolism and craftsmanship of Khachkars, Armenian cross-stones”) today. This was also the first year that UNESCO considered food. But that Mexican cuisine made the list, got competitive spirits revving. BBC Mundo reports that Peru has for years led a concerted effort to have their cuisine acknowledged as world-class. In a piece titled, “What Does Mexican Food Have That Peruvian Food Lacks?” they talk to Isabel Álvarez, a well respected Peruvian chef and anthropologist. She blames politics: This isn’t a prize you win by having the best ceviche or 4,000 different species of potatoes. This takes research and support that doesn’t exist here... Peru isn’t on this list because there isn’t a long-term political environment that protects our cultural diversity and our cuisine. UNESCO specifically cited the importance of the food of Michoacán to Mexico’s cultural identity. Gloria López of Mexico’s National Council of Culture and Arts, told BBC Mundo it’s the reason why the designation was deserved, that it went beyond the taste buds. What was at play here, she said, was the protection of an ancestral way of life. Japanese cuisine gets UNESCO heritage status - Japan’s traditional cuisine, celebrated for its centuries-old cooking techniques and seasonal ingredients, has been added to the United Nation’s cultural heritage list. The decision to protect Japan’s traditional cuisine, known as “washoku”, was made against a backdrop of rising concerns that fast food and western dishes are increasingly eclipsing the nation’s culinary heritage. Japan will become only the second nation after France to have its national cuisine designated heritage status, a decision made by officials at a UNESCO meeting in Azerbaijan. While Japan has long been famed for its sushi, one of its most successful culinary exports, the nation has an expansive repertoire of traditional dishes beyond the raw fish snack. With its emphasis on harmony and the passing of the seasons, the art of washoku has been compared to writing haiku poems and normally consists of separate bowls of white rice, miso soup and pickles alongside main dishes. Other characteristics that have traditionally defined washoku include minimal meat, plenty of seafood and often the use of a fish stock base known as dashi. Masanori Aoyagi, the commissioner of Japan’s Cultural Affairs Agency, explained to the UNESCO committee, that washoku is also regarded as important as it creates a feeling of social cohesion. Culinary purists in Japan have long expressed concern about the impact of the rise of Western diets in favour of washoku, a famously healthy diet with its copious fish, rice and seasonal vegetables. Washoku’s designation as an Intangible Cultural Asset is likely to be welcomed by the government, not only in terms of its cultural heritage and potential health benefits, but also in relation to the economy. Its new status was confirmed exactly 1,000 days after the 2011 earthquake and tsunami triggered the on-going Fukushima nuclear crisis, shattering global confidence in the safety of the nation’s previously respected food industry.

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Mediterranea la dieta della vita

ARTICOLO DI LETIZIA MALANGA

La “diaita” nel greco classico significava regola di vita. La dieta mediterranea descrive tutte le pratiche che conducono al benessere e oggi ha assunto una tale importanza da poter diventare patrimonio immateriale DELL’UNESCO. Un patrimonio culturale tramandato dalle comunità della civiltà antica europea per diffondersi in tutto il mondo come regola di vita.

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L’OLIO D’OLIVA modello ideale di alimentazione nella dieta mediterranea è l’olio extra vergine d’oliva perché principale fonte di lipidi, l’energia di riserva indispensabile al nostro corpo. 40 32

n Italia, la cosa più importante, da sempre, è il cibo. Prodotti di grande eccellenza e grandi riti e tradizioni intorno ad essi hanno sempre caratterizzato il bel Paese. Ma quando si tratta di capirne l’importanza, siamo molto meno bravi. Per tale motivo, questa storia non dovrebbe stupirci: due americani arrivano in Italia e scoprono qualcosa che diventerà patrimonio dell’UNESCO. Ancel Keys e Margaret Haney arrivano in Italia con la loro Hillman, modello Saloon, un laboratorio su ruote che serviva ai due scienziati per portare avanti le loro ricerche, ovvero scoprire la correlazione che c’è tra salute e malattie nelle diverse popolazioni. Il viaggio inizia da Milano per proseguire poi verso Bologna, Firenze e Siena. Una breve sosta nella capitale e poi ripartono per Napoli. Qui i due si fermano per un mese, frequentando assiduamente il Dipartimento di medicina dell’Università. Il loro studio è sorprendente: dei campioni di sangue analizzato, appartenenti a maschi adulti della classe media, soltanto pochi erano affetti da malattie cardiovascolari. Scoprono che i napoletani mangiano poca carne e pochi formaggi. La conclusione alla quale arrivano, dopo i vari studi, è che i napoletani poveri mangiano in maniera più sana rispetto agli americani ricchi.


Contenti dei loro risultati decidono di fare lo stesso studio in altre sei nazioni: Grecia, Spagna, Finlandia, Giappone Jugoslavia e Danimarca. Ne esce un libro “Seven Countries Study” e i risultati di questo studio si ritrovano nelle linee guida sulla nutrizione dettate dall’OMS. Inizia così a delinearsi il concetto di dieta mediterranea, un modello alimentare che rispetti i canoni della sostenibilità sia dal punto di vista agronomico che ecologico. La vita mediterranea - Ancel Keys e Margaret Haney decidono di seguire proprio questo modello di vita mediterraneo. Infatti, per trenta anni hanno vissuto a Pioppi, comune di Pollica, in una villa con un grande orto. È nata in loro la voglia di coltivare, come tutti gli abitanti del posto, verdure e frutta a chilometro zero. Cucinava per loro Delia Morinelli che negli diventa di famiglia e insegna ai coniugi tutti i trucchi della sua cucina e tutti i piatti tradizionali. In poco tempo capiscono che la pasta e fagioli è un piatto che si trova in tutte le case, ma che ognuno lo cucina secondo le proprie abitudini. Ritrovano un’ospitalità mai provata, in ogni casa vengono accolti come amici. Nello stesso tempo portano avanti i loro studi e creano una comunità scientifica che ancora oggi è attiva sul territorio. Un continuo studio che porta molti a tutelare queste pratiche antiche. Infatti, oggi Pioppi viene ricordata come la capitale mondiale della dieta mediterranea. Il motto della vita diviene la stagionalità dei prodotti ed il lavoro degli agricoltori che segue la terra e il suo clima per poter dare frutti che diventano preziosi. Si delinea sempre di più il concetto di dieta mediterranea che incarna valori precisi: ospitalità, vicinato e convivialità: diventa cultura che ruota intorno al cibo. Nel greco classico “diaita” significava regola di vita; oggi con la dieta mediterranea si vogliono descrivere tutte quelle pratiche che

conducono al benessere. Non deve essere intesa nella comune visione dell’Italia “spaghetti e mandolino”, ma è un preciso stile di vita nel quale la fanno da padrone le verdure, i legumi e la frutta a chilometro zero. La filosofia da seguire sempre è “alta qualità e poca quantità”. Tanta verdura, olio extravergine di oliva, frutta, legumi, pasta e pane: ecco gli elementi della felicità. “Olio vino e grano” è la triade fondante la dieta mediterranea, tutti e tre elementi legati alla divinità. Patrimonio UNESCO - Con gli anni questi studi hanno assunto un valore molto importante, tale da far pensare che la dieta mediterranea potesse diventare patrimonio dell’UNESCO. La strada non è stata facile. C’è stata una prima bocciatura nel 2008 alla richiesta di Italia, Spagna, Grecia e Marocco. Le ragioni del rifiuto sono state geografiche in quanto si riteneva che le diverse regioni non potessero avere lo stesso stile di vita, e poi la richiesta era stata avanzata dai ministeri delle rispettive nazioni invece che dalla popolazione. E, infine, perché la descrizione della

dieta mediterranea era stata ridotta ad una lista di prodotti. Ma, dopo questo grande rifiuto l’Italia non ha mollato. Si è armata di tecnici come Luciana Mariotti e Tullio Scovazzi, ed è andata avanti nel grande progetto. È stato individuato il Cilento come comunità prototipo italiana, riscoprendo i luoghi vissuti e studiati da Keys ed analizzando tutte le sue ricerche ed i suoi studi. L’incontro molto importante c’è stato con Angelo Vassallo, sindaco di Pollica. Ha capito subito l’importanza della candidatura all’UNESCO ed i vantaggi che poteva portare a tutto il territorio questo riconoscimento. Il “sindaco pescatore”, ucciso da criminali nel settembre 2010, credeva molto nel ruolo del cibo, e nella sua capacità di saldare i rapporti di una comunità. La grande vittoria arriva il 10 novembre 2010, quando la dieta mediterranea viene riconosciuta come patrimonio immateriale dell’umanità. A diventare patrimonio non è un cibo in quanto tale ma l’insieme delle pratiche e culture che hanno tramandato le comunità del mediterraneo.

EQUILIBRIO tra legumi, verdura e frutta fresca è una delle basi principali della dieta mediterranea. 33


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N.10 | 18 Aprile 2015

TUTTA L’ARTE DELLA VERA PIZZA Gastronomia Eleonora Baluci

La pizza napoletana diventa probabile candidata al patrimonio UNESCO. Un alimento che non è solo simbolo di tradizione ma anche di cultura, rito e filosofia. Ingredienti poveri, di una storia secolare, che ne fanno un segno tangibile di creatività ed ingegno.

L

a vera pizza è alimento, simbolo e rito. Alimento povero e nobile. Disco festoso di pasta, colorato di rosso. Ma è anche qualcosa di più di un impasto di acqua e farina, condito con olio e pomodoro e cotto al forno a legna. La pizza si fa non si cucina. Nasce povera. Si fa con le mani e con la sola abilità delle palme.” Farina, acqua e lievito, mescolati tra loro, che come per magia, danno luogo a uno degli

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alimenti più amati in tutto il mondo. Mani sapienti che impastano i panetti al caldo a lievitare, il bancone lucido pronto ad accogliere cerchi più o meno perfetti, un grembiule sporco di farina. Pomodoro succoso, cubetti di mozzarella, foglie lucide di basilico, un filo d’olio fragrante, il forno a legna già caldo. Piatti fumanti, sorrisi gioiosi che vengono dall’anima, aroma intenso per tutta la sala, allegre risate. La pizza napoletana, un’istituzione più che

un piatto, il perfetto battesimo per gli stranieri che si recano nella città partenopea, un alimento irrinunciabile e adatto ad ogni occasione. Come diceva Pino Daniele, napoletano per eccellenza, “fatte ‘na pizza c’a pummarola ‘ncoppa e vedrai che il mondo poi ti sorriderà”. Del resto si sa, consumare la pizza a Napoli è un vero e proprio rito, una pietra miliare, dalla sua nascita, nel corso del ‘600, quando era composta da sola pasta di pane arricchita con sale grosso, strutto e aglio. Da quando nel ‘700 fu inventata la pizza con i cecenielli (piccoli pesci appena nati), una delle più antiche ricette che si conoscono. Fin da quando nel 1889 il cuoco napoletano Raffaele Esposito, alla reggia di Capodimonte, preparò la prima pizza margherita, in onore della regina di Casa Savoia; con il bianco della mozzarella, il rosso del pomodoro ed il verde delle foglie di basilico, il richiamo alla bandiera italiana era evidente. O ancora da quando per le strade della città partenopea si diffuse l’usanza di consumare la pizza a portafoglio (anche detta a libretto), pratica che trasformò un cibo da pizzeria in vero e proprio street food. UNESCO - Recentemente la pizza napoletana, dopo una lunga raccolta di firme, è stata candidata per entrare a far parte della “Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale”. La lista, redatta dall’Unesco, comprende, al


LA PREPARAZIONE deve rispettare taluni disciplinari alimentari e delle precise movenze. 27 novembre 2014, 348 elementi di cultura immateriale, meritevoli di essere conservati e tramandati di generazione in generazione. Sei di queste tradizioni appartengono alla cultura italiana: l’opera dei pupi, il canto a tenore, l’arte del violino a Cremona, la dieta mediterranea, le macchine a spalla e la pratica agricola della vite ad alberello a Pantelleria. Se entro il 15 novembre 2016 la commissione internazionale, che coinvolge valutatori di 163 Stati, darà il via libera, anche “l’Arte dei Pizzaiuoli Napoletani” potrà avere il suo riconoscimento a livello mondiale, ottenendo protezione e tutela, e scongiurando il pericolo che una tale tradizione secolare possa andare persa o contaminata da nuove pratiche. Un’ottima occasione per salvaguardare ulteriormente il made in Italy dalle numerose imitazioni che mettono a rischio ogni anno la rispettabilità e la credibilità dei prodotti nostrani, apportando talvolta danni ai consumatori stessi. Tutt’oggi esiste un rigido disciplinare che stabilisce ingredienti, attrezzi, metodo di preparazione e cottura, della “verace pizza napoletana”, denominazione attribuibile solamente alla pizza

marinara ed alla pizza margherita, “prodotto da forno tondeggiante, con diametro variabile che non deve superare 35 cm, con il bordo rialzato e con la parte centrale coperta dai condimenti”. Farina di grano tenero tipo 00, sale, lievito di birra, acqua, i pochi ingredienti che compongono l’impasto; pomodoro fresco o pelato S. Marzano o pomodorino del piennolo del Vesuvio, mozzarella di bufala campana DOP o fior di latte dell’appennino meridionale, olio extravergine di oliva, basilico, aglio,

origano, i soli condimenti ammessi sulla pizza napoletana. Tali rigide disposizioni sono indispensabili per proteggere dalle imitazioni un prodotto sì tanto amato e diffuso ma anche tanto copiato, dal momento in cui la fervente immigrazione verso gli Stati Uniti portò con sé usi e costumi del popolo italiano, pizza annessa, e vide la nascita di centinaia di pizzerie oltreoceano. Gli americani da quel momento si appropriarono del prodotto personalizzandolo e, in parte, snaturalizzandolo, coinvolgendo la pizza in quel fenomeno definito Italian sounding, cioè l’uso di marchi e nomi italiani attribuiti a prodotti che di nostrano non hanno proprio nulla. Tutt’oggi il popolo statunitense detiene il record di consumo di pizza, con ben 13 kg annui pro capite, mentre gli italiani, paradosso, sono solo al secondo posto con 7,5 kg, nonostante il Belpaese sia patria e culla di tale alimento. Che la candidatura alla lista dell’Unesco sia quindi una buona occasione per ristabilire le origini e la vera tradizione della pizza napoletana, troppo spesso imitata, troppo spesso preparata in modo inadeguato, troppo spesso annichilita sotto cospicui strati di ingredienti dalla dubbia qualità?

L’OLIO A CRUDO il filo d’olio a crudo in chiusura è un tocco d’arte sulla vera pizza napoletana. 35


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