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STORIA DI COPERTINA

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ECCELLENZE

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CRISI E OPPORTUNITÀ, INDIETRO NON SI TORNA

Il settore dei beni di Il settore dei beni di consumo riporta le cicatrici lasciate dai lockdown, ma raccoglie anche i frutti di sperimentazioni e novità tecnologiche. In Italia cresce la tendenza degli stili d'acquisto "ibridi".

Indietro non si torna: in un mondo ndietro non si torna: in un mondo che è cambiato radicalmente, anche il settore dei retail è alle prese con un una “nuova normalità” che porta il segno degli sconvolgimenti della pandemia di covid ma che è anche – e deve essere – proiettata verso il futuro. Il commercio al dettaglio, fatta eccezione per l’alimentare, ha risentito del generale clima d’incertezza economica al punto che, secondo Federdistribuzione, nel settore sono a rischio 200mila posti di lavoro. In moto contrario, tuttavia, lo scorso anno sono cresciuti gli acquisti in e-commerce, per una doppia dinamica di incremento della domanda (consumatori che non potevano uscire di casa e negozi chiusi durante i lockdown) e dell’offerta (operatori che per la prima volta, giocoforza, hanno attivato canali di vendita alternativi). Secondo i dati Istat, nel 2019 in Italia la percentuale di imprese che fornivano sui propri siti Web informazioni sui prodotti in offerta erano solo il 33,9% del totale; nel 2020 la quota è salita al 55,5%. D’altra parte pandemia, lockdown e accelerazione digitale

sono fattori di cambiamento che s’innestano su una precedente trasformazione di lungo corso, almeno decennale, determinata dagli sviluppi dell’e-commerce, del marketing multicanale, dell’uso dei social media come vetrina e negozio, dai pagamenti digitali, dall’ingresso dei chatbot nel servizio clienti. Moderne piattaforme Crm ed Erp, analytics, marketing automation sono ingredienti tecnologici ormai irrinunciabili per ottimizzare qualsiasi attività, dall’inventario alle comunicazioni con i clienti, dallo studio nuovi prodotti alle strategie di vendita.

L’utilizzo dei dati Ancor più di altri settori, quello dei beni di consumo genera una valanga di dati: dalla produzione alla logistica, dalle attività di magazzino alla vendita, senza dimenticare il complesso mondo dei consumatori (chi sono, che cosa comprano, come comprano, quali desideri e valori inseguono, che cosa pensano del brand, e via dicendo). Tutti questi dati possono essere tradotti in vantaggio competitivo, sono cioè monetizzabili, ma quanto vengono effettivamente sfruttati? Secondo un’indagine di Capgemini Research Institute, realizzata nel 2020 su oltre mille grandi imprese, nel settore dei prodotti di consumo e retail circa il 43% degli intervistati crede che la propria azienda operi con un modello di business completamente basato sui dati. La percentuale non è bassissima, ma notevolmente inferiore a quella di altri settori, come quellobbancario (63%), l’assicurativo (55%), le telecomunicazioni (54%). Non mancano però, anche in ambito retail, alcuni casi d’avanguardia di monetizzazione. In risposta alla pandemia, negli Stati Uniti l’anno scorso Walmart ha lanciato un servizio di consegna in due ore basato su analisi di intelligenza artificiale. In Giappone, invece, l’associazione nazionale di servizi meteorologici e la prefettura di Fukuoka hanno coinvolto i retailer locali in un’iniziativa di riduzione degli sprechi alimentari: i dati delle previsioni meteo vengono analizzati e correlati a statistiche di vendita e a dati tratti dai social media per stimare l’andamento della domanda di oltre 600 prodotti. Con questo metodo la catena Tojin Bakery ha ridotto del 15% gli sprechi e incrementato del 12% le vendite in uno dei suoi negozi.

I desideri degli italiani Un sondaggio realizzato a maggio di quest’anno da The Innovation Group su 370 consumatori italiani maggiorenni (un campione rappresentativo dell’audience di Internet) ha svelato che la percentuale di utenti che acquistano in e-commerce è salita dal 59% dei tempi pre pandemia all’attuale 77%. Ed è anche aumentata la spesa media, perché tra chi già prima faceva acquisti online il 66% li ha incrementati. Il cosiddetto “new normal” (che già stiamo vivendo, ma che dovrà consolidarsi in uno scenario di lungo periodo) darà spazio a diverse modalità d’acquisto: si prevede, con il ritorno alla piena normalità, che una parte dei “nuovi adepti” dell’e-commerce riprenda a comprare soprattutto nei negozi tradizionali, ma tra costoro almeno un 5% non smetterà di fare shopping su Internet. Tra gli habitué del commercio elettronico, invece, il 41% si rivolgerà di volta in volta al Web oppure ai negozi, a seconda della convenienza e comodità del momento, mentre è di appena il 4% la quota di coloro che acquisteranno solo online. In fondo, lo sconvolgimento della pandemia ha, sì, accelerato alcune dinamiche ma ha soprattutto confermato un preesistente scenario fatto di esperienze d’acquisto “ibride”. Di conseguenza gli operatori del retail, grandi o piccoli che siano, oggi devono ragionare in ottica di omnicanalità, strutturando le proprie attività di marketing, vendita e supporto clienti sia sui canali tradizionali sia su quelli digitali: rinunciare a una delle due componenti significa perdere una parte di clientela e di guadagni. Gli analisti di The Innovation Group sottolineano comunque che è in atto una progressiva trasformazione del negozio in luogo dove ci si reca per comprare o ritirare un prodotto, mentre le fasi precedenti del processo (ricerca di informazioni, comparazione prezzi, scelta del canale di acquisto) si compiono online. Dove acquistano gli italiani quando scelgono l’e-commerce? Il 51% si rivolge principalmente ai marketplace orizzontali e generalisti, come Amazon e Ebay, mentre il 14% predilige i siti Web di piccole aziende locali, il 12% frequenta soprattutto i negozi verticali (focalizzati principalmente su una macrocategoria merceologica, come Zalando), l’11% fa soprattutto

Prima della pandemia effettuavi acquisti su Internet?

No

Ho acquistato online ma poi ho abbandonato 44%

4% 17%

7%

10% 17%

Sì, la maggior parte degli acquisti era online

Circa la metà dei miei acquisti era online

Una piccola parte dei miei acquisti era online

Solo se più conveniente

Fonte: The Innovation Group, “E-commerce Study 2021”, giugno 2021

acquisti di alimentari e altri beni di largo consumo da insegne della Gdo, l’11% compra dagli e-commerce di grandi catene (come Zara e Ikea) e il 6% transita dai canali social. Dalla ricerca emerge anche una discreta disponibilità dei consumatori italiani a concedere i propri dati alle aziende: la percentuale varia a seconda delle fasce d’età, ma in media il 44% degli intervistati non ha problemi a condividere informazioni personali quando fa acquisti online. Solo un utente su cinque pretende trasparenza sull’uso dei dati, mentre è del 12% la percentuale di chi è disposto a fornire dettagli aggiuntivi pur di ottenere uno sconto oppure in cambio di informazioni mirate o di un’esperienza più personalizzata.

Il rilancio dei consumi L’anno scorso, dopo la prima grande ondata di contagi di coronavirus, il 60% degli intervistati italiani di una ricerca di Pwc (“Global Consumer Insight Survey Pulse Survey 2020”, condotta nei mesi di maggio e giugno su 4.500 consumatori di nove Paesi) affermava di aver subìto una riduzione delle proprie entrate, mentre il 42% prevedeva di dover tagliare significativamente le proprie spese destinate a beni di consumo. Per il rilancio del settore in Italia, Pwc suggerisce alle aziende due strategie, in particolare: fare fronte comune, creando filiere produttive (grandi o piccole che siano) e aumentare la propria digitalizzazione, sia nel back office sia nelle attività a diretto contatto con i clienti. Guardando oltre l’emergenza, la società di ricerca evidenzia un altro aspetto su cui puntare: la sostenibilità ambientale. Questa è non solo una grande sfida del futuro, per il retail e per tutti i comparti industriali, ma può essere una profittevole strategia di differenziazione. “La crisi ha messo in evidenza il legame diretto tra ambiente e salute portando istituzioni, aziende e singoli individui a cambiare mentalità”, si legge nel report di Pwc. “Il fattore ‘protezione’ ha stimolato una serie di domande nei consumatori, che vogliono sapere che cosa mangiano, che cosa indossano, se possono fidarsi, eccetera. Il percorso verso il 2030 prevede catene del valore tracciabili e trasparenti, maggiori centralità e coinvolgimento del consumatore da parte delle aziende dell’alimentare, della moda e di qualsiasi settore, così come un’ottima strategia comunicativa”. In tutto questo il digitale può avere un ruolo: pensiamo alle tecnologie Rfid e QR Code usate per la tracciabilità dei prodotti, o ai già citati algoritmi di intelligenza artificiale per la riduzione degli sprechi. Ancora prima della pandemia, nelle sue previsioni sul retail per il 2019, Gartner evidenziava una tendenza incipiente nella quale le persone “rivalutano e danno una diversa priorità ai loro valori”, allontanandosi dal puro consumismo per andare verso acquisti “basati sul valore”. In un sondaggio di Gartner dello stesso anno (“Retail Customer Expectations Survey”) i consumatori statunitensi e britannici indicavano la “onestà e genuinità” dei prodotti o servizi come quinta priorità più importante all’interno di un’esperienza d’acquisto. Inoltre il 61% degli intervistati europei affermava di aver adottato almeno un comportamento “sostenibile”, come la lettura delle etichette per verificare l’impiego di materiali riciclati nella confezioni, l’acquisto di prodotti a basso impatto ambientale (anche se più costosi) e l’abbandono di marchi che fanno false promesse in materia di ecologismo.

Valentina Bernocco

L’ASCESA DELLE INTERAZIONI “TOUCHLESS”

Per limitare ogni rischio di contagio durante le fasi più critiche della pandemia, anche molti negozi italiani per mesi hanno esposto in cassa una gentile richiesta di pagamento con bancomat, laddove possibile. Ma i terminali Pos sono soltanto una delle possibilità touchless esplorate in tempo di covid. Un caso da manuale è quello di Ulta, catena statunitense che vende prodotti di cosmesi e cura della persona: l’anno scorso ha migliorato con nuovi strumenti di notifica il proprio servizio “click and collect”, che consente di comprare online e ritirare la merce all’interno oppure all’esterno dei negozi. Inoltre Ulta ha continuato ad arricchire la propria applicazione mobile di realtà aumentata, GlamLab, che permette di provare “virtualmente” prodotti di make-up e tinture per capelli, nonché di realizzare un’analisi della pelle del viso per ottenere consigli personalizzati. Come risultato di questi sforzi, nel 2020 la catena è riuscita a quadruplicare le proprie vendite in e-commerce, mentre le visualizzazioni di prodotti sull’applicazione per smartphone sono cresciute del 150% da un trimestre all’altro.

CUSTOMER EXPERIENCE, ASPETTATIVE E VALORI CHE CAMBIANO

La pandemia non ha semplicemente favorito l’utilizzo dell’e-commerce. Ha anche trasformato i bisogni profondi e le motivazioni che orientano le scelte d’acquisto.

Federica Aceto

La pandemia ha collocato i consumatori all’interno di un paradigma molto più incerto, rendendoli più fragili, e allo stesso tempo li ha costretti all’interno di vincoli più stringenti. Ciò ha portato l’utente a rivedere la scala delle priorità e a effettuare scelte più consapevoli, più preziose per quello specifico momento. Tale consapevolezza è ormai intrinseca al processo di scelta del consumatore, molto più attento a quantità e sprechi. La maggiore cognizione non ha riguardato solo le scelte di acquisto, ma anche i canali attraverso i quali è possibile accedere a prodotti e servizi: la costrizione all’uso di canali mai utilizzati prima ha fatto superare molte barriere presenti sino all’arrivo della pandemia. Se pensiamo all’online, ad esempio, sappiamo che con la pandemia c’è stato un incremento abnorme del ricorso all’ecommerce. Ma al di là del fenomeno in sé, è interessante notare come questo cambiamento abbia influito sulle aspettative dei consumatori: un nuovo target con nuovi bisogni si è trovato a sfruttare il canale online e questo ha provocato un cambiamento nelle esigenze dei fruitori dell’ecommerce, proprio perché le esigenze dei nuovi user erano diverse da quelle dell’utilizzatore classico sino a prima dell’emergenza. È cambiata quindi anche la risposta delle aziende, di quelle più virtuose, che hanno voluto mostrarsi vicine al consumatore fornendo servizi diversi e più adatti ai nuovi user, meno esperti: processi più semplici, un approccio omnicanale, un maggiore supporto durante l’acquisto. Allo stesso tempo, i consumatori si sono scoperti capaci di utilizzare nuove modalità di acquisto ed è cambiato sia lo sguardo sia il metro di giudizio nell’operare le scelte di consumo. Sono cambiati i driver di scelta e in particolare si sono accentuate alcune tendenze che erano già in atto prima della pandemia: l’attenzione a tutto ciò che richiama la natura, la filiera corta, la riscoperta delle produzioni locali e basate sulle tradizioni più antiche e poi, ovviamente, il tema dell’igiene. Ma dal punto di vista dei valori più profondi che muovono le scelte, che cosa è cambiato? Alcuni valori sono diventati più importanti di altri. Innanzitutto, in un mondo incerto sono diventati ancora più centrali la trasparenza e il bisogno di controllo. Inoltre l’isolamento e la lontananza hanno portato a un maggiore bisogno di cura, senso di appartenenza, status, unicità: i consumatori e i clienti vogliono sentirsi sempre più importanti e avere un servizio personalizzato. Il senso di fragilità, poi, ha creato una maggiore richiesta di equità e correttezza, di gentilezza da parte di chi fornisce un prodotto o servizio. E se in particolare pensiamo all’e-commerce, alcuni aspetti si riveleranno fondamentali per affrontare le sfide presenti e future. Oltre ai temi del value for money e della logistica, oggi sono rilevanti anche altri aspetti che possono fare la differenza nell’esperienza del consumatore: costruire una relazione diretta, ingaggiarlo tramite i canali social per una maggiore conversione dell’acquisto e offrire un’esperienza personalizzata con prodotti e servizi costruiti su misura. La tecnologia, infine, può aiutare a offrire un’esperienza differenziante grazie all’utilizzo dei servizi voice, con l’integrazione degli assistenti vocali di Google e Amazon, o grazie alla realtà virtuale, che ci permette di scegliere un prodotto indossandolo o entrando in un negozio virtuale in 3D comodamente da casa. In molti si aspettano che, passata l’emergenza, tutto questo tornerà a essere meno rilevante. Non proprio. Sono cambiati in modo irreversibile le aspettative dei consumatori e i valori che li portano a fare una scelta. Pertanto, dopo la pandemia ci sarà un’evoluzione, ma non si potrà tornare indietro: la relazione che le aziende instaurano con i clienti (e viceversa) si è profondamente modificata. Gli aspetti valoriali e relazionali sono ormai centrali e continueranno a esserlo, anche se in modo sempre diverso. Solo le aziende che sapranno trasmettere tali valori risulteranno vincenti.

Federica Aceto, customer experience leader di Ipsos

GLI ALGORITMI TRASFORMANO L’ESPERIENZA IN NEGOZIO

Assortimenti e campagne mirati, analisi della concorrenza, contenuti personalizzati: l’intelligenza artificiale viene in aiuto ai retailer.

Èun’occasione senza precedenti, volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, quella che si presenta a manager e imprenditori nel post pandemia, dopo un periodo di digitalizzazione “forzata” che ha in molti casi accelerato il processo di trasformazione, introducendo tecnologie come cloud, Big Data e intelligenza artificiale. “Il lavoro di Jakala è incrementare la conversione sull’online così come negli store fisici, generando benefici effetti sulle prime righe del conto economico, e nel nostro caso i dati e l’AI sono due dei tanti ingredienti del mix”, dice Alessandro Maggio, chief digital & marketing officer della società milanese. Una tra le soluzioni più potenti e versatili realizzate da Jakala è una piattaforma di location intelligence in grado di ottimizzare le campagne di marketing digitale anche in ottica drive to store. “La piattaforma”, spiega Maggio, “analizza le informazioni interne ed esterne all’azienda suddividendo il territorio in esagoni di circa un chilometro di raggio (della circonferenza inscritta) e sfrutta quattro algoritmi di intelligenza artificiale per calcolare altrettanti parametri vitali per le campagne di marketing nel retail”. Rispettando le regole del GDPR e superando il problema della (prevista, in attesa di deadline) cessazione della disponibilità dei third party cookies da parte di Google, Jakala riesce ad analizzare, per ogni esagono, i profili dei prospect più simili ai clienti dei retailer. Può, quindi, indicare le aree a maggior potenziale, su cui focalizzare le campagne. Un secondo

Alessandro Maggio

Paolo Pellegrini

algoritmo incrocia dati interni ed esterni per stabilire in quali esagoni è più probabile la conversione (per gli store online e fisici). Il terzo permette di analizzare i negozi concorrenti per ottenere un competition index, prezioso per comprendere il livello di concorrenza presente all’interno di un esagono. Il quarto elabora invece un proximity index, che evidenzia quanto il retailer riesca a presidiare fisicamente il territorio. “Il combinato disposto di questi quattro parametri”, dice Maggio, “porta a determinare una classifica degli esagoni per indirizzare meglio, ad esempio, il digital advertising, ottimizzando le risorse e incrementando l’efficacia di tutti i media che supportano il geo-targeting. In questo modo, grazie all’uso sapiente dei dati e all’AI, i nostri clienti ottengono facilmente un incremento a doppia cifra del Roas, il ritorno sull’investimento della spesa pubblicitaria”. Una volta stabilite le aree più “sensibili”, si tratta di costruire campagne efficaci, e qui di nuovo entra in gioco l’intelligenza artificiale. “Abbiamo creato un algoritmo che scrive autonomamente i migliori testi per ingaggiare i potenziali clienti e crea anche il look più adatto per la campagna”, racconta Paolo Pellegrini, head of data & Artificial Intelligence di Jakala. “Grazie all’AI, senza l’intervento umano vengono generati i testi più adatti per ingaggiare un dato cluster di potenziali clienti e viene creata la migliore grafica per landing page, Dem, o pagine di siti”. L’algoritmo ha un impatto positivo sia sulle vendita sia sulla customer experience, perché i clienti trovano informazioni e look più aderenti ai loro desideri. “Il software è in grado di riconoscere il gergo e il registro delle frasi”, sottolinea Pellegrini, “ma anche di usare in modo autonomo le leve di marketing comunemente sfruttate per stimolare emozioni e sensazioni, come senso di urgenza, emulazione, bisogno. I dati storici degli ultimi tre anni confermano che i nostri algoritmi sono più efficaci rispetto al lavoro dell’uomo nel 95,9% delle volte, e che i tassi di apertura delle comunicazioni create dall’AI sono più elevati rispetto ai precedenti, con tassi a due cifre”. E.M.

MONETIZZARE I DATI CON L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Riuscire a trarre valore dai dati per i settori retail e beni di consumo è particolarmente importante. Lo si può fare puntando a una visione olistica del cliente, come spiega Minsait.

“Che i dati possano dirci tanto e aiutarci a guadagnare un vantaggio competitivo non è una novità. Che qualsiasi considerazione che coinvolga il mondo delle informazioni non possa prescindere dal contesto storico e culturale è altrettanto vero. Fatta questa premessa, è più facile capire come, durante e dopo la crisi pandemica, governare quella che ha tutte le caratteristiche di una tempesta di dati sia non solo auspicabile ma quasi indispensabile”. A introdurre la metafora della tempesta è Sergio Scornavacca, director industrial market and Northern Italy lead di Minsait, l’organizzazione appartenente al Gruppo Indra che opera nei segmenti IT e Digital. “I dati a valore”, dice Scornavacca, “sono la chiave per la ripresa dei segmenti retail e beni di consumo, contestualmente alla transizione dal dualismo brick&mortar/e-commerce alla multiexperience in cui l’online gioca un ruolo primario come motore di crescita”. L’appartenenza di Minsait al Gruppo Indra (48.000 dipendenti in tutto il mondo, di cui circa 3.000 in Italia), un’organizzazione il cui focus è l’ingegneria, porta a interpretare il fenomeno dei dati in modo diverso da quanto accada in altre realtà del mondo della consulenza e dell’integrazione dei sistemi. Considerando, cioè, un orizzonte più vasto, che comprende anche competenze, condizioni al contorno, informazioni solo apparentemente slegate da quelle “core”. “Parliamo di tempesta”, prosegue Scornavacca, “perché riteniamo che lo stato dei dati sia molto più simile al liquido che al solido. E parliamo di dati a valore perché pensiamo che le informazioni utili siano quelle elaborate da strumenti di AI e deep learning, ma soprattutto siano ricavate non solo dai tecnologi bensì anche da chi riesce a contestualizzarle, incrociando fonti interne all’azienda e fonti esterne, e cercando di ottenere così una visione olistica del cliente finale”. Affinché possano avere un valore, è necessario che i dati possiedano due caratteristiche: esclusività e specificità. “L’esclusività è un fattore fondamentale”, spiega il manager di Minsait, “e ovviamente implica una raccolta di informazioni (dove vive il cliente, qual è il suo nucleo familiare, che sport pratica, eccetera) realizzata in modo conforme alle direttive sulla privacy. La specificità ci indica invece che cosa sia rilevante per un determinato tema. I dati, infatti, devono anche essere rilevanti, cioè devono consentire effettivamente di realizzare una strategia efficace”. Monetizzare i dati non significa semplicemente venderli bensì significa sempre più spesso, e sempre più auspicabilmente, scambiarli con altro e nuovo valore. Per questo sono stati già implementati da Minsait, ad esempio, progetti di successo basati sulla contaminazione tra settori limitrofi, come il

Sergio Scornavacca

beauty e lo sport. E l’esperienza insegna che disporre di dati a valore non significa solo vendere meglio. Significa anche riuscire a cogliere i segnali deboli che consentono alle aziende di migliorare lo sviluppo dei prodotti, bloccando in tempo strategie perdenti o modificando l’offerta per adattarla in modo “liquido” alle sempre più mutevoli esigenze dei clienti finali, oppure ancora implementando strategie di servitization. “In Minsait”, concluda Scornavacca, “facciamo un monitoraggio e analisi costante di tutti i trend internazionali legati alla monetizzazione dei dati. Abbiamo così scoperto che le attività di customer analytics possono incidere sul fatturato con percentuali comprese tra 0,5% e 3%, valori che consentono di ripagare gli investimenti in queste soluzioni in breve tempo”. E.M.

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