Impatto Magazine // Num. 8 // 3 Aprile 2015

Page 1

!MPATTO NUMERO 8 - 3 APRILE 2015

MAGAZINE

2

+

RIFLESSIONI SUL CAPITALE UMANO PAGINA 14

IL MERCATO ISLAMICO DELLE SCHIAVE Il territorio dell’identità violata. Storie di violenze su donne e bambine.

LA TERRA DEI CURDI

PAGINA 18

SOTTO IL REGNO DEL CALIFFATO

Il Kurdistan diviso e composto da minoranze, si ritrova protagonista dell’opposizione allo Stato islamico.

Tra guerre sanguinose e barbare violenze, il mondo si interroga sulla vita all’interno dell’ISIS.

PROTAGONISTI DEL MAGAZINE

MAS’UD BARZANI

ABU BAGHDADI

NARENDRA MODI

FRANCESCO ACAMPORA 1


!MPATTO - COMUNICATO N.8 | 3 Aprile 2015

DON’T CRY FOR ME ARGENTINA La demoralizzante strumentalizzazione della copertina “Omicidi di Stato” di Impatto Magazine arriva dalla “fine del mondo” con un lancio “Revista italiana acusa a Cristina por homicidio de Estado” che campeggia sulle più importanti testate argentine. Storia di un ordinario uso imprioprio di titoli al fine di montare casi mediatici non esistenti. Riflessione sul rispetto della cronaca e sul un legame indissolubile tra le radici partenopee e il calore tipico dell’Argentina.

I

mpatto Magazine, a seguito delle pubblicazioni di alcune testate web argentine, ci tiene a precisare che la copertina denominata “Omicidi di Stato”, del Magazine 5 datato 11 Marzo 2015, fa quasi interamente riferimento al caso Nemtsov, e solo parzialmente al caso di Alberto Nisman. La scelta di avere la presidentessa argentina Cristina Fernández de Kirchner in copertina è figlia di un percorso produttivo di tipo grafico, e non certo contenutistico, in tal caso avremmo indubbiamente optato per una copertina con il presidente Vladimir Putin o per il protagonista di un altro componimento editoriale del suddetto numero. La presidentessa Cristina Fernández de Kirchner, di cui in altre occasioni abbiamo apprezzato manovre economiche e politiche, è indubbiamente fotogenica e dunque facilmente collocabile su prodotti editoriali impaginati come il nostro. Ci preme sottolineare, inoltre, che l’immagine di copertina è un omaggio allo studio fotografico di Platon Antoniou, un artista dell’obiettivo da sempre apprezzato dalla redazione Impatto per la propria capacità di immortalare, in primo piano, i potenti del mondo. 2

CRISTINA ELISABET FERNÁNDEZ DE KIRCHNER è l’attuale presidente argentino dal 2007. Impatto è un progetto giovane, di nicchia – sia per lettori che per contenuti – e che non ha alcun tipo di finalità commerciale. Le istantanee che lo corredano sono liberamente prese da Google Immagini, e dunque ritenute di libero dominio, mentre la propria linea editoriale è giovanile e non aggressiva (basti pensare che all’interno di questo articolo d’”accusa” la presidentessa argentina viene immortalata assieme a Ricky Martin, cantante pop, idolo delle folle). Continuando, poi, nella disanima dell’articolo che si è ritrovato al centro di discussioni

internazionali, il titolo “Morte annunciata” fa riferimento alla paura, palesata– più o meno esplicitamente – da entrambi i protagonisti del componimento, di perdere la vita a seguito delle loro operazioni politiche ed istituzionali. Entrambi i titoli che corredano l’approfondimento da noi curato, dunque, non sono altro che una fulminea e forte condensazione delle voci popolari e cronistiche per giorni hanno fatto seguito ai casi di Nemtsov e Nisman. Si deve aggiungere, oltremodo, che l’asserzione


OMICIDI DI STATO La copertina del magazine Impatto dell 11 Marzo 2013 è stato al centro di aspre contestazioni pubbliche in Argentina. “non è un suicidio!” (nel caso di Nisman, ndr) è comprovata da perizie pubbliche e da fonti ben più note e autorevoli della nostra (vedi La Repubblica); mentre il titolo “Omicidi di Stato”, qualora fosse ritenuto da chiunque un’affermazione (contrariamente a quanto spiegato in precedenza) va rapportato anche alle frasi della stessa presidentessa Cristina Fernández de Kirchner, la quale ha più volte sottolineato come il caso Nisman fosse da ricondurre ad una operazione dei servizi segreti deviati, dunque – inconfutabilmente – membri dello Stato (vedi La Stampa). Andando avanti, un attento lettore sicuramente può notare come l’articolo sia pieno di tesi, teorie e supposizioni, che in molti punti vanno anche a favore dei Capi di Stato di Russia ed Argentina. La parte più concreta dell’articolo è, d’altronde, riferita a degli omicidi italiani, le cui storie – che ancora rattristano e ombreggiano l’anima collettiva dei nostri connazionali– sono supportate da numerose pubblicazioni giornalistiche,

editoriali e saggistiche, oltre che da plurimi documenti ufficiali, facenti seguito a processi ed indagini. Ancor di più, una delle frasi di coda del testo, ossia “la conclusione logica è evidente: troppo scomodi!” non costituisce altro che la summa del concetto di due uomini che con le loro idee politiche o con le loro cariche istituzionali e giurisdizionali si sono trovati davanti al possente muro del potere, senza sintetizzare, però, alcuna presa di posizione sulle possibili cause delle morti, le quali saranno discusse nelle sedi opportune e non certo sul nostro giornale. Impatto, dunque, diffida qualsiasi tipo di strumentalizzazione del proprio prodotto editoriale, al fine di conquistare in maniera facile viralità e popolarità. Tra l’altro, ci risulta strano che solo oggi le testate web argentine abbiano ripreso (per corredare il materiale inedito che nelle ultime ore sta arricchendo il caso Nisman) un magazine – uscito quasi un mese fa – che per la propria peculiarità di essere impaginato, non può godere di aggiornamenti ed ultime ora. Ci avviamo, quindi,

alla fine di questa breve disamina, innanzitutto inviando le più sentite condoglianze e stringendoci affettuosi nel dolore con i familiari di Nisman e di Nemtsov, e ricalcando come il rapporto tra Napoli, nostra città d’origine, e l’Argentina sia stato da sempre speciale e ravvicinato. Basti pensare alle giocate mirabolanti di Maradona o alle recenti parole di amore e serenità di Papa Francesco, l’argentino Jorge Mario Bergoglio, in visita il 21 marzo 2015 a Napoli (e protagonista carismatico della copertina e del numero 7 del nostro magazine). Chiudiamo qui, questo piccolo commento, portando la nostra mente alle immagini truci e ancor oggi commuoventi dell’attentato a Charlie Hebdo – un progetto ambizioso e per alcuni tratti simile al nostro – trovatosi al centro di strumentalizzazioni e manipolazioni del diritto di satira, conclusesi con quel meschino atto di violenza a cui, ancora oggi, non riusciamo a darci spiegazioni! … Viva la stampa libera! La cronaca è rispetto … rispetta la cronaca! Je Suis Charlie! 3


!MPATTO - SOMMARIO N.8 | 3 Aprile 2015

CONTENUTI CURDI: UN POPOLO SENZA STATO In un’area tra le più calde e pericolose del mondo, il Kurdistan diviso e composto da minoranze, si ritrova protagonista per la determinazione dei peshmerga curdi che si oppongono alla temibile avanzata dello Stato Islamico.

6

11

Cento anni di causa curda La causa curda e del caldo territorio del Kurdistan si trascina da oltre cento anni, dalla caduta dell’Impero Ottomano al termine della Prima Guerra Mondiale.

16

Le donne guerriere dell’ISIS Non sono solo spose e madri. All’occorrenza le donne che si uniscono a ISIS ed imbracciano le armi.

21

War with Isis: Iraq declares victory! Baghdad celebrates its first real success, but fighters have taken over refugee camp not far from Damascus.

LA VITA DELLE SCHIAVE In un territorio dall’identità negata, smembrato e dilaniato da guerre, la donna, che nulla vale, da semplice oggetto del desiderio diventa l’ostaggio.

24

Quando uccidere è più conveniente che ferire apre il capitolo dei paradossi della giustizia italiana. Il perno del lavoro è l’uomo o la spasmodica ricerca del profitto?

14 26

IMPATTO MAGAZINE È UNA TESTATA GIORNALISTICA REGISTRATA PRESSO IL TRIBUNALE DI NAPOLI CON DECRETO PRESIDENZIALE NUMERO 22 DEL 2 APRILE 2014. 4

Il valore del Capitale Umano

Il labirinto della mente in picchiata Volo Spagna-Francia, Airbus Germanwings. Una scatola nera rivela l’asfissia della logica e il labirinto buio della mente umana per un suicidio-omicidio che sta per compiersi in volo.


!MPATTO

MAGAZINE

Settimanale di approfondimento An italian international E-zine

www.impattomagazine.it info@impattomagazine.it

DIRETTO DA Stefano Telese

stefano.telese@impattomagazine.it

COORDINAMENTO EDITORIALE Giorgia Mangiapia giorgia.mangiapia@impattomagazine.it

Pierluigi Patacca

pierluigi.patacca@impattomagazine.it

REDAZIONE

VIVERE NEL CALIFFATO Tra leggi del VII secolo, il Califfato islamico impone un modello di società dalla violenza spietata. Come si vive nello Stato Islamico? Nella convinzione che tutti abbiano portato disastri, si leva la voce di chi grida: Ci stanno uccidendo!

18

Liliana Squillacciotti Eleonora Baluci - Marco Tregua Valerio Varchetta - Flavio Di Fusco Francesca Spadaro - Luisa Ercolano Anna Annunziata - Antonio Calenzo

AMMINISTRAZIONE Guglielmo Pulcini

guglielmo.pulcini@impattomagazine.it

GRUPPO EDITORIALE IMPATTO

gruppo.impattomagazine.it

28

C’era una volta l’innovazione Battuta d’arresto per lo sviluppo indiano. Restano in piedi le start up che ormai rappresentano l’unico core innovativo.

Sede Legale - Via Cumana 29 - Napoli Sede Operativa - C.so Arnaldo Lucci 61 - Napoli

29

In USA everybody wants to help you

COORDINAMENTO GESTIONALE PULSEO

30

33

In America it seems everybody wants to help you succeed. There’s less envy about success here than in the UK.

In viaggio tra gli uliveti dell’Irpinia Francesco Acampora è il giovane titolare de Il Cartiglio. L’aria verde degli ulivi accarezza dolce il frantoio in una brezza d’altri tempi tra il profumo della buona terra irpina.

gruppo@impattomagazine.it

www.pulseo.biz - info@pulseo.biz Sede operativa - Via Cumana 29 - Napoli Sede operativa - Via Capilongo 18 - Benevento

Tutti i contenuti di Impatto Magazine vengono distribuiti attraverso la licenza Common Creative License - qualsiasi riproduzione dell’articolo dovrà comportare la citazione della Testata e del rispettivo autore. Le foto presenti su Impatto Magazine sono state in larga parte prese da Internet e quindi valutate di pubblico dominio. Se i soggetti o gli autori avessero qualcosa in contrario alla pubblicazione, lo possono segnalare alla redazione (tramite e-mail: info@impattomagazine.it) che provvederà prontamente alla rimozione delle immagini utilizzate.

Is oil the most political world’s food?

Tutti i contenuti e le piattaforme di Impatto Magazine sono di proprietà del Gruppo Editoriale Impatto. Entrambi non richiedono alcun contributo economico da parte dei propri lettori. La testata Impatto Magazine non riceve contributi pubblici all’editoria.

Manal Ramadan is the managing director of Zaytoun, a company founded after seeing the problems Palestinian farmers. 5


!MPATTO - ATTUALITĂ€ N.8 | 3 Aprile 2015

articolo di Valerio Varchetta foto di Erin Trieb

6


UN POPOLO SENZA STATO

In un’area tra le più calde e pericolose del mondo, il Kurdistan diviso e composto da minoranze, si ritrova protagonista per la determinazione dei peshmerga curdi che si oppongono allo Stato Islamico. Sulla linea di confine da guerriglieri sono diventati i paladini della libertà e della stabilità mondiale.

7


!MPATTO - ATTUALITÀ N.8 | 3 Aprile 2015

L

a fantasia tesse nuovi racconti,ricama con fili di lacrime,con colori di sangue,del sangue dei ragazzi e delle ragazzeche scorre eroico sui nostri monti,su queste montagne curdee così continuano le nostre leggendesi intrecciano altre canzoni”. Così scrive Mehmet Emin Bozarslan, poeta curdo che vive dal 1978 in Svezia, dove ha chiesto asilo politico.Le lacrime a cui fa riferimento sono quelle “dei bambini per il padre dietro le sbarre” oppure “delle giovani spose cui il carcere ha tolto ben presto l’amore”. Il carcere di cui parla è uno dei tanti carceri turchi, simili a quelli in cui egli stesso è stato imprigionato due volte. È stato imprigionato perché ha cantato la sofferenza del suo popolo, visto che in Turchia si trova oltre metà della regione che nel Mondo è conosciuta come Kurdistan, la patria del più grande popolo senza nazione sulla faccia della Terra. Senza Stato - Sono diversi i popoli della Terra a non avere uno stato ufficialmente riconosciuto come proprio: i Lapponi, i Tibetani, i Berberi, fino al 1948 gli Ebrei, solo per fare qualche esempio. I Curdi costituiscono però una popolazione molto numerosa: sono circa 30 milioni, metà della popolazione italiana; se il Kurdistan fosse parte dell’Unione Europea sarebbe il settimo per popolazione. Non ci si trova dinanzi ad un piccolo stato o ad una delle innocue regioni turbolente che pullulano in Medio LE CASE DELLA BATTAGLIA Ecco un esempio di rifugio dei peshmerga in Iraq. L’alloggio di fortuna diventa il ritratto perfetto di un popolo che da un secondo combatte per conservare le proprie radici.

8

Oriente. Siamo al cospetto di una grande nazione situata in un’area tra le più calde e pericolose del mondo. Sono una popolazione con specifiche caratteristiche etniche, linguistiche e religiose: parlano una lingua indoeuropea e sono in prevalenza sunniti, anche se non mancano yazidi e cristiani, seppur in minoranza. Una combinazione peculiare che accentua il contrasto con la maggioranza della popolazione. La Turchia, ad esempio, è uno stato a maggioranza sunnita, ma non parla una lingua indoeuropea, lo stesso accade in Iraq e Siria; è una lingua indoeuropea il persiano, ma l’Iran è prevalentemente sciita. Gli Armeni, infine, non solo sono per lo più di religione cristiana, ma hanno subito le violenze dei Curdi, all’epoca alleati dei Turchi, durante il genocidio di cui sono stati vittima all’inizio del XX secolo. In un quadro delicatissimo come quello del Medio Oriente, dove

Dove si trova il Kurdistan? Il Kurdistan è un vasto altopiano situato nella parte settentrionale e nord-orientale della Mesopotamia, che include l’alto bacino dell’Eufrate e del Tigri, il lago di Van e il lago di Urmia e le catene dei monti Zagros e Tauro. Politicamente è diviso fra gli attuali stati di Turchia (nord-ovest), Iran (sudest), Iraq (sud) e, in minor misura, Siria (sud-ovest) ed Armenia (nord), anche se spesso quest’ultima zona è considerata facente parte del Kurdistan solo dai più ferrei nazionalisti.

le differenze religiose ed etniche sono la principale scintilla per lo scoppio di conflitti, si capisce quali difficoltà, oltre a quelle territoriali, si contrappongano alla nascita di una nazione curda. Gli occhi del Mondo dove sono? Come spesso accade in questi casi, viene da chiedersi quale sia l’atteggiamento del Mondo


occidentale, che si fa vanto di essere esempio di libertà e democrazia, che si ritiene in grado, e spesso in diritto, di intraprendere campagne militari per esportare la libertà, per insegnare la democrazia, per garantire ad un popolo di vivere in pace. Con i Curdi non è stato fatto: si è sempre cercato di non guastare i rapporti con l’alleato di Ankara, di non complicare ulteriormente la questione mediorientale con i Paesi Arabi e di non aggiungere motivi di conflitto con l’Iran. Così il Kurdistan è stato teatro di guerriglia, massacri, discriminazioni razziali, persone rese prigioniere, costrette all’esilio, di figli che hanno visto i padri in carcere o uccisi, mentre continuavano gli accordi politici e militari con i leader di Paesi responsabili di tali scontri. La causa curda si è trascinata così senza che ci fosse una seria presa di posizione del Mondo occidentale, e senza che l’opinione pubblica ne venisse pienamente a conoscenza. Ad esempio, in Italia

le luci sulla vicenda si sono accese in occasione della crisi diplomatica con la Turchia di fine anni ‘90, dovuta all’arrivo nel nostro Paese del leader del PKK Abdullah Ocalan. Quando Ocalan lasciò, su invito del governo, Roma, di colpo la causa del più grande popolo senza Stato non lasciò più traccia nei telegiornali italiani. Adesso si torna a parlare di Curdi, ma non per un’improvvisa presa di coscienza del Mondo libero, se ne parla perché il Mondo libero si sente minacciato da un nemico che non pensava di dover fronteggiare, che nel corso del 2014 ha fatto tremare gli occidentali a suon di decapitazioni. Se ne parla perché i guerriglieri pronti a combattere fino alla morte, i Peshmerga curdi, sono quelli che sotto gli occhi dell’Occidente si contrappongono allo Stato Islamico. Combattere per tutto il Mondo “Abbiamo combattuto per tutto il Mondo” dice Ismet Hasan, ministro della difesa del cantone di Kobane, città che in questi

L’ATTESA STRATEGICA Tre generali di tre rami diversi dei guerriglieri Peshmerga attendono il generale Hussein Mansour (non ritratto in foto) all’interno di un salotto della base militare Khanaquin in Kurdistan. tempi è diventata una nuova porta dell’Europa. Pochi metri al di là di Kobane c’è il confine tra Siria e Turchia, il ponte che collega Europa e Medio Oriente, il Paese asiatico che guarda all’Europa, che mira ad entrare nell’Unione Europea, le cui squadre di calcio giocano le coppe europee. Kobane in mano ai jihadisti avrebbe voluto dire il Califfato in Europa, in grado di espandersi in un Paese nominalmente laico, ma fortemente islamico. La città era guardata con ansia: ogni metro di strada guadagnato segnava il confine tra speranza e paura per l’Occidente. Di colpo i Peshmerga Curdi sono diventati da guerriglieri di un popolo senza nazione quasi dimenticato dal Mondo a paladini della libertà e della stabilità mondiale. Ma è stato anche uno scontro per non cadere nelle mani 9


!MPATTO - ATTUALITÀ N.8 | 3 Aprile 2015

PERCORSO VERSO LA SICUREZZA Alcuni peshmerga vengono caricati su un pick-up e trasportati verso un luogo sicuro dopo un conflitto a fuoco. Questa immagine è stata scattata nel Luglio 2014 a Jalawla in Iraq. di un altro nemico, quello che si trova dall’altra parte del confine di Kobane, lo stesso che mira ad entrare in Europa. “La Turchia è un nemico”, continua Hasan, che accusa i militari turchi al confine di aver aiutato gli uomini con le bandiere nere, perché si combatteva contro i Curdi che sono da sempre alla ricerca dell’autonomia. La lotta tra Peshmerga e Is costituiva un’occasione contro la minoranza curda. Lasciando che fossero gli altri, che il mondo chiama terroristi, a schierarsi contro i nemici di Ankara, protetta dalla Nato in caso d’invasione. Armiamoli! E poi? - È stato un dibattito lungo, che ha diviso le forze politiche; per molto tempo è stato visto come l’unica soluzione: inviare armi ai Peshmerga per combattere lo Stato Islamico. Sembrava la soluzione migliore: far fare la guerra agli altri per tornare a vivere tranquilli e col tempo forse dimenticare la minaccia jihadista. L’Is sarebbe divenuto così mera trasposizione dell’inglese é. Quello che ha frenato la comunità internazionale è stato il fatto che l’invio di armi ai Peshmerga avrebbe aperto le porte a precise rivendicazioni, su tutte la richiesta che l’Occidente si facesse finalmente carico di trovare una soluzione alla vicenda del popolo senza Stato. Popolo che i vari Paesi, Turchia in primis, hanno l’intenzione di lasciare tale. Non è solo una questione puramente territoriale (il Kurdistan occupa l’intera Turchia orientale), ma soprattutto economica, perché un Kurdistan indipendente 10

cambierebbe non poco gli equilibri economici del Medio Oriente. Il territorio curdo, infatti, non è solo un insieme di montagne e vallate, è anche una regione ricca di petrolio: nel Kurdistan iracheno si trova il 20% delle risorse petrolifere dell’intero Iraq, Paese dove la comunità curda ha acquisito col tempo una certa autonomia. Non sarebbe solo l’oro nero, però, a fare la fortuna dello Stato curdo: terra ricca anche di acqua, il che renderebbe l’agricoltura del futuro Paese molto florida. Ovviamente le risorse di cui il Kurdistan è ricco

sono adesso sfruttate dagli Stati che hanno la regione sotto il proprio controllo; una indipendenza o anche una maggiore autonomia avrebbe serie ripercussioni sull’economia di diversi paesi dell’area mediorientale, già provati da tensioni interne e da guerre che si trascinano da decenni. La guerra ha inoltre messo in evidenza un’abilità del popolo curdo: i Peshmerga sono abili combattenti e fini conoscitori del territorio. Dare loro delle armi vorrebbe dire dare loro una forza militare ancora maggiore, e rischiare di creare


I cento lunghi anni della causa curda

L

a causa curda si trascina da oltre cento anni, dalla caduta dell’Impero Ottomano al termine della Prima Guerra Mondiale. Nei Paesi in cui i curdi vivono sono avvenute nel corso degli anni una serie di forti repressioni, che hanno causato un numero altissimo di vittime. In Paesi come Siria e Turchia la politica nazionalista ha attuato una discriminazione razziale paragonabile a quella subita dagli Ebrei in Germania. Il fine non era quello di sottomettere una parte della popolazione, era quello di arrivare a una negazione dell’identità e dell’esistenza stessa del popolo curdo. In Siria, tra gli anni ‘60 e ‘70 la repressione fu contro la lingua e la cultura curda: furono allontanati gli insegnanti e sostituiti con altri di lingua araba, furono cambiati i nomi di località con nomi arabi, divenne reato possedere libri e opere in lingua curda; in Turchia, all’inizio degli anni ‘90, come rappresaglia contro la guerriglia del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, migliaia di curdi furono mandati via dalle loro case, fu vietato di ascoltare musica tradizionale curda, e la stessa parola Kurdistan divenne fuorilegge. La questione curda ha fatto irruzione nelle vicende di casa nostra negli ultimi anni del XX secolo. Nell’autunno del 1998, dopo essere stato invitato a lasciare la Russia dove si era rifugiato, giunse in Italia Abdullah Ocalan, leader del Partito dei Lavoratori curdo, autore di diversi attentati contro obiettivi governativi e civili in Turchia, Iran e Iraq. La situazione preoccupò non poco il Governo, che non poteva concedergli lo status di rifugiato politico, né poteva estradarlo, poiché in Turchia vigeva ancora la pena di morte. La situazione scatenò molte proteste anti-italiane nel paese turco; emblematico fu uno spot contro l’Italia in cui si mostravano degli spaghetti conditi con il sangue. Dopo oltre due mesi, Ocalan fu convinto a lasciare anche l’Italia e si rifugiò in Kenya, dove venne catturato dai servizi segreti turchi nel febbraio 1999. Condannato a morte nel giugno dello stesso anno tra il tripudio generale nelle strade turche, si vide commutare la pena in ergastolo quando nel 2002 la Turchia, su pressione dell’Unione Europea, abolì la pena di morte.

British girl charged with trying to join Kurdish forces fighting Isis A teenager from London, who was allegedly trying to join a Kurdish military women’s unit fighting Isis in Syria, has been charged with a terrorist offence. Shilan Ozcelik, who is of Kurdish descent, was arrested earlier this year at Stansted airport. She is believed to be the first British citizen to be arrested for trying to join the campaign against the jihadis who control eastern Syria and western

Iraq. Ozcelik, from Holloway, north London, faces one charge of engaging in conduct in preparation for giving effect to an intention to commit acts of terrorism under the 2006 Terrorism Act. Her supporters say she travelled to Brussels in an attempt to join the women’s protection units, also known as YPJ, that are based in Rojava – the Kurdish enclave in northern Syria under

attack by Isis. She was arrested by on 16 January at as she returned from Brussels. Neither the YPJ nor the YPG, the main men’s Kurdish peshmerga militia in northern Syria, are banned organisations in the UK. The charges against Ozcelik are understood to relate to the Kurdistan Workers party (PKK), which is outlawed in Britain and has spent decades fighting the Turkish army in a separatist conflict.

11


!MPATTO - ATTUALITÀ N.8 | 3 Aprile 2015

ARSENALE due guerriglieri peshmerga caricano gli AK-47 prima di una rappresaglia in Iraq. in Medio Oriente uno stato forte militarmente e con una economia dalle prospettive di crescita molto interessanti. L’equilibrio precario che regna in alcune regioni, e che in altre invece è completamente saltato, rischierebbe di andare in pezzi, con la prospettiva reale dello scoppio di nuovi conflitti. C’è un precedente che probabilmente fa riflettere: la creazione di Israele, effettuata a tavolino per dare uno Stato al popolo ebraico, e che ha fatto scoppiare la polveriera di guerra mediorientale con cui facciamo i conti ancora oggi. Senza però un riconoscimento da parte della comunità internazionale, i Curdi potrebbero anche decidere di conquistare da soli ciò che reclamano da tempo, di prendersi quello Stato che non hanno e che un popolo di 30 milioni di persone reclama da tanto, troppo tempo. La lotta contro il Califfato ha dimostrato che sarebbero perfettamente in grado, specialmente se ben armati, di creare difficoltà a tutti i Paesi dell’area, e di dare vita anche in questo caso ad un conflitto che 12

potrebbe avere esiti imprevedibili. Come ha detto Ismet Hasan, il suo popolo ha nella Turchia un nemico, forse il maggiore dei suoi nemici, che sarebbe il primo verso il quale si muoverebbe un attacco delle forze curde mirato a creare un proprio Stato. La Turchia è però membro della NATO, e in caso di aggressione, richiederebbe l’aiuto dei suoi alleati. Una richiesta del genere metterebbe in seria difficoltà soprattutto gli Stati

Uniti che dovrebbero scegliere se non venire in soccorso di un alleato strategico per la questione mediorientale oppure imbarcarsi in una guerra da combattere in un territorio che per loro ha già dimostrato di essere ostile. Una mancato appoggio alla Turchia, però, non avrebbe solo conseguenze negative sull’immagine degli Stati Uniti, ma metterebbe a serio rischio la credibilità dell’Alleanza Atlantica. È una partita a scacchi complicata, dove lo stallo è dietro l’angolo ma non può portare alla patta, in cui l’effetto di un Kurdistan indipendente sarebbe quello che sulla scacchiera ha la promozione di un pedone a donna, la trasformazione di un pezzo tutto sommato debole e che si può sacrificare in quello che può spostare le sorti di una partita. Partita che non è finita, in cui non tutti i giocatori sanno a cosa puntano, e che sullo sfondo ha ancora la storia del popolo senza Stato, la storia di una terra su cui ogni suo abitante saprebbe “correre anche con scarpe di ferro”, come scrive Hemin, altro poeta curdo, ma dalla quale lo separa “un tratto sottile. L’invasore lo chiama confine”.

ALL’INTERNO DI UN CARRARMATO un peshmerga in azione nel villaggio di Yangega, Kirkuk.


13


!MPATTO - ATTUALITÀ N.8 | 3 Aprile 2015

Myth Made in Islamic State: ISIS is afraid of female soldiers A bizarre meme going around claims that ISIS is really afraid of fighting all-female Kurdish military units. The theory is that ISIS fighters believe that if a woman kills you, you don’t get to go to paradise. The truth is that ISIS’ approach to women is much more complicated — and troubling — than Western stereotypes about Islamists would suggest. ISIS has its own female brigades, and the group uses them to enforce its deeply misogynistic ideology. The “ISIS is afraid of female fighters” theory comes from a stray quote in a Wall Street Journal piece about Kurdish advances against ISIS. It quotes a female Kurdish soldier as saying “the jihadists don’t like fighting women, because if they’re killed by a female, they think they won’t go to heaven.” Note that it’s not an ISIS fighter, a scholar, or necessarily someone who’s interrogated an ISIS fighter: just a random Kurdish soldier, who may not be super-familiar with ISIS’s ideology. What we actually know about ISIS’s approach to women, however, paints a rather different picture. ISIS has all-female battalions, called “al-Khansaa” and “Umm al-Rayan,” that operate in Syria. ISIS female fighters wear full burqas and carry rifles; they exist to force other women to comply with ISIS’s vision of sharia law. “ISIS created [them] to terrorize women,” Abu al-Hamza, a local, media activist, said in an interview with Syria Deeply. ISIS’s use of women is part of a rising trend of jihadist women claiming roles in violent Islamic extremist groups.

IL MERCATO DELLE SCHIAVE I

In un territorio dall’identità negata, smembrato e dilaniato da guerre, la donna, che nulla vale, da semplice oggetto del desiderio diventa l’ostaggio più importante. Lo strumento preferito di ricatto per un’ aberrante mostruosa egemonia fallace e fallica. DI GIORGIA MANGIAPIA

In un territorio dall’identità negata, smembrato e dilaniato da guerre, la donna che nulla vale, da semplice oggetto del desiderio diventa l’ostaggio più importante. Lo strumento preferito di ricatto per un’ aberrante mostruosa egemonia fallace e fallica. “La nostra ispirazione non nasce da labbra rosse dipinte, da occhi e volti elegantemente abbelliti da lacrime, sangue, desiderio sorge 14

la poesia e sospinta da un soffio leggero vola oltre le sbarre.” Versi di un poeta curdo ricordano che in un luogo al limite della sofferenza esiste il desiderio di una normalità ormai così lontana da sembrare impossibile. Deportazioni e massacri - Il Kurdistan e l’identità annullata. Un territorio smembrato e diviso tra gli Stati confinanti e privo dei minimi diritti nazionali. Il Kurdistan e le politiche di

oppressione, con incarcerazioni, deportazioni, massacri nella totale negazione di ogni diritto umano. Una politica da applicare in modo silenzioso vietando ogni forma di libertà. Affinché non si incoraggi alla resistenza, alla rivolta e alla lotta, per riottenere i diritti negati e legittimi. Ma nessuna oppressione resta per lungo tempo nel silenzio. Si fa sentire, urla il proprio dolore, afferra le sbarre per staccarle anche se c’è chi finge di


LA MORSA DEL NUOVO STATO L’ISIS e la sua logica d’agire: donne schiave e bambini oggetto vittime di una guerra che esalta una violenza blasfema e l’inquità medioevale.

non vedere e ascoltare. Un soffio leggero vola oltre le sbarre, perde la leggerezza e assume la consistenza di lotta armata, resistenza, rivolta. Diventa conflitto per labbra non dipinte di rosso, per occhi e volti per nulla abbelliti. Le labbra delle donne son contratte, i volti dal lineamenti orientali, ad incorniciare occhi seducenti di perla nera, sono terrorizzati, ribellati ad un’oppressione violenta che annienta la dignità. In Iraq, a pochi metri dal confine con il Kurdistan, sventolano le bandiere nere dell’Isis. I guerriglieri curdi si difendono dai miliziani dello Stato islamico e tra i guerriglieri, sul fronte, si schierano per combattere anche delle donne. Donne soldatesse. Donne armate per non sottostare, donne consapevoli di

ciò che le attende se finiscono nelle mani dell’Isis. Avrebbe inizio un viaggio nell’inferno. Le comunità Yazida e quella cristiana sono nel mirino dello Stato Islamico, il califfato iracheno costituito da soldati jihadisti che obbediscono ad Al Baghdadi. L’obiettivo è sterminare le minoranze in territori conquistati dall’Iraq. Le donne subiscono un destino più atroce: rapite, vendute, violentate, picchiate. Schiave del sesso in migliaia. Ingabbiate come animali da macello, fatte sfilare, incatenate e silenziose, e messe in vendita per 18 dollari in una giornata di mercato. Il mercato delle schiave. Il mercato di un perfetto ordinario disumano orrore. In un video, di cui ancora non si ha certezza di autenticità, diffuso da un gruppo

di attivisti siriani impegnati in una campagna contro le atrocità commesse dallo stato islamico, si riprende l’euforia generale di meschina fattura. Nei pressi della città di Raqqa roccaforte siriana del califfato, militanti islamisti eccitati per l’arrivo di donne yazide da mettere in vendita sul mercato delle schiave sessuali. “Oggi mercato delle schiave. Oggi, giorno della distribuzione. Col permesso di Dio ognuno avrà la sua parte”. Gli ormoni al posto della ragione. Il prezzo della schiava dipende e oscilla. Se ha gli occhi azzurri costa di più. Se è giovane anche. Se ha quindici anni, le si devono controllare i denti. Se non li ha? ” Allora sparale”. Aberrante, deviata, deviante, agghiacciante, mostruosa egemonia fallace e fallica. Prigioniere e schiave - Per la soddisfazione perversa e impotente del mondo maschio islamico è stato realizzato il manuale Su’al waJawab fi al-Sabi wa-Riqab ovvero “Domande e risposte sulla presa di prigioniere e schiave”. Un opuscolo creato dal Dipartimento Ricerca e Fatwa dello Stato Islamico. Dopo la riduzione in schiavitù di migliaia di donne yazide si risponde così alla perplessità di molti musulmani su ciò che è lecito e non perché lo dica il Profeta ma perché lo dichiara Al Baghdadi: “È permesso avere un rapporto con una schiava anche se non ha raggiunto la pubertà a patto che sia adatta al rapporto. Se non è adatta si potrà trarne piacere, ma senza penetrazione”. Scrupolosamente si riportano versetti del Profeta per accreditare le oscenità. Tutto è lecito se riportato nell’opuscolo. Dorma la coscienza. Si mettano a tacere gli scrupoli. La dignità resti relegata in un angolo: “Picchiare una schiava per ragioni disciplinari è 15


!MPATTO - ATTUALITÀ N.8 | 3 Aprile 2015

assolutamente permesso”. Essere schiave dell’Isis è cadere nel baratro dell’orrido, molte donne decidono di uccidersi prima di cadere. Ci si impicca anche con un velo. Si suicidano perché sanno, vedono la fine delle altre. Bastonate, colpite con scosse elettrice sulla testa, legate per le mani e per i piedi. Bendate. E poi? Poi violenza. Violenza di ogni genere. Orrida, viscida, blasfema. Minacciate, insultate perché si convertano, costrette a togliersi la vita per la disperazione. Toccate, violate e violentate anche se bambine. Incinte anche se bambine. Chiuse in una stanza per giorni subendo abusi anche se bambine! Private della loro età. Strappate ad una vita scrutata appena con occhi di perla neri ancora ingenui. Sventrate della dignità. Costrette a non lavarsi perché all’acqua gli islamici uniscono dei gas per stordirle. Bruciate vive. Giungono in piena notte, le prendono per i capelli, ne fanno l’uso che vogliono, le costringono a sposarli. Anziani e aguzzini dei loro familiari ne diventano mariti da loro odiati. Violentate per mesi per poi essere restituite alle loro famiglie. Ormai macchiate da una colpa e da un peccato. La prigione dell’infamia si troverebbe nei pressi di Baaji, nella provincia di Mosul, dove si stanno consumando scontri serrati tra i militanti dell’Isis e i Peshmerga curdi. Dalla prigione le donne schiave sono prelevate per essere vendute. “Tremila ragazze sono state vendute nei mercati a 18 dollari l’una dai jihadisti dell’Isis”, la parlamentare irachena Vian Dakhil ha così annunciato al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, lanciando un grido di denuncia: “Veniamo massacrati, uccisi, le nostre donne vengono violentate, le nostre ragazze vendute, i nostri bambini rapiti”. Donne pronte a schierarsi in prima linea, come le 16

Le combattenti donne di Isis Non sono solo spose e madri. All’occorrenza le donne che si uniscono a Isis imbracciano le armi, “guadagnandosi” un ruolo sul campo di battaglia. Si occupano della logistica, di intelligence. Altre sono dottoresse e infermiere. Una novità dunque rispetto a quanto osservato fino ad oggi. Isis infatti ha sempre imposto rigide restrizioni sull’abbigliamento e comportamento delle donne, relegandole a un ruolo domestico, come proposto anche dalla propaganda. Tuttavia che con l’arrivo al fronte di centinaia di aspiranti jihadisti stranieri, la situazione sembra essere cambiata. Difficile dire quanto sia forte la presenza femminile tra le fila di Isis. [...] Le europeesono francesi, britanniche e tedesche. Ad accomunarle sono i motivi che le spingono a partire, spesso in disaccordo con le rispettive famiglie. Melanie Smith dell’ICSR di Londra, profila queste donne come ragazze tra i 18 e i 28 anni, appartenenti a famiglie di immigrati di seconda o terza generazione. Ma le cronache riportano casi anche di adolescenti più giovani reclutate e date in sposa ai combattenti. La presenza delle donne sul fronte jihadista non è però una novità. Anche in passato, sottolinea David Romano, professore di scienze politiche alla università del Missouri, si hanno testimonianze di donne combattenti. Benedetta Argentieri e Marta Serafini Benedetta

STRAPPATE ALLA QUOTIDIANITÀ sradicate dagli affetti più cari, private dell’abbraccio dei propri figli. Una donna costretta ad un destino imposto dal regime dello stato islamico.


TRA LE OMBRE DI UNA STANZA nell’omertoso silenzio di una violenza palese, le vittime dell’ISIS. schiave liberate; voci di ragazze riuscite a scappare dalle mani dei guerriglieri delI’Isis, donne di religione non musulmana e per questo perseguitate come tutte le minoranze presenti nelle vicinanze del Califfato. La fuga - Si scappa dall’Isis, si affollano in campi profughi e si cerca di ricomprare le schiave. Di poter far tornare a casa le proprie donne. All’inizio mille o tremila dollari per poter liberare una donna ma il mercato rende. L’Isis lo sa e incrementa. Prezzo fisso di diecimila dollari a donna. Un business importante, con un giro di denaro che più lercio e sporco non può esistere. Commercio di vite umane da cui si trae doppio vantaggio: soddisfazione per le proprie infime perversioni e denaro. Intanto, a combattere il massacro alla dignità ci pensano le forze armate curde, i peshmerga, che hanno impedito all’Isis, senza grandi aiuti internazionali, d’impossessarsi del loro paese. Una guerra in cui la donna che nulla vale è l’ostaggio più importante. Lo strumento preferito di ricatto.

Anarkikka, artista e illustratrice, ha deciso di partire dal 15 al 23 marzo con una delegazione femminile composta da tredici compagne di viaggio per incontrare le donne nei territori del Kurdistan iracheno e in Rojava e per visitare i campi governativi e non governativi in cui sono accolte le donne vittime dell’Isis. Per ascoltare i loro bisogni, le necessità, i terrori di chi usa il femminicidio come parte integrante delle tattiche di annientamento delle popolazioni

colpite. La delegazione organizzata dalla Iadl, in collaborazione con l’European Democratic Lawyers e l’European Association of Lawyers for Democrazy and Wordl Human Rights, presenterà un rapporto alle Nazioni Unite a giugno durante la ventinovesima sessione del Consiglio dei Dirittti Umani che si svolgerà a Ginevra affinché l’occhio del mondo si spalanchi sull’aberrante stato in cui le donne sono costrette a vivere. A Londra, intanto, dei militanti curdi hanno inscenato un mercato di schiave in pubblico. Un mercato che esiste ma non se ne conosce la vera dimensione. Donne in burqa nero, legate le une alle altre, strattonate per terra, uomini vestiti da islamici che urlano per catturare l’attenzione e dare inizio alla vendita. Urla. Urla di disperazione di una donna. Afferrata per la testa, presa a calci, scaraventata col volto sul terreno. La voce maschile al megafono continua la vendita mentre lei piange e urla. Il sangue si raggela. Perché ormai siamo abituati a dover vedere immagini crude per porci domande e ci giriamo solo se sentiamo la disperazione per credere che sia vero. Per poter capire che non è solo una messinscena. È realtà. Un’aberrante realtà.

NOMADI PER NECESSITÀ costretti ad allontanarsi dalla terra per sfuggire alla tratta delle schiave. 17


!MPATTO - ATTUALITÀ N.8 | 3 Aprile 2015

VIVERE NEL CALIFFATO

Articolo di Patrick Cockburn Traduzione di Luisa Ercolano

Tra leggi del VII secolo, il Califfato islamico impone un modello di società dalla violenza spietata. Come si vive nello Stato Islamico? Nella convinzione che tutti abbiano portato disastri, nella disillusione e tra prezzi elevati di bene essenziali come la farina, si leva la voce di chi grida: Ci stanno uccidendo!

È

uno degli Stati più strani mai creati. Lo Stato islamico vuole costringere tutta l’umanità ad aderire alle sue visioni di un’utopia religiosa e sociale esistente dai primi giorni dell’Islam. Le donne devono essere trattate come schiave, è proibito loro lasciare la casa a meno che non siano accompagnate da un parente maschio. Persone ritenute pagane, come gli Yazidi, possono essere comprate e vendute come schiavi. Punizioni come decapitazioni, amputazioni e fustigazioni divengono la norma. Tutti coloro che non giurano alleanza al califfato, dichiarato dal suo leader, Abu Bakr al-Baghdadi, il 29 giugno dello scorso anno, sono considerati nemici. Gli ultimi otto mesi - Il resto del mondo è rimasto a guardare, con affascinato orrore, nel corso degli ultimi otto mesi, mentre l’Isis, che si autodefinisce Stato Islamico, ha imposto la propria dominazione su una vasta area nel nord dell’Iraq e nell’est della Siria, abitata da sei milioni di persone. Atrocità altamente pubblicizzate o atti di distruzione come incendiare un pilota giordano, decapitare prigionieri e 18

SCUOLA DEL TERRORE squadre della morte dell’ISIS vengono formate in delle vere università. distruggere i resti di antiche città, sono deliberatamente orchestrati come dimostrazioni di forza o atti di sfida. Per un movimento i cui principi si suppone provengano dalle norme religiose del VII secolo, l’Isis ha un apporto molto moderno e manipolatorio alla dominazione dei notiziari con espedienti che attirano l’attenzione in cui violenze impietose hanno un ruolo centrale. Non si tratta di azioni di un culto strano e tormentato, ma di uno stato potente e di una macchina da guerra. Lo scorso anno, in rapida successione, i suoi combattenti hanno sconfitto

l’esercito iracheno, i Peshmerga (guerriglieri pronti a combattere fino alla morte, NdT) curdoiracheni, l’esercito e i ribelli siriani. Hanno messo in piedi un assedio di 134 giorni alla città curdo-siriana di Kobain e hanno resistito a settecento attacchi arei americani diretti sulla piccola area urbana nella quale erano concentrati prima di essere costretti a ritirarsi. Gli oppositori del califfato negano si tratti di un vero Stato, ma è sorprendentemente ben organizzato, in grado di aumentare le tasse, imporre la coscrizione e


UN MILIZIANO ISIS imbraccia un bazooka M20 super e coordina le operazioni alla radio. persino controllare gli affitti. L’Isis può essere guardato con orribile fascino dai più, ma le condizioni all’interno del suo territorio restano un terrificante mistero per il mondo esterno. Non è una sorpresa, perché imprigiona e frequentemente assassina giornalisti locali e stranieri che riportano le attività dello Stato. Nonostante queste difficoltà, The Indipendent ha cercato di costruire un’immagine completa di com’è la vita nello Stato Islamico intervistando persone che hanno vissuto di recente in città dell’Arabia sunnita come Mosul e Fallujah che sono nelle mani dell’Isis o, lo sono nell’80% nel caso di Ramadi, capitale della provincia di Anbar. Cristiani, yazidi, shabak e sciiti, perseguitati dall’Isis come eretici o idolatri, sono fuggiti o sono stati uccisi lo scorso anno,

quindi quasi tutti quelli che sono stati intervistati sono arabi sunniti che vivono in Iraq, con l’eccezione di alcuni Curdi che vivono ancora a Mosul. Lo scopo dell’indagine è scoprire come si viva nello Stato Islamico. Si avverte l’esigenza di trovare una risposta a molte domande. Le persone supportano la dominazione dell’Isis o hanno sentimenti contrastanti al riguardo? E, se è così, perché? Com’è vivere in un luogo in cui, a una moglie che si mostra in strada senza il niqab, un velo che copre il capo e il volto, viene detto di andare a prendere il marito, al quale saranno date quaranta frustate? Come si comportano i foreign fighters? Qual è la reazione della popolazione locale alla richiesta dell’Isis secondo la quale le donne nubili devono sposarsi con combattenti? Più prosaicamente,

come fa la popolazione a mangiare, bere, cucinare e ottenere l’elettricità? Le risposte a queste e molte altre domande mostrano esempi di selvaggia brutalità, ma anche un’immagine dello Stato Islamico che si batte per fornire alcuni servizi di base e cibo a prezzi bassi. Un punto da sottolineare è che nessuno di coloro che sono stati intervistati, persino coloro che lo detestano, si aspettano che l’Isis fallisca presto, nonostante sia sotto la crescente pressione dei suoi tanti nemici, tra cui gli Stati Uniti, l’Iran, l’esercito iracheno, i miliziani sciiti, Peshmerga curdo-iracheni, i Siriani curdi e l’esercito siriano, per citare solo i principali. Le forze anti-Isis iniziano a mettere a segno vittorie significative sui campi di battaglia e le probabilità sono pesantemente contro lo Stato Islamico. Nel corso della scorsa settimana, circa ventimila miliziani sciiti, tremila soldati delle forze di sicurezza irachene, duecento commando del ministero della difesa e mille uomini delle tribù sunnite sono riusciti a entrare a Tikrit, la città d’origine di Saddam Hussein. Vicini al migliaio - “I numeri sono impressionanti”, ha detto il Generale Martin Dempsey, Capo dello Stato Maggiore degli Stati Uniti, affermando che ci sono solo “centinaia” di combattenti dell’Isis opposte a questa imponente forza pro-governativa, nonostante altri rapporti suggeriscano che possano essere più vicini al migliaio. La caduta di Tikrit potrebbe essere un serio passo indietro per lo Stato Islamico, anche se è facile esagerare il suo impatto. L’Isis sostiene che le sue vittorie siano di ispirazione divina, ma non ha mai sentito il dovere di combattere fino all’ultimo uomo e all’ultimo proiettile per ogni roccaforte. L’Isis descrive la sua strategia di manovra fluida come “muoversi come un serpente tra le rocce”. A lungo solo una forza di guerriglia, è al massimo della sua efficacia quando lancia inaspettati attacchi usando un cocktail mortale di tattiche già sperimentate, come bombaroli suicidi, bombe artigianali e cecchini. Tutto questo 19


!MPATTO - ATTUALITÀ N.8 | 3 Aprile 2015

CURDI E SIRIANI cercano di trasportare i loro averi attraversando il confine tra Siria e Turchia sud-orientale, collocato vicino alla città di Suruç nella provincia di Sanliurfa.

è accompagnato dai filmati delle atrocità diffusi attraverso internet e i social media, diretti a terrorizzare e demoralizzare i nemici dell’Isis. Forse l’Isis si sta ritirando, ma può permetterselo, visto che lo scorso anno si è impadronita di un’area più vasta della Gran Bretagna. La sua forza non è solo militare o geografica, ma politica – e questo è un punto sollevato da molti intervistati. Il disprezzo e la paura che molti arabi sunniti sentono per l’Isis è bilanciato e spesso superato da sentimenti simili nei confronti delle forze governative irachene. Al cuore del problema vi è che l’anno scorso l’Isis ha ottenuto la direzione delle comunità arabo-sunnite in Iraq e Siria attraverso le sue vittorie militari. Fino ad ora non è emersa nessuna alternativa sunnita credibile all’Isis. Un assalto da parte del governo iracheno, delle milizie sciite o dei peshmerga curdi su Mosul incontrerebbe probabilmente la resistenza degli arabi sunniti come se fosse un attacco alla loro comunità. La fossa degli arabi sunninti “I curdi non possono combattere per la sola Mosul perché non sono arabi”, dice Fuad Hussein, a capo dello staff del presidente curdo Massoud Barzani. “E non penso che i miliziani sciiti combatterebbero lì; in ogni caso la popolazione locale non li accetterebbe”. Se non emerge nessuna alternativa all’Isis che aggreghi i sunniti, allora tutti i sei milioni di arabi sunniti in Iraq potrebbero essere presi di mira come sostenitori dell’Isis, indipendentemente dalle loro reali simpatie. Alla lunga, l’Isis potrebbe 20

finire con lo scavare la fossa agli arabi sunniti in Iraq, che costituiscono il 20% della popolazione, alimentando l’odio del restante 80% degli iracheni, che sono sciiti o curdi. Lo Stato Islamico è stato dichiarato, nelle settimane successive alla presa di Mosul, la seconda città irachena, dall’Isis, il 10 giugno 2014. Solo allora i vari Paesi del mondo hanno iniziato a rendersi conto che l’Isis era una reale minaccia. Riorganizzato sotto Abu Bakr al-Baghdadi nel 2010 dopo la morte del leader precedente, l’Isis approfittò dell’insurrezione siriana nel 2011 per espandere le proprie

forze e riprendere il conflitto. Le proteste sunnite contro la crescente repressione da parte del governo di Baghdad si sono trasformate in resistenza armata. Nella prima metà del 2014, l’Isis ha sconfitto cinque divisioni irachene, un terzo dell’esercito complessivo, per sottomettere la maggior parte della gigantesca provincia di Anbar. Un successo cruciale arrivò quando le forze guidate dall’Isis assediarono la città di Fallujah, a quaranta miglia ad ovest di Baghdad, il 3 gennaio del 2014, e l’esercito iracheno non riuscì a riconquistarla. Questa è stata la


War with Isis: Iraq declares victory! Written by Patrick Cockburn Published by The Independent

I

Twitter @IndyWorld

a a a

raq’s Prime Minister, Haider al-Abadi, joined in a triumphal parade through the centre of Tikrit today as he his government claimed victory over Isis after a month-long battle for the city. Joined by the provincial Governor and leaders of the army, police and Shia militias, he waved an Iraqi flag and announced that his forces had captured the centre of Tikrit, in what would be the first real success for the Iraqi army since it lost northern and western Iraq to the so-called Islamic State last year. His Defence Minister, Khalid al-Obeidi, said: “We have the pleasure, with all our pride, to announce the good news of a magnificent victory.” Naming two Iraqi provinces still under Isis control, he added: “Here we come to you, Anbar! Here we come to you, Nineveh.” But at the very moment that there was jubilation in Baghdad over the long-awaited seizure of Tikrit, famous as Saddam Hussein’s home town, Isis made a significant advance close to the centre of the capital of neighbouring Syria. The British-based Syrian Observatory for Human Rights said that Isis fighters had taken over a large part of Yarmouk Palestinian refugee camp, not far from the heart of Damascus. The Iraqi government is seeking to play up the fall of Tikrit as the beginning of the end of Isis and suggesting that the recapture of the rest of Iraq will soon follow. Mr Abadi was himself restrained in his claim, saying that “our security forces have reached the centre of Tikrit and they have liberated the southern and western sides and they are now moving towards the control of the whole city”. Other sources say that several hundred fighters were still resisting, using snipers and booby traps in three neighbourhoods and in an old palace complex in the north of the city. The government’s forces have taken

prima volta in cui l’Isis ha dominato un grosso centro ed è importante capire come ha agito e come e perché questo comportamento sia diventato più estremo con il consolidamento della propria autorità. Le storie di due uomini, Abbas (generalmente noto come Abu Mohammed) e Omar Abu Ali, che arrivano dalle roccaforti sunnite di Fallujah e della città vicina di al-Karmah, spiegano graficamente cosa è successo in quei mesi cruciali in cui l’Isis era al potere. Abbas è un contadino sunnita di 53 anni, proveniente da Fallujah. Ricorda il giorno gioioso

in cui l’Isis ha fatto il suo ingresso in città: “All’inizio… eravamo così felici, e la chiamavamo ‘la Conquista Islamica’. La maggior parte della gente offriva loro banchetti e accoglieva calorosamente i principali combattenti”. L’Isis disse alla gente di Fallujah che erano lì per costruire uno stato islamico, e all’inizio non era una cosa molto onerosa. Venne stabilito un Consiglio di Autorità Sharia per risolvere problemi locali. Abbas sostiene che “tutto andava bene finché l’Isis non prese anche Mosul. A quel punto, le restrizioni sulla nostra gente crebbero. Nelle

moschee, gli imam locali iniziarono ad essere sostituiti da persone di altri stati arabi o dall’Afghanistan. Durante i primi sei mesi della dominazione dell’Isis, il movimento aveva incoraggiato le persone ad andare nelle moschee, ma dopo la cattura di Mosul divenne obbligatorio e chiunque violava la regola riceveva quaranta frustate”. Un comitato di leader comunitari protestò all’Isis e ricevette una risposta interessante: “La risposta fu che, anche al tempo del Profeta Maometto, le leggi non erano rigide all’inizio e le bevande alcoliche erano concesse nei primi 21


!MPATTO - ATTUALITÀ N.8 | 3 Aprile 2015

LO STATO ISLAMICO seleziona e addestra giovani e bambini alla guerra in campi militari. tre anni di dominazione islamica”. Solo dopo che la dominazione islamica si fu fortemente radicata, le regole divennero più dure. Così era stato nel VII secolo e così sarebbe stato 1400 anni dopo a Fallujah. La gente soffre - Abbas, un leader conservatore con due figli e tre figlie a Fallujah, ha detto di non aver avuto desiderio di lasciare la città perché tutta la sua famiglia allargata si trovava lì, anche se la vita quotidiana sarebbe diventata più difficile. Arrivati a febbraio, “la gente soffre per la mancanza di acqua ed elettricità, che ottengono da generatori perché la fornitura pubblica funziona solo dalle tre a alle cinque ore ogni due giorni”. Il prezzo del gas per la cucina è impennato fino a 50£ per bombola, quindi la gente ha iniziato a usare la legna. Le comunicazioni sono difficili perché l’Isis ha fatto esplodere l’antenna per i cellulari sei mesi fa, ma “alcuni civili sono riusciti ad avere linea internet satellitare”. Non sono state le condizioni di vita difficili, ma due questioni riguardanti i suoi figli a portare Abbas a lasciare Fallujah frettolosamente il 2 gennaio di 22

quest’anno. La prima ragione è stata una nuova legge sulla coscrizione, per la quale ogni famiglia doveva mandare un figlio a combattere per l’Isis. Abbas non voleva che suo figlio Mohamed ricevesse la chiamata alle armi. (In precedenza le famiglie potevano evitare la coscrizione pagando una multa salata, ma all’inizio di quest’anno il servizio militare nelle zone controllate dall’Isis è diventato obbligatorio). La seconda ragione riguardava una delle figlie di Abbas. Dice che un giorno “un foreign fighter al posto di blocco del bazaar seguì mia figlia, che faceva compere con la madre, finché non arrivarono a casa. Bussò alla porta e chiese di poter incontrare il padrone di casa. Lo accolsi e gli chiesi ‘come posso esserle d’aiuto?’ Disse di voler chiedere la mano di mia figlia. Rifiutai la sua richiesta perché nella mia tribù non possiamo concedere le nostre figlie in moglie agli stranieri. Fu scioccato dalla mia risposta e in seguito cercò di molestare le mie figlie più volte. Mi sono reso conto che era meglio andarsene”. Abbas ora è nell’Area di Governo Regionale del Kurdistan

con la sua famiglia. Rimpiange che l’Isis non si sia attenuto alla politica moderata e popolare precedente la presa di Mosul, dopo la quale ha iniziato a imporre regole non menzionate nella sharia. Abbas dice che “avevamo bisogno che l’Isis ci salvasse dal governo, ma questo non vuol dire che lo supportiamo completamente”. Ricorda come l’Isis abbia proibito le sigarette e narghilè perché potevano distrarre le persone dalla preghiera, oltre a proibire i tagli di capelli occidentali, le magliette con scritte in inglese o immagini di donne. Le donne non possono uscire di casa se non sono accompagnate da un parente maschio. Abbas dice che “tutto ciò ci ha scioccati e ci ha portati a lasciare la città”. Razzi e bossoli - Omar Abu Ali, contadino arabo sunnita di 45 anni, proveniente da al-Karmah (detta anche Garma) a 10 miglia a nord est di Fallujah, ha una visione più cinica. Ha due figli e tre figlie e dice che, quando l’Isis si è impadronita della città l’anno scorso, “i miei figli hanno accolto i ribelli, ma io non ero così ottimista”. L’arrivo dell’Isis non ha migliorato le tragiche condizioni di vita ad al-Karmah e lui non ha preso molto sul serio la propaganda su come “i soldati di Allah avrebbero sconfitto i diavoli [del Primo Ministro iracheno Nouri al-] Maliki”. Tuttavia, è d’accordo sul fatto che in molti nella sua città erano convinti di questo, anche se la sua esperienza lo ha portato a pensare che Saddam Hussein, Maliki o l’Isis erano egualmente dannosi per la popolazione di al-Kharmah: “Hanno trasformato la nostra città in un campo di battaglia e noi siamo gli unici sconfitti”. Al-Kharmah è vicina alla linea del fronte con Baghdad e resiste a condizioni di semi-assedio in cui pochi rifornimenti riescono ad entrare in città. Un litro di petrolio costa 2.70£ e un sacco di farina più di 65£. Omar


War with Isis: Iraq declares victory!

GUERRIGLIERO PESHMERGA difende una stazione di petrolio dall’assalto delle forze militari dell’autoproclamato Stato Islamico. ha cercato di comprare quanto più pane poteva per sostenere la sua famiglia per una settimana o più “perché persino i fornai soffrivano per la mancanza di farina”. Ci furono bombardamenti costanti e a febbraio l’ultimo depuratore dell’acqua in città è stato colpito, anche se non è chiaro se dall’artiglieria o da un attacco areo americano: “La città ora è in una situazione orribile per mancanza d’acqua”. Omar ha passato cinque mesi a lavorare per l’Isis, anche se non è chiaro in che ruolo, e il suo scopo principale era impedire la coscrizione dei suoi due figli, di 14 e 16 anni. Razzi e bossoli di artiglieria sono piovuti su al-Kharmah, anche se Omar sostiene che raramente i combattenti dell’Isis sono stati colpiti perché si nascondevano in abitazioni civili o scuole. “Il giorno in cui me ne sono andato, una scuola è stata colpita e molti bambini sono stati uccisi”, ricorda. Omar racconta che gli attacchi arei degli Stati Uniti e l’artiglieria irachena “ci uccidono con i combattenti dell’Isis. Non c’è differenza tra quello che fanno loro e le uccisioni di massa dell’Isis”. Omar ha cercato di fuggire per due mesi ma non aveva i soldi, finché non è riuscito a vendersi i mobili. Ora si trova fuori Irbil, la capitale curda, dove i suoi figli lavorano in fattorie locali, che “almeno è meglio che stare ad al-Kharmah.” Omar afferma che gli Americani, il governo iracheno e l’Isis hanno tutti portato disastri e fa l’elenco delle guerre che hanno ingoiato la sua città natale negli ultimi dieci anni. “Ci stanno uccidendo”, dice. “Non abbiamo amici.”

the Governor’s headquarters and the main hospital. For all the official euphoria, the slow pace of the assault on Tikrit, a small Sunni Arab city that once had a population of 200,000, is not a good omen for further advances. The attack began on 2 March with some 20,000 Shia militiamen encircling the city with only 3,000 government soldiers, some special forces and 1,000 Sunni tribal fighters. The operation appears to have been under the control of Iranian officers and the Iraqi government was only told about it at the last moment. The US, suspicious of an Iranian-led militia assault, was not at first asked for air support and did not give it until the last week, following a request by Mr Abadi. Isis appears to have decided that it would not fight to the end in Tikrit, where its forces would have to engage in a slogging match against greatly superior numbers backed by artillery. The jihadist group is at its most effective when its forces act as guerrillas rather than as a regular army defending or attacking fixed positions. Over the winter it suffered its first serious defeat when it failed to take the Syrian-Kurdish town of Kobani in a siege of 134 days during which it suffered heavy losses from some 700 US air strikes. Over the last week, the US has started to use its air power in Tikrit, though Shia militias said they would not fight in the city if there were American air attacks. Whether the US suspended its air strikes is not clear, but the very fact that this was demanded by the militiamen shows the great animosities between different members of the anti-Isis coalition. Even if Baghdad claims to have won the battle for Tikrit it has still to rebuild an army that can take on Isis by itself. It is important to do so – and show that the army is more than just another Shia militia – if the government is to reassure the Sunni Arab community that its future is not bound up with that of Isis. Isis has been busily conscripting soldiers throughout its selfdeclared caliphate and may well think it has greater military opportunities in Syria than Iraq. The Syrian army has suffered a series of setbacks in recent weeks north of Aleppo and has lost the provincial capital of Idlib to Jabhat al-Nusra, the alQaeda affiliate that was founded by Isis in 2012 but later split from it. The Syrian army is short of recruits after four years of war and shows signs of being fought out. The takeover by Isis of part of Yarmouk Camp in southern Damascus, a city that has been under siege by the group for two years, may mean that its commanders believe it is better to attack here than engage in a battle of attrition at Tikrit, which they are bound to lose. Isis is said to control some main streets in the camp after clashing with a Palestinian group, Aknaf Beit al-Maqdis. The United Nations has been trying to feed tens of thousands of Palestinians trapped in the camp with nowhere else to go. The almost comical divisions between the different forces attacking Tikrit – with the Iranian-backed militiamen apparently refusing to fight if there are US air strikes in their support – makes it doubtful that there will be an offensive any time soon to recapture the northern capital of Mosul, which is 10 times larger than Tikrit. Nevertheless, grindingly slow though the recapture of Tikrit may have been, it is the first real success of the Iraqi government in its war with Isis and it will make the most of it.

23


!MPATTO - ATTUALITÀ N.8 | 3 Aprile 2015

IL VALORE DEL CAPITALE UMANO

Attualità e Giustizia Anna Annunziata

Quando l’uccidere è più conveniente che il ferire apre il capitolo dei paradossi della giustizia italiana. Il perno del lavoro è l’uomo o la spasmodica ricerca del profitto, ad ogni costo? Le impunità per l’assassinio generano nella società una domanda diffusa: malagiustizia o cancro strutturale made in Italy? Tra casi e processi italiani, il capitale umano che valore assume? L’ACCIAIERIA TORINESE THYSSEN fu chiusa il 3 marzo 2008 dopo il rogo scoppiato il 6 dicembre che causò la.morte di sette operai e l’inizio di un processo complesso.

I

l diritto alla difesa della vita viene prima rispetto al diritto di libertà. Per essere liberi, bisogna essere vivi.” L’una e qualche minuto. Un mesto silenzio, un freddo pungente che inaspriva quella già dura notte torinese di dicembre. Poche anime all’interno dello stabilimento Thyssen. Tutto si susseguì molto rapidamente: nel giro di pochi minuti, le urla disperate di sette operai ruppero 24

drasticamente la quiete e si levarono alte, proprio come le fiamme che li uccisero, a distanza di poche, sebbene interminabili, ore. Il fuoco fu generato da una fuoriuscita di olio bollente. Ore di inaudita sofferenza, di lancinante agonia, che feriscono e fanno male al solo pensiero. Antonio Schiavone fu il primo dei sette operai a morire, alle 4. Sono chiamate le morti bianche della Thyssen Krupp, grande e nota acciaieria con stabilimenti

dislocati in più sedi. Un vero e proprio inferno, un calvario che per i familiari delle vittime è ancora ben lontano dalla fine. Si tratta di un caso che ha scosso l’opinione pubblica mondiale, le coscienze di molti, soprattutto in ragione della complessa quanto paradossale vicenda giudiziaria che ha fatto da contorno. A colpire non è tanto, e solo, la giovane età dei lavoratori, l’attaccamento al lavoro e la solidarietà che li animava. Non sono i turni massacranti in fonderia, che renderebbero non bastevole anche un perfetto sistema di sicurezza predisposto. A colpire, per l’estrema condivisibilità, è la rabbia dei familiari delle vittime, che hanno dovuto ascoltare e mandar giù la crudeltà di parole che feriscono nell’animo. I dirigenti della Thyssen hanno negato ogni tipo di responsabilità, mostrando fin dall’inizio un atteggiamento ostile e indifferente al dolore, accusando gli operai morti di avere provocato l’incidente con


loro distrazioni e attribuendo loro delle colpe. Cercando, in seconda battuta, esimenti e giustificazioni in “errori dovuti a circostanze sfavorevoli”. A colpire è anche una sentenza che ha dell’incredibile. I supremi giudici confermano la responsabilità dei manager, ma non a titolo di dolo, bensì per colpa cosciente, affermando come l’adozione di tutte le cautele doverose, primarie e secondarie, avrebbe certamente evitato il drammatico esito. Viene sancita la responsabilità di tutti gli imputati, per rimozione volontaria di cautele contro gli incidenti, omicidio colposo e incendio ma viene disposto un processo di appello bis con il quale devono essere rideterminate le pene al ribasso; infatti, pur essendovi stata una cooperazione colposa, le sanzioni inflitte non potranno essere aumentate, a causa del mancato riconoscimento dell’aggravante per le omesse misure di sicurezza. Purtroppo sono le urla degli operai della Thyssen e non solo, a risvegliare le coscienze di tutti noi. Riflessione sul lavoro - Solo quando le tragedie sono numericamente rilevanti si insinua la riflessione sul fatto che, perno del lavoro, deve rimanere l’uomo, e non la spasmodica ricerca del profitto, ad ogni costo. Il lavoro è per l’uomo, e non l’uomo per il lavoro. I diritti dei lavoratori hanno il loro fondamento sulla natura della persona umana e la sua trascendente dignità. La salute, la vita, non possono essere prodotti da vendere in cambio di un posto di lavoro. La sicurezza sul lavoro, trattata come un mero “costo” da sostenere, è un problema di grande complessità, ma che confluisce senza alcun dubbio nella riflessione sul valore della vita umana, che diventa misura certa di una società

che vuole essere considerata civile, e non vittima del potere mediatico che rimane appollaiato sulle transenne della vita, in attesa dell’ennesima tragedia che vale la pena di vendere agli spettatori. Bisognerebbe domandarsi quali siano le parole più appropriate per spiegare la ratio di simili accadimenti a mogli, madri, padri, fratelli, figli di chi muore in maniera così atroce. Bisognerebbe chiedersi dove sia finito il senso di umanità nel dettato di dispositivi di simili sentenze, animate dalla fredda, apparentemente incontrovertibile, logica giuridica. Franz Kafka sosteneva ne Il processo, in cui si narra la storia surreale di un impiegato accusato, arrestato e processato per motivi misteriosi, che “qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi

appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano”. Il soggetto diventa per necessità esposto al potere e, per tale motivo, non è più uno qualsiasi ma è esposto nello stesso potere che lo porta alla morte. Come si fa a spiegare ad una madre la sostanziale impunità per l’assassinio di sua figlia? Come si fa a spiegare l’annullamento senza rinvio di alcune condanne, avutesi nell’ambito della storia giuridica italiana? Come definire l’impunibilità di alcuni uomini in divisa? L’opinione pubblica è portata ad interrogarsi e a chiedersi: “malagiustizia o cancro strutturale?” Il prezzo della vita - La vita umana ha, per la nostra società e per il nostro diritto, un costo, un prezzo. Reificata, mercificata, patrimonializzata, materializzata, la vita umana è così degradata

I MAGISTRATI nel mirino dell’opinione pubblica per aver confermato la responsabilità dei manager solo come colpa cosciente. L’Italia si interroga sulla tutela e il diritto del lavoratore. 25


!MPATTO - ATTUALITÀ N.8 | 3 Aprile 2015

rispetto alla sua natura più nobile, alta. Uno dei paradossi del sistema giuridico italiano, passando dalla materia penale a quello della responsabilità civile, è che l’uccisione sembra risultare più conveniente, in termini economici, della mera lesione. Uccidere non è distruggere la vita umana, non è lacerante offesa al nucleo familiare. È semplicemente l’esito estremo della lesione all’integrità psicofisica, che trova, come risarcimento e giusta riparazione, il più delle volte, una somma di denaro irrisoria rispetto alle altre, semplici, mere lesioni alla salute. Mentre la giurisprudenza si focalizza su interpretazioni costituzionalmente orientate dell’articolo 2059 del codice civile, mentre le diverse macchinazioni dottrinali fanno da spola tra la configurazione di danno biologico e danno esistenziale, tra risarcimento iure proprio e iure hereditario, risolvendo la questione in termini squisitamente interni di responsabilità civile, il punto più estremo di degradazione della vita umana è incarnato dalla semplice, nonché comoda, liquidazione del danno. Vere e proprie tabelle offrono il parametro di valutazione standard per calcolare in termini economici, il valore della perdita subita. Risarcimenti irrisori, sconti di pena, brevi permanenze in carcere, sentenze annullate e cancellate con un colpo di spugna dalla Corte di Cassazione. Grava pesantemente sulla nostra, intera società, sulla coscienza di tutti noi, il peso delle tante morti che non trovano e non hanno trovato giustizia. Come si può chiedere ai familiari delle vittime, vittime anch’esse, ma del sistema giudiziario italiano, anime che non troveranno mai pace, che non riusciranno mai a rassegnarsi,di andare avanti e nutrire ancora fiducia? Il colpo di spugna, nel loro caso, non è destinato a sortire alcun effetto. 26

Airbus Germanwings. Il labirinto nero della mente in picchiata per un suicidio-omicidio

V

olo Spagna-Francia, Airbus Germanwings. Una scatola nera rivela l’asfissia della logica per un suicidio-omicidio che sta per compiersi. Ore 10.39 ha inizio una discesa spedita, veloce, verso un ignoto non sense. Il silenzio di una cabina. Il tentativo di farsi aprire. Urla, colpi su una porta. Un aereo sospeso in aria. In centocinquanta sospesi nel panico. Un solo uomo sospeso nel vuoto mentale. Ore 10.31 il voice record registra un respiro silenzioso, alienato. Ore 10.53 lo schianto. Quale meccanismo scatta nella mente? Cosa spinge una persona ad abbassare una leva consapevole di schiantarsi contro una montagna? Il male dell’anima. Il paesaggio abituale dell’uomo occidentale è un deserto affettivo, lo si trova in psichiatria alla voce “depressione”. Un cancro silenzioso e galoppante. La forma di sofferenza psichica per eccellenza che ha scalzato le nevrosi e la psicoanalisi. Il conflitto tra l’infrangere la norma e la norma che vuol inibire il desiderio è nevrosi. La depressione non si limita, va oltre: è contrapposizione tra il possibile e l’impossibile. In uno scenario in cui tutto è accessibile, come un parassita, si alimenta e accresce un senso di insufficienza e inadeguatezza per ciò che è lecito fare e non si è in grado di fare o non si riesce a realizzare secondo le aspettative altrui. Gli altri e l’occhio puntato su noi. Il modo in cui l’altro ci classifica, giudica, valuta, determina la creazione dello standard per misurare il valore di se stesso. Realizzare, emergere, apparire, conquistare, superare, è il criterio decisivo al fine di sigillare, con una goccia di cera bollente sulla pelle, il valore di una persona. Ansia parassistica da soffocare, insonnia da stordire, senso di fallimento da schiacciare, ingoiando pillole antipanico, ingerendo ansiolitici. Con sonniferi su un comodino, sott’occhio, a portata di mano tremolante perché si deve pur reggere la qualità della vita che ci siamo costruiti. Corpi dipendenti, menti oscurate, si aggrappano ad antidepressivi perché l’anima sta male. Non tiene il ritmo di una vita tecnologicamente avanzata che crediamo di controllare ma ci controlla. Da protagonisti a funzionari di apparati di un sistema di un’impresa sociale e globale che fagocita, pone al vertice in una bella vetrina per vojager e di colpo, spinge giù, in picchiata, verso il basso fino a schiantarsi. A scegliere di chiudersi a chiave in una cabina di Airbus sulle Alpi francesi con 150 passeggeri ignari, inconsapevoli, innocenti. Ma il male dell’anima logora. Non ascolta le urla disperate. È afono, sordo, cieco. Sospira silenziosamente mentre fuori si batte su quella porta scongiurando di aprirla. Psicologi, psicoanalisti, psichiatri a pagamento per sterminare il parassita. Per debellare ed estirpare un silenzioso mostro interiore chiamato solitudine. Un senso di smarrimento nel rincorrere la società sfuggendo a noi stessi. Una bulimia di sensazioni, sesso, divertimento, libertà e un’anoressia di emozioni, intimità, contatto umano, comunicazione. “Era un soggetto suicida, gli è stato infranto un sogno, grave depressione e sindrome da affaticamento, malattia psicosomatica, faceva uso di psicofarmaci...”. Eppure Andreas Lubitz era lì, su quell’areo. Perché? Domanda ovvia. Per la risposta, ugualmente ovvia, si alterneranno colpe e passaggi di responsabilità. Più semplice chiedersi cosa abbia spinto a tirar giù quella leva. La risposta è in psichiatria alla voce depressione, il male del secolo. Inspiegabile e incontrollabile, silente e occulto. Una scatola nera rivela, una mente nasconde, chiusa in una cabina mentre centocinquanta persone sono trascinate a picco con lei. Durante il volo, prima dell’oblio mentale, riferendosi all’atterraggio, Lubitz risponde “Vedremo, speriamo”. Poi, asfissia di un deserto emotivo nel labirinto nero della mente. Uno schianto nel silenzio di una cabina. Fine del voice record. Giorgia Mangiapia


27


!MPATTO - ECONOMIA N.8 | 3 Aprile 2015

C’ERA UNA VOLTA L’INNOVAZIONE

Articolo di Marco Tregua

Battuta d’arresto per il, non più inarrestabile, sviluppo economico indiano. In una brusca frenata restano in piedi le start up che ormai rappresentano l’unico core innovativo del paese, e allo stesso tempo barlume di luce per la ripresa dell’economia nazionale. Storia di un’India che esce sempre più sconfitta dal confronto con la Cina, vicina più che mai al modello occidentale.

L’

India ha rappresentato per anni uno dei paesi con il maggior tasso di innovazioni, ma negli ultimi mesi qualcosa sembra essersi inceppato in questo flusso creativo, rallentando, così, una delle principali leve di sviluppo del paese. Nel tempo la leadership del paese asiatico ha portato alla creazione di una “seconda Silicon Valley” a Bangalore, visto l’elevato tasso di attività industriali basati sull’information technology e sull’high-tech più in generale,

28

con risultati paragonabili all’area californiana dove l’IBM tuttora si trova. Gli economisti e gli imprenditori indiani sembrano puntare il dito contro il governo centrale del paese, che sta inanellando una serie di insuccessi, dalla totale assenza di incentivi fiscali alla crescente e preoccupante corruzione, dalla scarsità dei risultati del sistema di istruzione al crollo del numero di brevetti. Su quest’ultimo punto, difatti, l’India è scesa vertiginosamente fino al 29° posto tra i paesi innovatori nell’annuale

resoconto del Global Intellectual Property Center, che vede in gran spolvero Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Francia, mentre l’India è stata ormai surclassata da Nigeria, Argentina, Indonesia e Vietnam, con la Thailandia si appresta a realizzare un sorpasso che nessuno avrebbe potuto pronosticare negli anni scorsi. Confronto cinese - La panoramica sull’andamento dell’innovazione in India è ancor più definita se si guarda al confronto costantemente realizzato con la Cina, visto il


percorso di sviluppo che ha accomunato i due paesi asiatici nell’ultimo decennio. Difatti, nel 2008 i due paesi erano caratterizzati da condizioni simili, soprattutto con riferimento all’ammontare degli investimenti, ai risultati conseguiti e agli attributi di sistema, quali l’attenzione del governo alle politiche per l’innovazione, l’orientamento alla qualità e la diffusione dell’ICT. Per tutte queste variabili l’India ha registrato un andamento nettamente opposto all’economia cinese, con cali significativi negli ultimi sette anni, eccezion fatta per il 2012, anno in cui gli incentivi del governo avevano favorito il rifiorire di brevetti e start-up. Start Up Pulse - Proprio le start-up indiane sembrano rappresentare quel barlume di luce per tornare a puntare sull’innovazione, motore dello sviluppo indiano degli ultimi anni, visto che le nuove imprese continuano a fiorire e non mancano iniziative in loro favore, come lo #StartUpPulse che inizierà tra meno di un mese proprio nell’area di Bangalore. Alle piccole e nascenti imprese, dunque, l’arduo compito di far ripartire il cervello innovativo dell’India e far sì che il paese possa riprendere a sfornare innovazione e prepararsi a “diventare grande”.

ECOMMERCE BOOM

Delhi Startup Pulse: More than 50% are eCommerce startups! TechSparks is YourStory’s flagship event whose fifth edition we concluded last month (top 30 companies that presented). This multi city event has city editions before going to Bangalore for the Grand Finale. One of the city events was in Delhi where close to 300 participants from the startup ecosystem (out of which ~50% would be entrepreneurs) turned up. We had some questions for them and from what they responded, we’ve come up with an infographic which has some interesting insights into the Delhi ecosystem. Composition: E-commerce and Consumer Internet startups form 52% and 39% of the survey respondents respectively Only 39% of the startups are revenue generating and only 31% are profit making. 72% of the startups are leveraging Android while iOS and Windows are being leveraged by 59%.

‘In America everybody wants to help you succeed’ Part two, written by Emma Featherstone Max Wiseberg, chief executive of HayMax - It’s important when taking your business to a new place that you know everything you can – the better you do it, the less money you waste. And the trade mission reinforced my thoughts on the US, including the scale of doing business there. To enter the American market, you need to take baby steps. I also had no idea what Atlanta was like, and I’ve discovered that it’s central to so many things. The brand’s my baby; I built it. But the trip has taught me that I need to improve it. I’m now looking to get some outside branding advice. I had a great chat with Rahul Lathia, the owner of British Food Imports. I also met some English companies at the Natural Products Expot West in LA, which I went onto after the trade mission. I hope to get some insights from them, which will help with the process of getting HayMax into US stores. Becky Pilditch, co-founder of Bare Conductive Believe in what you are doing and Americans will want your business to succeed. I learned, in the US, people don’t care where you are from, but where you are headed. As a tech company in London, we’d thought about San Francisco or New York as the obvious places to export or expand to, but I’ve been impressed by the major players and support for small business in Atlanta. I saw Atlanta’s pro-SME attitude in action – the tax rates, manufacturing capability and proximity to the US population, not to mention their Southern hospitality toward British enterprises are great incentives. During the trade mission, I met with the Laura Flusche, executive director of the Museum of Design Atlanta (MODA). The museum has a fantastic maker space for young people where they can try hands-on making and digital learning. So I discussed with Laura, and some of the education team, how Electric Paint and the Touch Board [Bare Conductive products] could fit in that space. We are in initial talks to put some workshops together with the MODA. There may also be some a chance to work with them on the 3D objects they create. Katie Cannon, head of sales at Sugru - It’s been a fantastic opportunity to be on the ground and ask the tough questions. We want to diversify and I want to take my learnings back to the team and build them into the heart of my strategy. We talked about how US consumers like being communicated to – it’s all about confidence. I’m going to take that learning back to Sugru’s social media and PR teams. We have a pragmatic and humble way of communicating on social media and through press releases. We may need to create two tones for communicating our business – one that really ramps it up for the US.

29


!MPATTO - GASTRONOMIA

ù

N.8 | 3 Aprile 2015

IN VIAGGIO TRA ULIVETI DELL’IRPINIA

Francesco Acampora è il giovane titolare de Il Cartiglio. L’aria verde degli ulivi accarezza dolce il frantoio in una brezza d’altri tempi tra il profumo della buona terra irpina. Dal 2007 si produce olio, vino e si coltivano nuovi progetti e nuove fervidi idee.

I

l meteo minaccia pioggia, il cielo no. Benedetti da una bomba d’acqua mai precipitata, iniziamo il viaggio verso Fontanarosa in provincia di Avellino. La terra irpina sovrasta le curve dell’autostrada. Il paesaggio è immobile, orso schivo e tenebroso, ci dà le spalle, mostrando il suo manto bruno. Rapisce gli occhi. Alla radio singhiozza un sempre attuale Battisti, interrotto più volte dal fido navigatore: tra 300 metri svoltare a destra, sei arrivato a destinazione. A destinazione – Piazza del Cristo Re, la principale di Fontanarosa – ci attende Francesco Acampora, giovane titolare dell’azienda “Il Cortiglio” che firma i prodotti della Società Agricola Rocca Normanna. Da lì, in due minuti raggiungiamo la proprietà: un terreno pendente di 13 ettari appartenete alla famiglia di Francesco da sempre, dove incontriamo Angelo Lo Conte, agronomo dell’azienda. Camminiamo, increduli, tra olivi secolari, giovani alberelli, frutteti antichi e appena piantati. Esperti e padroni del territorio e delle proprie conoscenze, Angelo e Francesco, provano a mettere

30

ordine tra le domande incuriosite dei profani astanti. Muniti di stivali, affondiamo nel terreno umido di piogge invernali, gli arbusti appena potati scricchiolano sotto i nostri piedi. Goffi proviamo a liberarci di giacche e pullover, risaliamo la collina, mascherando la fatica di cittadini sedentari. Duettano i nostri Cicerone, l’uno subentra al discorso dell’altro, nel giusto momento, sulla giusta nota. Francesco descrive la proprietà, l’azienda, i suoi progetti. Angelo racconta la biologia del territorio, le varietà degli alberi, i modi in cui curarli e moltiplicarli. Il Cortiglio nasce come brand della Società Agricola Rocca Normanna, costituita nel 2004. Francesco Acampora e suo padre, mossi dal desiderio di far conoscere la loro terra, di offrire ai più, i frutti di cui, da sempre, si sono nutriti, trasformano la proprietà familiare, in attività aziendale. Nel 2007 ha inizio la commercializzazione: dai 22 ettari totali di terreno – tre a Pantelleria e il resto nelle terre di Fontanarosa – si producono olio, vino e nascono, poco a poco, nuovi progetti e nuove idee. Guidati da Angelo e scortati da Francesco, procediamo lungo il

articolo di Francesca Spadaro


cammino, ascoltando le storie di un paese, di una famiglia, della terra e della giovane impresa che su di essa sta crescendo. Fontanarosa è una piccola cittadina di tremila abitanti, nel centro-Nord dell’Irpinia. Guerre, saccheggi, terremoti e conquiste disegnano l’origine di questo borgo antico, che è stata terra Normanna e tenuta di caccia dei Gesualdo. La storia dei popoli che hanno calpestato e ricostruito quel suolo, cammina con noi sulle terre della famiglia. L’antica fontana - Francesco ci mostra un’antica fontana, ancora riempita dall’acqua dei pozzi, costruiti lungo la collina. La fontana e i pozzi, strategici, raccontano un sistema idraulico in pietra, uno di quei patrimoni indistruttibili, non ripetibili: quello posto più in alto, una volta pieno cede l’acqua al secondo, più in basso, e questo al terzo e così fino alla fontana. Quasi alla fine del percorso, Francesco si ferma, ci ferma e richiama la nostra attenzione. Indica quella che sembra un antica casa rurale. Unico casino di caccia del 1600, quella costruzione è vincolo della soprintendenza e nuovo progetto di Francesco: vuole farne un luogo di ristoro per chi viene a visitare la proprietà, per chi è curioso di conoscere l’azienda e i prodotti del territorio. Un luogo in cui sedersi, assaggiare, degustare, sognare. Viaggiare con i sensi tutti. La voce di Angelo, torna puntuale. Racconta l’armoniosa natura che continuiamo a guardare. Sul terreno della proprietà sorgono 5000 olivi che, tra giovani e secolari, raggiungono una produzione totale di 25/30 quintali di olio annui. Ma quella produzione “totale” è fatta di innumerevoli biodiversità. Trapela

RAFFINATO ORO GIALLO prezioso nella corposità, intenso nel sapore.

31


!MPATTO - GASTRONOMIA N.8 | 3 Aprile 2015

RACCOGLIERE LE OLIVE selezionarle a mano per un prodotto tradizionale d’eccellenza. dalle sue parole un immenso rispetto per quella diversità e per il duro lavoro dei vetusti abitanti delle terre meridionali – gli olivi secolari. Pur vecchio e stanco, ogni albero secolare produce fino a 500 chili di olive l’anno, contro i 5/10 chili degli esili ramoscelli dei giovani olivi. E quei 500 chili di olive, portano tutto il sapore degli alberi che nei secoli hanno assorbito l’acqua e – dei secoli – i profumi, gli odori, la storia della terra che quell’acqua ha portato con sé. Tre sono le varietà di olivi che caratterizzano la produzione dell’azienda: Marinese, Ogliarola e Ravece i quali danno vita a tre oli monovarietali. Esperimento ancora in fieri è il giovane frutteto che tra gli ospiti vanta un sud americano d’eccezione: è il Goiaba, una bacca brasiliana, esteticamente simile al lime, dalla cui polpa si ricava una pasta gelatinosa, la goiabada, che ricorda la cotognata. Obiettivo del prossimo futuro è il noccioleto, “o’ nocelleto”, come suggerisce Francesco: due ettari coltivati a nocciole che daranno i loro frutti a fine agosto. La speranza è di 32

ottenere numeri da portare in produzione e mettere in commercio. Mentre i due raccontano degli orizzonti futuri, delle sfide e degli attesi successi dell’azienda, lo sguardo cade all’orizzonte, quello vero. Scorgiamo un altro frutteto, «è quello secolare», rispondono all’unisono Francesco e Angelo, in cui, fieri, resistono ancora i ciliegi, il pero Mastantuono, che dà frutti piccoli e rotondeggianti, di raro profumo e sapore. Ancora,

è possibile assaggiare le mele, limoncella, annurca e verde. Le ultime parole dei due ospiti oratori sono dedicate ai vigneti. Quattro ettari vitati con una capacità produttiva di 25.000 bottiglie annue. Oggi, circa settemila bottiglie tra Taurasi, Aglianico, Falanghina, Greco e Fiano sono firmate Il Cortiglio, il resto dell’uva viene venduta ad altre cantine. Ultimo sguardo al terreno, cambio repentino di scarpe e di nuovo in macchina verso lo showroom, dove ci attende una tavola rotonda. Ad ogni posto un tovagliolo, un piattino e un piccolo bicchiere con l’olio. Inizia la degustazione. Angelo dirige, spiega i gesti da compiere e racconta gli oli. Copriamo il bicchiere con una mano e con l’altra ne manteniamo il fondo, col calore del palmo l’olio si scalda liberando gli aromi volatili che colpiscono l’olfatto. Accostiamo il naso al bicchiere e inspiriamo lentamente tre volte, scostando, il volto, ad ogni aspirazione, per cercare di individuare i profumi. Tra chi tira a indovinare, chi parla di flavour d’oliva per non sbagliare e chi viene chiamato “nas’ ‘e cane” (l’insospettabile che le azzecca tutte) giochiamo guidati dall’attento agronomo.

TRA IL VERDE OLIVA E IL NERO INTENSO la fase della pulitura e della selezione a nastro.


Is oil the most political food in the world? Written by Sue Quinn www.penandspoon.com

I

Published by The Guardian

a a a

t’s been said that olive oil from the West Bank is the most political food in the world, and I think I’d agree. Zaytoun started in 2004 as a volunteer-led initiative by a group of friends inspired by a trip to Palestine. We had spent time with olive farmers, enjoying their wonderful hospitality and tasting some of the most delicious olive oil we’d ever had. But their livelihoods were being threatened because they had to sell below the cost of production due to restrictions imposed by the Israeli occupation. Zaytoun was an opportunity to help.

SPREMUTO A FREDDO Dalle macine di pietra in cui si effettuava la molitura alla produzione industriale, così nasce l’olio extravergine d’oliva. La degustazione - All’assaggio l’olio deve sfiorare tutte le zone della bocca perché se ne riconoscano i diversi gusti. Dopo, Angelo, ci insegna la tecnica dello “strippaggio”: aspirare rapidamente dalla bocca, tenendola aperta e con i denti stretti, così che l’olio raggiunga la parete retro nasale e stimoli percezioni olfattive. Si procede con la valutazione, previo riconoscimento dei difetti. C’è un difetto di riscaldo se è presente un sentore, più o meno forte, di solvente; di ossidazione se l’olio sa di rancido, oppure, se il processo di fermentazione si è prolungato eccessivamente l’olio può essere avvinato o inacetito. I pregi dell’olio riguardano la sua dolcezza o la presenza di un sapore fruttato, l’amaro o il piccante che si avverte come pizzichio alla gola. È accorto insegnante Angelo, ha premura che ognuno capisca, che ognuno riconosca, annusi, assaggi l’equilibrio che è in ogni olio. Il perfetto intreccio di odori, aromi e il modo in cui delicatamente accarezzano il palato, sono il risultato di un lavoro paziente e attento. È il lavoro portato avanti da Francesco e Nadi, da Angelo e dagli altri esperti. Da chi ogni giorno lavora per restituire dignità alla sua terra, e che è in grado di trasmettere rispetto e passione con le parole. Saluti affettuosi, la radio si accende, il navigatore ci riporta a casa.

One of the biggest challenges is the restriction on the movement of people and goods. Olive, almond, herb and grain producers are located around Nablus, Jenin and Salfit, and the medjool date producers around Jericho. Most goods are shipped from the port of Haifa, about an hour’s drive away from most of the producers, but in reality it takes several hours, sometimes days, to get there because vehicles are forced to make big detours to go through the checkpoints, and pallets have to be stacked far lower than capacity to allow sniffer dogs to jump over them. For the farmers, it would probably be faster to travel to London than to Haifa. Farming is difficult everywhere, but few places have the additional challenges of land seizures, illegal settlements, difficulty of movement and farmers losing land or being unable to access land due to the separation barrier. The devastation in Gaza last year also resulted in curfews, house searches, raids and arrests in the West Bank. But for thousands of farming families in Palestine, fair trade has given them the security of knowing they can sell their crops for a price guaranteed to be above the cost of production. Farmer co-ops receive a premium that funds community projects, and increased demand for products traditionally produced by women’s co-ops has given them scope to develop business skills and work strategically. Olive oil was Zaytoun’s first product and 10 years later it has won several awards and remains our flagship. In a world of mass industrial production, slave labour and reports of olive oil fraud and adulteration, Palestinian olive oil is an authentic and truly artisan product. It’s something positive to come out of Palestine, something to celebrate. We’ve now expanded our range to include za’atar, maftoul, freekeh, medjool dates and almonds. We also invite farmers to visit the UK. For many, this is their first and only chance to travel outside Palestine. One farmer was invited to give a talk at Planet Organic a couple of years ago. Seeing the emotion on his face as he approached a shelf and picked up a bottle of olive oil he had pressed himself from olives his family had picked by hand from a tree that his great grandfather had planted – was priceless.

33


!MPATTO -

N.8 | 3 Aprile 2015

34


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.