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SANITÀ DIGITALE

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CYBERSECURITY

CYBERSECURITY

GRANDI SPERANZE (E GRANDI NUMERI) PER LA MEDICINA DEL FUTURO

Tra cure personalizzate e studio dei Big Data della genomica, tra dispositivi indossabili e sviluppo di nuovi farmaci: il mercato del digital healthcare cresce a ritmo sostenuto.

Nel campo della scienza medica e dell’assistenza sanitaria, forse come mai prima d’ora la tecnologia digitale ha sulle spalle un enorme carico di aspettative, di sogni da realizzare e di responsabilità. L’ambito, anzi gli ambiti (sia quello dell’healthcare, sia quello del digitale) sono vastissimi ed eterogenei, tant’è che risulta alquanto azzardato stimare il valore del mercato della sanità digitale, a partire dalla difficoltà di delinearne esattamente i confini. Oltre al giro d’affari dell’hardware, del software e dei servizi destinati agli operatori sanitari o al personale amministrativo,

Foto di Luke Chesser da Unsplash o ancora agli enti della sanità pubblica, c’è da considerare l’altrettanto variegato ambito delle applicazioni mobili di monitoraggio della salute e del benessere. Le principali società di analisti e di ricerche di mercato includono nella definizione “sanità digitale” gli apparati medicali informatizzati, quelli per la telemedicina (monitoraggio continuo e visite mediche a distanza), i dispositivi indossabili per il monitoraggio di parametri corporei (battito cardiaco, ossigenazione, glicemia, apnea notturna, funzionamento neurologico, tracker di attività fisica e altro ancora) e i servizi di medicina personalizzata (diagnosi, prescrizione, trattamento). Tra sviluppatori software, costruttori di macchinari medicali o di dispositivi indossabili, fornitori di servizi cloud o di telecomunicazioni, alcuni dei colossi di questo mercato sono Apple, AT&T, Cisco, General Electric, Google, Ibm, Qualcomm, Telefonica, Samsung, Siemens Healthcare e Vodafone.

Confini ampi e frastagliati

Che giro d’affari sviluppa, tutto questo, a livello mondiale? Difficile dirlo con esattezza, per un ambito dai contini tanto ampi e frastagliati. Secondo le stime di Grand View Research, il

IL CAMMINO ANCORA INCERTO DELLE LIFE SCIENCES

Il settore delle biotecnologie certo non difetta di grandi ambizioni, scientifiche ed economiche, così come le risorse finanziarie per i progetti di ricerca e sviluppo non rappresentano un grosso problema. Le sperimentazioni tecnologiche avrebbero la strada spianata, se non fosse che a mancare, spesso, sono le capacità digitali, tecniche e relazionali. A dirlo è un recente studio di Capgemini (“Unlocking the Value in Connected Health”), basato su 523 interviste a dirigenti e manager di 166 società farmaceutiche e biotecnologiche, ubicate in Europa, Nord America e Asia. Il 50% delle realtà del settore Life Sciences prevede di sviluppare entro i prossimi cinque anni soluzioni di intelligenza artificiale per il monitoraggio remoto dei pazienti, per applicazioni di biomarcatori digitali (per esempio biosensori indossabili), per la diagnostica predittiva o la medicina preventiva. In particolare, aree di forte interesse sono lo studio delle malattie neurologiche come sclerosi multipla, Alzheimer ed epilessia, lo studio delle patologie rare e l’immunologia. Oggi, però, solo il 16% delle aziende del settore sta già testando soluzioni di sanità connessa o ha ottenuto l’approvazione per farlo. Oltre alla scarsa maturità di adozione, si evidenzia un problema di competenze: solo un’azienda su tre ha le capacità digitali, tecnologiche e relazionali necessarie per realizzare iniziative di sanità connessa destinate a non fallire. E solo una su quattro, al momento, impiega l’intelligenza artificiale per fare analisi predittive in tempo reale su dati raccolti da applicazioni e dispositivi indossabili. Tra le grandi società biotecnologiche e farmaceutiche (con fatturato superiore ai 20 miliardi di dollari) la metà ha già definito una strategia e una pianificazione in merito alle tecnologie di sanità connessa; tra le più piccole (con fatturato inferiore al miliardo di dollari), lo ha fatto solo il 17%.

mercato dei dispositivi, del software (incluse le app) e dei servizi di sanità digitale nel 2021 valeva 175,6 miliardi di dollari; tra il 2022 e il 2030 crescerà a un tasso composto annuo del 27,7%. Allied Market Research ha calcolato, invece, un valore di poco inferiore a 145,9 milioni di dollari per il 2020 e un’ipotetica crescita a un tasso Cagr del 17,9% fino al 2030, quando il giro d’affari annuo sarà di 767,7 milioni di dollari. Se includessimo anche le tecnologie informatiche per le biotecnologie, la ricerca medica e farmaceutica, i numeri sarebbero ancor più grandi. Questa peraltro è tendenzialmente l’indicazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che nell’espressione digital health comprende non solo le tecnologie di “medicina elettronica” (eHealth) già affermate ma anche l’uso della scienza dei dati e dell’intelligenza artificiale applicate, per esempio, alla genomica, alla lettura delle immagini diagnostiche, allo studio di cure sperimentali e allo sviluppo dei vaccini. Insomma i numeri vanno presi con le pinze (non quelle del chirurgo), ma sulla crescita della spesa pubblica e privata in tecnologie di sanità digitale possiamo non avere dubbi. Motori di questa crescita, nei prossimi anni, saranno la sempre maggiore diffusione degli smartphone, il miglioramento delle connessioni Internet, l’evoluzione dell’infrastruttura IT del settore sanitario, l’aumento della spesa sanitaria su base nazionale, l’ascesa delle malattie croniche, la domanda di servizi di monitoraggio remoto dei pazienti.

La delicata questione etica

Ma quali sono, al contrario, gli ostacoli sul percorso di un’ulteriore crescita del mercato e degli scenari applicativi? Il principale è forse la questione etica: come utilizzare i dati sanitari, fino a che punto poterli considerare come una materia di studio ed eventualmente un bene monetizzabile? La questione è troppo ampia per poterla affrontare in questa sede, ma gli aspetti più critici riguardano probabilmente la tutela della privacy dei dati sanitari e la necessità di evitare che l’intelligenza artificiale possa creare delle discriminazioni. Dalla diagnostica alle cure personalizzate, dalle analisi per l’ottimizzazione della spesa sanitaria al calcolo del rischio assicurativo, gli algoritmi sono un potente strumento di trasformazione in campo medico ma vanno maneggiati con particolare cura. Nell’ultima revisione del “Piano coordinato sull’intelligenza artificiale” della Commissione Europea, datata 2021, si ribadisce che spetta agli Stati membri promuovere l’uso in sanità di sistemi di AI che siano “solidi, equi e degni di fiducia”, e che abbiano una particolare focalizzazione su “prestazioni, sicurezza digitale, sicurezza fisica ed explainability”. Parola, quest’ultima, ben nota a chi si occupa di intelligenza artificiale e che significa la possibilità, per le persone, di comprendere le azioni o i risultati prodotti dagli algoritmi. Di intelligenza artificiale “opaca” è pieno il mondo, ma nel campo sanitario non dovrà trovare spazio. Oltre alla questione etica c’è poi il problema della interoperabilità dei dati (di cui parliamo a pagina 38), per il quale tuttavia le soluzioni tecnologiche già esistono.

Valentina Bernocco

DALLA INTEROPERABILITÀ AL MACHINE LEARNING

Puntare sugli standard recenti e su piattaforme di interscambio dei dati sarà essenziale per raggiungere gli scopi della “Missione 6” del Pnrr. La visione di Intersystems.

Quando si dice, con una metafora fin troppo usata, che i dati sono il nuovo petrolio, si dimentica forse una dimensione importante, più importante ancora della capacità di produrre ricchezza: la salute, il benessere, l’aspettativa e la qualità della vita delle persone. In sintesi, tutti i valori che dovrebbero sostenere l’ambito della sanità. La trasformazione digitale sta travolgendo anche questo settore, ma diversi ostacoli impediscono di sfruttare pienamente il potere dei dati nell’assistenza medica, nelle procedure di diagnosi, nella gestione delle politiche sanitarie da parte della Pubblica Amministrazione e anche nelle prenotazioni delle prestazioni sanitarie. E il problema principale è forse l’assenza di una standardizzazione dei dati e delle piattaforme e, di conseguenza, l’assenza di una standardizzazione della user experience paragonabile a quella che per esempio è stata realizzata nel retail, nei servizi bancari o in quelli di trasporto aereo. “L’healthcare è sempre stato in ritardo”, sottolinea Michel Amous, managing director per la regione Emea di Intersystems, multinazionale di Cambridge, Massachusetts, che è sul mercato dal 1978 con un’offerta di software e servizi gestiti per la sanità, le amministrazioni pubbliche e le grandi imprese. “Oggi la sanità deve passare dall’attrito alla fluidità dell’esperienza, e questa è una sfida in tutte le geografie”, ha proseguito Amous. “Nei prossimi anni il machine learning fornirà agli operatori del settore e ai medici migliori dati, incluse raccomandazioni e statistiche, per esempio sulle probabilità di rischio per singoli pazienti. Ma questo tipo di machine learning ha come requisiti la standardizzazione e l’unificazione dei dati di diverse piattaforme”. “La sanità da sempre ha a che fare con le informazioni”, fa notare Cesare Guidorzi, country manager dell’area Italia e Malta di Intersystems, “ma storicamente siamo stati abituati a tenerle un po’ segregate, custodite dai medici di famiglia o dagli ospedali. L’utente finora è stato l’agente del workflow dei dati, colui che doveva trasportare le proprie informazioni mediche da una parte all’altra”. D’altra parte la pandemia è servita, an-

Cesare Guidorzi che in sanità, ad accelerare i processi di digitalizzazione, ma allo stesso tempo ha palesato la difficoltà di gestire una inaspettata mole di dati e di processi, riguardanti contagi, ricoveri, tamponi, vaccini, Green Pass. Le piattaforme tecnologiche sottostanti sono segnate dalla mancanza di standardizzazione e di integrazione, perché spesso i software sono stati progettati da personale clinico e non da informatici, rispondendo al bisogno specifico di ciascuna Asl od ospedale.

I quattro livelli di interoperabilità

“Con la pandemia ci siamo resi conto che qualcosa non ha funzionato”, rimarca Alessandra Mazzucco, associate partner healthcare market di Reply. “È successo perché l’interoperabilità dei dati sanitari è stata sviluppata secondo standard vecchi”. In pochi casi, infatti, i sistemi iT hanno adottato il più recente standard HL7 FHIR (Fast Healthcare Interoperability Resources), valido a livello internazionale e utile per lo scambio di cartelle cliniche elettroniche. Per consentire pienamente l’integrazione tra i sistemi sanitari differenti e lo scambio di dati, sono necessari quattro livelli di interoperabilità. C’è un livello di base, che è quello che negli ultimi due anni ha permesso di scaricare e condividere i certificati dei tamponi per il coronavirus. Sul secondo livello, partendo dal basso, c’è un’interoperabilità di tipo in-

frastrutturale, che viene messa in atto tramite gli standard come il citato HL7 FHIR. Affinché un paziente possa essere “riconosciuto” tra una struttura ospedaliera e l’altra, senza doversi preoccupare di portare con sé la propria documentazione, è necessaria anche una interoperabilità semantica. L’ultimo livello è quello dell’interoperabilità organizzativa, che permette l’accesso ubiquo ai dati e lo scambio tra strutture territoriali ed enti centralizzati.

L’occasione del Pnrr

Storicamente, in Italia appena l’1% della spesa sanitaria statale è stato destinato a migliorare la gestione e la circolazione delle informazioni. Ma i fondi del Pnrr ora potrebbero dare spinta a una trasformazione basata su una migliore condivisione dei dati e sulla loro analisi “intelligente”, tramite machine learning. La Missione 6, dedicata alla filiera della salute, prevede un investimento complessivo di 15,3 miliardi di euro, destinati a due macro aree di intervento: lo sviluppo di reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale; e l’innovazione e la digitalizzazione del servizio sanitario nazionale. Fondamentale, a tal fine, saranno l’evoluzione del Fse (Fascicolo Sanitario Elettronico) regionale, la creazione di un Fse nazionale e la creazione di un’anagrafica nazionale degli assistiti. Gli Fse “2.0” dovranno adottare standard comuni per l’espressione del consenso e per la gestione dei dati, così da essere interoperabili e consentire non solo lo scambio di documenti (per esempio i referti) ma lo scambio di dati strutturati (singole informazioni sull’anagrafica o sulla storia clinica dei pazienti). Lo scenario organizzativo, e di conseguenza quello informatico, è complesso: la rete sanitaria italiana è composta da Asl e Asst (cioè aziende sanitarie locali e aziende socio sanitarie territoriali), ambulatori territoriali infermieristici e specialistici, unità operative di cura, unità complesse, centri diurni, consultori, strutture residenziali e semiresidenziali. Alla lista dovranno aggiungersi, secondo i progetti del Pnrr, le Case della Comunità e gli Ospedali della Comunità. “Durante la pandemia abbiamo visto la debolezza del sistema centrale e i difetti del modello regionale”, commenta Guidorzi. “Bisogna fare in modo che tutti i provider sanitari vedano gli stessi dati, con la stessa granularità. Il progetto è estremamente ambizioso, perché riguarda un’infrastruttura enorme”. Per gli Fse regionali 2.0 il Pnrr mette a disposizione 1,38 miliardi di euro (per la telemedicina c’è, invece, un miliardo di euro) e se dovessimo spendere queste risorse in giornate-uomo, sottolinea il country manager, questi soldi potrebbero non bastare. Inoltre non avremmo, forse, nemmeno abbastanza professionisti esperti in Italia per realizzare ex novo una soluzione.

Una strategia possibile

L’alternativa all’approccio a “mosaico”, che finora ha caratterizzato il panorama italiano dei software usati in sanità, è l’adozione di piattaforme conformi agli standard del settore, che funzionino come sistema di gestione e interscambio di dati. Questo è anche l’approccio di Intersystems, i cui software vengono personalizzati e calati nello specifico contesto grazie all’intervento di un system integrator (in Italia, l’azienda collabora in particolare con Engineering, Gpi ed Healthy Reply). Al centro dell’offerta c’è Iris for Health, piattaforma che comprende un database multi-modello per l’elaborazione transazionale (con supporto alle applicazioni real-time), un middleware di interoperabilità (per la gestione e lo scambio di dati tra diverse applicazioni), funzionalità di analytics integrabili con machine learning e con intelligenza artificiale (utili per l’analisi di dati clinici ma anche per il Crm, per le assicurazioni sanitarie o per la gestione dei contenziosi). La piattaforma supporta tutti gli standard per la gestione dei dati in sanità, incluso HL7 FHIR. Progetti di interoperabilità avanzata sono già stati realizzati con tecnologia Intersystems nello Stato di New York, in Scozia e nei Paesi Bassi, per citare solo alcuni casi. In Italia, tra le realtà clienti, spiccano il Policlinico Gemelli di Roma, l’Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano e le Asl TO4 e TO5. Inoltre con Reply è stata realizzata per la Regione Lombardia una piattaforma regionale di integrazione che già permette lo scambio di documenti tra le strutture territoriali, senza però consentire, al momento, lo scambio di dati strutturati. “In Lombardia siamo a metà percorso”, precisa Mazzucco. “I primi due livelli di interoperabilità sono già effettivi. Per gli altri due stiamo lavorando, grazie alle risorse messe a disposizione dal Pnrr”.

Valentina Bernocco

Foto di Online Marketing da Unsplash

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