Impatto Magazine - Vol#3 - Annunciazio'

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!MPATTO MAGAZINE Annunciazio’ 20 novembre 2015

Volume 3

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!MPATTO

MAGAZINE

Contenuti.

volume iii - 20 novembre 2015

www.impattomagazine.it intervista a nicola de ianni Impatto Magazine è una testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Napoli con decreto numero 22 del 2 Aprile 2014.

Diretto da

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Stefano Telese

Un saggio pioniere. Nicola De Ianni, docente di Storia Economica presso la Federico II, si è cimentato nel profilare economicamente la storia economica del calcio, dagli albori fino al 1981. Un saggio economico, che in larghe sfumature ha il sapore di un romanzo sui rapporti umani e psicologici che hanno scandito lo sviluppo del football in Italia.

stefano.telese@impattomagazine.it

Contributori Giorgia Mangiapia

giorgia.mangiapia@impattomagazine.it

Roberto Rossi

roberto.rossi@impattomagazine.it

Liliana Squillacciotti

presepe della misericordia

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liliana.squillacciotti@impattomagazine.it

Martina Esposito

roberto.fabozzi@impattomagazine.it

Ginevra Caterino

ginevra.caterino@impattomagazine.it

Grafica

Nell’anno del Giubileo straordinario della Misericordia a Roma, il presepe napoletano dei fratelli Scuotto parte con destinazione New York. Nella Shrine Church of the Most Precious Blood, la tradizione partenopea diventa protagonista di un’esperienza quotidiana in cui la Natività si manifesta nella sua umanità. biennale di venezia

martina.esposito@impattomagazine.it

Roberto Fabozzi

Sacro esoterismo.

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- marisa laurito

Ed io, scelgo il ragù. Alla 56° edizione della Biennale di Venezia, Marisa Laurito protagonista di una collaborazione artistica per il padiglione del Guatemala. La famosa attrice e show girl napoletana mostra, attraverso le sue opere, lo sdegno verso una cucina che è sempre più‚ artificiale e sempre meno legata alle tradizioni di un tempo.

Marika d'Angelo

marika.dangelo@impattomagazine.it

Andrea Casolare

andrea.casolare@impattomagazine.it

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Copertina di Paola Tufo

qualcuno volò sul nido del cuculo

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Una grande storia. L’alienazione da se stessi e dal prossimo. La straniante sensazione di terrore verso un mondo che ripudia i suoi stessi figli. Il bisogno di libertà che si trasforma in un urlo che squarcia l’anima. “Qualcuno volò sul nido del cuculo” torna sulle tavole del palcoscenico, quelle del Teatro Bellini, e lo fa da “Grande Storia”. a napoli non piove mai

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Mentre fuori piove. Un lungometraggio scritto, diretto e interpretato da Sergio Assisi mostra Napoli teatralmente viva ed entusiasta. A Napoli non piove mai, presentato al Napoli film Festival, conta su un cast di attori del calibro di Ernesto Lama, Nunzia Schiano, Francesco Palantoni per sorridere della vita, nonostante tutto.

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intervista a nicola de ianni

Un saggio pioniere. Nicola De Ianni, autore del saggio sulla storia economica del calcio, fino al 1981, descrive la crescita, tra scandali e legami umani, dell’azienda più amata dagli italiani.

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icola De Ianni, docente di Storia dell’Economia, presso la Federico II, si è cimentato nel profilare economicamente la storia del calcio, dagli albori fino all’avventodegli sponsor e delle televisioni nel 1981. Un saggio economico, che in larghe sfumature ha il sapore di un romanzo sui rapporti umani e psicologici che hanno scandito lo sviluppo del football in Italia. Nell’immaginario collettivo il calcio prima degli anni ‘80 viene ritenuto un “calcio romantico”. Nel suo libro, però, questa sfumatura viene messa in crisi dalla costante presenza del danaro. Ma, dunque, il calcio è mai stato romantico? Il calcio veramente romantico è stato quello dei pionieri, quello che troviamo in Italia precedentemente all’inizio della prima guerra

mondiale. Parliamo di un processo che dura una ventina d’anni; ma è un calcio che non riscontra alcun tipo di successo, è un fenomeno della portata limitata ed è subordinato ad altri tipi di sport molto più popolari. Essendo il “calciomercato” l’elemento economico di maggior rilievo, nel libro si discute ampliamente del nodo relativo al passaggio di un giocatore da una squadra all’altra. Nei primi anni del calcio il trasferimento è subordinato totalmente al posto di lavoro; i giocatori sono ritenuti dilettanti, tanto che il cambio di squadra deve essere connesso al cambio di residenza dello sportivo. Nel 1923, con il caso Rosetta, si accendono i riflettori sul finto dilettantismo. Que è una data chiave per la storia del calcio. Ciononostante non sono convinto che il denaro sia in contrasto con una visione romantica del calcio. Più che altro, nel mio libro ho preferito u

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È fatto di unità lavorative scadenti, dove ognuno pensa di fregare l’altro, dove non si parla di responsabilità sociale. E dove i campioni non capiscono che fare delle cose eccezionali nello sport non ti dà diritti speciali o privilegi nella vita. (Pietro Mennea - podista italiano) Nicola De Ianni - Ph. Ginevra Caterino

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sottolineare la malcelata ipocrisia che si nascondeva dietro il calcio dilettantistico, un sistema economico sommerso ed oscurato dal concetto di sport olimpico voluto da De Coubertin. Nel libro non ci si ferma soltanto alla crescita malsana del calcio, legata al deficit e all’indebitamento delle società, ma viene anche richiamato il filo psicologico che legava i rapporti umani di pedine fondamentali - come nel caso di Ferlaino e Lauro, o di Franchi e Carraro - come ha affrontato questo tema così sensibile? L’aspetto passionale e personale è una costante nel mondo del calcio e arriva, infatti, fino ai giorni nostri. È elemento che suscita interesse divenendo così sfumatura paradossale e veicolo immediato per i cambiamenti del calcio. Questo sotto alcuni aspetti, non si è mai modificato: all’inizio era tutto un po’ vago, ma un crescente successo ha fatto emergere un fattore di razionalità, specialmente da parte degli addetti ai lavori, rispetto ai fruitori. Ovviamente anche per gli uomini del calcio, che non possono prescindere dalla razionalità, la passionalità è centrale. Ad esempio, Moggi, a prescindere dalle vicende di giustizia e dalle sue competenze, è un uomo di calcio fortemente passionale. Uno storico non imparziale, un libro non freddo - dal suo saggio traspare,

seppur in maniera sottile, il punto di vista dello scrittore. Ma quando si parla di calcio, è davvero impossibile mettere da parte i sentimenti? Come un imprenditore del calcio, che per essere troppo passionale rischia di non essere imprenditore, anche lo storico ha questo problema. Il punto è che un ricercatore in materia storica deve fare le sue scelte e le deve dichiarare, purché siano motivate. Non mi dispiace che appaia questa sfumatura, perché parlare di calcio, inevitabilmente, che fa correre questo rischio strutturale. I Medici, i Borgia, la corte di Ferrara, ancora oggi le meraviglie di mecenati sono eterne, saranno eterni anche i fasti dei mecenati del calcio? Dalla metà degli anni ‘50 la parola d’ordine era “falsi mecenati”. Vi era la convinzione che i giovani turchi fossero entrati nel calcio per ricercare visibilità. La strumentalizzazione del calcio è un qualcosa che a portato questo lontano da binari solidi, infatti, esso oscilla ancora oggi in un contesto abbastanza confuso. Nel calcio vi è uno strano spirito di corpo, dove anche quando c’è da pagare, vi aleggia sempre un aria di supporto ed un senso di assoluzione. Dino Zoff è stato un emblema di questo spirito, è stato emarginato dal calcio perché troppo distante da questa caratteristica inquietante.

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presepe della misericordia

Il sacro esoterismo.

Nell’anno del Giubileo straordinario della Misericordia a Roma, il presepe napoletano dei fratelli Scuotto parte con destinazione New York. Nella Shrine Church of the Most Precious Blood, la tradizione partenopea diventa protagonista di un’esperienza quotidiana in cui la Natività si manifesta nella sua umanità.

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ltre il tempo e oltre la storia. Perché il Presepe porta con sé ogni tempo e ogni storia. È il nostro ieri con un Cicci Bacco, tra le mani il fiasco di vino, ed un Benito dormiente, che sogna di pastori. Simbologie sacre e profane mescolate ad esoterismi di una terra, misteriosa nell’abisso del suo ventre. Un ventre fertile. È il nostro oggi, con occhi sbarrati di bambini disperati su un barcone in cerca di rifugio. Profughi dell’anima. Con il contrasto tra la ricchezza opulenta di chi s’ingurgita di cibo, senza aver neanche più fame, e chi nel piatto non ha nulla, misero, con lo sguardo bramoso di riempire il proprio ventre affamato. Vuoto, come lo squilibrio sociale

della disparità odierna. È cronaca di una società in cui l’evoluzione dà la mano all’involuzione generando scene magistralmente interpretate dal bene e dal male, nella contesa eterna per il ruolo di primo attore. Il presepe racconta dell’oggi in cui si vive e che non si ha il coraggio di guardare in faccia o a cui si gira la faccia: un uomo aggredisce un altro; lo prevarica, lo schiaccia con la prepotenza del potere. Questione di mafia sì, ma questione d’onore? Non più, l’onore ha perso la parola e il duello all’ultimo sangue si ferma al primo rivolo. Perché la buona camorra ti affligge, ti sfinisce ma non ti uccide. La prevaricazione delle mafie crea un’idea confusa di aiuto e il paradosso della pseudo pietà ne legittiu ma l’esistenza.

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Ciò che mi colpisce nel presepe è proprio questa dimensione scenica, la rappresentazione di una pluralità di situazioni umane e di personaggi che esemplificano la vita in tutta la sua varietà. (Sua Em.za Giuseppe Betori) Presepe della Misericordia - Ph. Paola Tufo

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Presepe della Misericordia - Ph. Paola Tufo

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n diavolo tra sbarre, giù, nel ventre profondo e sterile del presepe. Rinchiuso nell’antro di una grotta scura pronto ad azzannare, ad ammaliare e tirare in basso verso sé. Al centro del quotidiano vivere, la Natività. Un uomo, un bambino e una donna. Uomini tra gli uomini, con il segno visibile di un dio di vita: la maternità. Il cuore divino scende nella miseria e tocca il suo popolo, nell’intimo. Dal ventre caldo di una donna si genera la misericordia, quella che agisce e si prodiga. Quella irriverente, senza drappi, del Caravaggio. È lì, staccata dalla tela e scolpita da mani artigiane per prendere forma nel seno della figlia di Pero che allatta il detenuto Cimone; nei piedi nudi, neri e privi di vita, trascinati per la sepoltura; nel mantello per coprire il torso scultoreo di un uomo di spalle, senza volto, indefinito; nell’acqua che scorre dalla mascella di un asino per dissetare gli assetati, nel corpo e nello spirito. Una misericordia tangibile, umana. Autentica. “È dovere del presepe napoletano riconoscere al pittore l’idea di un’umanizzazione dell’atto di misericordia” sottolinea Raffaele Scuotto, al Palazzo Mansa di Scala, nella Galleria d’arte Essearte.

Come in un’immagine speculare, di fronte al Caravaggio presepiale, braccia spalancate nella richiesta disperata di soccorso. Il barcone degli apolidi invoca rifugio come quella concessa al figliol prodigo. Lui, tra le braccia del padre, si sente finalmente protetto, accettato. Ritrova il calore della casa tra le sue mani. Una mano è maschile, decisa e forte del Padre che è Nostro, una è femminile, delicata e amorevole della Madre che accoglie tutti. Ancora una volta, dalla tela si scollano simboli universali e l’arte concretizza il bisogno impellente del presente: l’esigenza pregnante di trovare rifugio nella misericordia dell’altro perché tutti possiamo sentirci stranieri nel corso dell’esistenza. Il monacello, l’omosessuale, il lebbroso personificano il normale esserci nel presepe del mondo. Un capolavoro dell’arte napoletana che travalica i confini per esportare l’impianto culturale della città e il suo essere giovane attraverso l’antico. La plasticità dell’opera, la ricerca dei significati, la poesia insita, sono stati accolti a New York grazie alla proposta del Monsignor Sakano della St. Patrick’s Old Cathedral di New York e all’impegno di Thomas Smith, Assistant CEO della Binn’s di Williamsburg. Un presepe ortodosso per veicolare riflessioni, dal ventre di Napoli al ventre di New York.

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Presepe della Misericordia - Ph. Paola Tufo

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Presepe della Misericordia - Ph. Paola Tufo

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Presepe della Misericordia - Ph. Paola Tufo

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Presepe della Misericordia - Ph. Paola Tufo

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L’assessore ai Giovani, Alessandra Clemente, durante la premazione in ricordo di Attilio Romanò.

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concorso letterario attilio romanò

Il mondo è nell’aula. A Palazzo San Giacomo, alla presenza degli assessori Palmieri e Clemente, il ricordo di Attilio Romanò, vittima della camorra, con un concorso letterario a lui intitolato. 943, anno in cui Napoli, con le sue sole forze, riesce a liberarsi dal nazifascismo. È fondamentale avere piena coscienza di quelle che sono le nostre radici: ci ricordano chi siamo e da dove siamo partiti, ed è mediante tale consapevolezza che si è liberi d’ogni oppressione. Educare alla memoria, non permettere che alcun nome venga dimenticato, alcuna azione privata del suo senso ed alcun ideale trascurato. La fucina delle idee è da sempre stata la scuola, istituzione che ancora una volta si conferma non solo trasversale strumento d’integrazione, ma soprattutto d’azione. È tra i banchi di scuola che si agitano le prime forme di senso critico e di invettiva, e proprio per questo si punta sui giovani e sulla loro fantasia: attraverso la settima edizione del concorso letterario “Attilio Romanò” - che prevedeva la redazione di un racconto di scrit-

tura creativa - gli studenti della scuola secondaria di primo e secondo grado hanno avuto la possibilità di esprimere le proprie idee in maniera chiara, forte e decisa. “La città in cui viviamo è mondo, e questo mondo è tutto dentro le aule”, afferma l’Assessore all’Istruzione Annamaria Palmieri: bisogna guardare ai giovani e a ciò che portano dentro di sé come risorsa ineguagliabile, unica vera arma contro la società della paura, del rancore e dell’illegalità. Fornire loro un premio in denaro, spendibile solo in libri, è un augurio a non perdere mai la voglia di esplorare e conoscere, affinché non si arrendano mai nella ricerca della libertà. “Lo stato siamo noi. Lo stato dà risposte concrete, complete. Non illude, come la camorra” ricorda Alessandra Clemente. “Napoli si sta già salvando” e lo dimostra decidendo di non tacere.

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la garibaldi al molo angioino

La Patria e l’Onore. Il motto della Marina Militare per l’entrata in porto della Garibaldi e della Classe San Giorgio a Napoli, al Molo Angioino in occasione della ricorrenza del 4 Novembre.

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l Molo Angioino non è mai stato così affascinante come nel week end di fine ottobre. Ormeggiate al molo, nella imponenza della propria storia, le navi militari Garibaldi e della Classe “Santi” San Giorgio – comprendente tre unità LPD, il San Marco, San Giusto e San Giorgio - hanno aspettato di essere osservate, ammirate e visitate da ogni napoletano e non, desideroso di apprezzare gli incrociatori della Marina Militare. In occasione del “Giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forza Armate”, Napoli ha potuto conoscere da vicino due realtà storiche della nostra gloria militare. A piedi si percorre il molo Angioino tra la grandiosità attraccate e il vento che soffia sul viso. E intanto i motti delle navi, ognuno nel dialetto, ricordano la Storia italiana. “Obbedisco”, scrisse Garibaldi nel famoso telegramma al generale

La Marmora; “Arremba San Zorzo”, era il grido che le ciurme dei Doria, signori di Genova, lanciavano quando andavano all’arrembaggio delle navi avversarie; “Ti con nu, nu con ti” con espressione accorata pronuncia nel Giuramento di Perasto, in lingua illirica, Giuseppe Viscovich. “Coragio, no manca co’ semo nel giusto” lega indissolubilmente l’Unità alla città di Trieste. Due nomi imponenti per due incrociatori che ben hanno sostenuto il peso della responsabilità anagrafica. L’eroe dei due mondi e gli eroi della fede per due portaeromobili impiegati in operazioni di sostegno umanitario e di protezione civile: protagoniste, nell’ambito di diverse missioni, anche dell’operazione Mare Nostrum per portare soccorso agli immigrati, costretti a fuggire alla fame e alla guerra. Mentre il vento soffia, intanto, si continua a passeggiare nel soffio del passato.

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Illustrazione di Wisker

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manifestazione “vivi nel ricordo”

Memoria sulla pelle.

La manifestazione culturale “Vivi nel ricordo”, in memoria del regista e scrittore bolognese Pier Paolo Pasolini, tra incontri, visite e confronti per tener sempre accesa la scintilla del passato, ponte per il futuro perché “la morte non è nel non poter più comunicare, ma nel non poter più essere compresi”.

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omunicare ed essere compresi: da perpendicolari a paralleli, si ritrovano troppo spesso distanti e impercettibilmente lontani due bisogni essenziali all’essere umano. Oggi quasi agli antipodi. Nella valanga di comunicazioni e interazioni sociali, nel bombardamento dell’opinione veloce, occorre un click per condividere pensieri, per rendere ridondante il bisogno di trasmettere, non si ha la certezza del suo riflesso: l’essere compresi. Così si muore, secondo Pier Paolo Pasolini. Per vivere della memoria, al di là della fine temporale e fisica, la si deve rendere presente. La si deve comprendere, come allora e più di allora. Leggende, miti, storie di uomini e donne per

affondare nelle radici della propria terra, fertile di umana creatività. Nel sottotitolo della manifestazione si scopre la volontà di celebrare la figura di Pier Paolo Pasolini, in occasione del quarantennale della sua scomparsa. “Pasolini era un grande napoletano”, suggerisce il sindaco De Magistris, poiché “Napoli è una città con un grandissimo spirito libertario”. Un omaggio alla sua figura giunge dal reading ideato e coordinato dal regista Giovanni Meola, in collaborazione con 25 attori appartenenti alla compagnia “Virus Teatrali”. Le voci si dispiegano in tre diverse postazioni, differenziate per periodo di pubblicazione, nel complesso monumentale di San Domenico Maggiore; la scenografia è minimale per lasciare alle parole lo spazio u d’azione cui necessitano.

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Vivi nel ricordo - Ph. Ginevra Caterino

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asolini è stato un intellettuale molto controverso, provocatorio, profondo e preveggente” - spiega il regista. “Tutto ciò che un intellettuale riesce ad elaborare nel corso della sua esistenza attraverso un’articolazione del pensiero che sia frutto di intrecci di tutta una serie di esperienze intellettuali sono sempre parole importanti. Pasolini non ha potuto continuare questo suo percorso, e le ultime parole che ci ha lasciato rispetto ai temi di cui stiamo parlando sono proprio Gli scritti corsari, talmente attuali che molto spesso io mi ritrovo a rileggere degli articoli e pensare: Ma come ha fatto a capire che la società sarebbe andata in questa direzione piuttosto che in quella?”.

In virtù di quell’intuizione artistica, il regista ha voluto far risuonare la parole del Maestro attraverso la lettura drammatizzata interpretata. Per poter arrivare, attraverso le voci di attori, in maniera colloquiale. Affinché a parlare e a trasmettere pensieri non fosse la carta, ma il corpo e le voci per giungere al pubblico, attento nell’ascolto delle parole di un uomo che ancora oggi risulta avere molto da dire: “evidentemente anche altri credono che queste

parole abbiano un loro peso e possano ancora smuovere qualcosa nelle nostre coscienze”.Di Virgilio mago vive la Napoli esoterica e, nel viaggio condotto attraverso Conducimi alla luce, tenutosi presso il Parco della Tomba di Virgilio, la messinscena di una rappresentazione teatrale richiama alla mente il mito di Orfeo ed Euridice ad opera dell’ Associazione Neartapolis. Il tour si apre con la storia della struttura: inebriati dagli odori e dai colori autunnali delle piante, si racconta la storia della bonifica, avvolti da un’atmosfera carica di sensazioni coinvolgenti e proiettati in una dimensione quasi onirica. Considerati un rimedio naturale contro la depressione, si narra che Leopardi amasse passeggiare lungo quei viali, avvolto nei meandri dei suoi pensieri. La visita alla tomba assume la dimensione di un viaggio personale che continua fino al cuore dell’antico Tunnel Virgiliano e lì, come guide dantesche, ci accompagnano Orfeo, Euridice ed un cantore che narra la loro storia con la poesia vibrante di pensieri raccontati ad alta voce. Pasolini ne era consapevole: non basta comunicare, bisogna comprendere. Per comprendere occorre conoscere; conoscere nel profondo per capire il patrimonio mitologico, leggendario e, al contempo, veritiero di ciò che fu.

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Nik Spatari, pittore, scultore e architetto di origini calabresi, assieme ad una sua opera.

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nik spatari al suor orsola benincasa

Richiamo dell’arte. Spatari e la sua personale al Suor Orsola Benincasa, il coraggio e l’energia di un uomo che affascina tra colori vividi e accattivanti, divenendo così ambasciatore del Sud.

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na bomba può progressivamente togliere l’uso dell’udito e della parola, ma non può fermare la creatività e il desiderio di esprimersi. E di certo non ha messo a tacere l’estro artistico di Nik Spatari. Personali, affascinanti, vivaci: tre aggettivi per raccontare le opere esposte al Piano Mostre del complesso universitario napoletano Suor Orsola Benicasa. In collaborazione con la Fondazione “Terzo Pilastro” e “Civita”. Napoli può godere di opere dalla straordinaria forza evocatrice, attraverso immagini che rappresentano al meglio la genialità creativa dell’artista calabrese. In un percorso espositivo, tra video e immagini, si vive la mostra in un climax artistico, attraverso cui emerge la personalità poliedrica e originale di un artista, dalle radici fondate saldamente nel pas-

sato ma allo stesso tempo proiettato verso l’ignoto e il futuro. L’obiettivo di Spatari è promuovere la Calabria come snodo fondamentale della cultura del Sud Italia e di tutto il Mediterraneo, fonte d’ispirazione continua. A tale scopo si deve la creazione del MUSABA, sintesi unica di parco - museo - scuola - laboratorio, che realizza numerosi vernissage internazionali. L’idea di portare un profeta dell’arte mediterranea come Nik Spatari a Napoli - capitale di questa area del mondo - è scelta energica e coraggiosa al tempo stesso. Energica perché propone opere vive, piene di significati importanti, dai contenuti edificanti. Coraggiosa in quanto, nel contesto di un territorio messo in ombra, riesce a rispondere in maniera decisa a molti interrogativi, grazie ad una forza creativa e culturale che rende uomini come Spatari ambasciatori di quel richiamo artistico del Sud del mondo. no in mostra.

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federico ii

- day festival

Panico federiciano.

La notte di Halloween, alla Mostra d’Oltremare migliaia di ragazzi inondano il Padiglione 5. Un’onda anomala, da panico, per il Welcome day al popolo federiciano. L’Ateneo più antico d’Italia si aggrega nella consapevolezza di essere cittadino della Federico II. L’intervista all’organizzatore Antonio Caiazzo.

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ou wanted the best! You’ve got the best!” così i Kiss all’inizio di un concerto. Truccati come l’hard rock statunitense, si accoglie il popolo federiciano per dir loro che il meglio lo hanno già, perché sono parte di un mondo universitario multiplo e unico allo stesso tempo. Un gran successo per la Federico II, anche se, in molti non sono riusciti ad entrare. Dal campus di Monte Sant’Angelo alla Mostra, l’evento ha voluto trasmettere un messaggio chiaro. Antonio Caiazzo - Consigliere dell’Amministrazione dell’Ateneo – nella logica imprenditoriale, parla dell’evento musicale come un’occasione per generare l’effetto positivo del sentirsi parte di una comunità.

In occasione del Day festival, l’halloween edition 2016 per la Federico II. Perché quest’evento? Si tratta di un evento d’intrattenimento con l’esibizione di band universitarie, dei dirigenti del nostro Ateneo e di deejay. È un evento musicale. L’obiettivo è accogliere gli studenti di tutte le aree didattiche. Siamo abituati ad una suddivisione dei saperi, dalla medicina alla giurisprudenza ma la Federico II è una comunità! Vogliamo trasmettere il senso di comunità, l’essere federiciani nel mondo. Deve essere compresa l’unità e non l’essere frastagliati. Come vi state muovendo per raggiungere l’obiettivo? Quello che facciamo da anni è creare degli eventi che rafforzino il messaggio nei confronti della città. Anche perché il nostro Ateneo è una città nella città.

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UMF Halloween Party - Ph. Antony Morelli

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UMF Halloween Party - Ph. Antony Morelli

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a Federico II ha 105 mila membri tra studenti e docenti. Quindi abbiamo il dovere di lanciare questo messaggio e di dimostrare alla città che l’Ateneo realizza progetti a 360 gradi. Non solo istituzionali o accademici ma anche di aggregazione dei giovani. Fondamentale è creare un momento che unisca tutti: lo studente di Economia che incontra quello di Lettere anche perché la grande ricchezza del nostro Ateneo rispetto ad altri è che racchiudiamo, nel nostro essere, la diversità dei saperi. Se vai alla Bocconi hai solo Economia e Giurisprudenza. Noi accogliamo una grossa disomogeneità che è la nostra risorsa. C’erano già state iniziative simili? Negli anni precedenti ci sono stati altri eventi in strutture ricettive esterne, per motivi organizzativi e logistici. L’anno scorso siamo arrivati a 6000 partecipanti e ciò è una riprova dell’essere persone in continua fermentazione. Una critica costruttiva al passato social dell’Ateneo? Quando un Ateneo conta 85 mila studenti e 3 mila di personale amministrativo e crea degli eventi e delle manifestazioni, deve lanciare un segnale. Il punto è che siamo molto federiciani e molto attaccati alla casacca e non abbiamo nulla in meno ad altri Ate-

nei di altre città. Bisogna solo averne la consapevolezza. Quindi qual è l’obiettivo? Creare consapevolezza. È paradossale perché se si va in giro per il mondo, tutti conoscono la Federico II. Ingegneri, piuttosto che medici, sono considerati maestri. Abbiamo una percezione nel mondo di un livello molto alto. Invece nel nostro Paese e all’interno della stessa Università ci si lamenta troppo spesso. Non c’è ancora consapevolezza. Questo è un fattore tutto italiano. Se allarghiamo il discorso a qualsiasi aspetto, l’italiano si lamenta del bello che ha. L’evento alla Mostra che posto occupa in questa mission universitaria? Crediamo che la realizzazione di eventi del genere possa produrre un effetto di rimbalzo. Genera un passaparola, un effetto divulgativo, contagioso e virale intorno al brand Federico II. Siamo un’istituzione, un’accademia, è vero, ma oggi se non si ragiona in ottica aziendale - e qui si parla di percezione del valore - chiaramente non si raggiungono gli obiettivi. I giovani, tramite i social e la condivisione di foto, accostano a momenti di svago e di aggregazione il brand Federico II e ciò genera effetti positivi. È la logica del marketing.

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UMF Halloween Party - Ph. Antony Morelli

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UMF Halloween Party - Ph. Antony Morelli

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biennale di venezia

- marisa laurito

Ed io, scelgo il ragù. Alla 56° edizione della Biennale di Venezia, Marisa Laurito protagonista di una collaborazione artistica per il padiglione del Guatemala. La famosa attrice e show girl napoletana mostra, attraverso le sue opere, lo sdegno verso una cucina che è sempre più‚ artificiale e sempre meno legata alle tradizioni di un tempo.

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ra dal lontano 1956 che il Guatemala non partecipava come padiglione autonomo alla Biennale di Venezia e il suo ritorno si esplica con una mostra dal titolo “Sweet Death”. Una mostra irriverente e provocatoria atta a smuovere la sensibilità del pubblico, anche e soprattutto, attraverso la variante parodica delle opere esposte fino al 22 novembre. Il titolo dell’esposizione ‘Morte Dolce’ si ispira allo scenario offerto dal cimitero di Chichicastenango in Guatemala, dove la morte viene esorcizzata attraverso uno spirito gioioso e soprattutto dai colori blu, gialli, turchesi delle tombe, per affrontare la tematica della decadenza dei valori nella società contemporanea. Una decadenza che abbraccia ogni aspetto

della vita, dalla sessualità, passando per la religione fino alla cucina. Ed è proprio della morte della cucina e delle tradizioni culinarie del passato, che la napoletana Marisa Laurito ha molto a cuore, tanto da contribuire con le sue opere in silicone, che fanno da specchio a quella che è l’artificiosità, forse eccessiva, di una cucina che con i tempi che corrono potremmo benissimo definire 3.0. Quali sono stati i protagonisti che lei ha incontrato durante la sua carriera cinematografica, teatrale e televisiva che più le sono rimasti nel cuore e perchè? “Ho avuto la fortuna di lavorare con molti artisti importanti e non , ed ognuno di loro mi ha lasciato sulla pelle un po’ della loro polvere di stelle: Eduardo la professionalità’ e la dedizione per il teatro; Arbore il gioco dell’improvvisazione. u

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Manfredi devo lo studio dei primi piani e la precisione; a Tognazzi la gioia di trasgredire, a Sergio Corbucci, il lavoro visto come divertimento, a Celentano devo la ribellione, la libertà’ di essere artista, a Gino Landi , l’amore per il varietà’, a Banderas la semplicità. Ma i nomi sarebbero tanti ...Mastroianni, Fellini, Nanni Loi, Gregoretti ...” L’arte che è in lei però, non si esplica soltanto nella recitazione, Marisa Laurito è anche arte pittorica e culinaria; ci racconta quale è il suo rapporto con la pittura e con il cibo? “Per fare una cosa buona in cucina c’è’ bisogno di talento, di giuste proporzioni e naturalmente ci vuole tanta passione. L’arte di cucinare che per me diventa spesso alchimia. La pittura e’ una vecchia passione che non ho mai abbandonato da quando avevo diciassette anni, e che una critica d’arte Daniela Del Moro mi ha spinto ad esplorare da professionista . Adoro i colori, gli impasti, e questa materia che ho imparato a movimentare che è il silicone. Anche in questo campo devo molto ad alcune persone che hanno creduto in me, tra cui D. Radini Tedeschi, P. Colombari e A. Berengo”. In alcune sue precedenti interviste lei ha dichiarato che

a casa sua si svolgeva una singolare tradizione domenicale, quello che lei chiamava il “Ragù Open”. Ci può raccontare cos’era? “Preparavo un ragù gigantesco e sul fuoco c’era sempre una pentola dove bolliva l’acqua ed un’altra dove “pippiava” il Ragù’ napoletano. Erano invitati i miei amici e gli amici dei miei amici a qualunque ora, a patto che colassero loro la pasta e se la condissero. È stato un periodo molto divertente, non c’erano appuntamenti ne’ orari, si sapeva che la domenica si poteva venire a mangiare da me! La passione è stata per me sempre una scelta basilare: tutto quello che si fa con passione diventa leggero, vincente ed avvincente. Quali sono i mali che deteriorano la cucina italiana e mediterranea soprattutto e come possiamo combatterli ? “Il male essenziale è la ricerca dell’ originalità a tutti i costi, che molti chef famosi cercano quotidianamente per distinguersi da altri chef, badando più’ alla composizione del piatto che al gusto, ciò emerge da una cucina Trash che non appartiene alla nostra straordinaria cultura culinaria. Questo non vuol dire che non sono favorevole ai cambiamenti ma tra un piattino di spaghetti al fumetto con pomodoro all’azoto ed un piatto di pasta al ragù, io per una volta tanto nella vita non ho dubbi... scelgo il ragù!”

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qualcuno volò sul nido del cuculo

Una grande storia.

L’alienazione da se stessi e dal prossimo. La straniante sensazione di terrore verso un mondo che ripudia i suoi stessi figli. Il bisogno di libertà che si trasforma in un urlo che squarcia l’anima. “Qualcuno volò sul nido del cuculo” torna sulle tavole del palcoscenico, quelle del Teatro Bellini, e lo fa da “Grande Storia”.

L’

esistenza di un “universo parallelo” pone l’individuo moderno ad immaginare, d’istinto, qualcosa che non ci sia. “Parallelo” a tutto ciò che la società impone come vero. Un universo destinato, fin dalla propria definizione, a non sfiorare mai, nemmeno in virtù di errori o forzature geometriche, il socialmente accettato. “Parallelo” come sinonimo di fantastico, immaginifico, irreale. Oltre ad essere una possibilità fisica reale, però, gli universi paralleli, albergano nella mente e nell’anima di ogni essere umano. Ogni individuo ha in sé un mondo altro. Perpendicolare. La prospettiva geometrica cambia, imponendo un contatto. L’intersezione delle rette in un punto. Quello stesso

punto che diventa “fulcro”; equilibrio di tutta un’esistenza conscia della propria caducità. Un equilibrio labile, figlio di un’intersezione necessaria eppure pericolo- samente instabile. Quando tutto crolla, lasciando il posto esclusivamente alle macerie dell’io? Quando i mondi che albergano nella mente di ogni essere umano riescono a vivere ognuno nella propria dimensione, convivendo con il contesto sociale costruito ed imposto; creando un’aderenza con la propria esistenza. L’essere coincide con la percezione di sé. L’equilibrio trova la propria ancora nella coincidenza. La normalità, forse, decade con il decadere di quella coincidenza. Si diventa dunque pazzi, disadattati, quando non si coincide più con se stessi, quando si diventa “passerotti tremanti spaventati dal mondo”.u

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Alessandro Gassmann - Il nome del figlio

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O

almeno, questo è il momento in cui la società organizzata ed organizzante impone il proprio ordine. Asfissiante, limitante, degradante. L’oppressione figlia di uno sguardo: “se stai tranquillo, stai al sicuro”. Il sipario vero non è il pesante manto rosso di velluto che si apre su una clinica psichiatrica italiana nel 1982, ma la sottile tendina che nasconde lo sguardo gelido, di Suor Lucia (un’eccezionale E. Valgoi). Regina di un regno inesistente, proprio come il nido del cuculo. Regina autoproclamata di quello che è un territorio di nessuno, fertile di frutti che la società ripudia. Suor Lucia incute timore, guardando. Osservando. La violenza si staglia sulla scena in maniera netta, muta. Senza mai doversi esprimere attraverso i gesti. Un amore per le regole che, trasformandosi in ossessione, quasi tradisce la presenza di una patologia anche in colei che ha reso la propria aderenza alla sanità, giustificazione e legittimazione di un golpe di cui è sola fautrice e fruitrice. La creazione di un micro-cosmo gerarchizzato, in cui vige l’hobbesiano “homo homini lupus” imposto, nell’inconsapevolezza generale. Un sistema perfettamente oliato, chiuso in se stesso, in una struttura spiralizzata. È scientifico, però. Nel momento in

cui un nuovo elemento entra a far parte di un sistema, quest’ultimo subisce una scossa. Viene introdotta un’incognita in un’equazione i cui risultati possibili sono esclusivamente due: il nuovo elemento si adegua, oppure, il sistema si piega. Dario Danise (D. Russo) è la x. L’inco- gnita. La ventata di irriverente libertà. L’alternativa, per chi ha sempre creduto di non averne. Il “Qualcuno volò sul nido del cuculo” firmato Alessandro Gassman ha inaugurato lo scorso 23 ottobre la stagione del Teatro Bellini. In una rivisitazione di Maurizio de Giovanni che in nulla manca rispetto agli adattamenti di Wasserman e Forman. Jack Nicholson e Louise Fletcher, seppur restando inevitabilmente presenti negli occhi di chi guarda, riescono a rimanere un’ombra di riferimento piuttosto che di paragone. Riferimento che va abbandonato appena prima di entrare in sala per riuscire a godere di tutte le sfumature poste a variazione di una pellicola che, da sola, è storia. Una storia attualizzata, resa più vicina nello spazio e nel tempo. Una storia pronta a rivivere tra teatro e videografie. Una storia che non perde mai la propria essenza. Una Grande Storia. “Le Grandi Storie non necessitano di una forma precisa, perché vanno direttamente a ferire la superficie dell’anima e lasciano un’indimenticabile, meravigliosa cicatrice.”

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a napoli non piove mai

Mentre fuori piove. Un lungometraggio di Sergio Assisi mostra Napoli viva ed entusiasta. A Napoli non piove mai, presentato al film Festival, per sorridere della vita, nonostante tutto.

S

ei al cinema, in sala i posti son buoni: quattordicesima fila centrale, ottimo! Fuori quasi diluvia, ma poco importa perché sei al coperto; le luci affievoliscono, poi si spengono, buio. Il film inizia. I tuoi occhi si accendono, la luce sembra squarciare la tela sulla quale sono proiettate le immagini, quei colori brillanti quasi sembrano vivi. Sgualcisci le palpebre per poi sgranare gli occhi e renderti conto che quella luce ti accompagnerà per tutta la durata del film. Non è un errore di proiezione, tantomeno un effetto della fotografia, la luce è la stessa di una città che nel film viene inscenata con naturalezza e spiccata praticità. Una luce che è dentro i personaggi della commedia - come Barnaba, interpretato da Sergio Assisi, autore e regista del film che hanno mille motivi per piangere,

ma un milione per sorridere. Ed è questa la reazione che provi: sorridi e godi per novanta minuti delle bellezze paesaggistiche, culturali e sociali che solo la città di Napoli ha e che si intrecciano perfettamente con il racconto. Sorridi, perché finalmente c’è chi ha deciso di narrare il lato ‘buono’ della città. Sorridi perché all’oscurità della sala cinematografica viene contrapposta la luminosa gioiosità dei colori di una città che non viene sodomizzata dall’opacità di narrazioni criminali. Sorridi perché paradossalmente il film che stai vedendo è intitolato ‘A Napoli non piove mai’, ma è stato presentato al ‘Napoli film Festival’ il primo giorno di un mese di ottobre piovoso e grigio come non mai. Sorridi perché poco importa se non vincerà mai un Oscar. Fuori continua a diluviare, ma l’hai dimenticato, perché in fondo dentro di te lo sai: a Napoli non piove mai!

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A Napoli non piove mai - Sergio Assisi

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Ph. Martina Esposito

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Parigi è un paese molto ospitale; accoglie tutto, sia le fortune vergognose che quelle insaguinate. Il delitto e l’infamia vi godono diritto d’asilo; solo la virtù non vi possiede altari. (Sarrasine di Honoré de Balzac) Ph. Martina Esposito

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venerdì tredici novembre

La vie engrenage. Gli ingranaggi di una guerra subdola e spietata nella crociata santa dell’ovvietà mediatica. Sospesi tra la meschinità umana e l’ipocrisia di un meccanismo perverso.

C

olpi, volti, voci. Spari, ostaggi, sangue. La diretta disumana ha inizio e con essa il soliloquio della ragione. Una ragione sociale intessuta di moralismi e filosofie che vorrebbero essere eccelse. Come si può formulare una qualsiasi riflessione nel momento stesso in cui si sta vivendo l’orrore creato dalla specie umana, a pochi cm dal volto paralizzato ad uno schermo? Non si dà il tempo a se stessi di percepire un dolore, uno strappo emotivo. Non si elabora, si deve esternare. La prima azione comporta una stretta allo stomaco, ansia, paura, consapevolezza che ciò a cui si assiste sia il risultato di anni di devastazioni fisiche e culturali. La seconda esaspera convinzioni vere o presunte. Carica di odio, allarmismo. Si diventa crociati di una guerra santa dell’ovvietà, stando fermi.

È ovvio il meccanismo dagli ingranaggi perfetti. È ovvia la ripercussione di scelte belliche in Afghanistan, Iraq, Siria: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Non è ovvio il massacro umano. Non è ovvio che paghi chi non ha avvitato l’ingranaggio. Non è ovvia l’ipocrisia nel non estirpare la piaga. E, intanto, come sospese, restano immobili le lancette che scandivano altri tempi: due amanti nell’attimo eterno dell’amore; un pittore e la sua arte tra le dita, per superare la fisicità e innalzare l’essere umano ad un frammento divino di cui non si urla il nome, per una scusa artefatta, ma che s’incarna nella ricerca del bello, dell’altro. Il tempo, lì, fermo, sospeso, tra foglie che sanno d’autunno. In attesa che le lancette ritornino a girare, a dispetto degli ingranaggi. Come la vita continua nella sua folle pedalata verso quel frammento divino che ci appartiene.

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n°13: porte-bonheur ou malédiction?

Paristouché,pascoulé. Ce fut le jour où la conscience des Français se réveille d’un cauchemar en pleine nuit. La capitale de la liberté, de la fraternité et de l’égalité ne voit que de la peur, de crainte, d’insécurité et de méfiance. Derrière les fenêtres se nichent une frayeur et une ombre du mal qui habitent et qui finissent par hanter les Parisiens.

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haque famille a eu peur ce soir-là. Les informations fusent à toute vitesse sur les télévisions aux alentours de 23 heures. De gros titres apparaissent comme «Attentats à Paris», «Terreur au Stade de France», et plein encore d’autres titres faisant la Une dans le monde en temps réel. Puis après arrivent de nombreux appels se succèdent un par un à n’en plus finir la conversation qui finira par être étouffé en un sanglot commun. Chaque foyer reste immobile face à ces terribles nouvelles qui ne font qu’alimenter la soif de la peur. La nuit «noire» sera décidément très marquante et très courte. C’est alors qu’après une nuit mouvementée, le 14 Novembre, la conscience

des Français se réveille enfin. Comment les Français se sentent-ils? Etant française moi-même, il est impossible de juger qui que ce soit. Nous sommes tous terrifiés à l’idée de savoir que d’innombrables innocents sont morts suite à un «jeu» barbare revendiqué par les terroristes. Samedi 14 Novembre. La ville-lumière se plonge dans l’obscurité grisâtre et glaçante. Il n’y a plus personne qui court les rues. La foule a disparu. Paris se retrouve face à un néant géant. Il n’y a plus aucune activité. Seul le bruit des radios ou encore la distribution des journaux nourrissent l’angoisse des Français. De mauvaises nouvelles s’annoncent encore une fois. Ce matin-là, nous réalisons encore mieux l’ampleur u des dégâts provoqués la veille.

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Ph. Martina Esposito

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Ph. Martina Esposito

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ous sommes tous pris d’une boule au ventre. Il y’a maintenant cette angoisse permanente qui nous guette depuis l’attentat de Charlie dont on n’y prêtait plus attention au bout de deux semaines. Cette peur-là, celle du Vendredi treize Novembre deuxmilles-quinze durera-t-elle plus longtemps que celle de Charlie Hebdo? Cette insécurité, toute cette méfiance d’autrui est maintenant installée dans nos pensées. Cet acte sera encore une fois irréversible dans notre âme, dans l’âmemême de la ville de Paris. Dès lors, nous aurons plus le choix de continuer à vivre sans oublier sans pour autant purger les peines. Paris est malade. Paris est maintenant rentrée dans les couloirs de la mort, de l’horreur que nécessite toute histoire. Plus personne ne sort, pas même un chat. Les autorités nous ont vivement conseillé de rester chez nous, là où l’on peut se sentir au minimum en sécurité. Car plus rien aujourd’hui est sécurisé. Nous Parisiens ne sortons pas. Nous ne voulions que rester chez nous afin de comprendre ce qui se passe pour ensuite l’avaler de travers. Après cet épisode meurtrier, on se pose volontiers toutes ces questions. «Qu’est-ce que me préserve l’avenir dans un monde

si violent?» ou bien encore «Pourquoi Paris est-elle sujette à un autre épisode qui rappelle un certain onze septembre Américain ?». En clair, des questions qui ne peuvent pas être répondues. Nous Parisiens, ou autres citoyens français d’ailleurs avions compris quelque chose. Cette chose s’appelle la guerre. La guerre est déclarée à contrecœur. La France est réputée dans le monde entier de par sa laïcité généreuse. Il est inconcevable à l’heure actuelle de pouvoir se dire que demain est un jour incertain. Nous sommes tous craintifs. La peur règne, mais la force doit battre cette peur. «Ce qui ne nous tue pas nous rend plus forts». Faisons-le pour les victimes ; faisons-le pour obtenir, ne serait-ce que pour un jour obtenir la paix. Cette dite paix qui devient de plus en plus irréelle lorsqu’on s’approche dangereusement du vrai masque porté par des faux-humains. Ceux-ci, ces gens-là qui pensent avoir brisé les milles morceaux de la culture française ne sont que des pures monstres. Nous en tant peuple français, le devoir nous appelle : il y a un besoin cruel et dément de devoir relever la France et sa Paris adorée. De même à devoir rester forts face à cette redoutable épreuve qui tend à nous déstabiliser. Aimons la France et apprenons à nous aimer les uns des autres.

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Correspondante venant de Paris A.B.


n°13: portafortuna o maledizione?

Colpiti, non affondati. La coscienza dei francesi si è svegliata dopo una notte da incubo. La capitale della libertà, dell‘uguaglianza e della fratellanza respira ora soltanto paura, timore, insicurezza e diffidenza. Dietro le finestre appaiono gli spaventi e le ombre del male, che tuto ad un tratto si insinuano nella mente dei parigini.

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aura, è questa l’avversaria con cui le famiglie francesi, questa tragica hanno dovuto combattere. Sono circa le 23, quando ad un tratto le notizie iniziano a correre a tutta velocità, appaiono titoli come: “Attentato a Parigi”, “Terrore allo Stade de France”, che in pochi secondi accrescono il timore in tutto il mondo. Ben presto partono le telefonate, quelle di conforto, ma anche quelle di sofferenza, parole soffocate, che si trasformano in singhiozzi collettivi. Ciascuno di noi è paralizzato, bloccato fisicamente, ammanettato con la propria anima, perché la sete di paura continua ad alimentarsi di quanto di più orribile sta accadendo. Questa notte è nera, è nera e durerà ben poco, durerà

ben poco ma sarà memorabile. Il 14 Novembre, la coscienza è finalmente sveglia. Ed ora, ora come si sentono i francesi? Ci penso, ma da francese non riesco ad essere giudice di me stessa. C’è solo la paura nei miei pensieri, il terrore dinnanzi al sapere che ci sono state vittime innocenti, cadute dinnanzi ad una barbarie, già, rivendicata dai terrorristi. 14 Novembre. La città delle luci è spenta dal grigiore e dal freddo. Non c’è nessuno che gira per le strade. La folla è sparita. Parigi si trova di fronte solo ad un grande vuoto. Non c’è più nessuna attività. A tener vivia l’angoscia rimangono solo i graffianti suoni delle radio e la distribuzione incessante dei quotidiani. Le notizie annunciate sono sempre le stesse, ancora una volta. La coscienza è finalmente sveglia, e ci si rende con-

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Ph. Martina Esposito

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to della drammaticità del giorno precedente. Siamo stati colpiti dritti al cuore, ma il timore vero è che l’angoscia resterà lì a ricordarci la nostra identità, per non più di due settimane. D’altro canto, fu così anche con Charlie. Durerà di più? I nostri pensieri ormai sono sono differenti, siamo insicuri, una ignota diffidenza si è insinuata nel nostro essere. Questo atto lo andremo a sommare, lo andremo a sommare in un irreversibile bilancio di odio, che ha iniziato a computare la nostra anima e quella di Parigi. Charlie è stato l’inizio, da lì abbiamo scelto di continuare a vivere, senza più dimenticare. Parigi è malata. Siamo entrati in un tunnel dell’orrore, dinnanzi a noi le immagini della morte, di quelle morti di cui la storia necessita per andare avanti. Nessuno si aggira per le strade, anche i gatti hanno deciso di ripararsi dal grigiore. Le autorità ci consigliano vivamente di restare a casa, li dove possiamo sentirci al sicuro ... lì dove possiamo sentirci al sicuro? Perchè per ora nessun luogo è sicuro. I parigini temono, temono e si riparano, si riparano e restano chiusi. Chiusi in casa e chiusi in se stessi, per capire e meditare su cosa stia accadendo. Per digerire anche questa volta un boccone troppo amaro. Dopo questo episodio sanguinario, la mente è invasa dalle domande, i dubbi si susseguono:

“Cosa difende il nostro domani da un mondo così violento?” - vanno avanti, non si fermano, i dubbi non trovano riparo - “Perchè a Parigi è andato in scena un altro drammatico 11 settembre?”. Ci penso, non trovo risposta, non sono giudice di me stessa e non riesco neanche a trovare una soluzione. Questiti troppo grandi per me, dubbi che volano su questo cielo grigio di Parigi. I parigini e tutti i cittadini francesi già lo sanno, è guerra. È dichiarata, a malincuore, ma è guerra. Ma perché tutto questo sta accadendo qui? Nella patria della laica generosità, cala il sipario delle certezze sul nostro futuro. Si sente, “Ciò che non ti uccide, ti fortifica”; bisogna essere forti per le vittime, bisogna farlo per ottenere, in un glorioso giorno, la pace. Un miraggio, quest’ultima, che diviene sempre più lontana, quando ci si avvicina. Ecco la falsa maschera umana. Se si era pensato di frantumare in mille pezzi la nostra cultura, si è fallito. Siamo un popolo, quello francese, e il dovere ci chiama: c’è un disperato bisogno di rialzare la Francia, e la sua amata Parigi. Ma allo stesso tempo dobbiamo imparare, imparare ad essere forti, forti dinnanzi ad una terribile prova che tende a destabilizzarci, a spingerci nel profondo pozzo dell’odio. Intanto noi resistiamo, sul bordo, resistiamo amando la Francia, cercando di imparare ad amarci, ad amarci l’uno con l’altro.

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colora la tua notte

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