Impatto Magazine - Vol#1 - Sang 'e Napule

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ROMPI IL GHIACCHIO... A NAPOLI vieni a scoprirlo dal 21 al 25 ottobre In Via Caracciolo 1/a lungomare di napoli

www.maliachalet.it - 2 -


!MPATTO

MAGAZINE

Contenuti.

volume i

- 10 ottobre 2015

www.impattomagazine.it l’incontro con maurizio de giovanni Impatto Magazine è una testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Napoli con decreto numero 22 del 2 Aprile 2014.

Diretto da Stefano Telese

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Giallo color verace. Anime di vetro è l’ultimo romanzo poliziesco di un giallista partenopeo d’eccezione. Maurizio De Giovanni, tra suspense e sobrietà, racconta il suo modo di vivere la scrittura. Emozioni, energia e tradizione. Profilo di un autore che ha immaginato racconti prima ancora che la vita decidesse di farglieli scrivere.

stefano.telese@impattomagazine.it

Contributori Giorgia Mangiapia

giorgia.mangiapia@impattomagazine.it

Roberto Rossi

roberto.rossi@impattomagazine.it

Liliana Squillacciotti

al palazzo delle arti

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liliana.squillacciotti@impattomagazine.it

Regia di Monicelli. La mostra Mario Monicelli e Rap, in mostra al PAN, ha reso omaggio al regista romano che ha messo a nudo vizi e pregi dell’Italia che fu. Ottanta fotografie originali e diciassette illustrazioni in acrilico su carta, il tutto per rivivere la geniale carica espressiva di un regista che fatto la storia della sua Italia.

Martina Esposito

martina.esposito@impattomagazine.it

Antonio Calenzo

antonio.calenzo@impattomagazine.it

Valerio Varchetta

valerio.varchetta@impattomagazine.it

Roberto Fabozzi

roberto.fabozzi@impattomagazine.it

party universitario

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- una notte al castello

Metti una notte al... Lo spirito internazionale e cosmopolita, la voglia di divertirsi, il desiderio di vivere l’Università fuori dalla facoltà rendendola un unico villaggio globale, hanno invaso nuovamente il Maschio Angioino. Il 18 settembre in cinquemila per vivere, ancora una volta, una esclusiva e magica notte al Castello.

Ginevra Caterino

ginevra.caterino@impattomagazine.it

alla mostra d’oltremare

Grafica Marika d'Angelo

marika.dangelo@impattomagazine.it

Edito da

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Gruppo Ed. Impatto Sede Legale: Via Cumana 29, Napoli Sede Operativa: C.so Lucci 61, Napoli Tutti i contenuti di Impatto Magazine vengono distribuiti attraverso la licenza Common Creative License. Qualsiasi riproduzione dell’articolo dovrà comportare la citazione della Testata e del rispettivo autore. Le foto presenti su Impatto Magazine sono state in larga parte prese da Internet e quindi valutate di pubblico dominio. Se i soggetti o gli autori avessero qualcosa in contrario alla pubblicazione, lo possono segnalare alla redazione, tramite l’indirizzo e-mail ad info@impattomagazine.it, che provvederà pront amente alla rimozione delle immagini utilizzate. Tutti i contenuti e le piattaforme di Impatto Magazine sono di proprietà del Gruppo Editoriale Impatto. Entrambi non richiedono alcun contributo economico da parte dei propri lettori. La testata Impatto Magazine non riceve contributi pubblici all’editoria.

Tra verità perdute. Un’esplosione di cerimonie tradizionali, con danze incantatrici, samurai e spade, sari, yoga e meditazione, ha invaso l’Italia con l’ultima edizione del Festival dell’Oriente. Non poteva mancare a Napoli dove gli spazi della Mostra D’oltremare hanno ospitato spettacoli, esibizioni, dimostrazioni e seminari. l’intervista con jorit (ago)ch

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For #Human tribe. Una parete come tela, la periferia come galleria d’arte e Jorit (Ago)ch segna, solcandola nel profondo, la città con la genialità artistica dei suoi murales. Il volto per esprimere sopravvivenza, impegno, sacrificio, creatività. Senza bisogno di parole, i graffiti come linguaggio universale dell’umanità ai margini.

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l’incontro con maurizio de giovanni

Giallo color verace.

Anime di vetro è l’ultimo romanzo poliziesco di un giallista partenopeo d’eccezione. Maurizio De Giovanni, tra suspense e sobrietà, racconta il suo modo di vivere la scrittura. Emozioni, energia e tradizione. Profilo di un autore che ha immaginato racconti prima ancora che la vita decidesse di farglieli scrivere.

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vere una storia in mente. Vederla prendere forma, passaggio dopo passaggio. Senza nessuna esaltazione romantica di ciò che accade nel caleidoscopio cerebrale. Metterla su un foglio così come la mente l’ha generata. O come si è generata. Rispettando dei canoni, è ovvio, ma nella consapevolezza che la storia non sia amministrabile più di tanto. «Credo che lo scrittore sia creativo perché pone il primo passaggio della storia. Come un’espressione algebrica. Tu fai un primo passaggio e ci metti quello che vuoi: i numeri, le parentesi, le frazioni, le radici...quando metti uguale poi quell’espressione, che hai creato tu, ha un suo modo di essere risolto e un suo

risultato che tu che l’hai creata non conosci! Devi svilupparla per andare a vedere qual è il risultato». Maurizio De Giovanni sembra di leggerlo. Il suo raccontare e raccontarsi affascina come davanti ad una pagina di libro. Come la storia nata prima ancora di essere scritta prende il suo corso ed è lasciata libera di materializzarsi, così si ascolta la sua voce cadenzata. Non sai dove porterà ma ne segui lo scorrere e lasci che ti trasporti nel suo divenire. Nella storia non potranno esserci salti di passaggio. Gli indizi, le false piste, lo sfondo storico, la ricostruzione e la ricerca contestuale e fedele dei fatti, delle mentalità del tempo, risultano propedeutici. La storia gialla va preparata ma non si può studiare: solo la mente sa come agiranno i personaggi. u

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Quanno na cosa è bbona e è nata ccà, nu milione ‘e gente l’ha da di’. E vedarraie po’ Napule addo’ va, cu tutto ca è ‘o paese d’’o ddurmi’. (Campanilismo di Raffaele Viviani) Maurizio De Giovanni - Ph. Roberto Pierucci

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Pi첫 ancora di baciarti e stringerti tra le braccia, vorrei essere nei tuoi sogni. E custodirli per te. (La condanna del sangue) Maurizio De Giovanni - Ph. Roberto Pierucci

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icciardi potrebbe morire nel prossimo romanzo e io dovrei lasciarlo morire perché non posso orientare la storia a mio vantaggio. Non posso immaginarla perché il percorso dipende dalla storia. Devo seguire la storia». De Giovanni vive la scrittura come un fatto naturale privo di esasperazione artistica. Scrivere è conseguenza di due prerogative: avere una storia da raccontare e aver letto, leggere e nutrirsi di lettura. «Perché non puoi pensare di giocare a pallone senza aver mai visto una partita sapendo solo le regole. Avere una storia, non occorre altro. Non serve la lingua, non serve il vocabolario».

«

Un ex funzionario di banca diventato scrittore per caso nel 2005, per una scommessa tra amici. Un autore in potenza che attendeva, senza saperlo, di divenire atto aristotelico. De Giovanni come un suo romanzo giallo: in attesa di concretizzarsi, ma lì, già esistente. Un lettore con la passione per i libri, legato alla sua città. La città del frastuono per antonomasia e avvolta nel silenzio assoluto dell’indifferenza. «Questa è la problematica della città: il silenzio, un muro eretto dalla stessa città. Castel dell’Ovo ha i cannoni rivolti verso la

città: sarebbe stato logico se i cannoni fossero stati rivolti verso il mare poiché l’invasore arriva dal mare. Invece i canoni sono rivolti verso la città perché Napoli è autolesionista. Il Castel dell’Ovo è il grande simbolo di quanto Napoli sia nemica di se stessa». Il ricordo va a Campanilismo di Viviani. Una città polifonica che non si può raccontare da un solo punto di vista. Come la racconta De Giovanni? “Ho scelto una squadra di otto elementi, ognuno dei quali vede la città con occhi diversi. Il grande errore che crea gli stereotipi è che arrivi qualcuno ogni tanto e dica: ora ve la racconto io, Napoli. Non è così. Nessuno di noi è in grado di raccontare Napoli in maniera esaustiva, possiamo raccontare il nostro punto di vista che non è quello esauribile”. L’Incontro ha permesso di conoscere una persona concreta, dal nobile animo napoletano, saggio e schietto. Consapevole che si lavora per vivere perché “la vita è l’oggetto finale e non il lavoro” e che, come fa dire ad un personaggio dei suoi romanzi, “gli anni passano subito, sono le giornate che non passano mai”. Uno scrittore, Maurizio De Giovanni, con un dono raro, vissuto con l’umiltà di chi ha immaginato e raccontato storie prima ancora che la vita decidesse di fargliele scriverle.

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al palazzo delle arti a napoli

Il tempo dell’anima. Matteo Anatrella e la sua personale Sound and Matrix. Tecnica ed interventi grafici coinvolgono gli spettatori in un processo creativo alla scoperta dell’anima.

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l tempo dell’anima immortalato e tangibile attraverso un pannello. Luci e ombre, forme di un corpo intuite, in uno scatto d’autore. Così Matteo Anatrella ha reso eterno il tempo dedicato all’anima di chi vuol denudarsi della materia e rendere manifesto il soffio interiore della vita. Come nasce l’idea di raccontare l’anima? L’idea nasce dal voler fotografare ciò che non è fotografabile. Il concetto di anima è sempre stato astratto, anche se in alcune culture risiede in organi del corpo. Immagino l’anima come una fonte di energia da cui parte tutto quello che siamo e che costruiamo nella nostra vita. Cosa hai tratto dall’esperienza? È come un gioco, come per i bambini. Prima che l’anima dei soggetti ritratti si riveli non so mai come aspettarmi.

Su uno sfondo meccanografico il titolo: Soul and matrix. Racconti dell’anima. Perché questa scelta? Credo che le anime ritratte abbiano un che di armonico e musicale. La musica è energia. Matrix dal codice a barre si ricava il nome e la data di nascita del soggetto ritratto. Racconti dell’anima perché una raccolta cospicua di anime potrebbe diventare un racconto sociologico. Chi è Matteo Anatrella? La fotografia in 40 anni non mi ha mai abbandonato. Mi ci sono avvicinato all’età di 13 anni come mero portaborse, sono passato da collaboratore a cerimonialista. Dopo alla moda e alla pubblicità e all’ideazione di progetti artistici. È un’evoluzione, quasi naturale. Spesso le fotografie nascono ben prima di essere scattate. Forse il fotografo la foto l’ha scattata qualche minuto prima di estrarre la macchina fotografica dallo zaino.

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Matteo Anatrella - Ph. Martina Esposito

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Soul and Matrix - Ph. Martina Esposito

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Soul and Matrix - Ph. Martina Esposito

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al palazzo delle arti a napoli

Regia di Monicelli. La mostra Monicelli e Rap, in esposizione al PAN di Napoli, ha reso omaggio al regista romano capace di mettere a nudo tutti i vizi e pregi dell’Italia che fu.

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ario Monicelli è riuscito a raccontare la condizione sociale, intellettuale, economica dell’italiano dal dopoguerra in poi. Una prospettiva totalizzata e messa a fuoco da un punto di vista estremamente riflessivo che è in grado di far entrare lo spettatore nei meandri delle personalità dei protagonisti dei suoi film. Disgraziati, vinti, nullafacenti e nullatenenti: gli italiani di Monicelli. Raccontando storie tragiche di povertà, di disagio, in chiave ironica, grottesca, ma senza tagliare mai quel filo rosso che dirigeva lo spettatore in un percorso di riflessione profonda. Il cinema di Monicelli ha tratteggiato profili di personalità di un’Italia che negli anni evolveva, si chiudeva in se stessa provincializzandosi. Un’Italia martorizzata dai suoi eccessi

e dalle sue ipocrisie. L’unicità delle opere di questo grande intellettuale italiano sono state immortalate al PAN di Napoli con 80 fotografie inedite. “Una ventina di anni fa, Mario Monicelli uscì di casa trascinando a fatica un grande sacco della spazzatura. Lo seguii sospettosa e riuscii a fermarlo mentre rovesciava nel cassonetto centinaia di fotografie che aveva accumulato nella sua lunghissima vita di regista. Perché? chiesi. Perché è roba vecchia, mi rispose. Era un uomo del futuro, Mario”. Questo il pensiero di Chiara Rapaccini, in arte RAP. Sono sue le 17 illustrazioni in acrilico su carta che affiancano le 80 fotografie. Gassman, Mastroianni, Totò, Virna Lisi, Anna Magnani, Giancarlo Giannini, Monica Vitti, Ugo Tognazzi: i volti che hanno immortalato i vizi e le virtù dell’Italia che fu. Dell’Italia che sapeva ridere della fame, della malattia e della miseria.

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Le grandi domande esistenziali non mi interessano. Chi siamo e dove andiamo sono cose su cui non mi sono mai soffermato. Quelle bischerate là servono solo ad alimentare l’angoscia. (Monicelli tutto lavoro - La Stampa) Mario Monicelli - Venezia 1985 (CC. Wikimedia)

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Monicelli e Rap - Ph. Martina Esposito

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Monicelli e Rap - Ph. Martina Esposito

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Monicelli e Rap - Ph. Martina Esposito

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Una Notte al Castello - Ph. Ginevra Caterino

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party universitario

- una notte al castello

Metti una notte al... Lo spirito internazionale e cosmopolita, la voglia di divertirsi, il desiderio di vivere l’Università fuori dalla facoltà rendendola un unico villaggio globale, hanno invaso nuovamente il Maschio Angioino. Il 18 settembre in cinquemila per vivere, ancora una volta, una esclusiva e magica notte al Castello.

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n’intera notte per prendere d’assalto, con l’euforia della Napoli giovane, le mura imponenti di una poderosa fortezza. Il complesso difensivo di Castel Nuovo si erge silenzioso e fiero nella penombra attendendo cinquemila invasori del villaggio globale. Cinquemila voci, cinquemila passi, cinquemila sorrisi, cinquemila mani, cinquemila sguardi che s’incrociano prima che la notte abbia inizio. Preludio di ciò che sarà. Prima che la notte li avvolga nell’ombra eccitante, folgorata dalla musica e dalle luci fluo di una disco a cielo aperto. Sotto lo sguardo di una luna ancora estiva, di un cielo ancora leggero, le note dei dj set vibrano tra le mura medievali, smuovo-

no dal silenzio storico le torri merlate in tufo e piperno, le accendono proiettando luce nuova. Spaccano e sovrastano su un Maschio Angioino preso d’assalto dal Festival delle Università. Dopo l’entusiasmo di Una notte al castello del 1 giugno, si replica e lo si fa alla grande. Superando le aspettative, raggiungendo cifre che appagano il desiderio di successo e divertimento, forza motrice della serata. In cinquemila con l’impeto di un’estate che non si vuol far finire! Un’estate che non deve finire ma che senti addosso e ti carica di adrenalina necessaria per iniziare un anno accademico in evoluzione. Da matricola o fuoricorso, non importa perché sei parte del mondo universitario, ne sei un u abitante e te lo vivi il tuo mondo.

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Una Notte al Castello - Ph. Ginevra Caterino

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Una Notte al Castello - Ph. Ginevra Caterino

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Una Notte al Castello - Ph. Ginevra Caterino

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i ritorna per una nuova notte al Castello con lo spirito di condivisione che ti rende “componente”, che fa star bene mentre la musica riscalda e i ragazzi, universitari e non, creano un tappeto umano a via Acton 38. Sette atenei universitari, uniti, perché l’università non sia solo corsi da seguire, esami da sostenere, prove da superare, prenotazioni da non dimenticare, delusioni da digerire e successi da raggiungere. Fare università è confronto, spirito critico, apertura mentale, dialogo, interazione, socializzazione. È comunità. È divertimento con un tocco internazionale grazie alla partnership con la British Community di Napoli. Fare università è viverla anche al di fuori dell’architettura della propria facoltà. È in una notte del 18 settembre al Maschio Angioino tra la musica, luci e drink, selfie scattati prima di entrare per condividere una serata ancora da vivere ma che, mood generazionale, deve avere conferma del proprio esistere dall’esterno. È nella voglia di divertirsi dopo aver sorriso per un like, finché il ritmo chiama e della conferma, in fondo, non t’interessa più. Perché sei lì, sei nel mezzo, sei protagonista del villaggio globale, dove le distanze fisiche e culturali si an-

nullano; dove stili di vita, lingue, scelte universitarie e comportamenti sono sempre più internazionali. Perché una notte al castello non rappresenta solo una serata per ballare. È la notte in cui a Napoli si è in cinquemila per demolire i confini di ogni singolo ateneo e il globo universitario campano assume la dimensione di villaggio. Sul logo, le cuffiette del dj circondano il Mastio, dal vivo le luci ne riflettono il fascino antico mentre un selfie immortala una notte che non ha più bisogno di conferme. Antonio Prisco, organizzatore della serata, ha colto nel segno: la percezione della vita universitaria cambia e il desiderio di possibilità e apertura trasuda. Nessuna frontiera o pregiudizio, nessun atteggiamento snob o di classe: il castello è di tutti, almeno per una notte. L’aggregazione si modella nel sentirsi racchiusi nella diversità dei saperi. La disomogeneità diviene risorsa, la fermentazione giovanile convoglia in un numero importante, significativo del movimento in evoluzione di una realtà universitaria che cambia. Cinquemila sorrisi che si prendono, cinquemila mani in aria, cinquemila sguardi divertiti, per un megaselfie da condividere. Il like è d’obbligo per un evento bissato con la preparazione tattica di un assalto d’eccezione. Il Castello è preso.

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Una Notte al Castello - Ph. Ginevra Caterino

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Se ci fosse una capitale dell’anima, a metà tra oriente e occidente, tra sensi e filosofia, tra onore e imbroglio, avrebbe sede qui. (Stanislao Nievo - Su Napoli) Festival dell’Oriente - Ph. Fernando Alfieri

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alla mostra d’oltremare

Tra verità perdute.

Un’esplosione di cerimonie tradizionali, con danze incantatrici, samurai e spade, sari, yoga e meditazione, ha invaso l’Italia con l’ultima edizione del Festival dell’Oriente. Non poteva mancare a Napoli dove gli spazi della Mostra D’oltremare hanno ospitato spettacoli, esibizioni, dimostrazioni e seminari.

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dentikit dell’homo sapiens sapiens occidentale: disorientato dalla confusione, bombardato da un irrefrenabile bisogno di riempiere l’horror vacui dell’anima con il rumore esterno. Si affanna in una corsa disperata che insiste a definire “vita”. Finché si ritrova disperso, stanco, alla ricerca agitata di un’assenza di caos per concedere al boato dell’anima una pausa. Cerca rifugio in pensieri lontani dal mood quotidiano proveniente dal dio social. Si volta verso chi, con maestria, ha fondato la Vita sul “riprendersi il proprio tempo” avvolto in un kimono. L’Occidente si volge all’Oriente e si fa invadere: l’homo sapiens sapiens ha bisogno di fermarsi perché non sa più come ritrovarsi. Se lo lascia suggerire

da occhi a mandorla che rivelano verità antiche – forse dimenticate anche da chi le professa e ne fa mercato. Se ne avverte l’esigenza per dare un senso. Al tutto e al niente che ci circonda. L’Oriente lo ha ben capito e, sornione, lo accontenta. Così, senza far troppo rumore, la cultura del levante si diffonde a macchia d’olio, pardon, di sake: si assapora tra involtini primavera e l’azzardo dei biscotti della fortuna. Per squarciare il velo di Maya. Per aprire lo sguardo su un mondo che porta in sé la seduzione. Per lasciarsi andare ai colori spruzzati in aria. Per un’invasione superficiale, ovviamente. ‘Ché non si corra il rischio di toccare realmente la spiritualità, la riscoperta dell’anima, lo stato di coscienu za meditativo.

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intento di mostrare l’Oriente c’è, si vede mentre riempie con leggiadria ogni angolo di spazio. È ovunque: tra pendenti dagli stand, tra le spade dei samurai e gli incensi che inebriano l’aria ma, tutto resta aleatorio. Il dio denaro sembra vincere sulla coscienza Zen. L’antico Oriente ha perso il misticismo cedendo il posto al moderno consumo. Più che l’invasione dell’Oriente sembra aver assistito all’occidentalizzazione di un Oriente ormai dominante. Sarebbe stato diverso se invece avessimo cercato, o cercassimo, di conoscere una cultura rispettandone la purezza e imparassimo a sentire e a prendere da essa le caratteristiche di cui avvertiamo il bisogno. Un’inclusione culturale non avrebbe portato alla perdita dell’individuzalità né dell’uno né dell’altro mondo. Avrebbe determinato uno scambio di passati, esperienze, storie, senza altro fine. Le spinte interne ed esterne di due forze motrici differenti hanno provocato l’annullamento della propria forza e si sono autoannullate. È una reazione fisica. Il circuito del commercio ha messo in moto una macchina cosmopolita che accomuna l’homo sapiens sapiens:

produrre denaro. Logico e legittimo. Il progresso medita negli alti uffici di cristallo. Ma, forse, la disillusione subentra perché quando si tratta del Levante ci si aspetta davvero di orientarsi nella confusione, di far tacere il rumore esterno per dare ascolto ai boati silenziosi e silenti dell’anima. Si desidera che la spiritualità di occhi a mandorla in kimono ti conquistino per la pacata sicurezza del proprio equilibrio interiore e ti convincano a fermarti. Fermarti per davvero a guardare il baraccone della vita per renderti conto che da spettatore diventi spesso pagliaccio triste in scena. Aspiri a quella spiritualità e cerchi l’intensità di quegli occhi. Un desiderio è esaudito all’interno della grande fiera delle verità perdute: una tradizione induista per celebrare la vittoria del bene sul male. La festa dei colori e dell’amore: l’Holi ha racchiuso in sé la necessità di qualsiasi homo. Più di qualsiasi stand, tra un acquisto e una speculazione, più di una verità venduta a basso prezzo, più di qualsiasi sashimi che riempia lo stomaco e lasci vuoto lo spirito, giocare con i colori rende leggeri, senza tempo e senza difese, come i bambini. Spontaneamente cittadini del mondo e, da sempre, inclusori culturali. Loro sì che sono sapientes.

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L’Occidente si è occupato del mondo attorno all’Io ed è diventato materialista; l’Oriente ha scavato nell’Io ed è diventato spirituale (Tiziano Terzani - Un’idea di Destino) Festival dell’Oriente - Ph. Fernando Alfieri

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I napoletani, cavano l’arte dal sole. (Il Critico di Camillo Boito) Jorith (Ago)ch - Ph. Sergio Siano

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l’intervista con jorit (ago)ch

For #Human tribe.

Una parete come tela, la periferia come galleria d’arte e Jorit (Ago)ch segna, solcandola nel profondo, la città con la genialità artistica dei suoi murales. Il volto per esprimere sopravvivenza, impegno, sacrificio, creatività. Senza bisogno di parole, i graffiti come linguaggio universale dell’umanità ai margini.

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oluttuosa e procace, Napoli, danza in ciabatte ad un ritmo tutto suo. Ribelle, suda e canta, povera di tutto ma ricca di sangue. Porta sul volto il segno rosso dell’appartenenza all’umanità. Nessuna religione, classe sociale, colore di pelle o scelta sessuale, la esclude perché uno spirito d’indipendenza primitiva alimenta il suo popolo. Una Human tribe innalzata ad opera d’arte da un writer in continua evoluzione. L’ultimo segno, a Forcella su una tela murata di 15 metri con un San Gennaro caravaggesco, un volto della vita reale tra giochi di luce e ombra. Il graffito e la street art hanno un volto ed un nome: il tuo. Per i ragazzi della periferia sei un esempio da seguire.

Hai iniziato come writer per divertimento, come vivi il ruolo che adesso indossi? A Napoli i graffiti sono ancora in numero esiguo. A Roma sono state dipinte 150 facciate cieche e alcuni quartieri hanno dei tour. L’iniziativa a Ponticelli e il San Gennaro rappresentano l’impegno di realizzare qualcosa di interessante con murales e street art. Sento la responsabilità ma si è trattato di un progetto che ha coinvolto una serie di persone e il Comune. Come artista mi sento gratificato. Si sono avvicinate molte più persone di quanto potessi immaginare al mondo dei graffiti. Quando ho iniziato per passione a scrivere il mio nome sui muri della città mi correvano dietro con la mazza. Ora m’inseguono per la firma. Dietro il tuo graffito c’è una filosofia. Hai cambiato un po’ il mondo u

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Jorith (Ago)ch / San Gennaro - Ph. Sergio Siano

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ei writer? Il messaggio sociale che posso dare non è legato ai graffiti. Deriva dalla mia persona, dalle esperienze fatte e delle emozioni provate che, inevitabilmente, si sono andate a fondere con l’ arte. Il mondo dei graffiti è un movimento che nasce dalle periferie ma non ha coscienza legata al territorio. Nasce come protesta, come ribellione al disagio dei ragazzi che hanno bisogno di esprimersi. Poi ogni artista interpreta a modo suo. Sicuramente è il movimento artistico più forte del momento. Abbiamo opere vendute come i grandi maestri del passato. Bansky è l’artista più riconosciuto e famoso al mondo. Hai viaggiato molto. In Africa hai appreso l’arte Tinga Tinga. Quanto l’Africa ha influenzato il tuo percorso artistico? Sono stato influenzato nell’uso dei pennelli, prima usavo le bombolette. In Africa lavorano di manualità. Una manualità eccezionale. Quadri con linee continue perfette. Mi hanno spinto a migliorarmi nella composizione, nei dettagli e nella tecnica. Ho conosciuto modi di rapportarsi, di vivere la vita e di interpretarla in maniera “altra” rispetto a quella Occidentale e ciò cambia, fa crescere.

Il graffio sul volto: la scarnificazione, il passaggio dall’infanzia all’età matura. L’entrata nella tribù umana? In alcuni contesti di povertà e non di emarginazione, perché quelli sono mondi a parte, c’è ancora un senso di appartenenza. Le persone che entrano a far parte di una tribù si segnano. Ho voluto richiamare il rituale perché, in questi ultimi tempi, si sente la frizione tra le persone in certi meccanismi più grandi di noi che ci portano a competere, anche inutilmente. In certi villaggi non c’è l’uso del denaro quindi si deve per forza di cose essere uniti per stare bene. Nella società Occidentale e in quelle “progredite” devi far soldi a discapito di altri mentre, in natura, ci sarebbe un feeling che potremmo sentire con chiunque. Semplificherei il messaggio con le parole quindi lo esprimo dipingendo volti e segnandoli. Lasciando intendere alle persone. Chi è Jorit e com’è diventato la persona che è oggi? I viaggi sono stati indispensabili. Spesso quando si resta chiusi in un unico contesto non ci si accorge del bello che c’è in esso, dei tratti di umanità vera e anche di fratellanza che magari non vedi ovunque. Ci sono luoghi centrati sul business, dove i rapporti umani sono ridotti al mero scambio commerciale. Più culture riesci a sentire, più cresci e comprendi le tue esigenze.

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Come guardi alla tua Napoli? Conto molto su Napoli. Sulla possibilità di artisti internazionali con cui poter fare percorsi d’arte. Credo che in questo momento Napoli sia ad un crocevia e potrebbe dare molto. Spero che davvero si punti sulla riqualificazione dei quartieri. A Napoli, i ragazzi hanno il fuoco dentro: noi ce la facciamo ovunque andiamo. Jorith (Ago)ch - Carlo

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Jorith (Ago)ch - Achille

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Jorith (Ago)ch - Ael

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la pièce teatrale

Proscenio della vita. Il baciamano di Laura Angiulli ha regalato un momento di riflessione, divertimento e di interpretazione nella cornice della basilica inferiore di San Domenico Maggiore.

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a morte del giacobino è in salsa francese”. L’ironia di un giacobino suggerisce il modo in cui una popolana potrà cucinarlo. Un giacobino deve essere cotto nella fragranza della libertà, sfumato con gli odori inebrianti dell’uguaglianza e mantecato nella cremosa morbidezza della fraternità. Peccato che la popolana abbia solo un pentolone e una quantità infinita di sofferenza, rabbia e disillusione derivante dalla misera più nera e dalla fame più accesa. Si avverte il retrogusto amaro di due mondi paralleli. Un confronto ironico e profondo al contempo, in un’opera messa in scena in un chiostro napoletano avvolto dal calore estivo. In un’atmosfera notturna, in scena un dialogo pregnante: Il baciamano di Manlio Santanelli. Un giacobino ha combattuto per la Repubblica Napoletana, l’ha

desiderata per attaccamento sincero, democratico. Di contro si ritrova la disillusione di una donna senza aspettative, umiliata dal marito e dalla vita, incattivita dalla povertà. Finché lui si inchina per baciarle la mano. Cade la maschera dell’indifferenza sotto il peso di labbra che sfiorano appena la pelle. Ma il baciamano dura un attimo e la caduta degli ideali porta alla morte dell’anima. Alla volontà di essere mangiati. In salsa francese? No, lascerebbe un retrogusto amaro. Si preferisce fermare il momento a quell’attimo disperato e liberatorio. Nella mente riecheggia “Forsan et haec olim meminisse iuvabit”. Sul patibolo, Eleonora Pimentel Fonseca cita la frase dell’eroe virginiano. Prima della caduta di ideali “Forse persino di questi avvenimenti un giorno la memoria ci sarà d’aiuto”. Fuori dal proscenio delle verità.

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Naa - Il bacio devoto

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Sogni di Pace di Fernando Alfieri - Premiata al concorso Napoli: arte e rivoluzione

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l’istantanea premiata

Rivoluzione e pace. I sogni di pace viene premiata all’interno del concorso Napoli: arte e rivoluzione. Per la memoria storica di un passato il cui coraggio ha permesso l’esistenza del presente.

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sogni di pace sono nella mano di un bambino. In un fermo immagine in bianco e nero, una mano su un elmo, appoggiato lì, in bilico, su un muro. In attesa. Di essere preso, indossato o di essere lasciato inerme e inerte. Una mano per tenerlo fermo, immobile. Affinché non cada, affinché non assuma vita propria. Mentre lo sguardo guarda lontano. Già, lo sguardo si perde e supera il muro, va oltre le case, va oltre il visibile. Si ferma sul mare? Si spinge verso l’immensità di ciò che non si può tenere sotto la propria mano ma che non fa paura? I sogni di pace sono affidati alla mente di un bambino. E scatta un senso di responsabilità da parte di chi osserva la fotografia e scorge l’inafferabilità di quei pensieri. Sfuggevoli e profondi, lasciano intravedere significati e domande, risposte e giudizi. Fernando Alfieri, fo-

tografo di grande rilievo nel panorama campano, pluripremiato e docente di fotografia, ha ricevuto il premio “Menzione speciale della critica” nell’ambito del Concorso “Napoli: arte e rivoluzione”, alla sua seconda edizione. Il concorso, che è dedicato alla memoria delle lotte del popolo partenopeo, vuol sottolineare l’importanza della memoria storica attraverso espressioni artistiche. Un modo per non dimenticare e per tener viva la memoria collettiva di un passato che ha permesso di costruire le basi del presente e che consentirà di costruire un futuro. Una fotografia esprime non solo un momento. Ha in sé la forza dell’evocazione e dell’elaborazione di un pensiero critico e costruttivo. Il ph. Alfieri ha reso possibile il richiamo a quella forza e una riflessione artistica e storica fondamentale per ciò che è stato, ciò che è, ciò che sarà.

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