Impatto Magazine // Num. 9 // 10 Aprile 2015

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!MPATTO - SOMMARIO N.9 | 10 Aprile 2015

CONTENUTI UBER APP LE JEUX SONT FAITS Travis Kalanick, un croupier geniale, che stabilisce le regole del gioco nella roulette delle app. Tra fiches puntate e autisti che si contendono clienti, i taxisti in Italia si ribellano e le tensioni si acutiscono tra i pro e i contro dell’UberPOP.

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Mobile app: Uber’s domino theory Uber should probably get out of China. The country’s two largest car-hailing app makers - Kuaidi Dache and Didi Dache - just announced a merger of sorts.

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Il mondo che va all’Università In America si investe nell’istruzione universitaria, divenuta ormai un grande sistema economico.

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Riacceso l’accelleratore del CERN Si è riacceso dopo una pausa di due anni l’Lhc del Cern, il più grande acceleratore di particelle del mondo.

UBER SENZA FRENO Istrionico, ironico e scanzonato, il CEO di Uber Travis Kalanick racconta il successo e lo sviluppo della sua geniale piattaforma di car pooling in una breve intervista.

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In un mondo che ormai vive d’immagini sempre più spietate, le ultime che hanno tempestato giornali e paralizzato la coscienza collettiva, provengono dal Kenya.

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IMPATTO MAGAZINE È UNA TESTATA GIORNALISTICA REGISTRATA PRESSO IL TRIBUNALE DI NAPOLI CON DECRETO PRESIDENZIALE NUMERO 22 DEL 2 APRILE 2014. 2

Al-Shabaab stermina un campus

Vans store opening in Napoli Tra luci ingabbiate, soffitto grezzo industriale in puro stile underground, In Via Armando Diaz, apre lo store Vans. Il brand dello skateboarding plana a Napoli.


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La serialità e il sacro Graal streaming

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Sapori dei quartieri spagnoli

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La serialità televisiva genera mostri. Attimi gesti, modi di dire diventano uso di un linguaggio quotidiano.

Nei Quartieri Spagnoli, un piccolo negozio di frutta in cui si insegna e si trasmettono tradizioni affascinanti.

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La sanità, la pizza e Ciro Oliva

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Crescere tra farina, impasti e forni a legna in un passaggio di generazioni. Ciro Oliva matura così il suo impegno sociale. 3


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LE JEUX SONT FAITS

Travis Kalanick, un croupier geniale, che stabilisce le regole del gioco nella roulette delle app. Tra fiches puntate e autisti che si contendono clienti, i taxisti in Italia si ribellano e le tensioni si acutiscono tra i pro e i contro dell’UberPOP. articolo di Giorgia Mangiapia

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er Steve Jobs la storia, la sua, poteva racchiudersi in un’unione di puntini. Uno in fila all’altro, rincorrendosi, sempre più vicini. Scivolando l’uno sull’altro, sempre più complementari fino a fondersi. Riunirli non è possibile guardando avanti. Risulteranno fluidi e congiunti solo girandosi, voltandosi dietro quando un percorso si aprirà alla vista al posto dei singoli puntini. Un sentiero netto, definito, che nessuno avrebbe intrapreso se non una mente considerata folle o esaltata. Così testarda da continuare a credere, senza accontentarsi, per giungere a quello che sta cercando. Sulla scia dell’innovazione generata da un’idea. Un’idea stravolgente. Come Apple per Jobs. Come Uber per Travis Kalanick. I puntini diventano il tragitto di un GPS, che orienta e dirige con la precisione della nuova tecnologia e di una nuova app capace di creare disordine. Un visionario venditore di coltelli da cucina, girovago in California. Nomade nella mente e viaggiatore del pensiero con un’idea fissa: voler cambiare il mondo attraverso l’informatica. Capace di realizzare codici di programmazione negli anni dell’adolescenza. Con una laurea non portata a termine, con la dote innata di affabulare le persone,con l’istinto di emergere fino al debutto nel business. Ideatore e fondatore di società come Scou e RedSwoos. La prima, un sito per scaricare musica e film, costretta a chiudere per una causa monstre; la seconda, una società di software, venduta

MARCO RUBIO Senatore della California, lo scorso marzo è stato in visita alla di Uber a Washington. Un meeting che ha fatto interrogare la cronaca politica sugl’interessi di quest’ultima in merito all’app. 6

per ventitré milioni di dollari nel 2007. Da quei milioni nasce,nel 2009, un’azienda che ha spezzato il monopolio dei taxisti e di cui Travis Kalanick è il co-producer &chief executive officer insieme a Garrett Camp. Cos’è l’app Uber? - Uber, l’azienda lanciata a San Francisco nel 2010, che sta mandando in crisi i trasporti privati e ha scatenato le proteste dei taxi driver. Ma di cosa si tratta? Qual è l’identità dello star up divenuto ormai un colosso mondiale valutato fino a 3, 4 miliardi di dollari? Uber sta per Ubermensch ovvero il superuomo nietzschiano che supera le convinzioni etiche e afferma la volontà di potenza. La volontà di far evolvere e cambiare il modo in cui si muove il mondo. La potenza di collegare gli autisti con i clienti grazie alle app per rendere le città più accessibili, creando opportunità nuove per i clienti e occasioni di lavoro per gli autisti.

Il sito di Uber è un’immagine studiata vincente. messaggi e immagini per giungere a tutti: donne e uomini in raffinati abiti di pelle per concedersi qualche vizio; sportivi e giovanili per condividere esperienze; pratici e veloci per ottenere più tempo, denaro e comodità; dinamici e pronti al divertimento per crearsi delle vie di fuga. Sullo sfondo, in foto in bianco e nero, in ogni singola slide, una portiera pronta a chiudersi e ad aprirsi per consentire al cliente il miglior servizio. “Vivi l’attimo. Arrivi ovunque in poco tempo”. Sotto ogni slide, un imperativo invitante e coinvolgente come a voler mordere il frutto proibito: Benvenuto dove tutto è possibile. Iscriviti a Uber! Uber si presenta come il modo più agevole per spostarsi: un tocco sul proprio android o iphone per impostare il punto di partenza e richiedere una corsa. Un autista, con UberPOP anche un privato cittadino con


una normale patente, accetterà. Indirizzo e nome della destinazione da inserire, l’applicazione mostrerà all’autista la destinazione e, in men che non si dica, sarà delineato il percorso e l‘orario presunto di arrivo. La tariffa? Alla voce “Mosse da maestri”, l’app calcolerà una tariffa approssimativa in base al tempo stimato. Senza correre il rischio di sorprese. La forza del Brand - Le jeux sont faits. Già, il croupier Kalanick ha lanciato la pallina nella roulette. Il meccanismo è partito e non è possibile tornare dietro. Macchine proiettate nel vortice delle strade come una pallina. Macchine che girano, aprono portiere, offrono un servizio, accolgono il cliente, senza perdere tempo. Efficienti e spietate nel loro perfetto meccanismo di gioco. Le fiches sul tavolo sono state posizionate e saranno i successivi eventi a determinare le mosse future. Mentre la pallina dell’app gira con una velocità innestata dalla forza centrifuga e calibrata dal lancio del croupier, il

movimento della roulette è seguito dai taxisti, usurpati del proprio giro. Costretti a scommettere e a stare al gioco. La semplicità del movimento innescata da Uber ha rivoluzionato il mondo dei trasporti pubblici a pagamento perché se l’app coinvolge e ammalia con l’esortazione invitante “ogni corsa è come una fuga”, è anche vero che per i taxisti Uber è un giocatore d’azzardo al tavolo da gioco. Dalla fondazione nel 2009 ad oggi Uber è presente in cinquantasei paesi e oltre settanta città. Disponibile localmente e in espansione globale, ha tutta l’intenzione di espandersi e continuare a proliferare nel mondo. Perché Uber è un brand il cui servizio è uguale in tutto il mondo. Dà qualità e proprio per questo risulta essere una minaccia. Il taxi, protagonista indiscusso nel mondo del trasporto pubblico, si è ritrovato a dover dividere il palcoscenico con un concorrente pericoloso. Il taxista non ha di per sé un incentivo nell’offrire una qualità eccellente ad un cliente che

IL MOMENTO DEL CHECK Un’autista di Limousine a Chigago compie la verifica dell’applicazione Uber prima di mettersi a lavoro. L’app mobile Uber ha innovato completamente la mobilità urbana negli US. forse non rivedrà più. Non subisce la pressione del feedback a fine corsa. Uber lavora per il singolo. Parte dalle valutazioni del cliente, ne chiede i motivi, rimedia se non si è soddisfatti rimborsando la corsa. Spinge al miglioramento del servizio e propone opzioni differenti. UberPOP, o come viene definita in America UberX, ha scatenato polemiche e proteste in Italia.Un servizio di taxi, anche per la consegna di merce a domicilio, senza licenza da privato a privato attraverso l’app. Il Ministro dei Trasporti Maurizio Lupi aveva dischiarato illegale l’UberPOP perché non rispettosa della tutela dei cittadini circa l’efficienza e la sicurezza. Taxisti in piazza a Milano e Roma contro quella che è stata definita” Ruber” perché usurpatrice di diritti. Ma il 2 aprile 7


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UN’APPLICAZIONE PER SPOSTARSI per impostare il punto di partenza e richiedere una corsa. Una rivoluzione digitale che sconvolge i traporti a pagamento e che fa nascere opposizioni da parte dei taxisti. del 2015 l’azienda ha vinto la prima causa a Milano. L’amministrazione pubblica ha dovuto restituire ad un autista della casa fondatrice dell’app il libretto e la patente ritirate per violazione dell’articolo 86 della legge 285 del 1992. Una legge del Codice della strada che punisce chi pratica abusivamente il servizio del taxista con un auto propria. Una legge vecchia che si scontra con una realtà del tutto nuova. Un servizio di trasporti versus un servizio di intermediazione per il car pooling. User spaventa perché è user-friendly e ha la capacità di catalizzare in tutto il mondo l’attenzione delle categorie di settore stantie e ferme nel tempo. Da troppo tempo. La sentenza del 2 aprile riconosce che, in assenza di una normativa in materia che comprovi l’illegittimità della condotta dell’autista Uber, non sia consentito sancirlo. General manager di Uber Italia è una donna. Giovanissima e dinamica, Benedetta Arese Lucini è il volto di User. Con un curriculum folto e composto da puntini disseminati nel mondo, da New York alla Malesia fino a Silicon Valley, è nel mirino dei taxisti. Vorrebbe inserire i taxisti nella piattaforma Uber così da consentire all’utente collegato all’app di scegliere la soluzione migliore. Già attivo a Londra e in via sperimentale a New York dove all’azienda fondatrice è stato permesso di essere piattaforma per i taxi. Dopo una ricerca di taxisti e una stipula di accordi è stato creato un sistema definito, da Bloomberg, e-hailing che funziona e rende. L’hail, il chiamare il taxista con 8

un cenno della mano, si è evoluto in un tocco su un touch screen. Intanto, tra polemiche e leggi obsolete, si cerca per convenienza e per marketing un compromesso. È palese che Uber offra posti di lavoro: nel 2013 ha creato a Chicago 1000 posti di lavoro indiretti, 46mila dollari di PIL extra per la città e in più ha portato 25 mila persone, che usavano la propria automobile, ad avvicinarsi alla mobilità pubblica. Si può giungere ad una complementarietà con i taxi e non solo ad una competizione in Italia? I puntini del passato

esistono, non si possono cancellare o far saltare ma adattarli e accomodarli al nuovo che avanza. Inarrestabile. A quel punto non servirà guardare né avanti né dietro. Occorrerà guardare dove si è arrivati: i puntini del passato si riuniranno da soli e il futuro sarà la proiezione di ciò che si sta vedendo generare in quel momento. Si potrà considerare il futuro come un divenire consequenziale e innovativo di puntini che delineano un percorso ormai scaricabile attraverso un’app. Ad opera di un croupier geniale e digitale.


Mobile App: Uber’s Domino Theory

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ber should probably get out of China. The country’s two largest car-hailing app makers - Kuaidi Dache and Didi Dache - just announced a merger of sorts. Together they have 99.8 percent of the on-demand ride market. China has an enormous, growing population of mobile phone users and potential riders, but what does Uber really get by fighting for this hair’s-width sliver of the Chinese market? Uber will probably try to hang on in China, if only because it has to prove it has global potential to validate its current $41 billion valuation and set itself up for a huge IPO in the future. Remember the domino theory from your history books? The Cold War-era doctrine held that if one country embraced Communism, then its neighbors would each eventually topple into the Red Menace’s arms. Whether or not the threat was real, U.S. foreign policy gurus depended on it to justify decades of global intervention. Uber’s own version of the domino theory goes something like this: If one country doesn’t embrace Uber, then maybe other countries won’t either. So Uber has to be everywhere, even if it may not make business sense. Losing out in global markets wouldn’t threaten Uber’s very existence, but it does threaten the premise that underpins its huge valuation -– that taxi-hailing apps are a winner-takes-all market and that Uber can be the most important ride-hailing option in most major cities in the world. When Uber raised its last funding round, board member Bill Gurley told the Wall Street Journal that, “International expansion probably is the key theme of the fundraising.” Uber has already marched into more than 250 cities in 54 countries (and counting) around the world. China, unsurprisingly, is a piece of Uber’s global expansion strategy. Almost every international company has tried to find a way to profit from China’s huge, developing economy and growing middle class. Apple’s success in China contributed significantly to the company’s recent blockbuster quarter. Companies like Facebook and Google, long blocked in China, are trying to find ways to reach the country’s 649 million Internet users. (Yes, that’s

Dal cofondatore di Uber ecco Ride, il car-pooling per le aziende Da una delle menti di Uber arriva un’altra soluzione per aiutare le persone a destreggiarsi tra traffico e spostamenti. Oscar Salazar, co-fondatore di Uber, ha lanciato negli Usa l’app Ride, solo per iOS al momento, un servizio di car-pooling rivolto a colleghi di lavoro. Il servizio, che nella visualizzazione delle mappe e delle auto è simile a Uber, funziona così: un’azienda si iscrive alla sua piattaforma

e la pubblicizza presso i suoi dipendenti. Coloro che decidono di aderire al servizio e di risparmiare sugli spostamenti in auto scaricano l’applicazione e forniscono informazioni su abitazione e orari di lavoro. Ride crea così grazie ad un algoritmo un’idea di percorso per chi condivide orari e tragitti e designa autista e passeggeri. Anche piattaforme come la stessa Uber e altre come Lyft

Line forniscono servizi di carpooling ma Ride punta a diventare parte integrante della routine delle persone, spiega l’azienda a Business Insider, non una soluzione una tantum per risparmiare. Inoltre Ride non paga all’autista una commissione, ma raccoglie piccole somme da ogni passeggero e li dà al guidatore sotto forma di rimborso (il 10% è trattenuto dall’app).

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UBER SENZA ALCUN FRENO

Intervista di Laurie Segall CNN Money Traduzione di Ennio Grilletto

Istrionico, ironico e scanzonato, il CEO di Uber Travis Kalanick racconta la sua geniale piattaforma di car pooling in una breve intervista. Il successo di Uber (che senza remora, Kalanick definisce “senza precedenti”) visto come la combizione di variabili sociali ed economiche. Una crescita che deve fare però fronte ai problemi burocratici e di sicurezza.

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osa rende il valore di Uber approssimativamente sui 18 miliardi di dollari? Bisogna guardare allo stesso tempo a due variabili, ossia quello che siamo e quello che potremmo diventare. Non siamo in un momento dove dobbiamo valutare vendite forzate della proprietà, perché i numeri ci danno ragione e coprono la sostenibilità della crescita. La linea del mio ragionamento è che ci sono molti richiedenti, centinaia di milioni di viaggi fatti con Uber e che questo numero non smette di crescere. È uno sviluppo così rapido - veloce in tempi brevissimi - che in effetti può essere definito senza precedenti. Uber è una compagnia tecnologica o un servizio di noleggio auto? Uber è solamente una piattaforma tecnologica che mette in correlazione i passeggeri, richiedenti di un servizio di trasporto auto, con gli autisti. Se tu hai bisogno di un trasporto in auto, vai su Uber ed istantaneamente puoi approvvigionarti di un qualsiasi trasporto accessibile in quel momento sul nostro portale. Velocemente, inoltre, puoi combinare multiple variabili come: tipologia dell’auto, modalità di pagamento, 10

TRAVIS KALANICK 38 anni, attuale CEO di Uber, si definisce su Twitter imprenditore seriale.

modalità di scelta del tariffario o caratteristiche del percorso. Il tutto ovviamente cercando di fornire il miglior trasporto accessibile con il minor costo possibile. Immagini Uber come il futuro del trasporto? Molti nostri attuali clienti sono di questo avviso. Uber riceve ogni giorno il feedback dei propri consumatori e molte volte ci capitano messaggi che recitano: ‘Hey … ho appena venduto la mia auto! Con Uber non ho più bisogno di pagare

il parcheggio a lavoro e a casa’. Tradotto in maniera meramente economica significa dire: guarda con Uber riesco a risparmiare 500 dollari al mese, ossia 6.000 dollari all’anno. Penso che questo motivo sia bastevole per spiegare la causa del successo di Uber e il perché molti nostri consumatori decidono contestualmente di sbarazzarsi delle loro auto. Perché Uber ha appena aperto una partnership con American Express?


Mobile App: Uber’s Domino Theory

LE PROTESTE i tassisti di Londra hanno espresso tutto il loro dissenso verso la concorrenza spietata della piattaforma Uber. Ci sono centinaia di milioni di persone che sono card member del circuito American Express e ognuno di loro dovrebbe utilizzare Uber. Così come abbiamo avvicinato molti nostri utenti al circuito AmEx, allo stesso modo American Express avvicinerà i suoi fruitori all’innovazione Uber, cosicché tale base potrà alimentare ancor di più la crescita di quest’ultima. Partendo dalla protesta dei tassisti londinesi contro Uber, come analizza questo fattore di rischio e Uber come ha regolarizzato la sua posizione? Il comparto industriale e commerciale dei Taxi sta cercando di proteggere il monopolio che gli viene garantito dalle autorità locali, e dunque le proteste non sono altro che un tentativo di ridimensionare la nostra competizione. Noi dal canto nostro stiamo cercando di fare la storia sulle partite dell’accessibilità al trasporto, del trasporto a basso costo e a massima qualità; e credo, personalmente, che queste partite le stiamo vincendo giorno per giorno, e ce ne accorgiamo guardando i numeri di chiusura ogni sera.

twice the entire population of the U.S.) Uber seemed positioned to make some headway when it got an investment from China’s Baidu, an Internet search company, last December. As part of the deal, Uber got access to Baidu’s mapping technology and, potentially, the company’s clout in a country where local players are often favored over foreign counterparts. Equally important to Uber was the fact that Kuaidi Dache and Didi Dache were also in the midst of a brutal price war at the time that threatened the future health of both businesses. But Kuaidi and Didi have decided to merge, meaning they’ll no longer need to keep prices so low. They’ll own the market while the competition withers. Companies that want to merge in China don’t have to have the deal reviewed by Chinese regulators unless they have combined revenue of about $320 million. Quartz says that a combination of Kuaidi and Didi doesn’t meet that threshold. If Kuaidi and Didi aren’t jointly making more than $320 million and they jointly represent almost the entire Chinese ride-hailing market, is it worth it for Uber to fight for the remaining few million dollars? I realize that the total size of the pie will grow, but this still seems like a lot of work for very little gain. But if Uber leaves China, where does it draw the line? Does it also leave Southeast Asia just because Malaysia-based Grab Taxi says it’s the dominant player in Malaysia, Philippines, Thailand, Singapore, Vietnam and Indonesia? Does it leave other countries, like Brazil, if it’s unlikely to have a monopoly in larger cities? Can you hear the dominoes falling? If Uber were to walk away from these markets it would expose the company to a question that I posed last December: Are cab-hailing apps a global business? I don’t think they are. They don’t have the inherent global reach of hotel chains, airlines or even home rental companies such as Airbnb, all of which cater to people who travel across borders and who have brand loyalty. Within a city, my loyalty to car services comes down to speed and convenience. I tend to use Uber in San Francisco where it’s usually the fastest option. But in New York City yellow cabs so often roll by while I wait for Uber that I’ve stopped using the app altogether. Most of the time Uber is just slower in New York, even if the cars are a little cleaner or the drivers offer free bottles of water. Sam Lessin, a former Facebook executive and a columnist at the Information, had a similar experience when he was in Sao Paulo. He writes: The availability on [ride sharing app] 99Taxis is much better than Uber. Not even close honestly. Several times, I saw people open Uber and switch right to 99Taxis because there was a slight 1.5X surge pricing or a car would take too long…my experience in Sao Paulo reinforced my view that the company isn’t necessarily a natural global monopoly. Although it runs counter to the dominant Uber narrative, the company has been left far behind in China and has robust competition in local markets elsewhere around the world. But Uber and its investors can’t afford to acknowledge that reality, because then the dominoes start falling.

Cosa vuol rispondere a chi accusa Uber di una condotta commerciale troppo aggressiva? Penso che, numeri alla mano, l’unica via 11


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aggressiva che perseguiamo è quella di collocare il maggior numero possibile di auto su strada, perché più auto ci sono in circolo e più cala il tempo d’attesa per ottenere un trasporto tramite la piattaforma Uber. Forse, potrei tirare un po’ le orecchie ai team di New York e Shanghai perché talvolta sono un po’ aggressivi in merito al reclutamento dei piloti, ma posso assicurare che ad Uber abbiamo forti principi e che agiamo solo ed assolutamente per il bene e per l’equità di mercato. Dopo le accuse di molestie sessuali e aggressioni da parte dei conducenti Uber, come si può garantire ai clienti di Uber la sicurezza del servizio? La sicurezza è al primo posto per Uber: da un lato ci assicuriamo che la piattaforma sia sempre in ordine e dall’altro cerchiamo di conseguire dai nostri autisti il miglior standard di sicurezza ottenibile. Detto questo, Uber è sotto i riflettori. Quando le cose accadono, se vi sono successivi reclami di qualsiasi tipo, in qualsiasi città, in qualsivoglia tipologia di auto, prendiamo molto su serio queste affermazioni, ed agiamo di conseguenza. Come si fa a gestire lo stress? Il modo in cui cerco di semplificare il mio lavoro è che ho sempre due liste: da un lato ho un elenco di tutti i problemi pazzi ed interessanti che cerco di risolvere ogni giorno o quando devono essere risolti, e dall’altro ho una lista con le pazze idee che gradirei inventare o rendere reali. Personalmente ho una sorta di ordine di priorità e cerco di lavorare sempre con un profilo basso, inoltre cerco di semplificare tutto quello che faccio quando mi trovo a gestire questa azienda così grande. Cerco contestualmente di rendere ogni giorno, un mio giorno. 12

TRAVIS KALANICK Cofondatore della piattaforma RedSwoosh. Nel 2014, è intrato nella lista Forbes dei 100 uomini più ricchi d’America, con un patrimonio stimato di circa $5,3 miliardi.


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In USA, The Koch Empire Spreads to College Sports

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Written by Kavitha A. Davidson

ich, powerful, secretive and controversial: the National Collegiate Athletic Association and the Koch brothers were made for each other. Koch Industries has launched a multi-year national sponsorship campaign in college sports. The company has partnered with Learfield Sports, a firm that provides sports radio programming and marketing assistance to college programs, “to help tell its story” to fans of 15 universities - many in the Big 10 and Big Twelve power conferences and the Missouri Valley Conference. It’s not the company’s first foray into college sports - the Wichita State Shockers play in Koch Arena - but it’s a significant deal. “College sports are a great fit for us and we’re excited to lend our support to these schools,” said Steve Lombardo, chief communications and marketing officer for Koch. “Like student athletes, our 60,000 U.S. employees understand that hard work and team spirit are fundamental to winning and success.” Like student athletes, many of Koch’s employees also understand what it’s like to work for an organization that is against unions and and the protections they afford. The NCAA has fought efforts by Northwestern football players to unionize, touting the threat to “amateurism” and arguing that a college scholarship is compensation enough for athletes who generate nearly $1 billion in revenue. Meanwhile, political groups funded by David and Charles Koch are largely driving the push to spread unionbusting right-to-work legislation, citing what they call “forced” unionization. The privately held company says IT generates $115 billion in annual revenue.

IL MONDO CHE VA ALL’UNIVERSITÀ

In America, da decenni, si investe nell’istruzione universitaria, divenuta ormai un grande sistema economico sovvenzionato. Un esempio emulato anche da altri Paesi che hanno deciso di muoversi nella stessa direzione. Ma i risultati sono gli stessi? TRADUZIONE DI LUISA ERCOLANO

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opo che Dio ci ha condotti al sicuro nel New England, e abbiamo costruito le nostre case, provveduto al necessario per vivere, innalzato luoghi per il culto di Dio e stabilito un Governo Civile, una delle cose che desideravamo e cercavamo era il progredire dell’apprendimento e il perpetuarlo ai posteri”. Così diceva la prima brochure per la raccolta fondi, inviata dall’Università di Harvard all’Inghilterra nel 1643

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per battere cassa. L’entusiasmo precoce e duraturo dell’America per l’istruzione universitaria ha dato vita al sistema più grande e meglio sovvenzionato al mondo. Non sorprende, quindi, che altri paesi ne emulino il modello e mandino sempre di più dei loro studenti che lasciano la scuola verso un’educazione universitaria. Ma, come sostiene il nostro servizio speciale, esattamente allo stesso modo in cui si sta espandendo il sistema americano, crescono le

preoccupazioni sul se vale davvero le ingenti somme che vengono spese per esso. Il modo americano - La moderna università di ricerca, un connubio tra l’Oxbridge college e l’istituto tedesco di ricerca, fu inventata in America, ed è diventata lo standard per il mondo. L’istruzione universitaria di massa iniziò in America nel 19esimo secolo, si diffuse in Europa e nell’Asia orientale nel ventesimo e ora è presente all’incirca ovunque, tranne che nell’Africa sub -


DIFFICOLTÀ NEGLI US I laureati americani hanno risultati scarsi nelle classifiche per le loro abilità matematiche e letterarie, e stanno scivolando sempre più in basso.

sahariana. La percentuale degli iscritti all’università è salita dal 14% al 32% nei due decenni prima del 2012; in quel periodo, il numero di paesi con una percentuale superiore al 50% è salito da cinque a 54. Il numero di iscritti all’università sta crescendo rapidamente, anche più della domanda per il bene di consumo per eccellenza, l’auto. La fame di lauree è comprensibile: di questi tempi, sono un requisito per un lavoro decente e un biglietto di ingresso nella classe media. Servizio speciale sulle università Ci sono, in generale, due modi per soddisfare questa grande richiesta. Uno è l’approccio europeo continentale di sovvenzionamento e provvigione statale, in cui molte istituzioni hanno pari risorse e status. Il secondo è il modello americano, più basato

sul mercato, che mette insieme sovvenzionamenti sia privati che pubblici e sovvenzioni, con istituzioni brillanti e ben sovvenzionate in cima e quelle più povere in fondo. Il mondo si muove nella stessa direzione dell’America. Molte università in molti paesi chiedono agli studenti di pagare delle tasse universitarie. E mentre i politici si rendono conto che “l’economia del sapere” richiede ricerca di prima qualità, le risorse pubbliche vengono concentrate su poche istituzioni privilegiate e la competizione per la creazione di università di punta si intensifica. In un certo modo, è una cosa eccellente. Le università migliori sono responsabili di molte delle scoperte che hanno reso il mondo un posto più sicuro, ricco e interessante. Ma i costi si alzano. I

paesi dell’OCSE spendono l’1.6% del PIL nell’istruzione universitaria, comparato con l’1.3% del 2000. Se il modello americano continua a diffondersi, la percentuale si alzerà. L’America spende il 2.7% del PIL nell’istruzione universitaria. Se l’America stesse spendendo bene i suoi soldi per l’educazione superiore, anderebbe bene. Per quanto riguarda la ricerca, è probabile che sia così. Nel 2014, diciannove delle venti università al mondo che producevano le ricerche più citate erano americane. Ma dal punto di vista dell’istruzione, il quadro è meno chiaro. I laureati americani hanno risultati scarsi nelle classifiche per le loro abilità matematiche e letterarie, e stanno scivolando sempre più in basso. In un recente studio sui risultati accademici, il 45% degli studenti americani non ha ottenuto risultati nei primi due anni di università. Nel frattempo, le tasse universitarie sono quasi raddoppiate in venti anni. Il debito studentesco, vicino agli 1.2 bilioni di dollari, ha superato quello delle carte di credito e i prestiti per auto. Niente di tutto questo vuol dire che andare all’università sia un cattivo investimento per gli studenti. Una laurea triennale in America frutta ancora, in media, un ritorno del 15%. Ma è meno chiaro se il crescente investimento nell’educazione universitaria ha senso per la società. Se i laureati guadagnano più dei non laureati perché i loro studi li hanno resi più produttivi, allora l’educazione universitaria incrementerà la crescita economica e la società dovrebbe volerne di più. Tuttavia i risultati dei poveri studenti suggeriscono altro. Così anche le testimonianze dei datori di lavoro. Uno studio recente sul reclutamento da parte di ditte di servizi professionali ha scoperto 15


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che venivano assunti laureati provenienti dalle università più prestigiose non per quello che i candidati potevano aver imparato, ma per le dure modalità di selezione di quelle istituzioni. In breve, gli studenti potrebbero pagare grosse somme solo per passare attraverso un elaborato meccanismo di smistamento. Perché, se è vero, le università americane non valgono i soldi che vengono spesi? La ragione principale è che il mercato per l’istruzione universitaria, come quello per la sanità, non funziona bene. Il governo premia le università per le ricerche, per cui è su quello che i professori si concentrano. Gli studenti cercano una laurea in un’istituzione che farà colpo sui datori di lavoro; i datori di lavoro sono interessati soprattutto sulla selettività dell’istituzione frequentata dal candidato. Dato che il valore di una laurea in un’istituzione selettiva dipende dalla sua rarità, le buone università hanno pochi incentivi a produrre più laureati. E in assenza di una chiara misura dei risultati, il prezzo diventa una procura per la qualità. Facendo pagare di più, le buone università guadagnano sia redditi che prestigio. Quanto vale? - Più informazione farebbe funzionare meglio il mercato dell’istruzione universitaria. Test comuni, che gli studenti sosterrebbero insieme agli esami finali, potrebbero fornire una misura comparabile della performance educativa delle università. Gli studenti avrebbero un’idea migliore di cosa viene insegnato bene e dove, e i datori di lavoro di quanto i candidati hanno imparato. Le risorse andrebbero verso le università che valgono quanto speso e non verso quelle che non lo valgono. Le istituzioni avrebbero un incentivo per migliorare l’insegnamento e usare 16

Riacceso l’accelleratore del CERN Si è riacceso dopo una pausa di due anni l’Lhc del Cern di Ginevra, il più grande acceleratore di particelle del mondo che ha permesso di scoprire il bosone di Higgs. “Sono contentissimo come lo sono tutti qui al centro di controllo del Cern”, ha commentato il direttore generale Rolf Heuer. “Ora si apre la porta su un universo sconosciuto e imprevedibile”, ha spiegato Fernando Ferroni, presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn). La pausa di due anni dell’Lhc (Large Hadron Collider) è stata necessaria per curare la manutenzione della macchina e per metterla in grado di battere il suo primo record, ossia raggiungere l’energia di 13.000 miliardi di elettronvolt. ”Con la ripartenza di Lhc, l’avventura ricomincia, ci stiamo lasciando alle spalle il bosone di Higgs e ora si apre per noi una porta su un mondo che non conosciamo”, commenta Ferroni dell’Infn, l’ente che coordina la partecipazione dell’Italia al Cern di Ginevra e al progetto del Large Hadron Collider. “Confidiamo - aggiunge - che questa nuova esplorazione possa aiutarci a gettare un po’ di luce sulle componenti oscure dell’universo, ma speriamo anche in sorprese inaspettate. Le premesse sono delle migliori, non resta quindi che augurare buon lavoro a Lhc”. Fonte ANSA

PERFOMARCE Più informazione farebbe funzionare meglio il mercato dell’università. Test comuni, potrebbero fornire una misura comparabile della performance educativa degli atenei.


la tecnologia per tagliare i costi. I corsi online, che finora hanno fallito nel realizzare la promessa di rivoluzionare l’istruzione universitaria, inizierebbero ad avere un impatto maggiore. Il governo avrebbe un’idea migliore sul se la società dovrebbe investire di più o di meno sull’istruzione universitaria. Gli scettici sostengono che l’educazione universitaria è troppo complessa per essere misurata in questo modo. Certamente, sottoporre dei ventiduenni a dei test è più difficile che farlo con dei dodicenni. Tuttavia molte materie contengono un nucleo di materiale che ogni laureato in quella materia deve conoscere. Più in generale, le università dovrebbero riuscire a dimostrare che hanno insegnato ai loro studenti a pensare criticamente. Alcuni governi e istituzioni stanno cercando di gettare luce sui risultati dell’istruzione. I testi degli atenei - Alcune università statali americane già sottopongono i laureati a dei test. I test si stanno diffondendo in America Latina. Cosa più importante, l’OCSE, il cui PISA (Programme for International Student Assestment, Programma per la valutazione internazionale dell’allievo – NdT) riguardo l’educazione secondaria ha dato uno scossone ai governi, sta facendo un tentativo. Vuole testare le conoscenze relative a una materia e le abilità di ragionamento, a cominciare dall’economia e dall’ingegneria, e dare voti alle istituzioni e ai paesi. I governi asiatici sono entusiasti, in parte perché credono che una misura della qualità delle loro università li aiuterà nel mercato degli studenti internazionali; i paesi ricchi, che hanno più da perdere che da guadagnare, non lo sono. Senza i loro fondi e la loro partecipazione, lo sforzo resterà a terra. I governi devono supportare questi sforzi. Il sistema americano di università ben sovvenzionate e altamente differenziate, basato sul mercato, può essere di grande beneficio alla società se gli studenti imparano le cose giuste. Altrimenti, tantissimi soldi verranno sprecati.

Homo homini lupus. Fino a che punto? Al-Shabaab stermina un campus in Kenya.

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Il due aprile, sangue ovunque e corpi ammassati, volti strazianti e il campus di Garissa devastato, messo a soqquadro da quattro uomini del gruppo jihaidista Al-Shabaab. Immagini e titoli spesso difficili da accettare: “Per farci riflettere”. Possibile che l’uomo abbia bisogno dell’orrore per riflettere? Al-Shabaab esiste dal 2012! La bandiera dello Stato riproduce, con l’esaltazione tipica dell’ossimoro religioso, una frase in nero che riecheggia come un grido più che un credo: Lā ilāh illā Allāh, Non c’ è divinità se non Allah. In basso, un cerchio nero e una scritta bianca sottolinea l’attestazione di fede: Muḥammad rasūl Allāh, Maometto è l’inviato di Allah. In lingua somala Al-Shabaab ha il significato di giovani o meglio gioventù. Una cellula somala di Al-Qa Ida formatasi alla sconfitta dell’Unione delle Corti Islamiche. Un’organizzazione terroristica scagliatasi brutalmente su centoquarantotto persone. Rimanendo sconvolti dalle immagini che imperversano, sembra di poter udire il grido degli estremisti che rivendicano l’attacco in nome di Allah e appare vicino il silenzio aberrante dopo il massacro. Un silenzio di morte e terrore, di incredulità e senso di smarrimento. Si avverte una sensazione d’impotenza e di rabbia al contempo alla notizia che alcuni ragazzi siano stati decapitati dai terroristi somali. L’Homo homini lupus est supera qualsiasi forma di umana concezione. La prima risposta keniota è stata il bombardamento di due campi di Al- Shabaab a Gondodowe e Ismail, località della regione somala di Gedo, confinante con il Kenya. Intanto ci si chiede come mai siano passate sette ore dall’inizio dell’assalto all’arrivo della polizia, ci si interroga sulla sicurezza all’interno del campus. Il 7 aprile nella città di Garissa e a Nairobi si è scesi in piazza per dimostrare solidarietà e per garantire collaborazione alle autorità al fine di scovare gli estremisti inseriti nelle stesse comunità. Il numero degli arrestati è salito a sei e riporta i nomi di Mohammed Adan Surow, Osman Abdi Dakane, Mohammed Abdi Abikar, Hassan Aden Hassan, Sahal Diriye Hussein e Rashid Charles Mberekesho. Si rincorrono intanto le storie di chi è sopravvissuto. Di chi si è finto morto coprendosi di sangue e di chi è rimasto nascosto in un armadio per quarantotto ore tra vestiti e panico, buio protettivo e l’orrore negli occhi, bevendo una lozione per il corpo per sfamarsi. Il presidente Uhruru Kenyatta la parlato di attacco all’umanità e ha garantito una risposta dura agli Shabaab. Un’ulteriore risposta di violenza in un vortice di terrorismo che ormai segna la Storia del ventunesimo secolo. I centoquarantotto ragazzi nel campus hanno un nome ed un volto che Twitter ricorda uno per uno. Ogni vittima del massacro ha un nome ed un volto da mostrare. Uno strano gioco di specchi in cui si è pronti alla solidarietà e al ricordo, all’immortalare e al non lasciare andar via un’espressione mentre dall’altro lato dello specchio specularmente si ritrova l’indifferenza. L’indifferenza nel prevenire, nell’affrontare ciò che esiste, ciò che è finanziato, coperto e mascherato. Una società in cui la spettacolarizzazione del dolore ricompensa di più, soddisfa di più dell’ammettere che le cellule del dolore si potrebbero scindere se solo lo si volesse. Giorgia Mangiapia

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VANapleS Tra luci ingabbiate, soffitto grezzo industriale e catene che pendono in puro stile underground, In Via Armando Diaz, apre lo store Vans. Una contaminazione di arte, musica, colori, originalitĂ e passione ... e il brand dello skatedording plana a Napoli, con una fusione emozionale perfetta. articolo di Giorgia Mangiapia foto di Martina Esposito

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LIVING OFF THE WALL Vans Store è sinonimo di dinamismo e divertimento. Lo skatebording ormai non è solo uno sport ma uno stile con cui vestirsi e un modo di vivere. (Ph. Martina Esposito)

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LA STORIA fondata nel 1966 da Paul Van Doren, è diventata un emblema dello streetwear.

amminando su via Toledo, ad angolo con Via Armando Diaz al numero 32, una V prolungata prende quota tra le lettere del suo nome: Vans! Come una tavola da skate per planare su Napoli con il dinamismo creativo del mondo dello skateboarding. Uno store che è pura contaminazione di arte, musica, cultura, fantasia e colori. Nella città senza spigoli, morbida e curva, su cui uno skater inseguirebbe e cavalcherebbe, con perfetto equilibrio, gli slanci veloci della storia dispersa tra i vichi caotici e calorosi di una città in cui il modo di pensare è differente perché, da sempre, è libera espressione della creatività. Vans, come Napoli, tra forme rudimentali e tubi in calcestruzzo, ricorda le sue origini, i primi anni di skateboard, l’irruenza delle idee e l’essenzialità della sua identità. Uno store dalle superfici pulite ma, allo stesso tempo, in contrasto con il soffitto grezzo e le luci ingabbiate. Catene che pendono in stile underground e il calore delle sfumature del legno nel

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perfetto contrasto della creatività. Ovunque. Un’espansione senza limiti di velocità, spinta innovativa e storia personale di un brand off the wall. Perché l’OTW è uno stato mentale. Thinking differently, embracing creative self-expression per andare oltre ogni convenzione. Vans non è solo abbigliamento, non è solo shoes e skate. Vans è un modo di essere. È vivere e

anticipare un mondo in continua evoluzione. È cambiare prospettiva e indossare un colore, un disegno, una linea che sia espressione di opportunità, comunicazione e contatto. Nella sua storia, Vans è caduta e si è rialzata, con la filosofia mai immutata del free wall e del divertirsi emergendo. Spaccando qualsiasi muro, superando qualsiasi confine. In pieno stile partenopeo. Cammini tra i palazzi antichi, giri per Via Diaz e una bancarella di un’anziana donna vestita di nero e dal viso verace della napoletana doc, ben piazzata sul suo sgabello come una matrona su un trono, t’invita a comprare pantofole prive di brand. Proprio lì, trovi la vetrina Vans. Un controsenso? Assolutamente no. L’apoteosi di una forma mentis vincente: la capacità di inventarsi e d’inventare un mestiere è la forza generatrice e propulsiva di Napoli e del brand Vans. “Choosing your own line on your board and in your life” sarebbe tradotto dalla matrona nostrana: “Dàtte da fa. Ca ‘a jurnata è ‘nu muòrze”. Inventati, mettiti in gioco e credi di poter emergere. Buttati, lanciati e solca l’onda sullo skate della fecondità,

NEL RICORDO DELLE RADICI la passione per i colori e per il dinamismo di un capo Vans.


INTRAPPOLARE LA LUCE per concentrarla su un punto focale: un brand che nasce come realtà underground e si diffonde con la velocità di uno skaker per le strade del mondo. Indossare Vans è essere fuori dalle convenzioni. Living Off the Wall come scelta e stile di vita, in ogni minuto. dell’estro e della genialità. Mentre la pantofolaia ti osserva, ammiccando un sorriso, entri nello store e sei catapultato nel mondo dell’entusiasmo capovolto, visto sottosopra, attraverso foto di skaters tra voli e ombre sul pavimento. Un’enorme scarpa Vans penzolante al centro dello store è il must e t-shirt e camicie, a pallini, fiorate, colorate emanano energia, entusiasmo e vitalità. Vans in uno store che racchiude la cultura dell’off the wall nella città delle contraddizioni, dell’azzurro

delle coste e del bianco delle onde, del rosso della passione, dell’istinto, dell’arte esplosiva e teatrale, dell’incapacità di lasciarsi sottomettere. Ribelle come Vans, emblema di uno spettacoloso disordine che nessuno è mai riuscito a tenere per sé. Lo spirito terrigno di una città poliedrica distesa all’ombra del suo amante, il Vesuvio, non si lascia imprigionare in nessuna gabbia. Nasce libera, audace e vive della sua stessa irrequietezza. Dal basso delle sue miserie riecheggia di storia.

Ne fa cultura e arte attraverso sovrapposizioni di cemento e vibrazioni pulsanti d’energia che spaccano, erompono. Napoli come una seconda pelle per Vans e Vans come un abito aderente alla perfezione al corpo della città. Due spiriti indomabili e impetuosi s’incontrano. Si uniscono in uno spazio incubatore di creatività. All’interno dello store, pannelli in color seppia raccontano il lavoro dell’azienda Vans since 1966. La tradizione si fonde con l’innovazione. La memoria col mito. Il Masaniello di oggi avrebbe la mentalità Vans. Perché se si volesse incarnare lo spirito napoletano in un personaggio, la figura che a pennellate larghe si verrebbe a delineare su una tela senza cornice sarebbe quella di Masaniello. Tra rossi purpurei e bianchi pulcinelleschi, le setole del pennello dipingerebbero con la frenesia dell’estro artistico, rapide e istintive, i tratti di un rivoluzionario la cui vera storia si confonde tra memoria e mito. Come Vans. Rivoluzione e libertà, pazzia ed eccitazione, entusiasmo delirante e sregolatezza. Il Masaniello di oggi squarcerebbe la tela e prenderebbe posto su un murales in una delle strade napoletane che l’hanno visto correre, incitare, lottare. Andrebbe a collocarsi tra le foto di Vans in zone di periferia, con fili spinati da tagliare e mura da superare. Il Masaniello di oggi sarebbe off the wall, da pescivendolo a capo di una rivoluzione per pura pazzia senza timore d’osare: “Amice miei, popolo mio, gente: vuie ve credite ca io sò pazzo e forze avite raggione vuie: io sò pazze overamente. Io v’aggio fatto libbere”. La follia di chi ride, la follia di chi vive nella libertà del proprio modo di essere. La follia aperta, empatica, coinvolgente, comunicativa e dissacrante di un brand travolgente. Sì, oggi Masaniello vestirebbe Vans e sarebbe il “ generalissimo d’a pupulazione” saltando su una rampa e urlando come i Suicide Machines: “ Vans in my head. Vans in my feet”. 23


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LO SPIRITO LIBERO Guardando luci in gabbia, in un ambiente industriale, tra legno puro e pareti nere. Lo spirito libero e indipendente dei giovani, voglia di arrivare all’obiettivo per poi superarlo e spingersi oltre. (Ph. Martina Esposito) 25


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IL SALTO DELLO SKATER Vans come brand giovanile, pratico e poliedrico nel perfetto stile americano del sentirsi alternativo. Essere VANS è essere sulla cresta dell’onda. Essere un pietra su cui lo skater spicca il salto. (Ph. Martina Esposito) 26


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Cultura & Spettacolo Liliana Squillacciotti

La serialità e il sacro Graal dello streaming La serialità televisiva genera mostri. Quasi quanto il sonno della ragione. Gesti, modi di dire diventano uso di un linguaggio quotidiano e una nuova forma mentis prende corpo. La serialità americana influenza e coinvolge, ben lontana da quella italiana che risulta ancora stantia e ancorata ad un mondo antico.

Big Bang’s success and Geek Genaration Big Bang’s success can perhaps be attributed to a rising tide in geek culture. Dave Golder certainly thinks so. “Like all good sitcoms, it reflects current trends,” he says. “I think one reason the show is so popular is that we’re all geeks now. The more cynical might say it exploits the recent boom in mainstream geekdom. Superhero movies, games – these are not niche activities any more. Of the three highest-grossing movies of all time, one is a sci-fi film, Avatar, and Marvel’s Avengers Assemble. Doctor Who is one of the most talked-about shows on TV; this stuff is mainstream now. So, although on the surface the show may purport to be about a group of nerds with insular interests, in fact the jokes and situations mean it’s Friends for the 21st-century iPhone crowd.” Dan Martin

THE BIG BANG THEORY con uno share di quasi 20 milioni di telespettatori è stata la serie TV (o meglio sit-com) più seguita negli USA.

È

una spirale discendente. Una sorta di dipendenza tendente alla cronicizzazione. Una abitudine da cui allontanarsi risulta, con il tempo, impensabile. Un processo di generazione di immagini, citazioni, neologismi, gesti; pronti a sgomitare e farsi spazio all’interno del quotidiano. Una nuova forma mentis che prende vita e forma nell’ambito dell’intrattenimento audio-visivo, e si impone, nella 28

stessa maniera in cui si approccia alla propria fruibilità; con leggerezza. La velocità dell’azione, dell’evolversi degli eventi, seppure seriale è fluida. Un prodotto che per propria natura si mostra come il risultato di una concatenazione di eventi, raccontati in un ampio arco di tempo, risulta essere quanto mai organico. Sotto ogni aspetto. È improbabile che qualcuno abbia l’idea di creare un centro di disintossicazione per dipendenti

da serie TV, ma qualora quel qualcuno si decidesse a palesarsi, avrebbe trovato un’infinita fonte di guadagno. Un filone appena scoperto in un’immensa miniera aurea. Il Sacro Graal del Rehab. La serialità televisiva, genera mostri. Quasi quanto il sonno della ragione. E se i mostri, per alcuni (che ingenui!), sono da relegarsi al piano dell’esagerazione, genera, quanto meno nuovi modi, tempi e spazi, in cui poter gioire, piangere,


commuoversi, affezionarsi, arrabbiarsi. La serialità televisiva, sì. Quella americana. Perché nel Bel Paese c’è chi si dispera per la chiusura di “Centovetrine”, e chi gioisce per l’importazione dell’ennesima soap latino americana. Certo, i format sono diversi, lontani anni luce gli uni dagli altri. Ma la serialità è serialità, allora perché in Italia, non funziona? O meglio, per quale motivo le reti nazionali in chiaro non riescono a portare avanti un discorso altamente qualitativo, anche solo limitandosi all’ambito dell’importazione del prodotto? Quel concetto di serialità, di ripetizione settimanale precisa, con scadenze e pause è lontano dagli italici schermi televisivi anche se “tagliato/incollato” da altri contesti, da altri continenti. Un mondo diverso - La serialità non riesce a decollare perché denaturata, privata del proprio elemento madre; l’appuntamento mai negato con lo spettatore, mai in ritardo. Un appuntamento mai tradito verso chi ripone fiducia nelle storie raccontate. Un’importazione che diventa (troppo) spesso fallimentare, fatta di migrazioni tanto di sedi quanto di orari, un’importazione che non riesce a fare in modo che il pubblico crei quel rapporto viscerale con chi anima lo schermo, un’importazione che non solo non riesce a creare l’attesa, ma la nega. La risposta, come sempre, è la stessa. Se qualcosa non funziona, è perché non la si conosce. Ma, esattamente, chi non la conosce? Esiste un mondo, una vera e propria sottocultura, che di serialità televisiva made in U.S.A., vive. Un mondo totalmente altro rispetto al palinsesto televisivo nazionale. Un bacino d’utenza per cui non esistono Sanremo, l’Isola dei famosi o qualsiasi prodotto audio-visivo preveda la presenza

di conduttori e conduttrici dediti all’esasperazione della mimica facciale. Internet, ne è il fulcro produttivo. L’origine, la fonte da cui riuscire ad attingere tutto ciò che arriva da oltreoceano. Internet, riduce le distanze, e questo è chiaro ai più e lo fa anche e soprattutto nell’ambito dell’intrattenimento. Tutto è alla portata di tutti, in maniera più o meno legale, in tempi più o meno ridotti, con una qualità più o meno alta. Internet riesce a diventare un ponte, un modo per riuscire ad entrare in contatto, non solo con un genere di intrattenimento che è a sé, ma con una cultura, con le abitudini di persone che vivono a chilometri di distanza. Attraverso internet quell’ampio bacino di utenza riesce a creare un palinsesto cucito sulla propria

voglia di ridere, emozionarsi, arrabbiarsi o meravigliarsi. Non è mai realmente esistita una così ampia libertà di scelta. In nome dello streaming a tutti i costi quindi, si è venuto a creare, nel tempo, un mondo totalmente parallelo, abitato da persone che non guardano la televisione da anni, ma che riescono comunque a procrastinare in nome di uno schermo. Che poi sia quello del PC, è un dettaglio. E la domanda, quindi, non solo resta ma si acuisce. Perché in Italia, non funziona? Per quale motivo un genere capace di creare su se stesso un mondo parallelo, non riesce in alcun modo ad attecchire, ad approdare nell’immaginario collettivo? Per quale motivo resta relegato ad un contesto di nicchia, utilizzato per

HOUSE OF CARDS Per la sua prima stagione, House of Cards ha ricevuto 9 Primetime Emmy Award nomination, diventando la prima serie TV-online a ricevere tante nomination. 29


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andare a tappare i buchi di palinsesti non più interessanti? Se un sempre più ingente numero di persone si ritrova a dover necessariamente familiarizzare con una lingua non propria, pur di seguire con una certa costanza e continuità storie capaci di proseguire per dieci anni, reali, come può apparire naturale il fatto che quelle stesse storie non riescano a trovare un posto se non durante l’infinita riprogrammazione di repliche estive? La tradizione - L’unica risposta plausibile, sembra essere quella secondo cui l’Italia è un paese per vecchi. Per prodotti vecchi. Stantii. Visti, rivisti, stravisti. Prodotti e programmi per mettere in piedi i quali gli autori sembrano essere costretti a raschiare il fondo del barile. Sono costretti, lo fanno e si vede. L’Italia è quel paese in cui si preferisce la tradizione anche nella programmazione televisiva. Anche nell’intrattenimento, anche nello staccare la spina. Quel bacino di utenti votati invece all’anarchia, lontani da quei precetti e quegli schemi imposti tanto da Mamma Rai quanto dal Biscione, tendono a proseguire il proprio soggiorno all’interno di quello stesso mondo parallelo che hanno con tanta fatica creato. Un mondo che non è necessariamente fatto di prodotti ascrivibili ad un contesto per forza di cose autorale, anzi. Ma un mondo che decisamente esula dal concetto della tanto amata minestrina risaldata. Chi vuole, chi riesce, chi può, continua a coltivare l’orticello delle proprie scelte, sentendosene padrone. Chi vuole, riesce e può, continua a tenere lo schermo spento. Almeno quello della televisione. Chi vuole, riesce e può, decide di prestare la propria attenzione a prodotti sempre più vicini a quelli di una piccola Hollywood. E quel mondo, in Italia, continua a non funzionare. 30

House of Cards torna per le primarie USA. Underwood sfiderà nel 2016 le elezioni.

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rank Underwood torna sui teleschermi Usa giusto in tempo per le primarie 2016: mentre i candidati alla Casa Bianca in carne e ossa si contenderanno le nomination presidenziali saltando freneticamente di Stato in Stato, House of Cards si ripresenterà ai telespettatori per la sua quarta stagione. L’annuncio è arrivato su Twitter. Torneranno anche Kevin Spacey e Robin Wright, a dispetto di uno dei tanti colpi di scena con cui si è chiusa la stagione numero tre. “Lascerò un’eredità. #Underwood2016”, si legge sull’account ufficiale della serie vincitrice di 22 Emmy e di Golden Globe per i due protagonisti. Una foto, sotto il messaggio sul sito di microblogging mostra, su sfondo nero, una bandiera americana capovolta e un altro messaggio: “La quarta stagione arriva nel 2016”. La coincidenza con la corsa alla Casa Bianca ovviamente giocherà ad aumentare aspettative ed entertainment, con almeno un paio di personaggi che evocano Hillary Clinton, la First Lady Claire che cambia continuamente colore di capelli mentre naviga i corridoi della politica estera così come il segretario di Stato Catherine Durant.

CENTOVETRINE è stata una soap opera italiana prodotta dal 2000 al 2015. È la seconda soap opera italiana più longeva dopo Un posto al sole, conta 15 stagioni e 3.245 puntate trasmesse.


Michelle Rodriguez e una valigia piena di ricordi La protagonista della saga Fast and Furious si racconta in una intervista. Dai ricordi di una adolescenza complicata nel New Jersey fino alla realizzazione di un film senza l’amico Paul Walker, il tutto sempre supportato dall’orgoglio di una donna che ha vinto tutte le proprie battaglie personali e professionali.

DI ENNIO GRILLETTO

Written by Stephen Whitty FOR NJ.COM

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film brandizzati come “Fast and Furious” sono diventati un enorme franchise cinematografico, e con una grande base di fan devoti. Dove possiamo rintracciare la causa di questa fede verso F & F? Perché in effetti ci sono tanti film d’azione al cinema, e sicuramente non mancano gli inseguimenti in automobile sul grande schermo. Beh in effetti siamo antieroi che diventano eroi. Lo sai? È una specie di circuito alla Robin Hood per intenderci. Io credo che il nostro

successo abbia molto a che fare con il cast multiculturale. I fan americani – così come gli spettatori in Spagna, in Africa o in Asia – possono acquistare un biglietto e scoprire che nel film c’è qualcuno che assomiglia a loro, alle loro tradizioni, e quel qualcuno non è necessariamente uno stereotipo. Si tratta di un individuo, una specie di colletto blu (negli Stati Uniti d’America colletto blu sta a significare qualcuno che svolge un lavoro manuale, in contrapposizione ai colletti bianchi) che però si mette alla guida di un’automobile

veloce ed assume una posizione eroica. È piuttosto raro trovare nella cinematografia contemporanea qualcuno con cui identificarsi, e questa è la forza di Fast and Furious, una saga che riesce ad affascinare intere generazioni. Mi è capitato più di una volta di trovarmi bambini di sei anni per strada che correvano verso di me chiamandomi Letty, il che è veramente figo! Si ha la sensazione che il pubblico sia molto più interessato ad investire tempo e denaro nel 31


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MICHELLE RODRIGUEZ Michelle è nata a San Antonio, nel Texas, il 12 luglio del 1978, figlia di Rafael Rodriguez, un immigrato portoricano, e di Carmen Milady Pared Espinal, un’immigrata dominicana. franchise e nel merchandising Fast and Furious, rispetto ad altre saghe. Perché? Le persone si sentono come se fossero parte del nostro cast, e Vin (Diesel) è magnifico nel coinvolgere i nostri fan su Facebook e sui social media; anche loro, soprattutto loro, diventano parte della nostra famiglia. Personalmente penso che la nostra capacità di lasciare aperte le porte del set al mondo esterno, ed essere tutti noi degli open-mind, capaci di integrare le richieste dei fan all’interno della saga … faccia una maledetta differenza! Il pubblico mi rivoleva sull’interno della serie F & F? Mi hanno ripreso! Il pubblico chiedeva perché non ci fosse Jason Statham? Abbiamo assunto Jasom! Avere una fase progettuale aperta da l’opportunità ai nostri fan di sentirsi parte integrante della nostra compagine. Letty è atletica e schietta. Le piace guidare un po’ troppo veloce. Ovviamente Michelle hai delle cose in comune con lei, ma cosa ti piace veramente di Letty? Letty è un po’ come un animale selvaggio, ma allo stesso tempo è domata dal grande amore della sua vita, Dom. Al momento credo che Letty abbia trovato un posto sicuro e familiare con Dominic e la sua banda. Sono una famiglia. In effetti loro vivono uno stile di vita al di fuori dagli schemi, ma ogni giorno si guadagnano la propria libertà. Letty è come un sacco di ragazze con cui sono cresciuta, che vivono in città, in quei ghetti del New Jersey, dove tutto è molto tribale e territoriale, ma dove aleggia un grande sentimento 32

di fedeltà. In quei luoghi si è così grandi ed umani, che crescendo trovi sempre qualcuno pronto a prendersi una pallottola al posto tuo solo per proteggerti. In quei luoghi c’è quasi un amore, una venerazione verso la morte … una cosa non puoi trovare nel resto del mondo. Cosa significa crescere nel Jersey? Quanto conta per te oggi? Essere del Jersey, mi ha aiutato tanto nella vita. Il Jersey è un immenso melting point, dove le culture si incontrano – siamo cresciuti con indiani, arabi, italiani e portoricani. Non avrei gli strumenti che ho per

fare quello che faccio, se non avessi avuto questa sorta di crescita alle spalle. E ancora oggi torno spesso nel Jersey per rincontrare la mia famiglia. Lo sai in effetti cosa è maledettamente immenso del Jersey? Potete trovare persone del Jersey in tutto il mondo! Se vai in Romania, sicuramente prima o poi, arriva qualcuno e ti dice “Hey … sei anche tu del Jersey?”. In effetti, vivevi ancora lì quando sei stata la protagonista nel 2000 di Girlfigh. Quando hai vinto il Gotham Awards come attrice rivelazione e sei stata premiata al


Grand Jury Prize at Sundance. Oh che ricordi, è stato un periodo così pazzamente folle. Voglio dire, che non ho mai fatto un lavoro così duro in quasi due anni. All’epoca avevo una vita così difficile da farmi male e morivo dalla voglia di affermarmi; o forse meglio volevo semplicemente fare qualche soldo per dimostrare a mio fratello che stavo viaggiando nella direzione giusta. Sai in quel momento cercavo il mio posto nel mondo. Poi nel mentre delle ricerche sono atterrata sul pianeta terra … la mia prima vera audizione e da lì tutto è venuto fuori. Ho fatto un

altro indie (film indipendente, ndT) e poi ho chiamato il mio agente e gli ho detto “State facendo un fottuto film su Resident Evil, il mio cazzo di videogioco preferito? Devo avere un ruolo!” E da lì in poi tutto è andato verso il meglio, probabilmente grazie ad una buona stella! In quel momento avevi solo 21, 22 anni. Ci sono state persone che hanno cercato di indirizzare la tua carriera? Magari spingendoti da qualche parte, piuttosto che un’altra, attraverso buone intenzioni e consigli? Beh pensandoci non so quanto la

gente che mi stava, all’epoca, intorno fosse ben intenzionata! Ma si sa ho un forte senso di autoconservazione e ci sono alcune linee che non ho mai voluto attraversare. Sono molto esigente sulle parti che scelgo o che mi vengono affidate: non posso essere una prostituta, non posso essere solo una fidanzata. Non posso essere la donna che ottiene autorevolezza solo perché prima è stata abusata. Non posso essere la donna che prima ottiene il potere e subito dopo muore. Dunque ho sempre detto a me stessa: guarda, non ti preoccupare, stai lavorando per ottenere la costruzione del tuo archetipo, e non importa se tutto va a monte per farlo. E quasi due volte ho perso tutto per questa mia forma mentale! Ma dopo tanto lavoro e dopo tante battaglie, le persone finalmente hanno capito: “Ok! Michelle non è una donna malleabile, non si lascia influenzare dalla tua lucente fama o dai soldi che le puoi dare!”. E alla fine hanno spesso di offrirmi le cose che ho precedentemente elencato. Ma si sa, questo mondo è come il paradosso del Comma 22. Mi hanno aiutato e allo stesso tempo mi hanno raggirato. Ho affilato le mie armi, e oggi sono fiera di me stessa e le persone lo sanno. Per capire meglio quanto detto, basti pensare che non ho portato avanti nessun progetto cinematografico fin quando non mi si è presentata l’occasione di “Girlfight”. Hai parlato del cliché cinematografico secondo cui la donna che viene abusata ottiene il potere, e dopo aver ottenuto il potere muore. Questo è un percorso che gli sceneggiatori non creano mai per personaggi maschili, è come se ci fosse qualcosa di così minaccioso nella figura di una “eroina” forte che bisogna trovare subito il modo per declassarla o deporla. Ricordo questa sceneggiatura che è pervenuta un giorno sul mio 33


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L’ADOLESCENZA E IL TRASFERIMENTO NEL JERSEY All’età di 8 anni, in seguito al divorzio dei genitori, si trasferì con la madre nella Repubblica Dominicana e, all’età di 11, dapprima in Porto Rico ed infine negli Stati Uniti, stabilendosi definitivamente nel New Jersey.

tavolo – e che non ho intenzione di citare, per non avere più guai di quanti già ne ho – la leggevo e in un primo momento volevo dire subito di no: perché lei è latina, lei è una narcotrafficante, lei è come vedete sempre i personaggi latinoamericani sul grande schermo di Hollywood. Poi andando avanti nella lettura ho iniziato a pensare: “Beh qui si sta dicendo una verità, lei è una persona molto interessante”. Poi ho voltato la pagina e vedo che la protagonista viene violentata. Il che non è nemmeno accaduto nella vita reale del personaggio (a cui si ispirava il film), e così hanno ingabbiato tutta una trama brillante in questa costruzione scenica. Ed allora ho pensato. Perché? Perché è necessario destabilizzarla e ridimensionarla in quel modo? Mi chiedo – come in “Milion Dollar Baby” – perché alla fine lei deve morire? Voglio dire, ho capito che devi fare un film strappalacrime, ma hai mai avuto un atteggiamento simile con un personaggio maschile? L’80% degli sceneggiatori sono uomini, e naturalmente cercano di scrivere quello che sanno. Ma è colpa delle donne se non riescono a penetrare in questo mercato? Dunque per tutte queste ragioni non posso lamentarmi più di tanto delle sceneggiature che si producono al di fuori di questa porta. Devo chiedertelo, hai mai avuto ripensamenti sul finire o meno Fast 7? Dopo che Paul è morto, non ci fu mai una domanda nella 34

vostra community se andare avanti tutti insieme con questo film o smetterla lì? Beh, guarda attorno ad un film vi è un grande conglomerato di poteri forti, che hanno responsabilità, azioni ed investimenti, e dunque la decisione è toccata a loro e non a noi attori. Ma in grande sincerità ti dico, una volta che siamo andati avanti, sono rimasta molto, ma veramente molto, sorpresa dalla classe e dall’etica che tutti hanno mostrato, c’è stata la massima dedizione dal primo all’ultimo degli operatori. È come se da lì in poi avessimo lavorato non per un film ma per la conservazione di un patrimonio. Questa attività, lo sai, può diventare

una macchina che difficilmente si ferma a pensare, eppure questa volta, più o meno singolarmente, si è arrivati a dirci: “Questa è l’ultima volta che vedremo questo ragazzo sullo schermo, ogni attimo deve essere dedicato solo e soltanto a lui!”. Quando ho visto il film ho tirato un grande sospiro di sollievo, sono stata molto orgogliosa, perché questo omaggio si è trasformato in realtà. Adesso siamo fermi su questo punto, non cerchiamo di guardare avanti, a quella che sarà la prossima avventura. Ci stiamo prendendo un momento per guardarci indietro, per riflettere e prendere tutti quei ricordi. Ricordi che cercheremo di portare sempre con noi.


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SAPORIDEI QUARTIERI SPAGNOLI

Nei Quartieri Spagnoli, un piccolo negozio di frutta in cui si insegna e si trasmettono tradizioni affascinanti. Ai Quartieri come alla Scuola della Pace dove le cene multietnica assumono un valore particolare e un sapore che sa di arricchimento culturale.

I

n un regno che è stato di troppi e forse di nessuno, si intrecciano le strade. L’uno sull’altro si ergono i viottoli e in questi si incastrano i secoli. Nei quartieri che degli antichi dominatori portano il nome, le mura lacrimano storia coperta di murales, i palazzi raccontano antichi fasti, nobiltà e sovrani. Camminano veloci gli abitanti delle case, passeggiano i turisti, gli obiettivi e i nasi all’insù, scontrano scugnizzi senza padrone. Sono i Quartieri Spagnoli di Napoli, dove oggi, accanto a chi della città è figlio, vivono uomini e donne di lontani paesi. Lì, vicolo affacciato sui vicoli, c’è quello del Lungo Gelso che ogni martedì pomeriggio s’avvampa, riempiendosi di risa e profumi. È ‘o vico dove Tina e Angelo Scognamiglio gestiscono, da anni, un piccolo negozio di frutta. Una strana storia, una di quelle che “solo a Napoli”. Tutto ebbe inizio una lontana notte – o meglio, un giorno – di Halloween, perché ai signori Scognamiglio, il quartiere lo sa, «piace far festa». Così, il 31 ottobre di sei anni fa, i banchi di frutta del locale, si popolano di strani personaggi. Le mele ospitano teschi, le arance ragnetti. Ragnatele

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coprono le pere e zucche sorridenti accolgono gli affezionati clienti, incuriosiscono i passanti. Ilare flagore - Tina sul retro prepara biscotti. Angelo, in scena, lavora e intrattiene. Chiassose, rimbombano tra i muri, le battute dei coniugi. Lo spazio raccolto si riempie di ilare fragore. Un gruppo di “cinesine” rincorre l’incomprensibile rumore, scopre il fruttivendolo, entra in quello strano mondo. Biscotti e risate vengono offerti alle giovani turiste, che – dopo averli assaggiati – tra gesti strani e suoni sconosciuti, provano a comunicare qualcosa. Tina le osserva, si asciuga la fronte, prova a capire. Gli occhi cercano, rapidi, l’incrocio di uno sguardo che risolva l’arcano. «Che stanno dicendo?», nessuno risponde. La bottega si ferma, sui volti dubbiosi si inarcano le sopracciglia, occhi continuano a cercare occhi. E poi, tutti insieme a coprirsi le voci, partono, parlano, aiutano Tina. Frastornate le cinesine si arrendono, quando una voce si leva dal popolo, «vonn’ sape’ ‘a ricetta!». «E se questo è successo per fare una domanda, come farò a spiegargli la ricetta?», risponde

ù articolo di Francesca Spadaro


Tina preoccupata per la questione. Il mormorio, epidemico, si diffonde tra la folla, ormai radunata in Vico Lungo Gelso 93. Il problema è del quartiere. Voci percorrono i vicoli, si cerca qualcuno che parli cinese. Le ragazze non possono andar via senza ricetta. Ma un Angelo un po’ distratto, interviene, serafico «fagli vedere come si fa!». In pochi minuti Tina si organizza, una tovaglia, un paio di grembiuli, zucchero, uova, farina e il retrobottega diventa cucina. Non ci sono gesti affrettati, e nemmeno neologismi crosslinguistici. Si parla una lingua non parlata. Si vede, si tocca, si impara col cibo. Vocabolario universale. I nasi sporchi di farina, le guance doloranti per le troppe risate, rivelano i pensieri delle cinesine che, forse, volano fino a casa con la fantasia. Fino al momento in cui racconteranno tutto questo. Quando i biscotti sono pronti, mentre tutto ritorna, piano, alla normalità, torna il goffo scambio di gesti e parole che nessuno capisce e, di nuovo, una voce saluta così «allora ci vediamo martedì prossimo?». Una grassa, grossa fragorosa, risata scoppia tra il popolo, spettatore delle memorabili scene. Contagia tutti. Si affacciano ridendo, vicini che nulla hanno visto. Si piegano in due, le cinesine, che nulla hanno capito. L’unione di culture - È ora di chiusura, Angelo e Tina, impegnati a pulire, si scoprono a sorridere e a ricordare la giornata. A ricordare di come, all’improvviso, in cucina tutti si capissero. E se ci fosse un modo di quietare gli affanni di chi prova a spiegarsi. E se questo fosse il modo di far sparire, per un attimo, la paura di essere soli, non compresi. Questi, i pensieri che accompagnano i signori Scognamiglio sulla strada verso DUE ANGELI Tina e Angelo Scognamiglio nel vico in cui ospitano tra risate e ricette persone di ogni parte del mondo (Ph. Martina Esposito).

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casa. Da quel giorno, le lezioni di cucina non sono mai più finite. Ogni martedì alle 15.00 nella bottega Scognamiglio “Frutta, Verdura e Simpatia”, Tina, Angelo e i loro figli, attraverso il cibo, parlano tutte le lingue del mondo. Il tavolo e il fornello che, nei pomeriggi di lezione, ingombrano lo spazio ristretto, diventano il focolare che accoglie chiunque abbia bisogno di sentirsi a casa. Negli anni, Africani, Egiziani, Indiani e abitanti di molti paesi lontani, hanno lavorato attorno a quel tavolo. Uomini e donne, hanno portato le loro culture, hanno ricordato le famiglie, raccontandole, attraverso il cibo. Perché c’è Tina che insegna i piatti più semplici, della tradizione e i piatti di chi, come può, deve arrangiarsi. E ci sono le cene più belle, quelle in costume dei popoli e con i popoli che cucinano e offrono la loro storia nei piatti. Fruttivendoli sui generis, Tina e Angelo, sono divenuti tappa obbligata per gli stranieri di passaggio, articolo fisso sulle pagine delle più varie riviste. Siti, video, foto, fermano i momenti più incredibili. E l’eco si propaga, tanti ne hanno parlato e molti altri ne parleranno ancora. Tutti vogliono vedere, vogliono esserci almeno una volta. Angelo e Tina non si aspettavano tutto questo, i due si chiedono com’è che dopo tanto tempo, facciano ancora notizia. È la semplicità del loro gesto, che affascina, la semplicità del pensiero che ne ha accompagnato la nascita. Ma esistono, nella realtà polimorfa di Napoli, altre iniziative come questa. C’è la Scuola di Pace, in via Foria, nata con l’intento di capire il perché delle guerre, di creare uno spazio di discussione per capire se stessi e gli altri, per portare la pace. Nel corso del tempo, è cresciuta in questa sede, la scuola di italiano per immigrati. Un progetto portato avanti da quaranta volontari, con lo scopo, l’idea e la voglia di fare 38

Da Angelo Scogliamiglio alla Scuola della Pace: storie di una Napoli che si integra

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ngelo Scognamiglio è proprietario della bottega “Frutta, Verdura e Simpatia” dal 1968, affiancato dalla moglie Tina, dal giorno del loro matrimonio. Nel corso degli anni, i coniugi hanno spesso provato a promuovere l’attività, attraverso fantasiose iniziative. L’attenzione alla qualità dei prodotti e il rapporto umano con i clienti, hanno da sempre caratterizzato il lavoro di Tina e Angelo. Il 31 ottobre di sei anni fa, in occasione della festa di Halloween, l’incontro con un gruppo di cinesine e una serie di singolari eventi, ha portato alla nascita delle “lezioni di cucina per stranieri”. L’appuntamento - Tutti i martedì alle 15.00, eccetto le pause natalizie e pasquali, la bottega della frutta di Tina e Angelo, in Vico Lungo Gelso 92/93, si apre a chiunque voglia assistere o partecipare alle lezioni di cucina gratuite, tenute dalla signora Tina. I protagonisti sono per lo più ragazzi immigrati, che oggi abitano “i bassi” dei Quartieri Spagnoli. Non è insolito però trovarvi vicini, amici e giornalisti, incuriositi dall’iniziativa o semplicemente da una particolare ricetta. La scuola della pace - In via Foria nel 1990, a seguito del progetto che prevedeva di ampliare e spostare la base U.S. Navy da Bagnoli a Capodichino (progetto mai realizzato), nasceva l’idea di creare uno spazio di discussione sulla guerra, sul ruolo dell’ONU, delle ideologie e delle religioni e sui rapporti tra Nord e Sud del mondo. Quello spazio è diventato poi la Scuola di Pace, ancora oggi impegnata con diverse iniziate per promuovere l’integrazione e l’uguaglianza. Tra i vari progetti, c’è la Scuola d’italiano per immigrati, al cui interno vengono promosse ulteriori iniziative, come le “cene multietniche”. Si tratta di occasioni in cui, a turno, gli allievi cucinano i prodotti del loro paese, indossando i vestiti tipici e riproducendo i gesti tradizionale che caratterizzano la preparazione di ogni piatto. Occasioni in cui, attraverso la cucina, ognuno racconta la propria storia e la propria cultura.

O BUONO ... O NIENTE E dentro la bottega, sui gradini di un piccolo negozio di frutta, l’impegno generoso, spontaneo e veritiero di una coppia dall’umanità tutta napoletana.


See Naples and … you’ll find a city on the rise Written by Ondine Cohane odine.cohane@theguardian.com

COLOR VERDE BIANCO E ROSSO Tra bandiere e frasi. Nella semplicità di fogli bianchi, la ricchezza proveniente da lingue diverse, culture lontane ma unite da un amore semplice e sentito che si racchiude intorno ad una tavola. di Napoli una “società interculturale, rispettosa delle differenze e della dignità di ogni persona”. Attraverso l’insegnamento di una lingua comune, si è arrivati a parlare un comune linguaggio: nascono le “cene multietniche”. A turno gli allievi preparano i piatti dei loro paesi e si ride e si mangia, imparando a conoscersi. Perché col cibo ci si identifica e i gesti che delle cucine sono tipici, raccontano storie e tradizioni. E se ci si racconta cucinando, è mangiando che ci si conosce. Il motivo di tutto questo, del successo di tali iniziative e dell’entusiasmo che, come vento, soffia sul passaparola, è tutto nella nostra umanità. Siamo atavicamente e biologicamente predisposti ad abbassare la guardia durante il pasto. Attenuiamo le difese. Come nel sonno, si è vulnerabili ma sereni, perché diamo ristoro al corpo. A tavola ci si vuole più bene - Le differenze si annullano e i rumorosi silenzi della tavola disvelano l’umana natura: non c’è colore o credo che tenga. Si ha fame, si mangia e si prova piacere e il piacere della condivisone diventa esperienza comune. È la realtà, a tavola ci si vuole più bene. Questo semplice inciso, diventa dogma funzionale all’incontro tra culture, all’integrazione degli uomini e delle donne che troppe volte si sentono soli. Ritrovare i cibi, i gesti, i profumi della memoria e insegnarli a gli altri, fa parlare di sé chi la lingua non sa. Nella Scuola di Pace o nei Quartieri Spagnoli, contesti dove si parla, si tocca, sofferenza ed emarginazione, le cene multietniche, assumono un valore particolare. Chi cucina, non sta semplicemente offendo pasti tipici a chi, rispetto a lui, è straniero. Sta invitando gli amici che, come lui, sono stranieri, nella propria casa. Tina, Angelo, i quaranta volontari della Scuola di Pace e tanti altri, hanno costruito ponti tra i mondi. Tutti, devono continuare a farlo.

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Published by The Guardian

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n one of my first trips to Naples, a few years ago with my husband and our son (then just a year old) we went in search of one of the city’s famous pizza parlours. We wandered down the back alleys of town, past a man in a hot pink three-piece suit, his little finger accessoriesed with a heavy gold signet ring. He was sitting in the front of a funeral parlour shouting into his mobile phone. Teenagers, sometimes three to a moped, hair gelled against the wind, overtook us at high speeds. In front of buildings decked with washing lines, grannies in housedresses and worn slippers stopped their gossiping for a quick pinch of my son’s fat cheeks. We navigated past dark storefronts, dilapidated but still gorgeous grand palazzos, and more than a couple of overflowing rubbish bins. The gritty, cinematic scenes seemed plucked out of Rio or Mexico City, rather than Italy, especially when contrasted with well-ordered Tuscany, where we live, and where pretty, ordered tableaux seem arranged purely for photo shoots, and rubbish disappears as seamlessly as the day. But for me, as for many who fall in love with the city, it is the contrasts of Naples that appeal – it’s a rebellious but beautiful place with layers of ancient art, a chaos that is almost soap operatic, and a determination to thrive even when things seem to be falling apart. But in the eyes of a new generation of entrepreneurs trying to showcase the city for tourists and citizens alike, Naples is far more than a caricature of itself. One of them, mayor Luigi de Magistris, has quickly become a symbol for the innovators, looking beyond the city’s clichés and bringing a bit more order while preserving its antique treasures. In fact, since de Magistris was elected in 2011, the city has gone through a noticeable shift: traffic restrictions on the waterfront and in the historic centre have made it easier to navigate, and the mayor’s commitment to recycling has eased the rubbish problem. Just as importantly, his determination to pull apart the corrupt power structures (consider him a leftist in the same vein as Matteo Renzi, the new prime minister) has created a sense of civic pride. Volunteers are helping clean and maintain the city’s gardens and squares alongside beleaguered municipal workers, who have felt the budget crunch more than in other parts of Italy.As a result of this mood change, cultural landmarks such as the Capodimonte museum have stepped into the spotlight. Set in magnificent gardens that were once the hunting preserve of the Bourbons, the Capodimonte, which opened in its current incarnation in 1840, has one of the world’s most underrated art collections. Unlike in more famous spots, where it can be hard to see the art for the throngs, here you can enjoy masterpieces such as Caravaggio’s the Flagellation, Titian’s Danaë with Eros, and Breughel Senior’s the Blind Leading the Blind – almost alone. And it’s not just the ancient that’s getting attention. Underneath the city, an innovative scheme to use metro stops as art installations has

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VICO LUNGO GELSO 93 Nel folklore di un vicolo, tra colori e frutta, ci s’incammina nella storia di una città di antiche dominazioni. Dai balconi e dalle traverse tra scugnizzi e urla di venditori vibra l’anima tumultuosa di Napoli. (Ph. Martina Esposito) 41


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LA SANITÀ LA PIZZA E CIRO OLIVA

Crescere tra farina, impasti e forni a legna in un passaggio di generazioni. Ciro Oliva matura così il suo impegno sociale di rivalorizzazione del quartiere Sanità con la pizza sospesa. Una pizza della misericordia da “Concettina ai tre Santi”.

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iro correva tra i banchi della cucina da quando era nato, cresciuto con il profumo della pizza e la polvere della farina che gli sporcava i capelli. Da quando aveva undici anni si è rimboccato le maniche ed ha iniziato a darsi da fare. Lavava i bagni, i banconi; apriva gli scatoli di pomodoro di continuo. Ciro Oliva ha affrontato la classica gavetta da pizzaiolo che lo ha portato, a soli 22 anni, ad un grande successo. Un lavoro tramandato dalla bisnonna Concettina che, con il passaggio delle generazioni, è arrivato fino a lui. Lui, con le sue idee di crescita ed innovazione, ha trasformato un locale storico e popolare napoletano tramite la cultura gastronomica. Ciro è nato all’interno del rione Sanità, lo sente suo. Da sempre. Il suo desiderio è quello di riuscire a rivalorizzare il quartiere che porti il turista o il semplice compaesano ad un viaggio emotivo attraversando la zona. Non c’è solo la sua pizzeria ma una serie di tappe fondamentali da non perdere. C’è il Tarallificio Esposito che produce taralli, pane e dolci secchi dal 1924, c’è Vittorio ‘o tabbaccar’ che vende il libro di Padre Antonio Loffredo, ci sono i

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dolci di Poppella e i tanti bar che offrono ottimo caffè. Si attiva un viaggio interattivo nel rione, una visita culturale e gastronomica ricca di sensazioni. Da due anni Ciro Oliva, con la Pizzeria Concettina ai Tre Santi, si impegna attivamente per il sociale. Con l’inaugurazione della sede in via Arena della Sanità 7, ha voluto lanciare la “Pizza Sospesa”. Dopo il caffè, anche la pizza. Un’idea tanto geniale quanto lodevole, una pizza per chi non può permetterselo. Quando il cibo riscalda non solo lo stomaco ma anche il cuore. L’idea nasce vedendo la mamma che portava le pizze con acqua e Coca Cola ai barboni della Galleria; il padre prendeva le pizze e le regalava agli extracomunitari del centro “La Tenda” ed alle persone della comunità di Sant’Egidio. È così che ha ideato la sua la pizza sospesa. Così che calciatori, vip ma anche persone comuni possano aiutare concretamente chi ne ha bisogno, anche con pochi euro. Oggi ci sono 270 pizze in sospeso. La pizza viene distribuita a persone in comunità, agli arresti domiciliari o a chi si vergogna di andarla a prendere, oppure a chi è semplicemente rimasto senza soldi in tasca.


ù articolo di Letizia Malanga

La famiglia Oliva - Ma, questa è una tradizione ben salda nella famiglia Oliva. Concettina, la bisnonna di Ciro, già nel 1948 aiutava i più disagiati. Utilizzava un vecchio sistema detto “oggi ‘a otto”, mangi oggi ma paghi entro otto giorni. Una donna forte e tenace, metteva le pizze a portafoglio in testa e le portava per il rione Sanità fino ad arrivare alla zona del mercato. Un lavoro stancante che ripeteva più volte al giorno fino alle cinque del pomeriggio. Dal 1951 la pizzeria si afferma come “Concettina ai tre santi” perché divenuta simbolo di aggregazione dei tre santi presenti nel quartiere: Sant’Anna, Sant’Alfonso Maria dei Liguori e San Vincenzo, patrono del rione. Diventa un punto di riferimento per tutti. “I tre santi” diventa un motto. Fondazione San Gennaro - Da quando gestisce il locale, Ciro Oliva ha cercato sempre di coniugare la bontà della pizza con la qualità dei prodotti utilizzati, stando sempre attento al benessere del proprio quartiere. Anche Ciro ha voluto dare il suo sostegno alla fondazione “San Gennaro”, ha voluto far parte di questo grande progetto sempre per il bene del suo territorio. Proprio per questo ha ideato la pizza Fondazione San Gennaro insieme alla chef stella Michelin Rosanna Marziale ed ai bambini della Casa dei Cristallini. Tutti gli ingredienti utilizzati sono del territorio: pomodoro antico di Napoli del miracolo di San Gennaro presidio slow food, provola affumicata, salame del maiale nero casertano, tarallo “n’zogn e pepe”, strutto e pepe. Il cornicione è ripieno di salame e briciole di tarallo. Ha contribuito all’iniziativa anche Monica Piscitelli, che ha coordinato il progetto “Gastronomi con la Sanità”. Con il ricavato di questa pizza si aiutano le casse delle catacombe di San Gennaro, per far sì che possano continuare ad esistere nel rione Sanità.

See Naples and … you’ll find a city on the rise by Ondine Cohane become one of the most talked-about projects in Italy. Due for completion in 2015, it was curated by Achille Bonito Oliva, a former director of the Venice Biennale. He commissioned more than 100 artists and architects to help transform the city’s metro stations into a citywide museum (metro.na.it). The 11 stations completed so far include a psychedelic design by Karim Rashid for Università station, Gae Aulenti’s complex of glass and steel at Dante, and the jaw-dropping Toledo stop, designed by Catalan architect Oscar Tusquets Blanca. This ethereal space includes a particularly evocative escalator climbing into a light-panelled seascape by Robert Wilson. Other artists involved include Sol LeWitt, Joseph Kosuth, and William Kentridge. Above ground, the Madre contemporary art gallery in the Donnaregina palace was one of the first of a new generation of museums in Italy (like the Zaha Hadid-designed Maxxi in Rome) with site-specific installations from artists such as Richard Serra, Jeff Koons and Anish Kapoor, and two rooms of frescos by influential Naples-born artist Francesco Clemente. The city’s growing reputation for contemporary art has also attracted exciting private galleries and dealers. The Lia Rumma gallery, for example, is a new spot with a decidedly modern agenda. The whitewashed space, with its soaring ceilings, features the likes of Anselm Kiefer, Vanessa Beecroft, Marina Abramovic, as well as Kentridge, among its contemporary heavyweights. The gallery is in the Chiaia district, with grand 19th century buildings running down to the waterfront. Here creative businesses have turned the mostly residential area into a model of revitalization: locals congregate at bar and restaurant Crudorè, round the corner on Piazza Vittoria, for great seafood and views, or for an espresso a short walk north at Anhelo, a two-year-old cafe with great home-roasted beans. An outpost of one of the Naples’ most famous pizza spots, Sorbillo has just opened on the seafront Via Partenope. To feel at home in the neighbourhood, try a stay at the stylish three-bedroom Micalò hotel (rooms from €140 B&B). On my last trip to Naples, I based myself at the luxurious Romeo hotel (rooms from €160 a night) right by the port on Via Cristoforo Colombo. Its sleek rooftop pool offered a bird’s eye view of the sea, the ferries setting out for Capri and, in the distance, Mount Vesuvius itself. Inside, the owners’ contemporary art collection dazzled alongside a sushi bar and a beautiful, quiet spa. The whole property exemplifies a new kind of Naples, but I almost felt relieved when I walked outside. Vespas were whizzing by and jovial restaurant owners straight out of central casting were calling out to us to try their catch of the day. I don’t want my beloved city getting too modern or sanitised after all – it’s still all about the character, and layers of new and old.

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