N. 1/2012
Bim - Ed. Ministero Difesa - € 2,80 - Taxe Perçue
LA DIFESA IORE DEL TO MAGG A ST O L L O DE PERIODIC
Difesa. Rigore equità e crescita Il post Gheddafi tra estremismo fondamentalista e minaccia terroristica La transizione in Afghanistan: quale futuro per il Paese
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Informazioni della Difesa 1/2012
ROAD MAP Cari lettori come ogni settore della nostra società, anche il comparto Difesa è oggetto delle ricadute dovute alla crisi economica che investe l’Italia e l’Europa. Nella gestione dei nostri finanziamenti, come un buon padre di famiglia, dobbiamo fare i conti con l’esiguità dei fondi assegnati evitando gli sprechi, assegnando le giuste priorità e sacrificando anche le cose più care. “Informazioni della Difesa” è nato come strumento istituzionale per diffondere la “cultura della Difesa”. Un house organ che, attraverso i suoi articoli di analisi, di approfondimento e di divulgazione, raggiunge gli opinion makers, il mondo culturale e il pubblico in generale, per far comprendere le ragioni per cui una parte del Prodotto Interno Lordo nazionale viene destinato alla Difesa. Ecco perché “Informazioni della Difesa” non ha mai inteso assumere un ruolo “commerciale” ma ha cercato altresì di raggiungere tutti parlando, in maniera divulgativa e mai molto tecnica, di strategia, di attività operative, di tecnologia, di biodiversità. Nonostante ogni buona volontà, anche ad Informazioni della Difesa, così come a tutte le riviste edite dal Ministero, è stato conferito l’impegno categorico di raggiungere il pareggio di bilancio entro il 31 dicembre dell’anno in corso. La scelta operata, dettata come detto da comprensibili ragioni, ci impone adesso di mettere in atto alcune misure che, speriamo, ottengano la benevola comprensione di tutti voi. Nell’anno che ci separa dal termine ultimo per il raggiungimento dell’obiettivo, si procederà così all’eliminazione dei supplementi, cosa che ci consentirà di abbattere considerevolmente le spese di produzione e di spedizione della rivista. Saremo poi costretti ad aumentare il prezzo dell’abbonamento. Nondimeno, per ora, vogliamo chiedere a chi riceve la rivista in forma gratuita, di sottoscrivere l’abbonamento se ne ha l’interesse. Ci riferiamo anche e, soprattutto, a quelle realtà che ricevono diverse copie della Rivista che distribuiscono poi al proprio interno: ad essi chiediamo di sottoscrivere un numero di abbonamenti pari almeno al 50% delle copie che ricevono. A tale scopo troverete nel presente numero di “Informazioni della Difesa” la copia del bollettino prestampato per l’abbonamento annuale del 2012. Infine, allo scopo di recuperare preziose risorse economiche, ci si sta orientando a dedicare alcune pagine alla pubblicazione di inserzioni pubblicitarie e a ridurre considerevolmente il compenso reso ai nostri articolisti. Una vera e propria “road map” che non avrà solo valenza “economica” ma anche contenutistica. Tra i nostri obiettivi, infatti, c’è anche quello di ricercare un più profondo contatto con realtà a noi vicine che potranno contribuire a rendere più “appetibile” e ricca di contenuti la nostra rivista. Ci riferiamo alle Associazioni Combattentistiche e d’Arma, alle Rappresentanze militari, ai Corpi Bandistici delle F.A., ai Centri Sportivi di F.A., ai frequentatori dei Master in Giornalismo che la Difesa, insieme ad altre realtà, ha organizzato e continua a realizzare, a tutti i giovani che hanno partecipato – e a coloro che lo faranno – all’iniziativa “Vivi le Forze Armate. Militare per tre settimane”. A loro, che contatteremo personalmente quanto prima, chiediamo quella collaborazione che ci consentirà di fare sempre meglio e di raggiungere, alla fine del 2012, l’obiettivo prefissato, tagliando insieme il traguardo della nostra-vostra road map.
Informazioni della Difesa 1/2012
Le Rubriche Editoriale Road map
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Massimo Fogari
Forze Armate Difesa. Rigore equità e crescita
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Ministro della Difesa, Amm. Giampaolo Di Paola
Panorama Internazionale Il post Gheddafi tra estremismo fondamentalista e minaccia terroristica
14
Arcangelo Marucci
La transizione in Afghanistan: quale futuro per il Paese
22
Cristiana Era
Il Nord Africa: fattori d’instabilità e ruolo del terrorismo Ida Piampiani e Franco Del Favero
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Nomine Osservatorio strategico Finestra sul mondo Difesa alla Ribalta Difesa Notizie Rassegna Stampa Estera Indice generale 2011 Recensioni
Supplemento Le missioni italiane all’estero
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RE DELLA STATO MAGGIO
DIFESA N.
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Bim - Ed. Ministero Difesa - € 2,80 - Taxe Perçue
DELLO PERIODICO
Difesa. Rigore equità e crescita Il post Gheddafi tra estremismo fondamentalista e minaccia terroristica La transizione in Afghanistan: quale futuro per il Paese
ISSN 2036-9786
Copertina FOB Bala Morghab - Afghanistan (foto cybernaua)
n. 1/2012 Periodico dello Stato Maggiore della Difesa fondato nel 1981 Direttore responsabile Gen. B. Massimo Fogari Redazione Col. Valter Cassar Ten. Col. Pier Vittorio Romano 1° M.llo Mario Polverino C I° Francesco Irde Sede Via XX Settembre, 11 - 00187 Roma Tel.: 06 4884925 - 06 46912544 Fax: 06 46912729 e-mail: informazionidifesa@smd.difesa.it Amministrazione Ufficio Amministrazione dello Stato Maggiore della Difesa Via XX Settembre, 11 - 00187 Roma
Cooperazione Internazionale Il contributo dell’Unione Europea alla Sicurezza internazionale
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Andrea Pascali
Diritto Persecuzione politica
Abbonamento Italia: euro 16,40 - estero: euro 24,35
48
Vincenzo Maria Scarano
Storia Lo statuto di Carlo Alberto e la sua influenza sul Risorgimento Patrizio Rapalino
Realizzazione, distribuzione e stampa Imago Editrice s.r.l. Loc. Pezze Longhe, snc - Zona Industriale Dragoni (CE) Tel. 0823 866710 - 0823 866638 Fax: 0823 866870
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Il versamento può essere effettuato sul c/c postale 27990001 intestato a INFORMAZIONI DELLA DIFESA Ufficio Amministrazione SMD Via XX Settembre, 11 - 00187 Roma Gli articoli investono la diretta responsabilità degli autori, di cui rispecchiano le idee personali. © Tutti i diritti riservati Registrato presso il Tribunale Civile di Roma il 19 marzo 1982 (n. 105/982) SOMMARIO 3
Forze Armate
DIFESA
RIGORE, EQUITĂ€ E CRESCITA Audizione del Ministro della Difesa alle Commissioni congiunte Difesa - Senato della Repubblica - 15 febbraio 2012
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ignori Presidenti, Onorevoli Senatori e Deputati, sono qui oggi ad illustrare gli orientamenti del Governo per la ristrutturazione dello Strumento Militare; proposta alla quale avevo fatto cenno nella seduta congiunta dello scorso primo dicembre. E’ un impegno, quello del confronto col Parlamento, che avverto fortemente, perché progetti di ristrutturazione di rilevante portata richiedono ampia condivisione. Questo è del resto il significato della risoluzione approvata recentemente dalla Commissione Difesa della Camera, che ho condiviso, che impegna il governo a riferire in Parlamento sulle linee guida di revisione dello strumento militare, tenendo conto del ruolo consultivo del Consiglio Supremo di Difesa. La mia audizione di oggi, dopo la presentazione al Consiglio Supremo di Difesa ed al Governo risponde a questa esigenza e a questo impegno. Signori Presidenti, Onorevoli Senatori e Deputati. Le tre linee tracciate dal governo basate su rigore, equità e crescita hanno permeato tutto il lavoro, dando vita a previsioni di provvedimenti graduati nel tempo per far fronte alla ineludibile realtà dell’austerità finanziaria nonché alle necessarie prospettive di sviluppo e modernizzazione della Difesa. Illustrerò di seguito gli elementi essenziali della riforma elaborata per mettervi al corrente dei cambiamenti che propongo di apportare alla struttura delle Forze Armate. Lo farò delineando, quello che è il quadro di riferimento geostrategico nel quale ci troviamo ad operare, coniugandolo con il momento di eccezionale difficoltà finanziaria ed economica che stiamo attraversando. La situazione complessiva impone l’adozione di un complesso di misure rilevanti ed incisive anche nel settore della Difesa. Il quadro geo-strategico si caratterizza per una elevata fluidità di molti fattori chiave; una fluidità che si traduce, in sostanza, in una elevata instabilità. Il primo di tali fattori è rappresentato dal mutare degli equilibri politici ed economici globali, con
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l’ormai ben nota ascesa sulla scena globale di “nuove potenze”. Il secondo fattore, che concorre all’instabilità globale, è rappresentato dall’emergere di nuovi rischi per la sicurezza degli Stati e del sistema internazionale nella sua globalità, tra i quali rammento il terrorismo internazionale, la crescente minaccia della proliferazione delle armi di distruzione di massa e dei loro vettori balistici, la libertà d’accesso alle risorse ed al loro libero commercio e la crescente rilevanza della sicurezza cibernetica. Il terzo elemento che concorre all’instabilità è rappresentato dalla velocità del cambiamento, che talvolta fa assumere ai fenomeni caratteristiche più simili alla rivoluzione che alla trasformazione. La regione Euro-Atlantica è oggi relativamente stabile, ma è circondata da una serie di instabilità presenti nell’area del mediterraneo e medioorientale che in modo diretto e/o indiretto potranno vederci coinvolti, basti pensare che le “primavere arabe” sono iniziate a 45 minuti di volo da Roma ed hanno provocato per l’Italia un grosso afflusso migratorio, richiamando alla memoria gli eventi della crisi albanese del 1991 e successiva del 1997. Questa grande instabilità globale e regionale si sta sviluppando, inoltre in un periodo di austerità fiscale per tutti i paesi occidentali che li impegna ad avviare processi di modifica strutturale delle proprie organizzazioni di Sicurezza e Difesa e dei propri strumenti militari. In particolare, è in corso negli Stati Uniti un ridimensionamento quantitativo delle Forze Armate nel momento in cui si va volgendo una maggiore attenzione gravitazionale verso quelle regioni del globo dove più a rischio sono diventati gli interessi strategici di Washington, quindi l’area dell’Asia e del Pacifico. L’Europa rimane partner strategico degli Stati Uniti nel quadro dell’Alleanza Transatlantica, ma – in estrema sintesi – gli Europei sono oggi invitati a fare di più, in particolare nell’area euro-mediterranea e medio-orientale.
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Diviene pertanto ineludibile il rafforzamento delle capacità militari europee e una maggior condivisione delle responsabilità e degli oneri fra le due sponde dell’Atlantico. Le missioni internazionali di recente presentate a queste Commissioni sotto l’egida ONU, UE e NATO sono il contributo sostanziale del nostro paese alla stabilità internazionale, un contributo essenziale alla politica estera ed al ruolo internazionale del nostro Paese, come autorevolmente dichiarato dal Presidente della Repubblica, dal Capo del governo e dal Ministro degli Esteri. Esse rappresentano anche uno dei modi con cui contribuiamo ad assicurare la sicurezza e la difesa dell’Italia e degli Italiani. Perché oggi questa difesa la si garantisce non solo e non tanto alle frontiere, bensì fuori di esse, a distanza, là dove i rischi e le minacce si manifestano e si alimentano. Il quadro geo-strategico che ho tracciato è pienamente condiviso con i nostri alleati, sia in ambito atlantico sia dell’Unione Europea. E’ proprio da quel quadro condiviso che discendono la pluralità di impegni che la Difesa ha assunto, impegni che L’Italia è chiamata a continuare ad onorare. Lo scenario di riferimento per pianificare il futuro dello Strumento Militare è, quindi, quello condiviso nel contesto del sistema dell’Unione Europea e dell’Alleanza Atlantica delle quali l’Italia fa parte e che come ci ricorda il Presidente della Repubblica rappresenta il nostro riferimento fondamentale. Da questo scenario discende il requisito di un sistema militare nazionale che sia pienamente interoperabile ed integrabile con quello degli alleati, quindi tecnologicamente avanzato, che sia proiettabile là dove necessario, che sia sostenibile. Questi sono i requisiti indispensabili per le nostre Forze armate e questi sono gli obiettivi che si intende perseguire in coerenza con il volume di risorse effettivamente disponibile. L’ancoraggio del nostro strumento militare all’evoluzione euro-atlantica deve rappresentare
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la nostra Stella Polare. Se vogliamo costruire una più forte realtà europea di difesa e sicurezza e, quindi, contribuire ad una più solida realtà euro-atlantica, dobbiamo impostare con coraggio un’incisiva revisione del nostro strumento militare che lo renda: • coerente con l’evoluzione degli strumenti dei nostri più significativi alleati europei ed atlantici, cioè uno strumento interamente professionale, operativamente efficace con capacità operative proiettabili e sostenibili anche a distanza e tecnologicamente avanzate; • pienamente interoperabile ed integrabile con i nostri alleati europei ed atlantici più significativi; • sostenibile nel tempo e compatibile con le risorse disponibili. Solo in questo modo potremo concorrere a costruire un percorso di una più forte ed integrata identità europea di difesa e sicurezza ed un più solido rapporto transatlantico. Venerdì scorso ad Helsinki, il presidente della Repubblica ha detto: “ Siamo stati concentrati sulla difesa dell’Euro mentre abbiamo bisogno di Europa in tutti i campi, anche in quello della politica Estera e di Sicurezza Comune.” Questo bisogno d’Europa richiede iniziative e azioni concrete per crearne le condizioni. Questo è ciò che la proposta di ristrutturazione delle Forze Armate si propone: essere in grado di esprimere le capacità operative che sono richieste ai suoi membri, in particolare a quelli maggiori dell’Unione Europea e della NATO; queste capacità operative sono di elevato livello qualitativo e tecnologico e non possono essere schiave delle dimensioni dello strumento; al contrario il dimensionamento dello Strumento che è legato alle risorse disponibili, deve essere funzionale alle capacità operative esprimibili e sostenibili. In questo quadro e a fronte di queste esigenze, qual è la situazione del nostro Strumento Militare oggi ed in prospettiva?
In apertura: il Ministro della Difesa, Amm. Giampaolo Di Paola Sopra: manovre a bordo di Nave Garibaldi (Foto SMM)
E’ uno Strumento composto tutto da volontari (definito così per legge all’inizio degli anni 2000), come quello di tutti i nostri alleati euroatlantici ma, sovradimensionato rispetto alle risorse disponibili ieri, oggi ed in prospettiva e, quindi, se non si intervenisse, destinato a perdere rapidamente l’efficacia operativa a causa del suo sbilanciamento. Nel periodo 2004-2012 il PIL italiano è cresciuto in termini monetari del 15% (da 1.391 miliardi di Euro a 1.622 miliardi di Euro). Le risorse di bilancio destinate alla Funzione Difesa sono passate nello stesso periodo dall’1,01% del PIL del 2004 allo 0,84% del PIL del 2012 con una riduzione del 16%. Ciò significa che in termini monetari l’incidenza della Funzione Difesa è diminuita in 8 anni di oltre il 30%. Anche il valore della Funzione Difesa in termini reali è diminuito significativamente. Infatti al calo monetario del 4% dal 2004 al 2012 (da 14,1 MLD a 13,6 MLD) va aggiunta la perdita del potere d’acquisto dovuta all’inflazione, che nel settore delle spese militari per il periodo 2004-2012 può essere stimata intorno al 20/25%
quindi una diminuzione in termini reali della funzione difesa del 25/30%. I dati più recenti (12 gennaio 2012) elaborati dalla European Defence Agency (EDA), una agenzia europea terza ed indipendente, relativi alle spese per la difesa di tutti i paesi Europei riferiti al bilancio 2010, ci dicono che la media europea dei bilanci per la difesa, come percentuale del PIL, è di 1,61%. Il dato italiano della Funzione Difesa nel 2010 era 0,9% (percentuale tra le più basse in assoluto). La media europea della spesa del personale rispetto al totale della spesa per la difesa è del 51%; per l’Italia siamo oggi al 70%. La media europea della spesa di investimento per singolo militare è di 26.458 Euro; per l’Italia, invece, è di 16.424 Euro. Inoltre a seguito della legge di stabilità 2011, la funzione Difesa ha subito una ulteriore riduzione netta di 1,5 miliardi di euro nel 2012 e complessivamente di 3 miliardi nel triennio 20122014. Anche considerando il contributo del MISE (1300 milioni di Euro) il dato italiano della Funzione
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Il velivolo F-35A alla cerimonia di inaugurazione il 7 luglio, 2006 - WIKIPEDIA
Difesa nel 2012 non cambia significativamente, risultando pari allo 0.92% del PIL , comunque molto al di sotto della media europea. La conclusione di tutto quanto finora detto è di tutta evidenza: siamo uno strumento “manpower-intensive” e sottocapitalizzato. Qualsiasi struttura organizzata in queste condizioni non ha futuro e finirebbe col fare default funzionale, cioè consumare risorse senza produrre output e l’output delle Forze Armate sono la loro capacità operativa. Poiché nel contesto attuale di austerità fiscale non siamo in condizioni di ricapitalizzare lo strumento, al livello degli altri Paesi europei, l’unica soluzione per salvaguardare l’efficienza e le capacità operative è ridimensionare lo strumento in coerenza col capitale disponibile, cioè ridurre le sue dimensioni, orientando lo strumento verso una condizione di sostenibilità e di efficacia operativa. Così come l’Europa si è data dei benchmarks finanziari per introdurre la moneta europea, anche nel settore dei bilanci della difesa vi sono dei benchmarks largamente condivisi, sia nel
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contesto europeo che atlantico: un riferimento tendenziale al 2% del PIL; un equilibrio nel bilancio difesa tra spese per il personale, spese per l’operatività e spese per l’investimento dell’ordine del 50/25/25%. Ebbene, a fronte di questi benchmarks, oggi la realtà italiana è dello 0,9% per il rapporto Funzione Difesa/PIL e di 70/12/18 percento per il bilanciamento tra i tre settori (personale, operatività, investimento), a conferma di una ipertrofia dimensionale ed ipotrofia funzionale del nostro strumento militare. Da questa evidenza fattuale discende l’esigenza della ristrutturazione delle Forze Armate. Le linee di intervento coerenti col riferimento europeo ed atlantico sono chiare: 1) stabilizzare le risorse destinate alla Funzione Difesa, poiché la Funzione Difesa richiede stabilità pluriennale (almeno decennale). Quindi, guardando al triennio 2012-2014, così come definito dalla legge di stabilità 2011, la Funzione Difesa otterrà in media circa 14,1 miliardi di Euro. Ebbene, non si chiedono aumenti ma una ragionevole stabilità
programmatica per la Funzione Difesa nel decennio futuro su una base di risorse finanziarie in termini reali coerenti con quelle fissate nell’ultima legge di stabilità per il biennio 2012-2014 (circa 14,1 miliardi di euro). 2) Assunto questo valore quale base programmatica di riferimento di medio-lungo termine, si dovrà progressivamente ridurre la spesa del settore personale (tendenzialmente verso il 50%) e riorientare le risorse così ottenute a vantaggio del settore operatività, il più sacrificato (oggi al 12%) e dell’investimento (oggi al 18%), contando per quest’ultimo settore sul sostegno aggiuntivo del MISE a programmi di ricerca e di sviluppo tecnologici del settore Difesa. Si tratta di un sostegno coerente e funzionale al tema della crescita e dello sviluppo,uno dei tre cardini dell’azione del Governo. Il dimensionamento attuale di riferimento dello strumento è di 190.000 militari e 30.000 civili. La realtà oggi è di 183.000 militari e 30.000 civili circa. Per ricondurre lo strumento ad un dimensionamento più corretto e sostenibile con le disponibilità programmatiche di riferimento, dovremo progressivamente scendere a 150.000 militari e 20.000 civili. Una riduzione, cioè, di 43.000 unità, pari a circa il 20%. Comprendo bene come una riduzione di tali dimensioni significhi, in termini aziendali, una ristrutturazione profonda, che nel mondo dell’impresa verrebbe gestita attraverso gli strumenti della mobilità e della cassa integrazione straordinaria. È chiaro che questi sono strumenti non pienamente disponibili nel mondo statale, perché i militari e i civili della difesa sono dipendenti pubblici, e pur tuttavia rimedi straordinari devono essere adottati se si vuole risolvere la situazione in tempi ragionevoli. Oggi due sono i parametri che nella legislazione vigente per il personale del pubblico impiego
sostanzialmente regolano la dimensione del personale: i flussi di ingresso (reclutamento) e i flussi di uscita (esodo naturale per pensionamento). Con il punto di partenza attuale (213.000), per arrivare al livello desiderato (170.000) agendo sui soli flussi di ingresso (riduzione degli arruolamenti del 30%) ci vorranno 20 anni. La realtà anagrafica del personale militare e civile attuale è tale che nel primo decennio non si verificheranno riduzioni significative (173.000 + 27.000 = 200.000). Solo alla fine del secondo decennio si arriverà ai livelli di regime. È chiaro che un andamento di riduzione naturale così lungo è scarsamente significativo. Bisogna quindi agire non solo sugli ingressi (-30%) ma anche sui deflussi (le uscite). Gli strumenti più importanti potenzialmente disponibili, qualora condivisi, sono la mobilità verso altre amministrazioni centrali e locali e verso la componente civile della Difesa, anche mediante riserve e preferenze, programmi di assistenza al reinserimento nel mondo del lavoro esterno ma anche una più estesa applicazione dello strumento della ARQ (Aspettativa per Riduzione Quadri) per i militari, non escludendo a priori, ove fattibile e conveniente l’applicazione di forme di part time per talune funzioni e categorie di personale. Le prime tre misure sono state applicate già in passato, ma con risultati finora relativamente modesti; quindi il loro effetto è certamente utile e complementare, ma non decisivo per un più rapido snellimento della dimensione personale. L’istituto della ARQ si applica oggi solo agli Ufficiali nei gradi Colonnello/Capitano di Vascello e Generale/Ammiraglio. Estendendo tale istituto anche per gli Ufficiali nel grado di Tenente Colonnello/Capitano di Fregata ed ai Sottufficiali, questa misura consentirebbe un significativo deflusso di personale con-
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sentendo di avvicinarsi più rapidamente al livello di regime del personale militare (150.000) già in un decennio. Modulando opportunamente queste misure od altre che dovessero emergere, le riduzioni verrebbero ad agire non solo sul personale di truppa (riduzione dei reclutamenti), ma anche sui Generali/Ammiragli, sulla dirigenza e sui quadri Sottufficiali (incremento degli esodi). In particolare per l’alta dirigenza (Generali/Ammiragli a tre stelle) si dovrà prevedere una riduzione superiore alla media dell’altro personale che potrà essere di circa il -30% (da 48 a 35) per rendere la dimensione di tale livello più coerente col ridimensionamento complessivo dello strumento. La riduzione progressiva degli effettivi della Difesa costituisce un percorso doloroso ma inevitabile e di impatto sociale, perché per la sua dimensione (43.000 unità) e diversificazione va ad influire su una ampia platea di personale. Peraltro è un percorso che si svilupperebbe nell’arco di un decennio e più e quindi il suo impatto sarebbe diluito nel tempo e distribuito su più categorie in misura equa e trasparente. Il personale è una risorsa primaria per ogni istituzione, ed ancor di più per le Forze Armate e per la Difesa e pertanto, pur nella ineludibilità e progressività temporale del provvedimento (circa un decennio), ogni attenzione andrà riservata al personale per mitigarne per quanto possibile gli effetti. E’ indispensabile , quindi, che la Difesa possa contare sull’aiuto e la collaborazione di tutte le Amministrazioni. I tavoli in corso con il Ministro del Lavoro per la revisione del sistema pensionistico per i Dicasteri Difesa e Sicurezza e per la previdenza complementare dovranno tener conto della specificità del settore e della ristrutturazione dello Strumento Militare. Dobbiamo apprestare le adeguate garanzie economiche, pensionistiche e di reimpiego
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per tutto il personale coinvolto nella ristrutturazione. 3) Settore operatività (esercizio) Per ricondurre il settore operatività (formazione/addestramento/ esercitazioni/mantenimento/dei mezzi/infrastrutturale) a livelli accettabili bisognerà agire in due direzioni. Poiché in questo settore il rendimento della spesa è fornito dal rapporto tra le risorse disponibili e le strutture su cui ripartire le risorse, per aumentare l’efficacia bisogna migliorare questo rapporto agendo sia sul numeratore che sul denominatore. Quindi è necessario accrescere il numeratore attraverso il recupero di risorse dal settore personale, ma anche, nel breve-medio termine, ridurre il denominatore, cioè il dimensionamento delle strutture, centrali e periferiche. In particolare nel settore delle strutture si ridurrà il numero delle basi, caserme ed enti contraendo la presenza territoriale su un numero più ristretto di poli di presenza ed unificando per quanto possibile le diverse funzioni (formativa, territoriale/operativa, logistica) che oggi sono molto ramificate sul territorio, questo per tutte le componenti dello strumento (terrestre, marittima e aerea) in un’ottica joint. In questo settore molto complesso, gli studi di dettaglio sono in corso ma l’obiettivo minimo è quello di una progressiva ma celere riduzione strutturale del settore dell’ordine del 30% nell’arco di un quinquennio o poco più. Ciò consentirà anche un importante piano di dismissioni di immobili ed infrastrutture,quale contributo alla ristrutturazione della Difesa e come concorso al più generale risanamento finanziario del Paese. 4) Capacità operative/settore investimento Se da un lato è necessario ricapitalizzare le risorse destinate all’investimento avvicinando il settore ad una percentuale più virtuosa del 25% del budget, dall’altra è evidente che
Carabinieri dell'MSU (Unità Specializzata Multinazionale) in pattuglia
per modernizzare lo strumento operativo con le ridotte capacità finanziarie disponibili, è necessario ridurre le ambizioni dello strumento operativo stesso, che dovrà essere più piccolo ma operativamente più efficace. Quindi meno unità, meno piattaforme, meno mezzi, ma tecnologicamente più avanzati, realmente proiettabili ed impiegabili e sostenuti da più risorse per l’operatività (esercizio). In sostanza uno strumento più piccolo ma con maggiore qualità e quindi capace di esprimere in realtà una operatività più qualificata rispetto all’attuale. Per la componente terrestre, si ridurranno le brigate di manovra da 11 a 9, la linea dei mezzi pesanti (carri e blindo), la linea degli elicotteri e un numero significativo di unità per il supporto al combattimento (unità di artiglieria) e logistiche. Per la componente marittima si contrarranno le linee delle unità di altura e costiere (i pattugliatori per esempio si ridurranno da 18 a 10), dei cacciamine e dei sommergibili (da 6 a 4). Per la componente aeronautica si contrarranno le linee degli aeromobili per la difesa aerea e dei velivoli
della linea aerotattica. Per la crescita qualitativa e tecnologica dello strumento si procederà a migliorare la componente C4I (Comando e Controllo, Comunicazioni, Computer, Informazioni) e le Forze Speciali, ad acquisire capacità cyber, a digitalizzare le unità di manovra terrestri, a modernizzare le linee navali aeree ed elicotteri, e a potenziare la capacità ISTAR (Intelligence, Surveillance, Targeting Acquisition and Reconnaissance), fondamentali per la situational awareness terrestre, marittima ed aerea e sempre più richieste dalla NATO e dall’Unione Europea. Detto questo, non posso non fare un riferimento al programma più citato, cioè il JSF (Joint Strike Fighter). La realtà è la seguente. La componente aerotattica è una elemento indispensabile di ogni strumento militare significativo (questo vale per tutti gli strumenti dei paesi europei ed atlantici di rilievo). Uno strumento militare privo della componente aerotattica è uno strumento incompiuto, e quindi inefficace in qualunque contesto ope-
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Herat - Attività operativa condotta dalla Task Force Center, su base 66° Rgt Aeromobile "Trieste"
rativo (vedi Kosovo, Afghanistan, Libia ecc.). Una componente aerotattica operativamente e qualitativamente significativa è quindi una esigenza operativa indispensabile ed irrinunciabile. Oggi la componente aerotattica dello strumento militare comprende velivoli quali AMX, TORNADO e AV-8B per un complesso di circa 160 velivoli distribuiti su tre linee operative. Questi velivoli nell’arco dei prossimi quindici anni usciranno progressivamente dalla linea operativa per vetustà. E’ un fatto di età anagrafica, perché anche gli aerei vanno in pensione ad una certa età e devono essere sostituiti. La sostituzione delle linee aeromobili non si fa in un anno e neanche in dieci, bensì in un arco di almeno un quindicennio. Dieci anni fa e successivamente nel tempo, la Difesa ed il Parlamento decisero di ammodernare la componente aerotattica oggi formata da 3 linee diverse, attraverso un unico programma: il JSF, il miglior velivolo aerotattico oggi in via di sviluppo e produzione iniziale (anzi il
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solo), un aereo di avanzata tecnologia che è nei programmi di altri dieci paesi europeiatlantici (Stati Uniti, Regno Unito, Danimarca, Norvegia, Olanda, Turchia, Belgio) ed extraatlantici (Giappone, Australia, Singapore) e che ci consentirà anche una importante semplificazione operativa con ricadute economiche positive sulla logistica. È l’aereo che verrà costruito in migliaia di esemplari e che costituirà l’ossatura portante dell’interoperabilità aerotattica euro-atlantica nei prossimi trent’anni. Quindi è una scelta che ha senso, operativamente perché ci consente di applicare un concetto JOINT a due Forze Armate, tecnologicamente, industrialmente, operativamente ed anche sotto il profilo della comunanza logistica. Grazie alla lungimiranza di chi ci ha preceduto ed agli investimenti fatti (dell’ordine dei 2,5 miliardi di Euro), l’Italia si è posizionata nel programma quale secondo partner industriale dopo gli Stati Uniti. E’ quindi un potenziale tecnologico, industriale ed occupazionale unico su cui l’industria italiana del
settore può puntare per predisporsi ad un futuro ancor più competitivo. Quando entrò nel programma di sviluppo, all’inizio degli anni 2000, l’Italia si pose come obiettivo programmatico di riferimento un numero di 131 velivoli di cui circa la metà a decollo convenzionale e la metà a decollo corto e verticale. Le risorse disponibili, ma anche la revisione in chiave riduttiva delle capacità operative sostenibili, suggeriscono di ridimensionare questi obiettivi programmatici. L’esame fatto a livello tecnico ed operativo porta a ritenere come perseguibile da un punto di vista operativo e di sostenibilità un obiettivo programmatico dell’ordine dei 90 velivoli (circa - 40 velivoli), con una acquisizione per lotti, progressiva nel tempo e con una riduzione di spesa, rispetto a quella inizialmente preventivata stimabile dell’ordine di circa 1/3 degli oneri del programma, quindi una riduzione certamente significativa coerente con l’esigenza di oculata revisione della spesa. In conclusione, la riorganizzazione che intendiamo condurre è finalizzata all’ottenimento di uno strumento militare di dimensioni più contenute ma più sinergico ed efficiente nell’operatività e pienamente integrato nel contesto dell’Unione Europea e della NATO, capace di esprimere e di sostenere capacità operative adeguate agli scenari di instabilità del quadro geopolitico e geo-economico. La trasformazione richiederà, necessariamente, del tempo e stabilità programmatica. A tal proposito, il fattore determinante è rappresentato dal processo di riduzione del personale, al quale dobbiamo porre la massima attenzione e considerazione. E’ questa la leva strategica che consentirà di dare attuazione alla ristrutturazione dello strumento militare. Qualora si dovesse agire solo sul flusso dei nuovi reclutamenti e sul deflusso naturale per anzianità senza mettere in atto misure straordinarie di esodo del personale
oggi sovradimensionato rispetto ai livelli di regime individuati come sostenibili, sarebbero necessari, a legislazione vigente, circa venti anni, tempo che ritengo essere troppo lungo rispetto alla rapidità dell’evoluzione del quadro internazionale e della crisi finanziaria per poter produrre un reale rinnovamento. Abbiamo studiato, pertanto, alcune misure – di cui ho dato i lineamenti essenziali che, se adottate, consentirebbero di avvicinarci significativamente agli obiettivi prefissati nell’arco del decennio. Per attuare tali misure, è indispensabile, però, l’ampio sostegno del Parlamento a questa ristrutturazione presentata dall’Esecutivo e particolare attenzione alle esigenze del personale militare e civile della Difesa. A tal fine l’intenzione è di proporre al Parlamento l’adozione di una Legge-delega, nella quale potranno essere messi a sistema tutti i necessari interventi normativi, in un quadro unitario e razionale, coerente con le esigenze di risanamento delle finanze pubbliche, di attenzione al personale e con le necessità di tutela degli interessi nazionali e con il quadro degli impegni internazionali. Abbiamo poco tempo davanti a noi per avviare questa importante – e vorrei dire epocale – revisione del Sistema Forze Armate. E’ una revisione strutturale profonda che per ampiezza, incisività ed impatto sul sistema non ha riscontro con nessun’altra revisione finora fatta. Per attuarla occorre una ampia condivisione e, ripeto, una particolare attenzione nei confronti del personale che ne verrà affetto. Non pregiudichiamo questa opportunità da troppo tempo attesa e al contempo diamo a questo settore strategico già significativamente penalizzato negli ultimi anni, una prospettiva di stabilità programmatica di medio-lungo termine: se non aumenti, almeno stabilità e riforme incisive per il bene delle Forze Armate italiane e del loro futuro, in una prospettiva sempre più europea ed atlantica.
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Panorama Internazionale
IL POST GHEDDAFI TRA ESTREMISMO FONDAMENTALISTA E MINACCIA TERROSTICA ARCANGELO MARUCCI 14 INFORMAZIONI DELLA DIFESA 1/2012
arlare di Libia del dopo Gheddafi è un salto nel buio suggestivo. A risolvere l’arcano, nemmeno potrebbero bastare ai molti appassionati analisti, i numerosi ma variegati indicatori che giungono dal teatro di operazioni a meno che non si disponga di personali crystall ball. La difficoltà è infatti quella
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di mettere tutto in sistema e trarre delle conclusioni più o meno logiche. Pur con tale effimero quadro di situazione, tuttavia, non si può fare a meno di ipotizzare alcuni scenari futuri. Tra questi, quello che forse preoccupa di più gli occidentali, ma non solo, è il rischio di una deriva fondamentalista prodromica ad un incre-
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mento della minaccia terroristica di matrice islamica. Ciò può farsi scaturire dall’evidenza di alcuni parametri oggettivi e dai risultati dell’esame di altri di tipo presunto. Sui primi, basti innanzitutto pensare alla bozza della nuova costituzione preparata dal Consiglio nazionale di transizione che colloca la Shari’a alla base del Paese quale Stato islamico, intesa come la legge coranica che nega i diritti fondamentali della persona e legittima la dittatura teocratica. Ciò, in contrapposizione al giusnaturalimo, al diritto naturale ed al liberalismo, alla loro evoluzione ed al valore attribuito all’individuo ed alla esplicazione della propria personalità che connota la cultura occidentale. L’accezione non propriamente positiva che se ne fa della Shari’a sta nei riflessi che essa ha inevitabilmente in tutte le cose. L’Islam, invero, non è solo religione, dottrina e filosofia, l’Islam è anche diritto, politica ed economia. Le leggi del Corano regolano la vita religiosa, morale e sociale dei credenti; determinano la vita del singolo, quella della comunità, definiscono tutto ciò che attiene alla professione del culto musulmano ma anche tutto ciò che attiene al diritto e alle leggi applicabili all’uomo, al gruppo, al commercio e al suo sviluppo, ma soprattutto influenzano la politica, il modo di governare e gestire un paese e la sua gente. Non tutti, fortunatamente, applicano allo stesso modo le leggi del Corano. Da un lato vi sono Stati rigidissimi nel rispetto della Shari’a tanto che le loro costituzioni sono integralmente ispirate ai dettami di Allah, basti pensare all’Arabia Saudita, il paese arabo islamico per eccellenza. Dall’altro vi sono paesi, con una visione più laica della politica e della comunità sociale, che nelle loro costituzioni garantiscono diritti fondamentali come la libertà di culto, l’uguaglianza dei cittadini rispetto alla legge senza alcuna distinzione di razza, di sesso e di religione e che sono stati promotori di numerose carte e dichiarazioni arabe sul riconoscimento e sulla tutela dei diritti umani.
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Certamente pur nella consapevolezza della anzidetta accezione, sta di fatto che al di là delle speculazioni teoriche poi cogente è riportare il tutto sul piano pragmatico. La stessa consapevolezza è da riporre nell’utilizzo impreciso che nella prassi comune si fa del termine “islamista” spesso associato a quello di “estremista islamico” e non come colui che studia ed è cultore dell’islamismo. Così come l’uso dell’aggettivo islamico quale sostantivo al posto di musulmano. Tale errore semantico, in realtà, è figlio di una percezione negativa atta a indicare i militanti di movimenti radicali di matrice islamica che spesso tracimano nel terrorismo. Non essendo quindi sicuramente né giusto né tantomeno corretto associare tout court il concetto di “fondamentalismo” a quello di “terrorismo”, ancorché gli esempi e i modelli nel relativo mondo non giocano tutti propriamente a favore e lascino riflettere, converrà parlare allora di fronda jihadista intendendo quell’ala radicale molto prossima se non già debordata nell’ideologia estremista quaidista. In Libia, quarant’anni di regime autoritario hanno lasciato il paese privo di partiti politici e ci vorranno diversi anni prima che si formino nuove forze politiche in grado di rappresentare le varie correnti di una società divisa fra molte tribù. Peraltro, non sembrano esserci dubbi sul fatto che molti dei “ribelli” appartengono a gruppi estremisti islamici, il cui fine principale è la creazione di uno Stato islamico non propriamente fondato sulla democrazia e i diritti umani. Proprio quest’ultimo aspetto può essere messo in risalto (nel senso che la dice lunga) se si consideri l’assoluto e categorico rifiuto del CNT ad accettare la presenza di forze internazionali sul suolo libico, compresi i caschi blu dell’ONU. Malgrado i proclami a favore della democrazia e le pressanti richieste di fondi per ricostruire la nuova Libia, il Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) non ha mai voluto l’interferenza di forze straniere per mantenere la sicurezza e portare il Paese alle elezioni. Tutto ciò senza peraltro sottacere sulle modalità
In apertura: il popolo libico celebra la fine del regime di Gheddafi a Piazza dei Martiri a Tripoli (Foto NATO) Sopra: murales a Tripoli (Foto NATO)
dell’uccisione dell’ex leader libico, circostanza foriera di ulteriori polemiche e ambiguità probabilmente senza fine. Inoltre, la stessa bozza della futura costituzione afferma all’articolo 1 che “la Libia è uno Stato indipendente democratico in cui il popolo è la fonte dell’autorità… L’islam è la religione dello Stato ed è la principale fonte per la legge e la giurisprudenza”. Su esempio di altri Paesi islamici, il testo continua indicando che “lo Stato garantisce per i non musulmani la libertà di praticare i diritti religiosi e garantisce il rispetto dei loro sistemi di status personale”. Sebbene sia ancora una bozza e non avendo quindi ancora subito alcun processo di validazione, si può a ragion veduta comunque notare la contraddittorietà e l’ambiguità del testo che introduce la Shari’a, dissimulandola dietro termini cari alla cultura occidentale come “libertà” e “diritti”. Non che la Libia non sia già un Paese musulmano e che l’Islam non fosse stato alla base del sistema politico di Gheddafi, il cui modus operandi è tuttavia sin da subito sfociato nell’oppressione di una dittatura che non ha lasciato spazio di crescita politica e di coinvolgimento popolare nella guida del paese. Ciò nondimeno,
secondo alcuni osservatori quello che starebbe per avvenire sarebbe, paradossalmente, per certi aspetti un passo indietro rispetto alle aperture di Gheddafi che con tutte le storture su richiamate, negli anni, aveva concesso spazio alle religioni non islamiche distaccandosi dai rigidi precetti della legge coranica. Ed è proprio questa angolazione che sottende il rischio attuale di degenerazione nel fondamentalismo. A prescindere da questo primo aspetto di carattere oggettivo, come accennato in premessa, a complicare la futura svolta democratica del Paese vi è la presenza di numerosi assunti che opportunamente investigati conducono a scenari poco confortanti. In primis, la presenza sul territorio di gruppi jihadisti fra tutti il Libyan Islamic Fighting Group (LIFG) poi sfociato nel Movimento islamico per il cambiamento (IMC). La nascita di tale gruppo si colloca nel contesto religioso del paese che gioca un ruolo importante poiché il 97% della popolazione è musulmano sunnita. Ma è con l’avvento di Gheddafi nel 1969 che i rapporti tra Stato e religione cambiano radicalmente: dopo un’iniziale “luna di miele” con le componenti religiose, negli anni ‘80 la politica di integrazione tra Islam e socia-
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Bambini che giocano con armi rotte in una discarica (Foto NATO)
lismo dell’ex leader libico inizia ad essere osteggiata e considerata “eretica” dai musulmani più conservatori. A questi ultimi appare peraltro ben presto assai chiaramente che tale politica mira proprio ad indebolire gli ambienti religiosi e soprattutto gli ulema, nei confronti dei quali Gheddafi non esita a adoperare metodi brutali. In tale quadro nasce il LIFG (sebbene la sua formazione venga proclamata ufficialmente solo nel 1995) che inizia ad operare in Afghanistan dove combatte contro gli invasori sovietici creando campi di addestramento che saranno successivamente “rilevati” da Osama Bin Laden. Negli anni ‘90 parte dei guerriglieri torna invece in Libia dove attenta più volte ma senza successo alla vita di Gheddafi. Tra i “terroristi” c’è Abdelhakim Belhaj colui che ha guidato la presa del bunker di Gheddafi di Bab al Aziziya ed è divenuto comandante militare di tutte le forze ribelli militari a Tripoli nonché leader del movimento IMC. Proprio per la presenza tra le fila dei ribelli di personaggi come Belhaj molti osservatori hanno messo in guardia contro possibili infiltrazioni di al Qaida, o quantomeno di stampo fondamentalista nei nuovi assetti statuali libici. Da parte di altri si sottolinea invece come in realtà i membri dell’iniziale LIFG abbiano ripudiato il Jihad come dimostrerebbe ap-
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punto anche il cambiamento della loro denominazione in “movimento islamico per il Cambiamento” (IMC). Al riguardo e ad onor del vero, lo stesso Belhaj avrebbe mostrato toni e atteggiamenti moderati dopo la vittoria a Tripoli, astenendosi da vendette efferate contro i lealisti. Sicuramente per l’IMC/LIFG come per altri gruppi di ribelli armati, tre saranno gli scenari possibili alla fine della guerra: la reintegrazione, sul modello dell’African National Congress in Sud Africa o dell’UCK in Kosovo o qualcosa di simile al progetto tentato in Afghanistan di Reconciliation and Reintegration; l’inclusione politica, sul modello dell’OLP, del gruppo islamico in Egitto (trasformatosi nel partito islamista “Costruzione e Sviluppo”) o di Hezbollah in Libano; lo scontro, nel caso non si arrivi ad un accordo tra i ribelli una volta finiti i combattimenti. Tale ultima ipotesi, per la quale diversi analisti paventano margini piuttosto alti di reale concretizzazione, potrebbe vedere l’insorgere di una vera e propria guerra civile anche in ragione del ruolo che vorranno assicurarsi le varie componenti o attori coinvolti. Gli stessi Berberi, per esempio, fortemente avranno da rivendicare la loro voglia di autonomia e di riconoscimento della loro cultura, lingua non essendo disposti a tornarsene sulle montagne e
riprendere a vivere nelle condizioni di minorità civile e politica imposte da Gheddafi. Il conflitto per il patrimonio della Libia e per i suoi enormi depositi nelle banche occidentali (160 miliardi di dollari secondo le stime più modeste) ormai si muove in parallelo con l’altro conflitto per i vertici del potere all’interno del paese le cui premesse hanno cominciato a emergere in superficie sin da subito, prima ancora che venissero riconquistate le ultime roccaforti del colonnello Muammar Gheddafi. Verosimilmente sono gli integralisti islamici, ossia coloro che mirano ad applicare “totalmente” i principi e i dogmi di riferimento nella vita politica, economica e sociale della collettività, che costituiscono la maggioranza schiacciante dei ribelli libici. Essi – ed in particolare l’ala più intransigente al loro interno – nutrono la sensazione che il CNT li abbia trattati come inferiori e non abbia dato loro la quota di incarichi ministeriali e governativi che essi meritavano all’interno del Consiglio direttivo, che è una sorta di consiglio ministeriale responsabile della gestione degli affari del paese. Invero i liberali laici, che per la maggior parte avevano vissuto all’estero e in Occidente o erano stati ministri e alti funzionari del passato regime, si sono accaparrati i più alti incarichi ed hanno trattato con arroganza i comandi islamici sul campo, i quali nei passati mesi di conflitto hanno offerto in sacrificio centinaia, e forse migliaia, di martiri negli scontri con le unità militari di Gheddafi in tutta la Libia. Il CNT ha commesso gravi errori, di cui il principale sembra essere stato quello di comportarsi con presunzione e prepotenza non solo nei confronti della “parte non laica” che ha sopportato il peso maggiore della rivoluzione contro il deposto regime dittatoriale, ma anche nei confronti dei paesi vicini – Algeria ed Egitto – accusati di appoggiare Gheddafi, e perfino nei confronti della superpotenza cinese. Per di più, vi sono indizi addirittura di razzismo laddove alcuni membri del Consiglio, o ad esso affiliati, si sono spinti
ad usare un linguaggio intollerante nei confronti di persone di colore sia libici sia africani in generale, sfruttando l’alibi dell’utilizzo di tali genti quali mercenari da parte di Gheddafi. Un altro fattore da non sottovalutare per una corretta ricostruzione dell’apparato statale senza il rischio di derive o pericolose infiltrazioni, è la mancanza di funzionari, quadri e dirigenti preparati. Cosi, ancor più difficilmente si potrà guidare il paese, fondare uno Stato democratico con una magistratura imparziale e indipendente, o porre le basi di una riconciliazione nazionale che realizzi le aspirazioni di milioni di libici all’interno di uno Stato fondato sulle istituzioni, sull’uguaglianza, e sui buoni rapporti con i paesi vicini. In tale contesto, il Segretario Generale ha confermato la necessità di un ruolo centrale dell’ONU nel post-conflict quale figura più idonea al coordinamento degli sforzi internazionali. Tale concetto viene ribadito nella Ris. 2009/2011 con il lancio della Missione UNSMIL e nella successiva 2022/2011 che ne ha decretato il rinnovo per tre mesi, sino al 16 marzo 2012, necessari al completamento delle attività di valutazione post conflitto. Il testo definisce inoltre un ampliamento del mandato per includere il tema della non proliferazione e del controllo degli armamenti (MANPADS). Al momento è in corso l’elaborazione del Libya Coordinated Needs Assessment (LCNA), fondamentale anche per definire equilibri e dimensione di UNSMIL. In un quadro più ampio, le NU sono impegnate nell’”Integrated Mission Planning Process” (IMPP), un processo di analisi e pianificazione mirato a gettare le fondamenta per una presenza di lungo periodo delle NU nel Paese proprio attraverso UNSMIL. Come si potrà notare il quadro di situazione sembra arricchirsi sempre di più man mano che si introducono elementi di criticità oggettivi ovvero presunti. Nel merito, e sempre nell’ottica del postulare sul rischio in titolo, non può certamente sottacersi il misterioso e inquietante caso della sparizione dei lanciarazzi a spalla di
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L'equipaggio di Nave Etna presta opera di soccorso ad un barcone con 300 emigranti effettuando evacuazioni mediche a Lampedusa. (SOLAS)
missili terra-aria, in grado di “agganciare” l’obbiettivo con un sistema di puntamento a raggi infrarossi e seguire la fonte di calore prodotta dal velivolo puntato. Tale criticità è stata assorbita dalla risoluzione su richiamata tra i compiti di UNSMIL. Il loro acronimo è MANPADS (man-portable air defense system) sono leggeri e letali ma soprattutto con il caos libico stanno salendo in cima all’agenda dell’anti terrorismo internazionale. L’allarme terrorismo, dopo il saccheggio degli arsenali militari del regime di Gheddafi da parte degli insorti, si appunta sul rischio che queste armi finiscano sul mercato nero e da qui nelle mani dei terroristi. In effetti si tratterebbe di un appetibile armamentario che potrebbe essere oggetto di mercimonio o messo in mera vendita a disposizione dei migliori acquirenti: al Qaida in primis. Non è difficile supporre chi siano i potenziali acquirenti: i qaedisti, l’Hezbollah libanese, Hamas a Gaza e chiunque sia deciso ad abbattere un aereo passeggeri. La stessa AQMI (al Qaida per il Maghreb islamico) segnatamente alle cellule sempre più saldamente impiantate in Nord Africa e, più a sud, in tutta la fascia sahelo-sudanese, dalla Mauritania al Mali, al Niger e al Ciad. Proprio questi ultimi due paesi hanno già reso noto che le armi pro-
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venienti dalla Libia sono state contrabbandate nei rispettivi Paesi con destinazione al Qaida. Al riguardo, è sintomatico come tempo fa il ministro algerino per gli Affari africani, Abdel Qader Masahil, in un’intervista al quotidiano arabo al-Quds al-Arabì, ebbe a esprimere la propria preoccupazione per la presenza di al Qaida tra i ribelli libici e il suo rafforzamento nel paese e soprattutto sul fatto che i terroristi islamici siano riusciti a ottenere armi pesanti molto sofisticate approfittando della guerra in Libia e questo fatto mette in pericolo tutta la regione. Secondo i servizi algerini, il sud della Libia sarebbe ormai fuori dal controllo dello Stato e l’organizzazione terroristica ne starebbe approfittando per far arrivare le armi, rubate nelle armerie libiche, nelle sue basi in Mali. Nel processo di costruzione delle nuove istituzioni libiche bisogna pertanto far fronte al problema delle divergenze esistenti tra tutti i gruppi ribelli, animati da ostilità relative ad antiche questioni tribali e da nuove esigenze di potere in contrasto tra loro (islamisti e laici, conservatori e progressisti, esponenti tribali o etnici); ognuno di essi sempre pronto a rivendicare e dettare le proprie condizioni allo scopo di accaparrarsi una decisiva fetta di potere. A più di un anno dalla rivolta i fedelissimi del vec-
Una via dello shopping a Tripoli (Foto NATO)
chio regime insieme alle milizie paramilitari rappresentano ancora le minacce per il futuro del paese. Nessuno vuole perdere il potere conquistato e nel frattempo si impone l’imperativo di promuovere lo stato di diritto in un Paese da ricostruire, con un Consiglio nazionale transitorio (Cnt) diviso, che deve fare i conti con la perdita di credibilità e le prime elezioni del dopo Gheddafi in programma in primavera. Il compito, quindi, non è affatto facile a causa dei diversi interessi in ballo e rappresenta la vera insidia sulla stabilità e democraticità delle future istituzioni libiche. Non sarà inoltre semplice tenere lontano dal potere la fronda jihadista che, insieme ai Fratelli Musulmani, coltiva ampie attese nella prospettiva di governo del Paese. Infatti, la più agguerrita sfida al pluralismo e laicità della nuova Libia sarà suffragata proprio dalla necessità di evitare la nascita, al centro del Mediterraneo, di uno Stato che rischi di essere investito da una deriva fondamentalista. In conclusione è importante che in una tale contingenza la Comunità Internazionale agisca come moltiplicatore della stabilità favorendone il lento processo. In tale ottica, il Paese che più di tutti potrebbe ispirare e favorire un giusto equilibrio tra cultura, religione, secolarismo e
laicità dello Stato è la Turchia. Non è mistero che Erdogan sia stato accolto da sentimenti più intensi e carichi di significato rispetto a Sarkozy e Cameron, così come non è altrettanto celato il fatto che la Turchia abbia da tempo deciso di far ricorso al cosiddetto soft power, divenendo in tal modo una fonte d’ispirazione per regimi politici che vogliono abbandonare regimi dittatoriali a favore della democrazia. La recente crisi diplomatica con Israele e l’interesse mostrato nei confronti della rivolta siriana contro il regime di Bashir Assad, testimonia il nuovo protagonismo turco nell’area mediorientale-nord-africana. Il Re è morto, viva il Re. Ma questa volta l’araldo cosa annuncerà sulla nuova Libia? Continuerà ad essere uno Stato islamico, questo è un dato certo. Ma che tipo di struttura statuale avrà? Quale forma? Quale modello? Riuscirà a dissociarsi e respingere l’estremismo di per sé foriero di rischio per i parametri di democraticità? Il futuro è incerto per antonomasia ma gli interessi, altissimi per tanti attori, è auspicabile si convoglino affinché il solco della stabilizzazione si faccia sempre più netto e assuma i connotati più democratici possibili. Come tutte le self-fulfilling prophecies, la speranza c’è per cui non ci resta che aspettare. Insciallah.
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Panorama Internazionale
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LA TRANSIZIONE IN
AFGHANISTAN: QUALE FUTURO PER IL PAESE CRISTIANA ERA
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opo l’annuncio del Presidente Karzai lo scorso 21 marzo 2011, l’Afghanistan ha dato avvio alla prima fase della transizione in alcune province e distretti1 – tra cui quello di Herat - preludio ad un prossimo ritiro delle forze internazionali dal Paese, previsto indicativamente per il 2014. Il passaggio delle responsabilità nella gestione della sicurezza da ISAF all’ANSF2 sembra indicare un miglioramento sia delle stesse condizioni di sicurezza, sia del livello di approntamento delle forze afghane. In realtà, nonostante il supporto e l’addestramento di ISAF, l’ANP, l’ANA, l’ANCOP, l’ABP3 e le altre forze non hanno ancora raggiunto livelli di capacità operativa adeguati a garantire la protezione della popolazione da un possibile ritorno al potere dei talebani e a contrastare i narcotrafficanti, la criminalità comune e la corruzione ormai diffusa in molti settori e a vari livelli. Gli innumerevoli casi di corruzione e di estorsione, per non parlare degli arresti arbitrari per motivi personali riportati spesso dai media afghani,4 non hanno certamente contribuito in modo positivo allo sviluppo di un rapporto di fiducia tra la popolazione e chi dovrebbe essere preposto a tutelarne la sicurezza. E’ pur vero che il Governo afghano ha annunciato un maggiore impegno nella lotta alla corruzione, oltre all’avvio di programmi di alfabetizzazione per l’ANSF e un incremento dei programmi addestrativi e dell’arruolamento di unità aggiuntive da dispiegare sul territorio.5 Allo stesso tempo il
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numero delle truppe afghane è salito a circa 300 mila unità, con un obiettivo programmato di 352 mila unità entro il 2012.6 Ma allo stato attuale non sembra abbastanza. Solo occasionalmente l’ANSF è riuscita – grazie all’apporto decisivo delle forze internazionali – a raggiungere livelli accettabili di sicurezza in alcune parti del territorio. Le capacità di controllo del territorio e di intervento rimangono deboli, come dimostra l’incremento degli attacchi contro personalità politiche e religiose di spicco. A luglio vi è stata l’uccisione del presidente del Consiglio Provinciale di Kandahar(e fratellastro di Karzai), Ahmad Wali Karzai, e di Ghulam Haydar, sindaco di Kandahar. Per il clamore pubblico sollevato e le conseguenti polemiche a livello politico7, questi attentati non hanno certo favorito il Governo in un momento in cui risulta fondamentale per Karzai promuovere l’immagine di un esecutivo efficiente che ha il controllo del territorio e che è in grado di mantenere condizioni di sicurezza tali da permettere il consolidamento delle istituzioni e dello stato di diritto. Il programma di ricostruzione dell’Afghanistan procede in modo frammentato e si appoggia quasi totalmente sull’apporto fornito dalla comunità internazionale che, attraverso progetti mirati (che riguardano la professionalizzazione soprattutto della parte femminile della popolazione, la costruzione di scuole ed ospedali, ponti, strade, pozzi e sistemi di irrigazione), cerca di sostenere
La prima fase della transizione ha toccato le province di Bamyan, Kabul (eccetto il distretto di Sarobi), Panjshir, i comuni e rispettivi distretti di Herat, Mazar-e-Sharif, Mehtarlam and Lashkar Gah. In queste aree le azioni degli insorti sono proseguite nel tentativo di mettere in risalto la difficoltà delle forze governative di riuscire a mantenere la sicurezza. “The situation in Afghanistan and its implications for international peace and security – Report of the Secretary General”, UN SG Report on Afghanistan, September 21, 2011. Afghan National Security Force Afghan National Police, Afghan National Army, Afghan National Civil Order Police e Afghan Border Police. Sono le varie forze di sicurezza che collettivamente vengono indicate come ANSF. I media afghani, laddove esistenti, riportano sovente notizie di casi di corruzione, di clientelismo, di tangenti, di violenze e di altre violazioni dei diritti perpetrate dall’ANSF, soprattutto nei villaggi, dove un controllo sul loro operato è più difficile. Anche in assenza di casi di corruzione, non sempre le forze di polizia sono riuscite a proteggere la popolazione dagli attacchi dei talebani e dalla criminalità organizzata già molto diffusa, sia per la mancanza di mezzi per contrastare l’illegalità, sia per la mancanza di forze sufficienti a coprire l’intero territorio, creando così delle aree dove la legge del più forte si impone. Alla popolazione afghana non sfugge che l’ANSF non ha a disposizione i mezzi e l’addestramento sufficiente per garantire la sicurezza in maniera costante ed efficace, per questo motivo molti si oppongono al ritiro delle truppe ISAF, che vedono come le sole in grado di impedire il ritorno della violenza in tutto il Paese. Notizie su casi di corruzione da parte di poliziotti e militari afghani sono apparsi sui media nazionali e locali, come l’emittente nazionale RTA, la principale agenzia di stampa AJC (http://ajc.af/) e sulle radio, che in Afghanistan rappresentano il mezzo di comunicazione più diffuso. Si veda il discorso di Karzai sull’incremento pianificato di 200 mila unità, http://tolonews.com, 22 marzo 2011; Itefaq-e-Islam, 9 marzo 2011 C.J. Radin, “Funding the Afghan National Security Forces”, Long War Journal, 16 settembre 2011 A seguito dell’attentato al Ministero della Difesa, molti senatori hanno chiesto le dimissioni del Ministro per incapacità ed ha provocato dibattiti accesi all’interno della Camera degli Anziani, la Meshrano Jirga.
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In apertura: cingolato Dardo in movimento nella provincia di Farah Sopra: Hamid Karzai con il Segretario Generale dell'ONU, Ban ki Moon e il Segretario Generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen al Sumit di Lisbona di novembre 2010
la stabilità del Governo in carica. Ma i progetti spesso tengono conto di aree di particolare interesse, trascurando altre zone, per lo più quelle povere e paradossalmente più bisognose che diventano, pertanto, delle zone rifugio (safe havens) dove i Talebani possono più agevolmente sfruttare il malcontento locale con una propaganda volta a sottolineare l’assenza del governo e delle istituzioni. I progetti a macchia di leopardo rischiano dunque di avere un impatto inferiore alle aspettative. A questo vanno aggiunte le accuse di corruzione nei confronti di amministratori locali che spesso dirottano i fondi destinati a tali progetti verso attività personali o comunque legate alla propria famiglia, clan o cerchia di amicizie. La situazione economica del Paese, l’assenza di infrastrutture che permettano lo sviluppo della piccola industria e i problemi con le strutture amministrative che ostacolano l’affermarsi del concetto di istituzione legittima 8
nella cultura e nella mente degli afghani impediscono anche che la popolazione guardi al futuro in modo positivo. L’oppio, inoltre, continua ad essere una delle piaghe maggiori che affliggono l’Afghanistan. Nel corso del 2011, gli sforzi delle autorità per sradicare e contrastare la coltivazione e l’uso di oppio si sono intensificati. Secondo i dati delle Nazioni Unite e del Ministero per la Lotta al Narcotraffico, la distruzione dei campi di oppio è aumentata del 65%, interessando 18 province rispetto alle 11 del 2010. Significativamente, però, il numero degli incidenti verificatisi durante le operazioni di eliminazione delle coltivazioni condotte dalle forze di sicurezza afghane supportate da ISAF è aumentato di 4 volte: le squadre incaricate infatti sono state attaccate 48 volte rispetto alle 12 dello scorso anno.8 La distruzione delle coltivazioni e una diminuzione della produzione dovuta alla diffusione di una malattia della pianta, hanno fatto sì che il prezzo
“The situation in Afghanistan and its implications for international peace and security – Report of the Secretary General”, UN SG Report on Afghanistan, September 21, 2011.
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In Afghanistan i soldati italiani accolgono la popolazione locale per attività̈ sanitarie
dell’oppio crescesse del 104% e questo ha ridato impulso alla coltivazione stessa. Inoltre le difficoltà incontrate dai coltivatori nel convertire i campi di oppio in coltivazioni alternative dovute ad una carenza di strutture adeguate di irrigazione, ai mancati sussidi promessi dal Governo per sostenere i costi di riconversione, i rendimenti insufficienti delle nuove coltivazioni, stanno nuovamente indirizzando i coltivatori verso un ritorno all’oppio come fonte sicura di reddito.9 La necessità di porre fine ai decenni di conflitto e di procedere con la riunificazione del Paese ha spinto il Governo afghano a mettere in piedi un processo di reintegrazione dei talebani (per la policy del politically correct ora definiti “combattenti”) nella società afghana. L’Afghan Peace and Reintegration Program (APRP) risponde, nelle intenzioni delle autorità, al duplice bisogno di incoraggiare le defezioni tra le fila dei combattenti e di pacificare il territorio offrendo la possibilità di reintegrarsi nella comunità a coloro che si 9 10
sono uniti alle forze talebane per mancanza di lavoro o per l’assenza di un Governo che risponde ai bisogni della popolazione. L’intero processo di reintegrazione, però, pur propagandando una immagine positiva di un Governo impegnato nella ricostruzione e nella stabilizzazione del Paese, presenta molti limiti. L’APRP, infatti, è una iniziativa che prevede la presenza di una struttura articolata di enti a livello locale incaricati di seguire e far accogliere nuovamente gli ex combattenti nelle rispettive comunità di appartenenza, fornendo a queste ultime l’appoggio e le risorse necessarie per reinserirli a pieno titolo nella struttura sociale e – soprattutto – economica. Questi enti non sono ancora presenti in tutti i distretti e in tutte le province con un conseguente rallentamento del processo sul quale invece dovrebbe concentrarsi un’azione governativa rapida ed incisiva. Negli ultimi sei mesi il numero di combattenti che hanno deciso di abbandonare la lotta è cresciuto.10
Gol Ahmad Ehsan, “Helmand Farmers Threaten Return To Opium”, IWPR, 19 settembre 2011 Alla fine di luglio 2374 insorti hanno accettato l’APRP, 431 in più rispetto al mese precedente. “The situation in Afghanistan and its implications for international peace and security – Report of the Secretary General”, UN SG Report on Afghanistan, September 21, 2011.
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Ma alla prima fase, quella dell’ufficializzazione della resa, non hanno fatto seguito (nella stragrande maggioranza dei casi) la seconda e la terza fase: la registrazione di coloro che abbandonano la lotta armata e l’avvio di training formativi e professionali per reinserirli nel mondo del lavoro; e la realizzazione di progetti a favore della comunità che li accoglie (costruzione di ponti, strade, pozzi, scuole, ospedali e altri progetti di cooperazione allo sviluppo). La buona riuscita dell’APRP è comunque un elemento fondamentale per la transizione e per uno sviluppo costante e sostenibile dell’Afghanistan. Su questo punto e sulle capacità di guidare il processo di transizione verso un consolidamento si giocherà anche l’immagine del governo di Karzai . Ma l’uccisione del Presidente dell’High Peace Council, Burhanuddin Rabbani, avvenuta lo scorso 20 settembre, rischia di rinfiammare gli animi e di annullare i piccoli progressi faticosamente raggiunti fino ad ora.11 L’High Peace Council è il principale organo preposto alla supervisione e al coordinamento del processo di pace e di reintegrazione dei Talebani, ma sin dall’inizio della sua attività ha sperimentato numerose divisioni interne, non riuscendo a parlare con un’unica voce.12 Su questo punto si possono fare due considerazioni. La prima: Rabbani è solo uno delle ultime personalità di rilievo di etnia tagika e appartenente all’Alleanza del Nord che ha combattuto contro i Talebani ad essere ucciso durante il 2011, a dimostrazione che il conflitto etnico non è ancora del tutto sedato e può riesplodere facilmente in condizioni di indebolimento della legittimità del GIRoA.13 Nel solo mese di settembre gli attacchi alle forze governative e alla comunità internazionale si sono intensificati, basti ricordare il camion bomba esploso nella provincia di Maidan Wardak, i razzi lanciati contro la base 11 12 13 14 15
americana di Bagram e l’attentato contro il Vice Presidente del Senato afghano, Rafiullah Afghan.14 Sembrerebbe quindi che fino a questo momento il governo non sia stato in grado di garantire un livello di sicurezza tale da consentire un consolidamento della transizione e della governance. La seconda considerazione è quella del fallimento della politica di negoziazione con i Talebani, tanto cara agli Stati Uniti, che nel corso dell’anno hanno fatto pressioni ed intrapreso varie iniziative per cercare di portare avanti i negoziati di pace.15 L’idea dei negoziati e del reinserimento dei talebani nella vita sociale e politica dell’Afghanistan non ha ricevuto consenso unanime all’interno delle forze governative e dall’opposizione (soprattutto da parte dei gruppi non appartenenti all’etnia pashtun). D’altra parte, non vi è chi non veda che il coinvolgimento di alcuni esponenti talebani nelle trattative rappresenta più un tentativo di prendere tempo e di sfruttare le risorse e gli aiuti messi a disposizione dal governo e dalla comunità internazionale che non una effettiva volontà di partecipare alla pacificazione dell’Afghanistan. Inoltre, l’intensificarsi degli attentati contro personalità di rilievo, le violenze perpetrate contro le comunità locali che cercano di affrancarsi dall’influenza talebana sostenendo il progresso e l’emancipazione, gli attacchi contro le imprese e le persone che collaborano a vario titolo con le forze ISAF e i rapimenti – spesso seguiti dalle uccisioni - degli elder dei villaggi o delle figure religiose che appoggiano le politiche governative o che accettano gli aiuti degli stranieri, sembrano avvalorare la tesi che la transizione sia un processo ancora estremamente fragile e che le forze talebane stanno cercando di riorganizzarsi aspettando l’annunciato ritiro di ISAF, sapendo che Karzai
“Afghanistan to probe Rabbani killing”, AFP, 25 settembre 2011. 8 AM, 11 maggio 2011. Government of the Islamic Republic of Afghanistan. http://www.rai.it/dl/grr/notizie/ContentItem-610b77bf-bc6c-4f5b-a044-7d5b0b5a03d8.html In maggio gli Stati Uniti hanno avviato unilateralmente dei negoziati con alcuni esponenti talebani in Qatar, escludendo però dagli incontri sia il governo pakistano che quello afghano.
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e le forze di sicurezza nazionali non riusciranno a mantenere il controllo sul territorio e sulla popolazione. La stabilizzazione e un possibile consolidamento delle istituzioni e dello stato di diritto sono influenzati anche dalle dinamiche e dagli interessi internazionali che coinvolgono gli Stati confinanti, in particolare il Pakistan e l’Iran. Pur ricevendo pressioni dal Governo statunitense e dalla comunità internazionale, fino a questo momento il Pakistan non ha collaborato attivamente nel sostenere la pacificazione dell’Afghanistan. E’ noto da tempo che la regione settentrionale pakistana al confine con l’Afghanistan dà asilo a gruppi di talebani che da lì riescono a riorganizzarsi sia per infiltrarsi in Afghanistan sia per effettuare incursioni, forti dell’appoggio della popolazione locale, anch’essa di etnia pashtun. La questione dei confini della linea Durand che ha diviso in due l’area geografica abitata dai pashtun16 continua ad essere fonte di instabilità per l’Afghanistan e certamente non giova ai rapporti bilaterali tra i due Paesi. L’Afghanistan ha spesso accusato il Pakistan di fomentare le proteste contro il Governo legittimo di Kabul all’interno dei propri confini e di non fare abbastanza per combattere i terroristi che hanno le basi sul suo territorio. Le modalità con cui si è svolta l’operazione, che lo scorso maggio ha portato all’uccisione di Bin Laden da parte delle forze statunitensi (e di cui il Pakistan era stato tenuto all’oscuro), sono state un’ulteriore conferma – semmai ve ne fosse stato bisogno che effettivamente l’attività dei talebani trova un forte punto di appoggio in questo Paese e che le stesse fonti di intelligence pakistane hanno al loro interno collaboratori di al-Qaida e dei talebani,17 rendendo improbabile che vi possa essere una decisa volontà politica di 16
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estirpare le roccaforti dei terroristi dal proprio territorio. Ma anche l’Iran ha forti interessi in Afghanistan. Il confine tra i due Paesi è innanzitutto un punto di passaggio per l’oppio e per il flusso di profughi afghani che si recano in Iran con la speranza di trovare condizioni di vita migliori. Sono, questi, fattori potenzialmente destabilizzanti che Teheran cerca di tenere sotto controllo. Inoltre l’Iran non vede di buon occhio l’influenza degli Stati Uniti nell’area. La presenza delle truppe statunitensi e l’ipotesi ventilata negli ultimi mesi di poter lasciare delle basi permanenti in Afghanistan ha sollevato l’opposizione e le proteste di Teheran che spera, invece, nel disimpegno a breve termine degli americani e quindi di tutta la NATO. L’aumento della presenza americana nell’area occidentale, quella sotto il controllo di RC-West, è sicuramente elemento di disturbo per gli interessi e l’influenza iraniani che sono concentrati proprio nella zona occidentale con la quale confina e che comprende anche una città come Herat, sviluppata e relativamente stabile dal punto di vista della sicurezza e della governance. Nel quadro generale non vanno dimenticati altri attori come l’India, la Russia e la Cina. Pur in un’ottica di minore visibilità, tutti questi Paesi sono anch’essi parte del “Grande Gioco” in versione moderna. L’India e la Cina, potenze emergenti dell’area, con una economia in continua espansione hanno crescenti necessità energetiche. La costruzione di gasdotti nell’area per l’importazione di gas dall’Iran, dalla Russia o dal Turkmenistan diventa una questione di rilevanza geopolitica oltre che economica. Gli Stati Uniti, anch’essi interessati allo sfruttamento delle risorse energetiche dell’area, premono naturalmente per soluzioni che possano favorire la propria presenza nell’area e contempora-
Si fa spesso riferimento al “Pashtunistan”, un’ampia zona che comprende il sud dell’Afghanistan e il nord del Pakistan abitata quasi esclusivamente dai pashtun e che venne divisa nel 1893 in seguito agli accordi presi da Sir Mortimer Durand, Segretario degli Esteri del Raj Britannico e dall’Emiro afghano Abdur Rahman Kahn. Tali accordi definirono i confini tra l’attuale Afghanistan e il Pakistan. Gli Stati Uniti hanno accusato l’intelligence pakistana di aver appoggiato gli attacchi da parte del gruppo terroristico Haqqani nel settembre scorso a Kabul, accuse rigettate dal Direttore Generale dell’ISI Shuja Pasha. Qaiser Yousafzai, “Pakistan to expand ties with Afghanistan”, Pajhwok, 30 settembre 2011; “The Afghan Taliban says it supports Haqqani, not Pakistan”, CNN, 29 settembre 2011. Secondo il Presidente Karzai e il governo di Nuova Dehli, il Pakistan avrebbe responsabilità anche per quanto riguarda l’assassinio di Rabbani.
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Il Presidente del Consiglio Mario Monti con il Presidente afgano Hamid Karzai (Foto governo.it)
Bakwa,Task Force South East, alpino del 7¯ Reggimento
neamente il contenimento dell’Iran. E queste soluzioni passano per il territorio afghano.18 Ancora una volta l’Afghanistan si ritrova al centro degli interessi di delle potenze regionali. La presenza di grandi giacimenti di minerali e di risorse energetiche in Asia centrale e il potenziale derivante dagli sbocchi commerciali fanno dell’Afghanistan (anch’esso ricco di giacimenti ancora da sfruttare per la mancanza di finanziamenti e tecnologie adeguate) lo scacchiere su cui si giocano gli interessi dei Paesi dell’area e degli Stati Uniti. La stabilizzazione dell’Afghanistan non può non risentire di queste influenze, tanto più in presenza di un Governo ancora fragile che, come abbiamo visto, fa fatica ad acquisire legittimità nei confronti della popolazione. Per avere successo la transizione ha bisogno di tempo e di condizioni minime di sicurezza che garantiscano la ripresa e lo sviluppo di una economia ancora prevalentemente agricola, la quale possa garantire ad una popolazione con un alto tasso di povertà di poter soddisfare i 18
bisogni primari e accedere ai servizi di base. Le forze di sicurezza hanno bisogno di essere addestrate, equipaggiate, istruite e riorganizzate. Tutto questo avrà un costo elevato, che Kabul da sola non è in grado di coprire e richiede tempi lunghi. Infine, Karzai riesce con molta difficoltà a tenere insieme una coalizione con posizioni divise in merito alla pacificazione e alla politica della reintegrazione così come della presenza delle forze internazionali sul territorio. I gruppi talebani sembrano aver capito che il processo di consolidamento del potere istituzionale non ha portato a risultati irreversibili e la scelta di una data del ritiro delle truppe internazionali se da un lato rafforza la posizione di Karzai di fronte a coloro che chiedono a gran voce il ritiro degli stranieri, dall’altro favorisce la strategia dei gruppi terroristici che si riorganizzano in attesa dell’avvicinarsi di tale scadenza. Alla luce di queste considerazioni, appare evidente che la fragilità della fase della transizione e le persistenti divisioni interne rendono lo Stato afghano ancora una volta facile preda dei più svariati interessi a livello internazionale costringendolo ad assumere posizioni contraddittorie come quella di chiedere il ritiro della presenza militare internazionale pur dovendo ancora dipendere pesantemente da questa per impedire una nuova escalation di violenza. I giocatori in campo sono cambiati (con l’eccezione della Russia), ma il Grande Gioco continua.
Per altri dettagli si veda Francesco Brunello Zanitti, “Il gasdotto Iran-Pakistan e i diversi interessi in gioco”.
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Panorama Internazionale
IL NORD AFRICA: FATTORI D’INSTABILITÀ E RUOLO DEL TERRORISMO IDA PIAMPIANI E FRANCO DEL FAVERO
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Il Nord Africa fra tentativi di riforme e problemi strutturali li eventi della cosiddetta “Primavera Araba” hanno riportato l’attenzione della Comunità Internazionale sul bacino del Mediterraneo in generale e sull’Africa Settentrionale in particolare. Nello specifico, l’attenzione degli analisti è concentrata principalmente sulle possibili relazioni esistenti fra i tre principali fattori “storici” d’instabilità della regione: l’integralismo religioso, il terrorismo1 e, non ultima, la crescente esigenza di riforme strutturali in campo politico, sociale ed economico. Prima di analizzare l’aspetto relativo alle aspettative di riforme democratiche che, in quanto disattese, sono state considerate come il motivo principale alla base delle “rivoluzioni” che hanno letteralmente “spazzato via” regimi ultradecennali, che sembravano destinati a perdurare seguendo una successione dinastica, è necessario soffermare l’attenzione su alcuni dei problemi strutturali – incidenti sulle condizioni elementari di vita della popolazione – che affliggono i Paesi della Regione e che, di fronte all’inazione della maggioranza dei governi, rendono le richieste di riforme in campo politico ed economico ancora più pressanti. La popolazione con le sue dinamiche, come vedremo, rappresenta, o meglio dovrebbe rappresentare, il fulcro attorno al quale ruota l’intero sistema economico e sociale regionale. Sotto l’aspetto delle condizioni fondamentali di vita dei cittadini, ovvero della human security2, la Regione presenta però numerosi fattori di rischio legati prevalentemente, anche se non esclusivamente, ai forti squilibri di natura ambientale. La human security, nella formulazione adottata dalle Nazioni Unite, è considerata la “retroguardia”, ovvero la condizione di base, dello sviluppo. In altri termini, quindi, non
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Il riferimento diretto è al ruolo della leadership egiziana all’interno di Al Qaeda ed alla successione di Osama Bin Laden, anche se non può essere trascurato il ruolo del network jihadista operante in Nord Africa negli attacchi terroristici di Madrid del 2004 e di Londra dell’anno successivo. Le Nazioni Unite definiscono la human security come la situazione in cui “gli esseri umani sono liberi da minacce intense, estensive, prolungate e generalizzate alla loro vita ed alla loro libertà”.
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ci può essere sviluppo senza che vengano soddisfatte le condizioni minimali di human security. D’altro canto, una “sicurezza” senza prospettive di sviluppo è una situazione fragile, transitoria, destinata, prima o poi, ad entrare in crisi. Nel 2009 lo United Nation Development Programme (UNDP), attraverso l’Ufficio Regionale per i Paesi Arabi, ha pubblicato la quinta edizione dello Arab Human Development Report. Nella sua prima edizione, del 2002, il Report aveva individuato tre deficit strutturali dei Paesi del mondo arabo (tra i quali l’Algeria, l’Egitto, la Libia, la Mauritania, il Marocco e la Tunisia) in termini di partecipazione politica e libertà civili, emancipazione femminile e ruolo della donna nella società, ricerca scientifica e sviluppo tecnologico. In base all’analisi degli indicatori utilizzati dagli autori del Report tre deficit risultavano presenti, seppure con modalità diverse, in tutti i Paesi presi in esame. Il Report del 2009, confermando sostanzialmente la situazione del 2002 per quanto attiene ai tre deficit, ha inoltre individuato ben sette “dimensioni” della minaccia alla human security. In estrema sintesi si tratta di problemi associati alla crescente ed incontrollata pressione demografica, al sovrasfruttamento delle terre coltivabili, all’impoverimento delle risorse idriche ed alla progressiva desertificazione. Pur non volendo sottovalutare nessuno dei problemi messi in evidenza dal Report, l’aspetto che si ritiene opportuno approfondire per le conseguenze che, già a partire dal breve periodo, potrebbe avere sulla sicurezza regionale ed internazionale è quello relativo alla pressione demografica. Il 60% della popolazione dei Paesi oggetto di studio, infatti, è composta da giovani di età inferiore ai 25 anni. La maggioranza di questa giovane popolazione vive attualmente nelle città (il 55%), a differenza di quanto avveniva negli anni ’70 quando soltanto il 38% viveva in aree urbane. Le proiezioni riferite al 2020 stimano la percentuale della popolazione concentrata nelle città superiore al 60%. Il Report evidenzia inoltre come la situazione igienico-sanitaria dei principali 3
Arab Human Development Report 2009, pag.76
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centri urbani della Regione – attualmente già ben oltre il livello di attenzione – sia destinata a diventare critica nel breve-medio periodo, con le inevitabili e prevedibili conseguenze sotto il profilo della sicurezza e della stabilità regionale. Un problema direttamente connesso a quello dell’incremento demografico e della concentrazione progressiva della popolazione nei centri urbani è quello della scarsità di risorse idriche. Soltanto il 43% degli oltre 270 miliardi di metri cubi d’acqua consumati annualmente nella Regione proviene infatti da sorgenti localizzate all’interno della Regione stessa. Il restante 57% proviene da sorgenti che si trovano in Paesi vicini o confinanti (quali, ad esempio, il Sudan per l’Egitto) con i quali vengono più o meno regolarmente stipulati degli accordi internazionali per lo sfruttamento in comune delle risorse idriche. Di fronte a questi problemi ed alle minacce ad essi associate i governi non sembrano essere stati in grado sinora di adottare efficaci strategie. Il Report 2009 evidenzia come esista infatti un marcato gap tra le esigenze/aspettative della popolazione e le misure effettivamente poste in essere dai governi, anche se la distanza tra attese e realtà non è poi la stessa in tutti i Paesi oggetto di studio3. Pertanto, di fronte all’inerzia dei governi nel cercare soluzioni efficaci per i numerosi problemi della Regione, il rischio principale che il Report individua è quello rappresentato dalla “polarizzazione”/“estremizzazione” delle posizioni esistenti tra le diverse componenti del tessuto politico e sociale dei Paesi arabi. Questa polarizzazione, in un contesto sinora caratterizzato da una certa assenza di risposte da parte dei governi nei confronti delle richieste di riforme da parte della popolazione, è, sempre secondo il Report, la condizione “ottimale” da cui potrebbero prendere avvio ed alimentarsi tensioni interne, disordini e conflitti armati anche su vasta scala. Per quanto attiene all’aspetto delle riforme istituzionali cui si accennava in precedenza, l’Algeria e il Marocco sono stati i Paesi nei quali
prima degli altri4 hanno preso avvio dei tentativi di riforme in senso democratico e, forse proprio per questo motivo, sono stati toccati marginalmente dagli avvenimenti della “Primavera Araba”. In particolare, per quanto riguarda l’Algeria5, un recente studio elaborato da Ann Wyman e Icaro Rebolledo per la rivista Astenia ha posto in evidenza come una forma seppur embrionale di pluralismo democratico, anche se nel quadro di una situazione economica niente affatto favorevole, sia stata sufficiente ad evitare il verificarsi di situazioni assimilabili a quelle di Tunisia ed Egitto. I tentativi di riforme democratiche – siano stati portati o meno a termine – se, come si è visto nel caso dell’Algeria, sembrano essere stati sufficienti a tenere a fuori dai confini nazionali i movimenti di protesta della “Primavera Araba”, hanno invece rappresentato in passato l’occasione per la nascita e l’affermazione di gruppi fondamentalisti di ispirazione religiosa. In Egitto, ad esempio, il movimento della “Fratellanza Musulmana”, mai integrato nel sistema politico nazionale, si è affermato negli anni ‘70 durante il periodo delle riforme in campo politico ed economico (la cosiddetta infitah) del presidente Sadat. In Algeria, analogamente, il “Fronte Islamico di Salvezza” (FIS), prima ammesso a partecipare alle competizioni elettorali e successivamente dichiarato fuori legge, si è consolidato durante la fase della liberalizzazione in campo politico ed economico promossa dal governo agli inizi degli anni ‘906. Gli esempi di Egitto ed Algeria, Paesi nei quali i gruppo radicali di ispirazione religiosa si sono affermati proprio in fasi di apertura democratica, impongono quindi un approfondimento su quella che è la vera natura dei movimenti politici di ispirazione religiosa presenti nei maggiori Paesi dalla sponda Sud del Mediterraneo. Cercando limitare l’analisi ai caratteri principali, è possibile affermare che, mentre nel recente passato, la maggior parte dei movimenti d’opposizione ai regimi al potere 4 5
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tendeva a confondere obiettivi religiosi e scopi di natura politica, attualmente esiste una marcata distinzione, almeno dal punto di vista formale, in termini di programmi7. Di conseguenza il nesso movimento di opposizione-radicalismo religiosoterrorismo che aveva giustificato azioni anche estremamente repressive da parte dei governi in carica nei confronti di tali movimenti, al momento attuale, sembra essere molto meno forte che in passato. L’evoluzione in senso meno radicale – almeno dal punto di vista formale – di alcuni tra i principali movimenti politici d’ispirazione religiosa consente quindi di spostare l’attenzione su quello che potrebbe, ammesso che già non lo sia, principale fattore d’instabilità regionale. Nel citato studio Wyman-Rebolledo per Aspenia, tra le “questionichiave” da valutare nei Paesi MENA (Middle East – North Africa)8 emerge nettamente quello legato all’elevata disoccupazione giovanile, in alcuni Paesi addirittura superiore al 40%. Il dato del PIL pro-capite, che spesso in passato è stato utilizzato come un dato inconfutabile per comprendere i motivi di certi squilibri regionali, non è chiaramente in grado di spiegare, ad esempio, la ragione per cui siano sorti dei movimenti insurrezionali sia in Tunisia dove il PIL è di 3.500 dollari, sia in Libia dove il PIL è triplo rispetto al dato tunisino. Un dato di gran lunga più utile quindi, anche alla luce dei fatti, per cercare di leggere gli avvenimenti della “Primavera Araba” è, come si è già detto in precedenza, quello della disoccupazione giovanile, dato legato direttamente all’aspetto anagrafico di cui si è già diffusamente parlato. L’età media nei Paesi oggetto d’analisi è, infatti, di circa 26 anni, con punte di 22,6 anni in Giordania e di 27 in Iran. Il dato riferito alla disoccupazione giovanile è pari a circa il 30%, con una percentuale superiore al 45% in Algeria. La crisi che, dal 2008, ha investito tutte i principali
International Crisis Group (ICG), Islamism in North Africa I: the Legacies of History, “Middle East and North Africa Briefing”, Bruxelles, 2004, pag. 1. L’alta disoccupazione giovanile (oltre il 45%), ad esempio, colloca l’Algeria (con il Marocco) agli ultimi posti della relativa classifica dei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. CG, op. cit., pag. 1. ICG, op. cit., pag. 2. Nello specifico: Algeria, Bahrein, Arabia Saudita, Giordania, Libia, Marocco, Iran e Yemen.
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In apertura: l'acqua è̈ una risorsa importante per i paesi del nord Africa - UN Photo - A Rozberg Sopra: l'accesso alle risorse idriche rappresenta un grosso problema per le popolazioni africane. UN Photo - Kibae Park
mercati mondiali non ha chiaramente risparmiato anche le economie emergenti dei Paesi dell’Africa settentrionale, le quali risultano però molto più vulnerabili di altre alle oscillazioni dei prezzi alimentari9. In questa situazione, la crescente offerta di lavoro, soprattutto giovanile e non qualificata, ha avuto come unica ed inevitabile conseguenza il crollo dei salari, questi ultimi già colpiti dalla crescente inflazione. Questi dati da soli appaiono quindi più che sufficienti a spiegare l’inerzia da parte dei governi dei principali Paesi nordafricani nell’azione di contrasto all’immigrazione clandestina verso l’Italia e gli altri Paesi dell’Unione Europea.
Le origini della jihad in Nord Africa e i legami tra i gruppi terroristici Il terrorismo di stampo jihadista non nasce nel Nord Africa, ma qui trova linfa vitale ormai da diversi anni. La “Primavera Araba” potrebbe, a nostro giudizio, rappresentare una sorta di velo tale da confondere quelle che, da tempo, sono le dinamiche socio-economiche che contraddistinguono quest’area e che rappresentando una sorta di humus grazie al quale lo scontento potrebbe 9
alimentarsi, andando ad accrescere le fila di coloro che si riconoscono nel fondamentalismo e nel radicalismo. Sono stati proprio questi ultimi due elementi ad essersi fortemente sviluppati, in questa vasta Regione vicinissima all’Europa, già partire degli inizi degli anni Ottanta. All’epoca il focus dei combattenti per la jihad, per i “veri credenti”, seppure posto a centinaia di chilometri di distanza, era l’Afghanistan. Risale, infatti, a quel decennio l’occupazione del Paese da parte dell’Unione Sovietica. Tale evento risvegliava non solo il giusto orgoglio delle popolazioni locali che volevano sollevarsi contro le forze d’occupazione, ma anche un sentimento profondamente distorto che, ancora oggi, si nutre di odio nei confronti degli Stati non solo a nord del Mediterraneo, ma occidentali in genere, dove la qualità della vita era ed è migliore. Questa “situazione-simbolo” dell’Afghanistan occupato (com’è, di fatto, anche quella del conflittoisraelo-palestinese), aveva permesso la comparsa e l’affermazione di alcuni leader religiosi che cercavano nell’Islam delle origini la giustificazione delle forme di lotta più cruda e senza regole, quali il terrorismo, interpretata dai propri fautori come autentica e lecita forma di jihad contro i “non
In Algeria, ad esempio, i generi alimentari rappresentano il 43% del paniere dei prezzi.
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credenti”10. Il contesto trasformava quindi gli occidentali in “infedeli”, i governi arabi vicini a questi ultimi come “deboli” o “non musulmani”, i terroristi in mujaheddin (guerrieri santi), i “veri musulmani” come coloro in grado di battersi personalmente oppure, nel caso in cui non potessero farlo direttamente, attraverso la zakat (l’offerta per la “causa”) devoluta alla jihad. Lontano dal punto di vista geografico, ma ideologicamente prossimo all’Afghanistan che lottava contro l’occupazione sovietica, il Nord Africa diventa, a partire dai primissimi anni ‘80, un bacino reclutamento per giovani che non avevano timore di mettere a repentaglio la propria vita per la jihad. Terminata quindi nel 1989 l’occupazione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa, i mujaheddin provenienti dal Nord Africa devono cercare altri luoghi dove, a colpi di Kalashnikov, difendere l’Islam autentico da minacce vere o presunte. La jihad diventa quindi globale ben prima dell’11 settembre 200111. La mappa dei conflitti a cui prendono parte i combattenti originari del Nord Africa diventati veterani in Afghanistan si allarga comprendendo la Cecenia, i Balcani, i Territori palestinesi, gli Stati Uniti e l’Europa occidentale. Questo accade mentre, negli stessi anni, il Nord, ma anche molti Stati del’Africa centrale e meridionale sono retti da regimi dittatoriali legati “a doppio filo” con industrie occidentali secondo modalità pseudo-coloniali, retaggio di un passato “che non passa” e che raramente ha portato qualche vantaggio al continente in cerca di sviluppo. In questo contesto, molti maghrebini, ma anche coloro che vivevano nel Mashreq, decidono di mettere le loro povere cose in una borsa, in un sacco e, nei casi più fortunati, in una valigia per emigrare in Europa, soprattutto in Francia, Gran Bretagna e Belgio. In questi Paesi, infatti, le comunità islamiche sono oggi particolarmente numerose e ben strutturate. Le migrazioni prove10 11
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nienti dal Nord Africa e dal Medio Oriente – di cui si era parlato in precedenza, mettendole in relazione con il problema della crescente disoccupazione giovanile – quindi esistono da anni, ma si sono particolarmente intensificate a partire dall’inizio del 2011, in concomitanza dei forti sconvolgimenti tuttora in atto nella Regione. Tale situazione sta portando migliaia di persone a riversarsi sulle coste italiane, ma molte di esse, come già in passato, utilizzano l’Italia come luogo di transito verso gli Stati del centro e nord Europa12. Tra gli innumerevoli disperati in cerca di una vita migliore, esistono, inevitabilmente, anche coloro legati, o quanto meno, “sensibili” al richiamo di Al Qaeda e a quello della shari’a (Legge di Dio), intesa però secondo interpretazioni soggettive ed estremiste di stampo radicale che nulla hanno a che vedere con il Corano e la Sunna (di quest’ultima raccolta degli hadith di Maometto ne esistono varie versioni, come quella sunnita, o sciita). Dal punto di vista della militanza religiosa con obiettivi politici, ciò che si verifica nel Nord Africa, a partire dagli anni Ottanta, è una progressiva radicalizzazione − in Tunisia e in Marocco con un andamento più altalenante − alimentata, tra gli altri fattori endogeni, dai conflitti in corso nei due epicentri per antonomasia, vale a dire l’Afghanistan e la Palestina. Per quanto attiene alla radicalizzazione dei movimenti d’ispirazione religiosa, due nazioni particolarmente importanti e cruciali sono l’Egitto e l’Algeria. La Libia, invece, prima che il regime di Gheddafi entrasse in crisi, si presentava all’Europa e al mondo come una sorta di “diga” (la cui efficacia era ed è difficilmente valutabile) contro la jihad e l’incontrollato flusso migratorio. Ciò che è comunque certo è che Gheddafi ha per decenni dovuto fronteggiare, come oppositore al proprio potere, il Libyan Islamic Fighting Group (LIFG), formato, come quasi tutti i movimenti terroristici
Guolo, Renzo, Il Partito di Dio. L’Islam radicale contro l’Occidente, Guerini e Associati, Milano, 2004, pag. 28. Per una descrizione del fenomeno nel periodo antecedente all’attacco al World Trade Center vedasi: Tosini, Domenico, Terrorismo e antiterrorismo nel XXI secolo, Laterza, Roma-Bari, 2007. Cfr. Centro Militare di Studi Strategici, Ricerca 2010, “Flussi migratori nel Mediterraneo: per una strategia internazionale di integrazione e difesa, con particolare riguardo per la situazione italiana”, CASD, Roma, 2010.
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della Regione, da ex combattenti per la causa afghana e rientrati in patria nei primi anni Novanta. Il LIFG, legato alla ben più articolata organizzazione terroristica di Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), in questi ultimi mesi, secondo alcune fonti, si sarebbe unito ai ribelli per contribuire a rovesciare il potere del rais. È l’Egitto, però, a rivestire il ruolo di maggiore rilevanza, dal punto di vista del radicalismo religioso, rispetto alle nazioni limitrofe. Qui, nel 1928, nasceva la Fratellanza Musulmana che aveva come obiettivi l’opposizione all’occidentalizzazione, il recupero dei principi dell’Islam e lo sfruttamento da parte del popolo arabo del Canale di Suez13. Pur non avendo un’origine fondamentalista, con il trascorrere dei decenni, la Fratellanza ha visto alcune proprie frange avvicinarsi al gruppo Al Jihad (attivo dai tardi anni ‘70 e, attualmente, elencato dalle Nazioni Unite tra le entità appartenenti o associate ad Al Qaeda). Sembrerebbe, inoltre, che alle elezioni politiche in Egitto, previste il prossimo autunno, la Fratellanza entri in una coalizione guidata da Amr Moussa, ex ministro degli Esteri sotto il governo di Mubarak e potente Segretario della Lega Araba. Mentre alcuni media locali vedono in lui il possibile vincitore, il Parlamento Europeo solleva le proprie perplessità in quanto l’autorità governativa egiziana provvisoria, il Supreme Council of Armed Forces (SCAF), rifiuta la presenza di osservatori occidentali, per verificare la correttezza delle operazioni di voto, durante la sessione elettorale. Secondo alcuni analisti, questo sarebbe un chiaro segnale per agevolare la Fratellanza nell’ascesa al potere. Intanto, dopo gli avvenimenti di Piazza Tahrir, i confini tra Egitto e Israele non sono più controllati come prima, permettendo il movimento quasi indisturbato di armi verso Hamas (costola della Fratellanza) nella Striscia di Gaza e di centinaia di migranti clandestini egiziani. In tempi recenti si è rilevato inoltre che, proprio nelle zone del Sinai e a ridosso dei confini con Israele, Al Qaeda sta attuando una nuova azione di disturbo mirata a far 13
Guolo, op. cit., pag.18.
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incrinare i rapporti, finora ottimi, tra i due Stati. L’Egitto, perciò, risulta quindi essere il vero ago della bilancia in grado di modificare gli equilibri non solo del Nord Africa, ma dell’intero Medio Oriente, avendo la possibilità di scatenare una recrudescenza del terrorismo nell’area, oppure di ostacolarla. In questo scenario non si può non considerare l’Algeria che, in passato come oggi, è uno dei luoghi dove il terrorismo di matrice salafita è più radicato. Ricordiamo che quest’ultimo è, attualmente, il più potente ed organizzato non solo nel Nord Africa, ma anche in tutto il Medio Oriente (in particolare a Gaza). Il terrorismo di radice salafita è diventato parte integrante di Al Qaeda attraverso l’organizzazione denominata Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), nota anche come Gruppo Salafita per la predicazione e il combattimento (GSPC). L’AQMI è attualmente guidata dal giovane ingegnere algerino Abdelmalek Droukdel che avrebbe come mentore il medico egiziano AlZawahiri, nuovo “Numero Uno” di Al Qaeda. Non meno rilevante è stato il rapporto tra Droukdel e Al-Zarquawi di cui, probabilmente, è il successore. L’AQMI sembrerebbe nato per volontà dello stesso Bin Laden quando, a causa del forte indebolimento del GIA (Gruppo Islamico Armato), la jihad nel Nord Africa sembrava perdere vigore. A sua volta, il GIA, come il Libyan Islamic Fighting Group, era nato dal rientro dei guerriglieri algerini nel loro Paese, dopo aver combattuto in Afghanistan contro le truppe sovietiche. Alcuni dei reduci sarebbero poi passati dal GIA, che non ha comunque cessato di esistere, all’ AQMI. Legato all’AQMI, tramite la rete di Al Qaeda, è anche il Gruppo Combattente Islamico Marocchino (GCIM). Si tratta una cellula costantemente attiva, nata, sempre come gli altri gruppi, dall’esperienza afghana degli anni Ottanta. Al GCIM sono stati fatti risalire gli attentati di Madrid dell’11 marzo del 2004, mentre quelli di Casablanca sarebbero stati effettuati da gruppi salatiti minori ad esso collegati. Si tratta degli attacchi avvenuti nel
Il ristorante Argana sulla piazza Jamaâ El Fna di Marrakech - 2004
2003 e nel 2007 (anno in cui esiste una concomitanza con gli attentati in Algeria ad opera dell’AQMI). In Marocco, inoltre, esistono radicati e complessi rapporti con l’Arabia Saudita da dove è stata “esportata” la cultura wahabita, particolarmente ortodossa e rigida riguardo i precetti dell’Islam. Tale tendenza verso l’ortodossia si rivela importante soprattutto nella gestione del potere finanziario di istituti di credito che seguono le disposizioni della zakat, contribuendo nella sostanza, insieme ad altri sistemi, a rimpinguare le casse del terrore. Sempre legato all’AQMI, ma con scarse capacità organizzative, è il Jama’a Combattante Tunisienne (JCT) che si trova, appunto, in Tunisia. Il JCT, secondo autorevoli fonti d’intelligence sembrerebbe in grado di agire solo a supporto di operazioni organizzate da cellule più grandi. Per quanto riguarda la capacità di portare a termine azioni terroristiche fuori dai confini nazionali, Il il JCT (ma anche il GCIM) sembrerebbe avere una buona conoscenza della realtà belga e di quella italiana in particolare, conoscenza che potrebbe essere “messa a disposizione” di gruppi militarmente più organizzati appartenenti allo
stesso network jihadista. La rete dei gruppi combattente per la jihad in Nord Africa sembra essere stata particolarmente scossa non solo dagli avvenimenti dalla “Primavera Araba”, ma anche dell’uccisione di Osama Bin Laden, avvenuta a maggio di quest’anno nel proprio rifugio nella North West Frontier Province in Pakistan. Analisti di tutto il mondo hanno tentato di dare un’interpretazione plausibile a quelle che possono essere le ricadute su tutta l’organizzazione di Al Qaeda dell’uccisione dello “Sceicco del Terrore”. Una tendenza diffusa, soprattutto nei paesi anglosassoni, è quella di evidenziare una sorta di disgregazione del potere che non deve intendersi come un suo annullamento, bensì come una distribuzione dello stesso in senso più orizzontale che verticale. Da una serie di documenti rinvenuti durante diverse indagini in Europa durante i primi anni 2000, la struttura di Al Qaeda che si poteva ricavare era di tipo fortemente gerarchico, praticamente piramidale e regolata da norme ferree che prevedevano anche l’addestramento militare. Lo sviluppo “orizzontale” darebbe una nuova
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Addestramento di Unità malesi per attività antiterroristiche
forma al fenomeno Al Qaeda. Qui si prospetta l’ipotesi del franchising, inteso da alcuni studiosi proprio come un allargamento delle maglie della rete, i cui nodi (ovvero le cellule) si trovano ad avere maggiore libertà d’azione. Altri ancora sostengono invece che il franchising sia solo legato al web, dove “schegge impazzite” si riconoscono nell’assurdità del terrorismo jihadista, emulandone le modalità d’azione e condividendone gli obiettivi, senza però un coordinamento unitario. Negli Stati Uniti, dopo la scomparsa di Bin Laden, sta prendendo piede anche un’altra teoria chevede Al Qaeda scomposta secondo cinque livelli di importanza a cui corrisponderebbero altrettante capacità decisionali: quello di vertice a cui apparterrebbero i nomi di spicco, come quello di Al-Zawahiri, e presente soprattutto in Pakistan e Afghanistan; a seguire il livello occupato dai gruppi affiliati che ricevono armi, denaro e formazione da Al Qaeda, come l’AQMI; in sott’ordine il livello dei gruppi alleati che non sono membri formali di Al Qaeda, ma che ci collaborano quando gli interessi di entrambe le parti convergono (come Al Shabaab che opera in Somalia); c’è poi il livello delle piccole reti dove solo alcuni elementi sono direttamente collegati ad Al Qaeda e che solitamente inglobano combattenti che hanno avuto esperienza nei Balcani, in Cecenia, in Afghanistan e in Iraq; infine, il livello più lontano da quello di vertice, dove troviamo persone che condividono l’odio di Al Qaeda per l’occidente. Tale ipotesi, se confermata,
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dovrebbe indurre il Vecchio Continente a prendere atto che, in un probabile e non remoto futuro, Al Qaeda potrebbe annidarsi ed emergere a pochi chilometri dalle proprie coste. L’Europa, perciò, dovrebbe dimostrare una maggiore attenzione e partecipare più attivamente al lungo processo di transizione a cui si sta avviando il Nord Africa, mettendo le basi effettive per un nuovo sistema sicurezza nell’intera area mediterranea. L’AQMI, con il suo giovane capo Abdelmalek Drukdel, risulterebbe essere, per il momento, la maggiore organizzazione jihadista di stampo salafita in grado di poter reperire fondi, pianificare e organizzare attentati non solo in Africa, ma anche in Occidente ed in Europa in particolare. Ottimi e trasversali sono, infatti, i legami familiari e d’interessi che l’AQMI possiede sulla sponda Sud del Mediterraneo; anche se non possono essere trascurate le relazioni esistenti con le cellule “in sonno” presenti anche nel centro-nord Europa.
Possibili sviluppi futuri dello jihadismo nel Nord Africa e il ruolo dell’Europa Per comprendere lo jihadismo in Nord Africa non si può prescindere da una valutazione socioculturale e storica dell’area. Come si è visto precedentemente, quest’area è da sempre profondamente condizionata dagli eventi del conflitto israelo-palestinese, ma anche da quanto accadde in Afghanistan durante l’occupazione sovietica, e da quanto sta avvenendo in quel Paese. Queste due “situazioni simbolo”, per i terroristi, costituiscono l’alibi per giustificare i loro attacchi nei confronti dell’Occidente, visto da loro come invadente e ingerente nei confronti del mondo arabo. Europa e Stati Uniti sono, sempre secondo i nuovi mujaheddin, l’origine dei soprusi a cui essi stessi cercano di contrapporsi in nome di una libera e, in alcuni casi, capovolta interpretazione dell’Islam. A tale proposito, esempi sono: gli attacchi suicidi meritevoli di gioie eterne nell’aldilà; le continue fatwa o incitamenti al disprezzo del-
l’Occidente corrotto, contrapponendolo ai principi e alla condotta di Maometto; l’orgoglio diffuso da parte delle famiglie dei martiri di averli nel loro albero genealogico e il rispetto nei loro riguardi da parte della comunità che ne avvalorano i gesti nell’ottica dei “martiri contro gli infedeli”; il denaro devoluto dalle organizzazioni terroristiche ai parenti degli attentatori perché si sono sacrificati per un bene più alto; infine l’opposizione al diverso come un recupero dei valori originari dell’Islam che possono condurre a migliori condizioni di vita non solo sotto l’aspetto religioso, ma anche economico e sociale. Queste sono solo alcune delle irragionevoli motivazioni che aiutano lo jihadismo sopravvivere. Quali sono i motivi per cui quest’ultimo riesce ad attecchire e a trovare continuamente linfa vitale in Nord Africa? Le cause principali sono la povertà, che rischia di acuirsi a causa della costante crescita demografica e dell’aumento del costo delle derrate alimentari, l’analfabetismo e l’ignoranza, il vuoto di controllo istituzionale e delle forze di Polizia locali, soprattutto nelle numerose aree impervie ed isolate dove, spesso, trovano rifugio i terroristi. In questo contesto si collocano gli avvenimenti della “Primavera Araba” che, di fatto, portano il Nord Africa a un bivio: la scelta tra soluzioni governative più democratiche (anche se gli eventi in Afghanistan e Palestina possono modificarne gli esisti), compatibilmente con i luoghi e le tradizioni, oppure tra quelle radicali. Assolutamente determinanti saranno le elezioni in Egitto i cui esiti potrebbero fare da traino a scelte politiche similari nei Paesi limitrofi. La Libia, infine, avrà un ruolo importante, ricordando che tra i ribelli si sarebbe mossa anche l’organizzazione terroristica autoctona legata ad Al Qaeda, non escludendo l’ipotesi di un futuro governo postGheddafi, tra cui potrebbero esserci anche rappresentanti di tale organizzazione. Ciò che sta emergendo, come si è visto all’inizio di questa breve analisi, è una ferma volontà delle popolazioni 14
locali di autodeterminarsi, di rimpossessarsi del loro destino costruendo governi che più si attaglino alle reali necessità dei rispettivi Paesi. Tali operazioni, però, non avvengono repentinamente, ma sono frutto di lunghi processi che portano a nuovi equilibri attraverso varie stagioni. Queste fasi delicate che contraddistingueranno il Nord Africa nei prossimi anni richiederanno da parte dell’Europa una presenza effettiva “di sostegno” a un’evoluzione che deve trovare il proprio sviluppo naturale, tentando di non interferire direttamente. Qui sono in gioco la stabilità e la sicurezza del Mediterraneo, la fiducia ed il consenso del Nord Africa verso il Vecchio Continente e l’Occidente in generale. Niente sarebbe più efficace contro gli alibi dello jihadismo di un’Europa che sappia essere presente senza condizionare, aiutare senza prevaricare − prediligendo strumenti di soft power e di sostegno sociale − collaborando altresì al mantenimento della sicurezza, di un’Europa più attenta rispetto al passato alle dinamiche oltreconfine. Il soft power richiede l’applicazione di nuove soluzioni che si adattino alle circostanze in cambiamento proprio come l’acqua, secondo un famoso aforisma di Sun Tzu: “La natura dell’acqua è abbandonare l’alto e raccogliersi in basso […]. La terra determina il corso dell’acqua, il nemico determina la vittoria” e, quindi, l’importanza di adattarsi ad esso e di conoscerlo. Se il terrorismo, perciò, è stato definito come un “camaleonte”, l’Occidente non può pensare di contrastarlo attraverso soluzioni rigide oppure omologabili ai vari Stati. Aiutare la transizione in Nord Africa per scongiurare il rischio di derive radicali, potrebbe implicare l’uso, anche se in maniera diversa e “a geometria variabile”, di tutti gli strumenti del potere nazionale14, irrobustendo ad esempio l’intelligence e diminuendo il peso delle armi, perchè il gioco della sicurezza in queste aree sarà sempre più una partita che l’Occidente dovrà giocare con la mente e il cuore, per le menti ed i cuori.
L’acronimo anglosassone DIME-FIL indica il complesso degli strumenti del potere nazionale: diplomatici, informativi, militari, economici, finanziari, etc.
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Cooperazione Internazionale
IL CONTRIBUTO DELL’UNIONE EUROPEA ALLA SICUREZZA INTERNAZIONALE ANDREA PASCALI
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ffrontare l’argomento della sicurezza in relazione all’Unione Europea può sembrare un paradosso: di tutte le prerogative degli Stati, la politica in materia di sicurezza e difesa costituisce indubbiamente quella che più difficilmente si presta ad un approccio collettivo e, tuttavia, dopo la moneta unica, è in questo settore che l’Unione ha realizzato nell’ultimo decennio i
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progressi più rapidi e spettacolari. Indubbiamente si tratta di un processo ancora ampiamente in divenire e che presenta alcune criticità che progressivamente gli Stati Membri e le istituzioni europee devono necessariamente affrontare. Nessuno avrebbe osato scommettere che l’Unione avrebbe presto avuto responsabilità dirette in materia di gestione delle crisi e una serie di organi politicomilitari permanenti. Tuttavia, queste, costituiscono ormai realtà tangibili in seno all’Unione. Durante la guerra fredda la difesa dal pericolo sovietico è stata ricercata nell’unica organizzazione che potesse effettivamente dare agli europei la sicurezza di cui avevano bisogno: la NATO. Dopo il fallimento dell’ambiziosa CED1 e la scarsa incisività della CPE, i cambiamenti internazionali aprirono delle riflessioni in Europa. Fu così che si arrivò alla firma dell’Atto Unico Europeo il quale, tra le altre cose, istituzionalizzava la CPE e comprendeva per la prima volta in assoluto il termine “sicurezza” nei Trattati. E’ a partire da questo momento che inizia il movimento della vecchia CPE dall’area prettamente confederale verso l’area di cooperazione comunitaria (sovranazionale), tipica della teoria neofunzionalista. In realtà, come si può comprendere analizzando gli sviluppi istituzionali della PESC, tale movimento avrà un andamento pendolare, avvicinandosi o allontanandosi dall’area comunitaria/sovranazionale a seconda della volontà degli Stati Membri di aderire o meno alle decisioni prese in ambito PESC, il cui carattere rimane in buona parte volontaristico e legalmente non vincolante. Questo era l’assetto istituzionale con il quale l’Europa si trovò ad affrontare cambiamenti epocali come il crollo del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca. Su questa situazione di notevole incertezza degli orizzonti politici si innestarono eventi come la Guerra del Golfo e l’instabilità della ex-Jugoslavia, i quali contribuirono a mettere in luce le difficoltà di azione europea. In questo quadro si giunse il 7 Febbraio 1992 alla firma del Trattato di Maastricht. Il nuovo assetto prevedeva una regolamentazione diversa per i tre macrosettori denominati “pilastri”.
Per conoscere il significato degli acronimi utilizzati nell’articolo, vedi http://www.biblioteche.unical.it/SIGLARIO%20%20A-Z.pdf
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La differenza sostanziale riguardava il metodo: nel pilastro PESC il metodo comunitario lasciava il posto a quello intergovernativo, in cui le decisioni venivano prese all’unanimità in sede di Consiglio. Il motivo principale, tralasciando le pressioni esterne, era che gli Stati volevano mantenere il controllo delle politiche maggiormente caratterizzanti la sovranità nazionale. Gli strumenti introdotti formalmente erano del tutto potenziali tanto che alcuni definirono il TUE in materia di sicurezza come “un contenitore vuoto”. La vera novità era, semmai, rappresentata dalla completa istituzionalizzazione della PESC nel Titolo V del TUE. Un’altra novità era costituita dalla possibilità di definire una difesa comune affiancando così l’elemento militare a quello politico-istituzionale. Attraverso questo schema si voleva passare da un “circolo vizioso” ad un “circolo virtuoso della PESC” attraverso procedure istituzionalizzate recanti maggiore efficacia, efficienza e credibilità dell’UE. E’ questa un’illusione che durerà qualche mese, poco dopo si metterà in moto, infatti, il processo per rivedere il TUE e comincerà la redazione del successivo Trattato di Amsterdam (1997). Nonostante ciò, è d’obbligo apprezzare la nuova dimensione politica dell’Unione. Se nel passato la CPE si era, infatti, concentrata, seppur raramente, nell’impiego di strumenti di diplomazia negativa certamente non aveva fornito strumenti di pressione/dissuasione militare, che invece risultavano presenti nel TUE, seppur allo stato ancora embrionale, ovvero da sviluppare. La UEO tenne il 19 Giugno 1992, vicino Bonn, un Consiglio dei Ministri i cui lavori si conclusero con la firma della Dichiarazione di Petersberg. Il punto fondamentale, all’interno della Dichiarazione, riguarda gli obiettivi che gli stati membri si proponevano di raggiungere: i cd. “Obiettivi di Petersberg”. A tal fine gli stati s’impegnarono a rendere disponibili, al comando UEO, unità militarmente complete in grado di svolgere le specifiche missioni individuate. Al Consiglio sarebbe spettata l’autorità di deciderne l’impiego, ferma restando la possibilità per gli stati di decidere se partecipare o meno alle singole missioni. L’eventuale dispiegamento delle
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missioni UEO, si affermava poi, avrebbero dovuto rispettare i cd. Obiettivi di Petersberg per poter esser attivate: missioni umanitarie, peace-keeping operations e missioni tese al ristabilimento della pace. Così facendo, gli obiettivi definivano esplicitamente le missioni a cui la UEO avrebbe potuto partecipare e, di conseguenza, si definivano gli ambiti per l’azione dell’Unione in attuazione del pilastro PESC. Il futuro era però legato e vincolato dal passato sia dal punto di vista culturale che strutturale, sul quale si innestavano problemi di interoperabilità NATO-UE. Proprio la consapevolezza dell’imprescindibile ruolo dell’Alleanza Atlantica, sia per pressioni politiche esercitate degli Stati Uniti sia per ragioni politicooperative europee, spinse i Ministri della Difesa europei a ricercare una propria identità comune già all’interno della stessa e a Berlino nel Giugno del 1996, veniva concordata la costruzione di una Identità Europea di Sicurezza e Difesa (IESD). A tale scopo si riprendeva il concetto di Combined Joint Task Force che consisteva nella collaborazione politico-militare di due o più paesi nell’organizzazione di forze provenienti da diverse Forze Armate per compiti specifici o per il raggiungimento di obiettivi particolari. In questo modo la UEO poteva, se necessario, ricevere l’autorizzazione ad utilizzare parte delle potenzialità tecnologiche, operative e logistiche della ben più rodata NATO. Si rendeva necessario creare personale “dal doppio cappello” all’interno della NATO rendendo più rapido ed efficiente il coordinamento tra le due istituzioni. Nel 1997 si giunse alla firma del Trattato di Amsterdam che, tra le altre innovazioni, codificava nuovi progressi in ambito PESC; dotava l’Unione di più ampi strumenti normativi d’azione (le cd. Strategie Comuni); si chiariva che la UEO avrebbe assistito l’Unione attraverso l’accesso ad una capacità operativa di difesa. Nonostante questi approfondimenti rispetto al TUE, si prevedeva comunque che gli strumenti a disposizione fossero ancora sostanzialmente potenziali e la loro adozione era ancora subordinata alla volontà statale di approfondire o meno le collaborazioni previste dal Trattato. E’ co-
munque indubbio che l’Unione si stava formalmente dotando di una dimensione di sicurezza più profonda. L’istituzione dell’Alto Rappresentante, poi, era l’aspetto più evidente delle nuove ambizioni europee di costruire una politica estera comune, e il simbolo di risoluzione di quarant’anni di ambiguità istituzionale davanti la comunità internazionale, a prescindere dagli effettivi poteri di cui sarebbe stato investito. In linea generale si può dire che la PESC è stata sempre interpretata diversamente dai vari membri: alcuni hanno ritenuto di agire per rafforzarla, altri per mantenere la condizione del momento, entrambi comunque in relazione al loro specifico interesse nazionale. Tuttavia, il superamento parziale di queste divisioni era già previsto nei Trattati i quali auspicavano cooperazioni rafforzate, sul modello Schengen, nelle materie concernenti la sicurezza e la difesa. L’esempio più significativo è senz’altro costituito dalla collaborazione in materia di armamenti ove si verificarono alcune fondamentali convergenze. La LOI e la Convenzione OCCAR si proponevano di definire una cooperazione industriale in ambito di difesa allo scopo di procedere ad una ristrutturazione delle industrie della difesa dei paesi a livello europeo (la prima) e di fornire una più efficace ed efficiente gestione di programmi comuni in materia di armamenti nonché di concludere accordi con stati terzi (la seconda). Lo scopo della cooperazione realizzata era di indurre gli stati a creare una complementarietà industriale e tecnologica andando ad incidere profondamente nell’ambito del Mercato Europeo della Difesa. Questa disponibilità venne resa ancor più evidente a Saint-Malo, dove si tenne un vertice franco-britannico che portò ad una Dichiarazione congiunta sulla difesa europea nella quale si stabiliva il rafforzamento della solidarietà reciproca in termini di PESC per far sentire maggiormente la propria forza negli affari internazionali, attraverso uno strumento militare di coercizione/dissuasione più credibile. Conditio sine qua non era ovviamente il miglioramento costante dell’interoperabilità dei partners attraverso armonizzazione e miglioramento delle capacità delle
Forze Armate integrate e di uno slancio dell’industria europea della difesa. E’ evidente a questo punto il motivo per cui si stabilisce questa come la data di nascita della Politica Estera di Sicurezza e Difesa europea (PESD). La Dichiarazione di Saint-Malo segnò l’apertura di un nuovo quadro d’azione fino ad allora rimasto solo al livello potenziale fornendo la prima base di volontà politica ad attuare una politica di difesa senz’altro più complessa e con notevoli margini di sviluppo. Lo scenario che va dalla Dichiarazione di Saint-Malo al Consiglio Europeo di Colonia del Giugno 1999 fu alquanto complesso in seguito allo scoppio delle tensioni in Kosovo. A Colonia, ufficialmente, veniva lanciata la PESD e il Consiglio stabiliva la necessità di dotare l’Unione di strumenti adeguati nelle capacità e si esaminò anche la questione dei processi decisionali per gli obiettivi di Petersberg, indicando che il loro raggiungimento avrebbe potuto richiedere: l’istituzione di un organo permanente (COPS); un Comitato Militare (EUMC); uno Stato Maggiore dell’UE (EUMS) e altre risorse. Tutti questi strumenti sia operativi che istituzionali furono avviati e ciascuno riveste ad oggi una sua peculiare funzione nel processo decisionale per l’adozione di un’azione comune o decisione comune. Con il successivo Consiglio di Helsinki venivano apportate ulteriori novità alla PESD. Venne elaborato il Helsinki Headline Goal 2003 che si occupava di stabilire obiettivi di sviluppo delle capacità militari e civili (con strumenti anche appartenenti al primo pilastro). In quest’ottica all’epoca non solo era fuorviante parlare di Esercito Europeo e di Difesa Europea (la cui soluzione seppur solo formale avverrà solo a Lisbona), bensì anche di costituire un’organizzazione di difesa che sostituisse la NATO. Lo scopo era semplicemente di creare uno strumento militare (PESD), nel più ampio complesso della PESC, idoneo a sostenere un’autonoma capacità di gestione delle crisi internazionali. Il seguente Trattato di Nizza pur non apportando sostanziali novità enunciava, per la prima volta, le cooperazioni rafforzate che venivano così finalmente introdotte nel II Pilastro. Il nuovo Trattato sanzionava effettivamente
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In apertura: cerimonia del passaggio dei poteri dalla missione NATO SFOR all'operazione Althea dell'Unione Europea in Bosnia nel 2004. (Foto Nato) Sopra: missione antipirateria EU NAVFOR - Somalia
lo sviluppo della PESD, attivandone le strutture permanenti della catena politico-militare. Tuttavia, ancora si dovevano sviluppare le adeguate capacità operative e ancora mancava un sistema decisionale coerente, necessario per creare credibilità come security provider completo internazionale. Fu un evento assolutamente straordinario a cambiare la situazione internazionale e quantunque europea. Gli attacchi terroristici del 2001 segnarono, infatti, un punto cruciale della storia paragonabile, forse, alla caduta del Muro di Berlino. Se il 1989 portò con sé un cambiamento politico, la fine della guerra fredda, e un cambiamento nella struttura del sistema internazionale; il 2001 portò anch’esso un cambiamento tuttora in evoluzione ovvero la convinzione della fine di una non-war community basata sull’egemone americano. Ad esso si accompagnò e si accompagna anche un cambiamento della struttura del sistema verso una sua multipolarizzazione che, come Waltz sosteneva, avrebbe portato maggior incertezza e instabilità. Questi cambiamenti hanno portato a ridefinire le relazioni tra gli Stati, i quali hanno visto una rivalutazione del loro ruolo in senso neo-realista, essendo gli unici a poter fornire garanzie di sicurezza. In questo contesto l’Unione deve trovare la strada per assumere un rilievo internazionale nelle decisioni
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politiche. Infatti, per costituirsi come un attore dal peso politico considerevole, necessita di una politica estera forte e coerente. L’Unione ha trovato nel 2003, con la Strategia Europea di Sicurezza (ESS) e nel 2009, con il Trattato di Lisbona, la sua risposta a questi interrogativi, essendo divenuti interrogativi non più eludibili. Tuttavia, l’Unione ha mostrato una certa ambiguità nel definire il suo profilo generale, mostrando la tendenza a effettuare evoluzioni dal punto di vista tecnico in contemporanea a brusche frenate dal lato della soluzione politica dei problemi internazionali che la investono. Dal punto di vista tecnico l’evoluzione si presentò subito con gli accordi “Berlin-plus” del 2002. Tali accordi miravano alla risoluzione del conflitto UE-NATO in materia di gestione delle crisi, garantendo un mutuo rafforzamento della capacità di gestione delle crisi. Con l’accordo nessun conflitto formale poteva più negare all’Unione l’accesso ad alcune rilevanti capacità NATO e gli europei vedevano aperto l’accesso alle proprie forze, potendole impiegare anche in ambiti esterni alla NATO. Significava avere accesso a risorse che, seppur messe a disposizione prioritaria di un’alleanza con membri extra-europei, volevano e potevano essere eventualmente impiegate anche per interessi diversi, esclusivamente europei. Inoltre, vi era pa-
rimenti la disponibilità di accesso alle capacità comuni della NATO, cioè proprie dell’Alleanza e non degli Stati. L’accesso a tali capacità garantiva, e questo è il dato più significativo, il controllo politico e la direzione strategica sotto il comando delle autorità UE. Si trattò a questo punto di dover riconcettualizzare il principio della sicurezza anche alla luce delle divergenze in merito alla guerra in Iraq. Sono questi i presupposti che, nel giugno 2003, portarono all’istituzione del documento noto come Strategia Europea di Sicurezza (ESS), nel quale l’Unione identificava precisamente le minacce da cui era investita riconoscendo altresì gli obiettivi comuni e le strategie da adottare. Il documento aveva profonde implicazioni politiche prevedendo una maggiore attività (che dal 2003 inizia a divenire effettivamente consistente), un maggiore sviluppo di capacità (si veda l’Helsinki Headline Goal 2010, e l’approfondimento del concetto di Battle Groups come forza di reazione rapida) e soprattutto il riconoscimento della necessità di avere una posizione più coerente nella gestione della PESC. Quanto era stato finora stabilito ha visto nella ESS il documento fondamentale dell’UE nel dare un’organicità e definizione di elementi che altrimenti sarebbero stati semplicemente enunciati ma mai effettivi. Tuttavia, ciò che rimase, e resta, ancora insoluto e soggetto alla prova della realtà è la coerenza dell’azione esterna dell’UE rispetto ai suoi documenti ufficiali. Il tentativo immediato di soluzione venne inaugurato con l’ambizioso, e fallito, progetto costituzionale per l’Europa. Le grandi divisioni sono rimaste e ciò a cui abbiamo assistito è la codificazione del Trattato di Lisbona che recepisce gli strumenti principali, previsti dalla Costituzione, in ambito PESC non creando però quell’evoluzione politica, naufragata insieme al progetto costituzionale. Il Trattato di Lisbona rappresenta, dunque, un ulteriore avanzamento dal punto di vista strettamente tecnico (in questo senso in linea con l’istituzione dell’ EDA del 2004) ma anche un freno alle ambizioni politiche, più generali, europee. Gli strumenti più significativi, in materia PESC, introdotti
a Lisbona possono essere schematizzati come segue: la possibilità di istituire, con decisione del Consiglio a maggioranza qualificata, Cooperazioni Strutturate Permanenti (basate su certificazioni di standard proprio come nella NATO, intendendo così creare, in modo permanente cooperazioni tra virtuosi o quantomeno omogenei); la possibilità di intraprendere nuove tipologie di missioni oltre ai compiti di Petersberg (disarmo, stabilizzazione post-conflict, consulenza militare, prevenzione dei conflitti); la creazione di una clausola di reciproca difesa, una clausola di solidarietà e una base giuridica specifica per l’aiuto umanitario; l’istituzione del SEAE, per una maggiore coerenza nell’azione diplomatica. Il Trattato di Lisbona è riuscito a portare significativi e decisivi progressi istituzionali dal lato dell’operatività in materia di Sicurezza e Difesa aprendo anche nuove prospettive per un rafforzamento del ruolo esterno dell’UE, spetterà però ai singoli stati cogliere appieno tali potenzialità, traducendole in iniziative e politiche concrete. Tali potenzialità si esprimono nella possibilità dell’Unione di attivare una pluralità di missioni in un quadro di finanziamento piuttosto chiaro. Come fatto notare il genus delle missioni ora attivabili dall’Unione consta dei compiti di Petersberg più gli ambiti introdotti a Lisbona. Ciò ci porta a definire le modalità d’intervento dell’Unione in caso di crisi internazionale. Dal combinato dei documenti e dei Trattati, nonché dagli accordi Berlin-Plus, l’UE ha ora due possibilità. La prima possibilità è quella di Operazioni militari condotte in autonomia dall’Unione Europea. Sono due le opzioni possibili: in un primo caso, si ricorre al sistema di attribuzione di compiti e funzioni noto come “nazione-quadro; in un secondo caso, si ricorre all’attivazione del EU Operations Centre, si tratta di una possibilità aggiuntiva e più rapida rispetto ai Comandi Nazionali, che restano comunque l’opzione principale. La seconda possibilità è quella di Operazioni militari con attivazione degli accordi Berlin Plus. Ad oggi gli accordi sono stati attivati in due occasioni, dovendosi ottenere l’unanimità in sede NATO e UE: l’Operazione Concordia nella FYROM e l’Operazione
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Althea in Bosnia. Il quadro di finanziamento di tali operazioni, siano civili o militari, è piuttosto chiaro e soprattutto politicamente rilevante. Le operazioni civili di gestione delle crisi (cd. PESD civile), ma anche altre attività dell’Unione non implicanti il settore militare, sono finanziate con il bilancio della PESC che costituisce parte del bilancio comunitario gestito dalla Commissione e il cui utilizzo è deciso dal Consiglio. Il finanziamento avviene dunque con precise linee di budget dell’Unione, con risorse proprie, rientranti nel capitolato di spesa “Relazioni Esterne”. Possiamo dunque concludere che la PESC viene finanziata dall’Unione direttamente ove essa non implichi spese di natura militare e di difesa cioè la cd. PESD militare. Completamente diverso è il discorso in merito al finanziamento delle operazioni aventi implicazioni nei settori militari e di difesa. Qui le modalità sono due ed entrambe consistono nel finanziamento da parte degli Stati Membri: costs lie where they fall”, ovvero ogni Stato paga le spese del suo contingente e meccanismo ATHENA. Il meccanismo ATHENA ha carattere residuale rispetto alla regola base riportata al punto primo e prevede la condivisione dei costi comuni, specificatamente individuati ad hoc, tra i partecipanti alla missione. Entrambe le opzioni sono comunque a carico delle risorse statali da cui deriva che le operazioni militari PESD sono finanziate esclusivamente dai budget nazionali. La conseguenza politica più importante circa la questione del finanziamento è che l’Unione è disposta ad assumersi il costo per l’attività civile mentre gli stati nazionali non vogliono delegare, all’Unione, il finanziamento delle operazioni militari testimoniando la volontà di non ammettere ingerenze esterne sulla vita economica di una missione militare. La questione principale è, dunque, di nuovo essenzialmente politica. In definitiva, all’interno dell’Unione persiste una divergenza istituzionale e politica, che mina seriamente la sua credibilità internazionale, creando un’Europa a due anime. Questa duplice natura dell’UE ha aperto una riflessione obbligatoria sulla misura delle ambizioni dell’Unione negli affari in-
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ternazionali. La collocazione dell’attore europeo, in buona misura, dipenderà da scelte future di posizionamento sullo scacchiere mondiale. Si possono così delineare tre possibili prospettive: quella dell’evoluzione europea come security provider in Europa e nell’immediato vicinato, attraverso politiche di sicurezza con strumenti militari e civili; quella di security provider a livello globale per le nuove minacce, con strumenti, al massimo livello d’integrazione, sia militari che civili; e quella di un debole militare focalizzato principalmente sul suo ruolo di potenza civile. Nel primo caso si avrebbe un approfondimento della cooperazione rafforzata sovranazionale. In questa ipotesi l’Unione assumerebbe caratteristiche di grande potenza regionale completa ma ancora pesantemente subordinata a pressioni esterne. Nel secondo si vedrebbero realizzate le speranze di coloro i quali immaginano l’UE costituirsi in un super stato con i propri interessi, sintesi e soluzione delle attuali divisioni nazionali, procedendo ad una maggiore integrazione nel settore della sicurezza parallelamente a quanto avvenuto in campo monetario. Tale situazione porterebbe a ripensare perfino l’esistenza stessa della NATO e la struttura del mercato europeo della difesa. In questa ipotesi l’UE si manifesterebbe al mondo come superpotenza ma solo se riuscirà ad essere in grado di rivestire un ruolo di security provider credibile a livello globale. In entrambi i casi il carattere di potenza dell’UE sarebbe comunque ampiamente in fieri; in primo luogo perché dovrebbero attuarsi riforme evolutive di una certa importanza, in secondo luogo poiché dovrebbe necessariamente essere riconosciuta come potenza, non solo economica, dagli altri attori mondiali. Il terzo profilo, invece, non è un’ipotesi in quanto attualmente l’UE si situa in questa traiettoria. L’Europa, infatti, costituisce attualmente la combinazione tra istituzione di attori nazionali e tendenze a porsi come uno stato federale, di qui le due anime. Se nel campo da noi esaminato vige la cooperazione intergovernativa e sono ancora gli Stati nazionali a detenere il potere decisionale in base a calcoli di propri interessi specifici e di
Batti cinque - la maggior parte delle ultime iniziative della PESD si focalizzano sulla fase successiva alla stabilizzazione. (C SHAPE)
variabili storico-congiunturali; in altri campi, pur con tutti i problemi, si può rilevare che si è affermato progressivamente anche uno stato quasi-federale in alcuni settori dell’economia, del commercio e della moneta. In definitiva, si tratta di due anime che convivono all’interno dello stesso corpo. Tale stato di cose porta inevitabilmente l’UE a mostrarsi al mondo talvolta come un’alleanza in grado di produrre sicurezza, con tutti i suoi limiti, talvolta come una “Potenza Civile”. Per capire quale percorso l’Unione perseguirà nel futuro sarà importante guardare agli sviluppi istituzionali europei e allo sviluppo del contesto internazionale. Il grande sviluppo dell’azione civile europea dal 1992 al 2001 è dovuto, infatti, in gran parte a due motivi: uno interno, la demilitarizzazione delle società europee avviata già dopo la II Guerra Mondiale, e uno esterno, la creazione, dal 1989, di una non-war community. In questo contesto l’Unione si è mossa verso un’avversione kantiana al conflitto sposando in pieno il progetto di “pace perpetua”: invece di minacciare l’uso della forza, l’Unione minacciava di non usarla, cioè di precludere la propria amicizia o la prospettiva d’ingresso in Europa. A tal fine gli strumenti militari sono rimasti sempre più subordinati talvolta al necessario per-
seguimento di maggiore integrazione economicomonetaria, talvolta alla convergenza delle volontà degli stati nazionali di procedere ad un maggior coordinamento in virtù di destabilizzazioni prodotte dagli eventi internazionali (di cui i Balcani hanno fortemente rappresentato la maggior preoccupazione). Pertanto, in questa fase storica, è stato necessario sposare un approccio minimale (creando però le basi per un futuro dialogo) puntando su strumenti di “soft power” tipici di una potenza civile. Il 2001, però, con la sua ondata di terrore continuata sino ai giorni nostri, ha imposto una nuova riflessione ed ha portato l’Unione a interrogarsi sul suo futuro producendo una più effettiva dotazione di capacità militare da affiancare alla capacità civile consolidata negli anni. L’emblema di queste ambizioni è pienamente rappresentato dalla ESS del 2003. Nel contempo, l’Unione ha poi provato a dotarsi di una base costituzionale per attuare un salto di qualità. Il processo politico è pero fallito, anche se buona parte delle previsioni, perlopiù strumentali, in materia PESC sono state ribadite nel Trattato di Lisbona. Se da un lato si è proceduto ad un miglioramento delle capacità e dell’azione militare dell’UE, dall’altro, manca ancora una piena coerenza politica che dipenderà, in ultima analisi, dal destino stesso delle anime dell’Europa.
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE 47
Diritto
PERSECUZIONE POLITICA
VINCENZO MARIA SCARANO
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Ăˆ persecuzione politica anche il ricorso agli strumenti legali di repressione penale delle opinioni politiche dissenzienti DIRITTO 49
l concetto di persecuzione politica, valutato requisito necessario per la concessione, da parte dello Stato, dell’asilo, ha subito un ampliamento nell’esame della sua casistica in quanto la Corte di Cassazione, con l’ordinanza del 2 luglio 2010 n. 17576, ha esteso la definizione di persecuzione anche ai casi in cui lo Stato del richiedente asilo utilizzi strumenti legali per reprimere opinioni politiche dissenzienti. Ed invero, l’ordinanza in esame amplia l’ambito di applicazione della disciplina nazionale relativa alla richiesta, da parte dello straniero, della protezione internazionale in caso di persecuzione nel proprio Paese d’origine. In particolare, la pronuncia della Suprema Corte pone l’attenzione sul modus operandi che le Corti di merito devono seguire per accertare la rispondenza della predetta domanda di protezione internazionale ai requisiti richiesti dalla legislazione nazionale, sull’ampiezza della definizione di persecuzione politica, includendo al suo interno anche le azioni legittime perpetrate dallo Stato del richiedente, ma finalizzate a reprimere la libera espressione di opinioni politiche. Al riguardo, la Suprema Corte evidenzia la necessità di esaminare la domanda di protezione non solo sotto l’ottica della credibilità soggettiva del richiedente, ma anche e soprattutto adempiendo i doveri di ampia indagine, di completa acquisizione documentale e di complessiva valutazione della situazione reale del Paese di provenienza, includendo nel concetto di persecuzione politica, a tal scopo, anche l’adozione di sanzioni penali ritualmente poste a carico di chi ha espresso opinioni politiche non gradite al potere costituito. In altri termini, ad avviso della Corte di Cassazione sussiste la persecuzione politica anche nel caso in cui vengano adottate sanzioni penali comminate a seguito di un regolare processo penale a carico di chi ha solamente espresso mere opinioni politiche. L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 17576/2010, pertanto, si pone come punto di partenza per un’indagine circa l’evoluzione della disciplina del diritto di asilo nell’ordinamento
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italiano, che parte dall’analisi della disposizione costituzionale di cui all’art. 10, co. 3, Cost. per giungere ad una panoramica della legislazione ordinaria in materia di asilo e protezione internazionale, con particolare riferimento ai recenti interventi legislativi operati con i decreti legislativi n. 251/2007 e n. 25/2008.
La pronuncia della Corte di Cassazione La pronuncia della Suprema Corte muove i suoi passi dal caso concreto riguardante un cittadino turco che ha adito l’autorità giudiziaria italiana per vedersi accettata la propria domanda, rigettata dalla competente Commissione Territoriale, con la quale chiedeva il riconoscimento dello status di rifugiato e la conseguente protezione internazionale, lamentando, al riguardo, una persecuzione politica da parte del Governo turco in quanto appartenente ad un movimento politico di etnia curda (il D.T.P., Demokratik Toplum Partisi). I giudici di merito, invero, hanno rigettato il suddetto ricorso, ritenendo il cittadino turco non idoneo alla protezione internazionale e rilevando, da un lato, che lo stesso richiedente era soggetto ad un ordine di arresto in contumacia perché accusato di propaganda in favore di un’organizzazione terroristica, e, dall’altro lato, che le motivazioni addotte dal cittadino turco a favore della sua situazione di persecuzione in Turchia non erano credibili, poiché, a loro avviso, non vi era né la prova della persecuzione, né tantomeno la situazione politica in Turchia lasciava intendere la sussistenza di una politica persecutoria nei confronti dell’etnia curda. Tuttavia, la Corte di Cassazione, interpellata dal cittadino soccombente nei giudizi di merito ha rilevato l’errore interpretativo dei giudici di merito, in particolare la Corte di Appello di Milano, asserendo che la suddetta domanda era stata esaminata «sotto l’ottica prevalente della credibilità soggettiva del richiedente, totalmente dimenticando di adempiere ai doveri di ampia indagine, di completa acquisizione documentale anche uffi-
In apertura: un posto di ristoro per extracomunitari sbarcati a Linosa Sopra: clandestini trasferiti a Livorno dai carabinieri
ciosa e di complessiva valutazione anche della situazione reale del Paese di provenienza». Ed invero, ad avviso della Suprema Corte, la valutazione della condizione di persecuzione di opinioni, abitudini e pratiche avrebbero dovuto avvenire «sulla base di informazioni esterne ed oggettive afferenti il Paese di origine e solo la riferibilità specifica al richiedente poteva essere fondata anche su elementi di valutazione personale» e non già solo tenendo conto della credibilità soggettiva del richiedente asilo e dell’incombenza sul medesimo dell’onere della prova circa la sussistenza del c.d. fumus persecutionis a suo danno nel Paese d’origine. Inoltre, la Suprema Corte, precisa, con riferimento al criterio di valutazione della persecuzione politica, che quest’ultima «sussiste anche quando vengano legalmente adottate sanzioni penali all’esito di un regolare processo di chi ha espresso mere opinioni politiche» e che, quindi, il suddetto fumus persecutionis va riscontrato «alla luce del fatto addebitato e del suo nomen iuris». A tal riguardo, infatti, si evidenzia come la vicenda in oggetto ponga in essere una violazione dell’art.
10 della Convenzione Europea sui Diritti Umani, laddove si sostiene che una sanzione penale comminata per la diffusione di dichiarazioni di natura politica incida indebitamente sulla libertà di espressione garantita dal predetto articolo, escluso nel caso in cui tali dichiarazioni siano pronunciate con il fine di incitare all’odio o alla violenza.
L’asilo nel diritto internazionale La vicenda offre lo spunto per analizzare nel dettaglio la disciplina dell’asilo, sotto la duplice ottica internazionale ed interna. In particolare, è opportuno evidenziare che nell’ambito del diritto internazionale, con il termine “asilo” deve intendersi la protezione offerta da uno Stato nei confronti di individui che sono oggetto di persecuzione nel loro Paese di origine. Ciononostante ancora non esiste un vero e proprio diritto soggettivo dell’individuo ad ottenere asilo dalle persecuzioni. Pertanto, gli Stati, ed eccezionalmente gli organismi internazionali, accordano protezione permanente o temporanea nel proprio territorio (o in altri
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Un barcone di clandestini
ambiti di esercizio delle loro potestà) a individui o beni ad essi estranei che vi hanno trovato rifugio per sottrarsi a persecuzione, effettiva o potenziale, di carattere politico, ovvero per sfuggire alla giustizia per reati comuni, alle vicende belliche o di conflitti armati del proprio Paese di origine. L’inesistenza dell’asilo quale istituto specifico di diritto internazionale generale, pertanto, deriva dal fatto che tale istituto trova applicazione non già sulla base di una disciplina internazionale unitaria e generale, bensì caso per caso in forza di norme di diritto convenzionale o consuetudinario a ciò destinate, ovvero tutt’al più in base al principio generale per cui lo Stato, entro certi limiti, è lasciato libero di comportarsi come crede nei riguardi delle persone bisognose di assistenza e protezione giuridica che vengono a trovarsi sul proprio territorio o chiedono di entrarvi accordano o no a questi l’asilo, secondo le proprie valutazioni di convenienza afferenti soprattutto l’ordine politico od economico. Si riscontra, inoltre, una stretta correlazione tra il concetto di “asilo” e quello di “rifugio” che vanno, comunque, tenuti distinti e non confusi. Il rifugio
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è atto individuale del singolo e costituisce il presupposto dell’asilo che implica attività normativa ed eventualmente materiale da parte dello Stato. Non esiste asilo senza rifugio, mentre può esservi rifugio, più o meno temporaneo, senza esservi asilo.
L’asilo nel diritto interno L’esiguità della normativa di carattere internazionale in materia di asilo trova un contraltare nella relativa disciplina dei singoli ordinamenti nazionali, laddove il diritto di asilo viene contemplato già al livello costituzionale. In merito, con riferimento all’ordinamento giuridico italiano, si evidenzia come la materia dell’asilo è regolata a livello costituzionale addirittura nella parte dedicata ai principi fondamentali inderogabili ai sensi dell’art. 139 Cost.
Il precetto costituzionale In particolare, l’art. 10, co. 3, Costituzione stabilisce che «lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democrati-
che garantire dalla Cost. italiana, ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge». Si evince chiaramente dalla lettera del dispositivo sopra riportato che l’asilo costituisce un vero e proprio diritto soggettivo, oggetto comunque di una discussione circa la sua natura programmatica o precettiva. Dottrina e giurisprudenza1 oggi prevalenti accordano alla predetta normativa natura precettiva, facendone così discendere la sussistenza di un diritto soggettivo perfetto avente ad oggetto il diritto d’asilo ed individuano come destinatari tutti coloro che, nel proprio paese, non godono delle fondamentali garanzie assicurate dalla Costituzione italiana. Eppure persistono ancora oggi ricostruzioni più riduttive, che individuano nella disposizione costituzionale soltanto un principio o una mera aspirazione a tal risultato, concretamente realizzabile solo con l’intervento della legislazione ordinaria. Ed invero, la Costituzione, pur prevedendo il necessario intervento attuativo delle disposizioni legislative, definisce la fattispecie che fa sorgere in capo allo straniero il diritto di asilo comunque in modo chiaro e preciso in tutti i suoi elementi, laddove individua nell’impedimento dell’esercizio delle libertà democratiche la causa che giustifica l’ottenimento della protezione e nell’effettività di tale situazione in relativo criterio di accertamento. L’impedimento dell’esercizio delle libertà fondamentali, poi, deve essere valutato tenendo conto sia del sistema di libertà garantito e tutelato dall’ordinamento costituzionale italiano, sia della situazione effettiva esistente nello Stato estero. Ciò conduce a ritenere che sussista un presupposto sufficiente per invocare l’asilo anche nell’eventualità in cui il richiedente provenga da uno Stato il cui ordinamento, seppure formalmente demo1
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cratico, al suo interno non permetta concretamente il pieno godimento delle libertà democratiche. Con riferimento ai soggetti destinatari del diritto di asilo, la portata estensiva di tale diritto contempla tutti gli individui anche non cittadini, compresi gli apolidi, che non possano esercitare le libertà democratiche rispettivamente nello Stato di provenienza ovvero nello Stato di residenza abituale. Tanto premesso, da un punto di vista generale, è opportuno evidenziare che il rapporto tra l’intervento della legislazione ordinaria e l’istituto dell’asilo non può condurre a condizionare l’esercizio di tale diritto al rispetto dei requisiti formali, degli oneri e delle condizioni, cui la legge sottopone l’ingresso degli stranieri. Ciò perché il contenuto essenziale della situazione giuridica soggettiva da cui matura il diritto di asilo deve rinvenirsi nella pretesa di essere ammessi sul territorio italiano, da cui ne deriva la netta differenza tra il richiedente asilo e lo straniero al quale viene riconosciuto soltanto un mero interesse legittimo ad entrare nel territorio della Repubblica2. A tal riguardo, poi, occorre precisare che la presenza del richiedente asilo nel territorio italiano non va considerata come una condizione necessaria per il conseguimento del diritto stesso; poiché, invero, essa non viene richiesta dalla norma costituzionale3. La natura precettiva della norma costituzionale in esame e la sua relativa effettività hanno come diretta conseguenza l’impossibilità di condizionare sospensivamente l’ammissione ad accertamenti preventivi da parte dell’autorità pubblica. Tale impossibilità è finalizzata ad evitare qualsiasi compromissione dei benefici tutelati dalla Cost. che, al contrario, sono messi in pericolo dallo Stato di origine e che, quindi, la richiesta di protezione, stante la sua natura di necessità ed urgenza, mira a preservare.
Cfr. Cass., Ss. Uu., 26 maggio 1997, n. 4674; Cass., Ss.Uu., 17 dicembre 1999, n. 907; Cass., Sez. I, 23 agosto 2006, n. 18353 e Cass., Sez. I, 1 settembre 2006, n. 18940. Così si è espressa la Corte Costituzionale nell’ordinanza n. 503/1987 sostenendo che «lo straniero non ha di regola un diritto acquisito di ingresso e di soggiorno nello Stato e pertanto le relative libertà ben possono essere limitate a tutela di particolari interessi pubblici, quale quello attinente alla sicurezza intesa come ordinato vivere civile». Cfr. Trib. Roma, 1 ottobre 1999, Oçalan, in Riv. Dir. Internaz., 1991, 241 ss.
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Ciononostante, l’obbligo di ammissione può essere limitato solo nel caso in cui le autorità di polizia di frontiera, con provvedimento eccezionale e provvisorio sul quale si esercita la giurisdizione ordinaria secondo lo schema dell’art. 13, co. 2, Cost.4 a tutela della libertà personale, stabiliscano un temporaneo obbligo di soggiorno, o altra minore limitazione, nell’attesa di identificare il richiedente asilo. In merito ai diritti minimi riconosciuti ai richiedenti asilo, invece, la Corte Costituzionale si è espressa nel senso che «i soggetti ai quali […] la Costituzione ha voluto offrire asilo politico […] devono poter godere, almeno in Italia, di quei fondamentali diritti democratici che non siano strettamente inerenti allo status activae civitatis», a prescindere da qualsivoglia condizione di reciprocità prevista dalla legge5. Tali diritti sono senza dubbio il diritto di riunione, i diritti sindacali, il diritto al lavoro, la libertà di circolazione, senza precludere la legittima istituzione di centri di raccolta, la libertà di pensiero anche a mezzo stampa.
L’evoluzione legislativa in materia di asilo Accertato quanto espresso dalla Cost. in materia di asilo e constatata altresì l’interpretazione che dottrina e giurisprudenza danno della norma costituzionale ex art. 10, co. 3 Cost., l’attenzione deve rivolgersi ora alla disciplina prevista dalla legislazione ordinaria che, proprio sulla base del portato costituzionale, è competente alla definizione nel dettaglio delle forme, modalità e dei requisiti per la richiesta e la successiva concessione dell’asilo. In tale quadro, si rinviene un primo intervento del Legislatore ordinario solo nel 1990, quando, con la c.d. Legge Martelli (L. 28/02/1990, n. 39, di conversione del D.L. 30/12/1989, n. 416), si provvedeva – in attesa che il Parlamento varasse una disciplina organica dell’asilo – a dotare l’ordinamento interno di norme ad hoc in materia di trat4
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tamento degli stranieri, seppur scarna ed essenziale, che comunque provvedeva ad introdurre una nuova procedura amministrativa per il riconoscimento dello status di rifugiato. Poi, con la L. n. 40/1998 (c.d. Turco-Napolitano) e la L. n. 189/2002 (c.d. Bossi-Fini) – con cui si mirava sopratutto ad aggiornare la procedura di esame delle domande in un’ottica di eccessiva celerità e discutibile decentramento dell’esame delle domande – il legislatore ha provveduto a dare attuazione all’art. 10, co. 3, Cost. Ed invero, la procedura introdotta dalla legge Bossi-Fini e dal correlato regolamento attuativo sull’asilo attribuisce la competenza relativa all’esame delle domande alle cosidette Commissioni territoriali la cui composizione, tuttavia, non garantisce un livello di competenza adeguato al ruolo affidato. In particolare, si prevede sia la distinzione tra una procedura ordinaria ed una semplificata, laddove quest’ultima stabilisce la possibilità di trattenere il richiedente in appositi centri di identificazione che la possibilità di riesaminare l’eventuale diniego della domanda previa richiesta entro cinque giorni dal rigetto. Inoltre, è opportuno sottolineare che il ricorso al giudice, da proporre nel termine di decadenza di quindici giorni, non sospende l’efficacia del provvedimento di allontanamento. La disciplina di cui alla L. n. 189/2002 è stata ulteriormente modificata ed integrata, raggiungendo un buon livello di completezza, attraverso il recepimento delle Direttive 2004/83/CE e 2005/85/CE mediante i decreti legislativi n. 251/2007 e n. 25/2008 (modificato dal D.Lgs. n. 159/2008). Tuttavia, l’analisi dei due testi normativi evidenzia comunque la sussistenza di alcune lacune relative alla tutela del precetto costituzionale ed oltretutto appare difficile individuare la volontà del legislatore sul punto poiché quest’ultimo continua a
Art. 13, co. 2, Cost. «Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». Così Corte Cost., 31 marzo 1968, n. 11.
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Un barcone di clandestini viene intercettato dalle autorità costiere
mantenere il tradizionale riserbo nei confronti dell’art. 10, co. 3, Cost. Ne deriva, perciò, che persiste in capo al richiedente asilo la possibilità di invocare dinanzi al giudice ordinario autonomamente e liberamente l’azione di riconoscimento della situazione soggettiva da cui scaturisce il diritto di asilo, non trovando applicazione, in tale ambito, le modalità ed i termini di decadenza previsti dall’art. 35, D.lgs. n. 25/2008 per l’impugnazione del diniego della protezione internazionale. Pertanto, per quanto finora esposto, emerge che il diritto di asilo di cui all’art. 10, co. 3, Cost. muove da presupposti e condizioni diverse da quelli che caratterizzano e disciplinano lo status di rifugiato, cosicché sussiste anche una diversità con riguardo alle prerogative riconosciute al richiedente l’asilo, sintetizzabili nel diritto al soggiorno, nella sua accezione di divieto di allontanamento dal territorio nazionale6. Ciononostante, la Suprema Corte7 ha ritenuto comunque doverosa la richiesta del permesso di soggiorno al fine di evitare l’espulsione, in considerazione del fatto che la proposizione della domanda di asilo non può ritenersi sufficiente a legittimare la permanenza dello straniero nel territorio italiano. Quanto finora analizzato trova comunque una sua cristallizzazione di contenuti e principi con l’entrata in vigore del d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251 attuativo della Direttiva 2004/83/CE del Consiglio 6 7
del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta. Tale disciplina definisce finalmente ed in modo organico tutto ciò che riguarda l’asilo. Tuttavia, permangono elementi di criticità dovuti, da un lato, alla tecnica di formazione dei testi normativi adottata dall’Unione Europea consistente nell’individuazione di standard minimi di tutela, e, dall’altro, alla naturale differenza tra il precetto costituzionale e la disciplina legislativa in materia di protezione internazionale. In tale quadro, si sottolinea che la Direttiva introdotta con il decreto legislativo in esame mira «ad assicurare il pieno rispetto della dignità umana, il diritto di asilo dei richiedenti asilo e dei familiari al loro seguito», nonché limita la discrezionalità nell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, precisando la definizione degli elementi essenziali. Essa, inoltre, prevede circostanze distinte dalla persecuzione, a cui riconduce il riconoscimento di uno status ulteriore e complementare di protezione “sussidiaria” (art. 2, lett. g), qualora sussistano fondati motivi per ritenere che in caso di ritorno nel Paese di origine il richiedente correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno e che, a causa di tale rischio, questi non possa o non voglia avvalersi della protezione di tale Paese. A tal scopo, per Paese d’origine si deve intendere quello di cui lo straniero richiedente protezione è cittadino o, se si tratta di apolide, il Paese di precedente dimora abituale. Ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, sono considerati danni gravi: a) la condanna a morte o all’esecuzione della pena capitale; b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante; c) la minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile
In questo senso, T.A.R. Friuli Venezia Giulia, n. 410/1992. Cfr. Cass., n. 8423/2004.
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derivante dalla violenza indiscriminata in situazione di conflitto interno o internazionale. Con particolare riferimento alla minaccia grave si evidenzia che l’apparente contraddizione tra l’individualità della stessa e la natura indiscriminata della violenza deve condurre l’interprete a considerare la minaccia come un dato concreto, anziché potenziale. A tal proposito, si reputa condivisibile la scelta operata dal legislatore nazionale consistente nel non avvalersi delle facoltà accordate dalla citata Direttiva relativa all’introduzione e/o al mantenimento di norme derogatorie o più sfavorevoli, ma al contrario nell’accordare ai richiedenti asilo, ai sensi dell’art. 3 della Direttiva, la misura più favorevole secondo cui il rigetto o alla cessazione dello status di rifugiato e/o della protezione sussidiaria sono limitati dall’eventuale sussistenza di «gravi motivi umanitari che impediscono il ritorno nel Paese di origine»8. Tale accorgimento consente, perciò, di mantenere piena validità alle norme nazionali che prevedono il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur riducendone il campo di applicazione ai casi diversi da quelli oggi ricompresi nella protezione sussidiaria. Ed invero, la domanda di protezione internazionale così come disciplinata dal D.lgs. n. 251/2007 risulta avere un carattere unitario, in quanto vengono contemplate al suo interno sia la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato, sia la protezione sussidiaria. Ciò perché la predetta domanda si struttura come un atto declaratorio emesso dalle competenti commissioni attraverso una procedura tendenzialmente unitaria e quindi non più distinta, come in passato, tra ordinaria e semplificata. In tale quadro, il D.lgs. n. 251/2007 risolve in senso positivo alcuni dubbi interpretativi – compreso quello relativo all’attribuzione della protezione internazionale anche nelle ipotesi in cui il rischio di persecuzione ovvero di danno grave sia sorto suc8 9
cessivamente alla partenza dal Paese di origine9 – mediante l’uso di definizioni comuni quali “fonti del danno e della protezione”, “protezione interna”, “persecuzione”, “appartenenza ad un determinato gruppo sociale”, “bisogno di protezione internazionale sorto fuori dal Paese di origine” (c.d. surplace). Infine, con riguardo alla definizione di rifugiato ed al riconoscimento del relativo status, si evidenzia che l’art. 2 lett. e), D.lgs. n. 251/2007 attribuisce la qualifica di rifugiato sia al cittadino straniero che, per timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale od opinione politica, si trova fuori del territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, sia all’apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale e per le stesse predette ragioni non può o non vuole farvi ritorno, ferme le cause di esclusione ex art. 10 del medesimo testo normativo. Tale definizione, quindi, conduce ad analizzare il concetto di atti di persecuzione che l’art. 7 del testo in esame, rinviando la definizione di rifugiato alla Conv. di Ginevra, individua in una grave violazione dei diritti fondamentali. Ed invero, il successivo comma 2 considera atti di persecuzione anche la violenza sessuale e le sanzioni giudiziarie sproporzionate, nonché le azioni giudiziarie conseguenti al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, qualora questo possa comportare il fatto di commettere crimini di guerra o contro l’umanità. Ciò posto, si deve altresì specificare che l’elenco di cui all’art. 7, co. 2, non è esaustivo di tutti i possibili atti di persecuzione, e pertanto deve ritenersi persecutoria anche l’esistenza di una legge che impedisce a chiunque di esercitare un determinato diritto fondamentale. L’art. 8, poi, precisa che, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, i motivi di persecuzione
Rispettivamente ai sensi del combinato disposto degli artt. 9, co. 2, e 15, co. 2, d.lgs. n. 251/2007. Art. 5, co. 2, d.lgs. n. 251/2007.
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devono essere riconducibili alla razza, alla religione, alla nazionalità, all’appartenenza di un determinato gruppo sociale, alle opinioni politiche. Quanto definito e disciplinato dall’esaminato D.lgs. n. 251/2007 viene integrato e migliorato dal D.lgs. n. 25/2008 di attuazione della Direttiva 2004/83/CE. Il fine del suddetto decreto legislativo è quello di stabilire le procedure dell’esame delle domande di protezione internazionale (art. 1, d.lgs. n. 25/2008), nel rispetto delle norme della Convenzione di Ginevra del 1951 ed in applicazione delle norme sulla protezione sussidiaria di cui all’art. 1, d.lgs. n. 251/2007. La domanda di protezione internazionale è unica, con l’effetto importante di prevenire il pericolo di allontanamento che diversamente si sarebbe avuto nelle more tra il diniego dello status di rifugiato e l’esame della domanda di protezione sussidiaria. A fronte di un’unica domanda, però, persiste una difficoltà di coordinamento delle norme di attuazione della Direttiva con le differenti forme di protezione previste dall’ordinamento italiano, le quali vanno ben oltre il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Conv. di Ginevra e della nuova protezione sussidiaria dovendo ricomprendere: a) il generale divieto di refoulement10; b) la protezione umanitaria derivante da altre disposizioni poste come limite al potere del Questore di rifiutare il permesso di soggiorno, nel caso che ricorrano seri motivi umanitari o derivanti da obblighi costituzionali od internazionali dello Stato italiano11; c) la protezione temporanea da garantirsi con d.p.c.m. in caso di conflitti, disastri naturali od altri eventi di particolare gravità12; d) il diritto di asilo ex art. 10, co. 3, Cost., e sancito dalla Corte di Cassazione come diritto soggettivo direttamente azionabile di fronte all’Autorità Giudiziaria Ordinaria13. In particolare il D.lgs. n. 25/2008 disciplina in maniera più accurata e dettagliata la procedura per 10 11 12 13
la domanda di protezione internazionale. In merito, si evidenzia che ai sensi della Direttiva attuata con il testo legislativo tale procedura si applica solo a condizione che lo straniero non abbia chiesto palesemente un altro tipo di protezione non espressamente contemplato da detta Direttiva e richiedibile con domanda separata (i.e.: la richiesta di asilo ex art. 10, co. 3, Cost.). In tale quadro, poi, ai fini dell’ottenimento della protezione, il fatto di aver già subito persecuzione, danni gravi o minacce costituisce un serio indizio della fondatezza del timore di subire nuovamente tali persecuzioni o danni gravi, salvo che vi siano elementi per ritenere che questi ultimi non si ripeteranno e purché non sussistano gravi motivi umanitari che impediscano il ritorno nel Paese di origine. È possibile affermare, in conclusione, che con l’introduzione dei decreti legislativi n. 251/2007 e n. 25/2008 il legislatore ha cambiato volto alla disciplina della procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato introducendo finalmente una normativa organica, unitaria e soprattutto completa capace di garantire allo straniero perseguitato la tutela dei suoi diritti e, dal punto di vista normativo, l’esatta applicazione del precetto costituzionale di cui all’art. 10, co. 3. Costitizione. Ed invero, la Corte di Cassazione, nell’ordinanza in esame, non fa altro che avallare la voluntas legislatoris finalizzata a fornire al cittadino straniero perseguitato il più ampio spettro di tutela, giungendo, nel caso di specie, ad ampliare ai limiti il concetto di persecuzione politica attraverso l’introduzione al suo interno finanche della circostanza caratterizzata dall’impiego di mezzi legali di repressione delle opinioni politiche, come può essere il ricorso al processo penale per sanzionare la divulgazione di espressioni di carattere politico non gradite all’autorità costituita.
Cfr. art. 19, co. 1, d.lgs. n. 286/1998. v. art. 5, co. 6, d.lgs. n. 286/1998. Cfr. art. 20, co. 1, d.lgs. n. 286/1998. Oltre alle già citate Cass., SS.UU., n. 4674/1997 e Cass., SS.UU., n. 907/1999, si vedano anche Cass., n. 8323/2004; Cass., n. 25020/2005 e Cass., n. 18941/2006.
DIRITTO 57
Storia
LO STATUTO DI CARLO ALBERTO E LA SUA INFLUENZA SUL RISORGIMENTO PATRIZIO RAPALINO
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Introduzione CARLO ALBERTO per la grazia di DIO RE di Sardegna , di Cipro e di Gerusalemme…con lealtà di Re e con affetto di padre… prendendo unicamente consiglio dagli impulsi del Nostro cuore, ...avuto il parere del Nostro Consiglio, abbiamo ordinato ed ordiniamo in forza di Statuto e legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia, quanto segue…” Con queste parole che fanno da preambolo agli 84 articoli dello Statuto del regno di Sardegna, il re, il 4 marzo 1848, a Torino, voltò pagina, lasciandosi dietro l’ancien regime e compiendo il primo grande passo verso l’unificazione nazionale. Pur abbandonando definitivamente l’assolutismo, la Monarchia sabauda, con queste prime parole, chiarì che lo Statuto era una mera concessione: la Costituzione non fu imposta dal popolo, non fu espressione della volontà popolare, ma bensì il frutto di una decisione unilaterale del re, il quale pur regnando per grazia divina, sentì la necessità di adeguarsi ai tempi. Fu proprio così? Per quali effettive ragioni Carlo Alberto fu indotto a concedere lo Statuto? Temeva forse una rivoluzione? Aveva già l’intenzione di mettersi a capo della lotta per l’indipendenza? Che influenza ebbe lo Statuto nel Risorgimento italiano? A queste domande cercheremo di dare delle risposte sufficientemente obiettive, consultando la raccolta dei processi verbali del Consiglio di Conferenza per lo Statuto, copiata a suo tempo dagli archivi della biblioteca reale di Torino da Domenico Zanichelli e da questi pubblicata nel lontano 1898. Tale preziosa pubblicazione è attualmente conservata presso la Biblioteca dell’Accademia Navale di Livorno. Dai suddetti documenti che verbalizzano le sedute del Consiglio di Conferenza, risulta che si giunse a decidere l’opportunità di concedere lo Statuto, quindi a elaborare un primo progetto di legge fondamentale, perfezionarlo e pro-
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mulgarlo in poco più di un mese, ed esattamente dal 3 febbraio al 4 marzo 1848. Come mai tanta fretta? Come fu possibile che un sovrano, definito da molti storici ambiguo e tentennante, debole e indeciso, potesse prendere una decisione tanto importante in così breve tempo? Chi o che cosa lo incalzava?
Gli antefatti Il ramo della famiglia di Carlo Alberto, i Carignano, non aveva seguito la Corte in Sardegna, durante il periodo napoleonico; il principe era stato quindi testimone dello spirito rivoluzionario e innovatore importato dalla Francia. Per questo motivo era visto con sospetto dalla Corte e dagli aristocratici più reazionari, così come godeva delle simpatie dagli aristocratici di tendenze liberali. Era sicuramente a conoscenza di essere considerato un principe liberale; probabilmente si era compiaciuto di ciò ed aveva in qualche modo dato l’illusione di volere appoggiare i moti del 1821. Avrebbe potuto, se non mettersi alla testa dei giovani ufficiali che si erano ribellati, per lo meno intercedere presso il Sovrano per convincerlo a concedere la Costituzione. Ma Vittorio Emanuele I abdicò il 13 marzo 1821 e Carlo Alberto, durante la sua breve reggenza, in attesa del rientro da Modena di Carlo Felice, erede al trono, non se la sentì di forzare gli eventi promulgando la Costituzione; soltanto il sovrano legittimo poteva compiere un atto così importante. Nell’attesa del rientro di quest’ultimo assunse un comportamento ambiguo senza prendere una posizione netta a favore di una delle due fazioni in lotta, i costituzionalisti e i realisti. Quando poi Carlo Felice lo richiamò all’ordine abbandonò definitivamente i costituzionalisti e fuggì a Novara. Dopo la sua salita al trono (1831), sembrò completamente dimenticarsi del suo passato di principe liberale, assumendo un comportamento marcatamente reazionario, schiacciando
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con la forza ogni più piccolo tentativo di ribellione. Si circondò di gesuiti e scelse i suoi ministri tra gli aristocratici più retrivi del Regno. A Francesco IV di Modena scrisse che piuttosto di concedere delle riforme sarebbe morto. Nonostante il suo comportamento fosse perfettamente in linea con i principi della Santa Alleanza, Carlo Alberto era considerato dalle cancellerie europee un sovrano sospetto e pericoloso per lo status quo, quasi un rivoluzionario. Forse uno degli aspetti che rende la figura di Carlo Alberto particolarmente contraddittoria è proprio questa: essere considerato al contempo un rivoluzionario in politica estera e un campione della restaurazione all’interno del proprio Stato. Che cosa fece cambiare idea a Carlo Alberto? Forse il successo che ebbero le idee neoguelfe di Gioberti, presentate nel libro “Del primato morale e civile degli italiani”, ossia il programma politico proposto da Gioberti che vedeva una confederazione di Stati italiani libera dall’influenza straniera sotto l’autorità del Papa e la protezione militare del Piemonte. Carlo Alberto, religiosissimo, fu sicuramente influenzato dal programma giobertiano tant’è che nel 1845 cominciò gradualmente ad avvicinarsi ai moderati come Massimo D’Azeglio, a lasciare intendere di voler abbracciare la causa italiana; la sua politica estera si fece sempre più antiaustriaca, sia con interventi di tipo doganale, che a carattere diplomatico, come ad esempio la formale protesta avanzata in occasione dell’occupazione austriaca di Ferrara nel 1847. Carlo Alberto era ben conscio che da una revisione dei trattati del Congresso di Vienna aveva molto da guadagnare e poco da perdere. Anche in caso di sconfitta contro l’Austria, l’importanza strategica del Piemonte, come stato cuscinetto tra la Francia e l’Impero, ne avrebbe garantito comunque l’integrità, così come effettivamente si verificò dopo la sconfitta di Novara del 1849. Specialmente la Gran Bretagna, interessata al mantenimento dello status quo nella penisola
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italiana, non avrebbe acconsentito a modifiche territoriali che danneggiassero il regno di Sardegna. Carlo Alberto rifiutò le riforme fino all’autunno del 1847; furono i rapidi cambiamenti che si susseguirono in tutta Italia a fargli cambiare idea; le prime riforme, relative all’istituzione di consigli comunali e provinciali elettivi, l’allargamento del Consiglio di Stato, limitazioni ai poteri della polizia e della censura furono concesse il 30 ottobre del 47 a causa degli intensi disordini scoppiati nel Regno di Napoli. A gennaio del 1848 si ebbero violenti tumulti a Palermo; ma l’evento di maggiore importanza che fece esplodere le rivoluzioni in tutta Europa, dalla Francia alla Polonia, fu la rivolta di Parigi (22-24 febbraio). Quindi in una data di pochi giorni antecedente alla promulgazione dello Statuto (4 marzo). Occorre però precisare che il Consiglio di Conferenza aveva già iniziato i suoi lavori da alcuni giorni. Pertanto la decisione di concedere lo Statuto non fu determinata dalla rivoluzione parigina, ma dagli avvenimenti italiani della fine del 1847 e del gennaio del 1848, in particolare: • i tumulti di Milano del 3 gennaio; • vari tumulti a Genova nel mese di gennaio; • Rivolta a Palermo il 12-27 gennaio; • Tumulti nel Cilento il 17 gennaio; • La concessione della Costituzione nel Regno delle due Sicilie il 29 gennaio.
I processi verbali del Consiglio di conferenza per lo Statuto I processi verbali che documentano la nascita dello Statuto sono sette, in particolare consistono nei verbali delle sedute del 3, 7, 10, 17, 24 febbraio e del 2 e 4 marzo 1848. La lingua utilizzata è il francese; la struttura di ogni processo verbale e la procedura con cui si tenevano le riunioni è molto simile a quella tuttora utilizzata negli ambienti militari: il Segretario del Consiglio, così come il membro e segretario delle attuali
Commissioni, aveva il compito di riassumere gli interventi di ogni membro e di compilare i verbali. Ogni verbale porta la data della seduta e l’elenco dei partecipanti. Il Consiglio di Conferenza era presieduto dal re, il quale invitava ciascun membro a esporre il suo pensiero. Fecero parte del Consiglio di conferenza per lo Statuto i ministri, i collari della santissima annunziata e i più alti funzionari dello Stato, tutti appartenenti alla più antica aristocrazia piemontese. Già dal primo verbale del 3 febbraio risulta evidente che il re avesse già deciso di concedere la Costituzione, prima di riunire il Consiglio. Infatti, quando prese la parola il Conte Borelli, Ministro dell’Interno disse: “ Si S.M. juge inévitable une constitution, il faudrait tout préparer pour la donner, avec le plus de dignité possible pour la Couronne, avec le moins de mal possible pour le pays”.1 Non ci sono tracce di imposizione, nessun tono forte, anzi tuttaltro. Tutti si rivolsero al re con il massimo rispetto e la maggior parte degli intervenuti sembrava decisamente favorevole all’assolutismo. La costituzione è considerata dai più come un male, purtroppo necessario, per non andare incontro a mali peggiori. Furono gli avvenimenti di Napoli a spaventare la classe dirigente piemontese. Tutti furono concordi nell’assicurare il re sulla fedeltà delle Forze Armate e sulla totale indifferenza se non ostilità della popolazione per innovazioni di tale portata. Il Conte di Revel disse che purtroppo era una ristretta minoranza a volere la costituzione, ma questa minoranza era quella “qui parle, écrit et s’agit le plus“.2 Si tratta in sostanza di quelle poche migliaia di intellettuali, appartenenti sia alla aristocrazia che ai ceti medi, che divennero i protagonisti del Risorgimento italiano. Giovani di tendenze politiche non ancora ben definite, si va dai liberali moderati, ai democratici, ai repubblicani mazziniani fino ai primi teorici 1
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del socialismo. Una cosa sola li accomunava: l’entusiasmo giovanile di voler cambiare le cose, l’odio per l’assolutismo e per ogni tipo di autorità che si poggiasse su tale forma di governo, fosse l’Imperatore d’Austria, il Papa oppure un qualsiasi sovrano. Nei verbali si nomina di tanto in tanto Mazzini, alla stessa stregua di un demonio, preoccupa la sua “setta“ clandestina e soprattutto i disordini di Genova, ormai cronici, anche se tenuti sotto controllo dalla polizia. Si temeva che a causa della capillare rete mazziniana, i disordini di Genova si potessero estendere a tutto il Piemonte. Il Conte Avet, Ministro di grazia e Giustizia, disse che una costituzione moderata, come quella francese, poteva rendere più forte la corona sia all’interno che all’esterno. Il re concedendo la costituzione avrebbe dato un’ulteriore prova della sua saggezza. Carlo Alberto, sentito il parere di tutti i presenti, dopo avere espresso piena fiducia nei suoi ministri, ordinò di approntare un progetto di costituzione che non doveva essere una “servile imitazione di quelle straniere“, riservandosi di prendere in seguito le determinazioni che avrebbe giudicato convenienti. Prima di levare la seduta si discusse lungamente sull’opportunità di rendere pubblica la decisione di concedere la costituzione, di dichiarare la stampa libera, come primo provvedimento costituzionale e di tutti i rischi connessi con la possibilità di compromettersi con le potenze vicine a causa degli eventuali abusi della stampa stessa. Tutto ciò è interessante perché mette in luce che ancora prima che nascesse la Costituzione, il primo pensiero del re fu rivolto alla stampa e all’opinione pubblica. Alla seduta del 7 febbraio presero parte alcuni influenti personaggi, che risultano assenti il giorno 3, come il Conte De la Tour, il Conte di Pralormo, il Conte Sclopis, il Marchese Raggi,
Se S.M. giudica inevitabile una costituzione, occorrerà preparare il tutto per promulgarla, con la maggior dignità possibile per la corona e con il minor male possibile per il Paese. Che parla e scrive e si agita di più.
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In apertura: Horace Vernet, Ritratto equestre di Carlo Alberto, 1834. Galleria Sabauda. Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte Sopra: Carlo Alberto che abdica al trono 23 marzo 1849
il Conte Gallina ed altri. La prima parte della seduta fu dedicata all’esame della situazione politica interna ed estera. Presero la parola per primi i personaggi su elencati che espressero le stesse preoccupazioni e considerazioni già viste nel verbale del giorno 3 febbraio. L’unica novità significativa viene riportata dal Conte De la Tour, il quale affermò che lo stato di eccitazione antiaustriaco avrebbe potuto trascinare il Piemonte in una guerra offensiva o difensiva. Tutti sono dell’avviso di attribuire le cause della situazione di pericolo creatasi giorno per giorno agli abusi della stampa. Si parlò di obbedienza del popolo a ordini impartiti da un “governo occulto”, sia a Genova che a Torino. Il Conte Gallina fece un punto della situazione molto realistico, asserì che le nuove idee erano il frutto della rivoluzione francese 3
Dal 1821 tutta una nuova generazione è venuta al mondo
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del 1789, dell’occupazione napoleonica, di cui la maggior parte di loro furono testimoni.”Depuis 1821 toute une nouvelle generation est venue au monde“3. Una generazione imbevuta dei nuovi ideali, colta e influente, capace di agire anche se aritmeticamente poco numerosa, a differenza della maggior parte della popolazione, fedele e devota al suo Re, ma senza alcuna opinione politica. Continuò dicendo che occorreva studiare l’opinione dei ceti medi, perché a questi ceti appartenevano i giovani intellettuali che volevano partecipare alla vita politica. Disse che addirittura una buona parte dell’aristocrazia, se non della corte, era ormai favorevole ad una monarchia rappresentativa. Quindi con maggiore o minore entusiasmo, perché i tempi erano ormai ritenuti maturi, o perché la costituzione era da preferirsi a mali
peggiori, il 7 febbraio tutti i presenti, compreso il re, furono favorevoli a compiere il grande passo, prendendo come esempio la costituzione francese con i necessari adattamenti. Quasi per incanto, durante la stessa seduta, dopo che la “question ayant été jugée suffisamment développé e tous le membres du Conseil se trouvant d’une pensée unanime sur les déterminations à prendre“4, il Ministro dell’Interno passò a leggere gli articoli della bozza dello Statuto.5 Dall’ordine del re di preparare un primo progetto di legge, all’esecuzione, passarono solo quattro giorni! Si discussero gli articoli più importanti dello Statuto e le modalità per rendere noto alla popolazione le decisioni del re con un apposito proclama. Sempre in questa seduta vennero esaminati i pro ed i contro della libertà di stampa. La stampa completamente libera era considerata un grave pericolo, al contrario, se qualche articolo compromettente avesse accidentalmente superato il controllo della censura, l’implicita autorizzazione alla pubblicazione avrebbe messo ancora di più in imbarazzo l’autorità dello Stato. Nei restanti cinque verbali vennero messi a punto i vari articoli dello Statuto; ad esempio nel processo verbale del 24 febbraio fu specificato l’elenco di chi poteva accedere al Senato. Tra questi troviamo gli ufficiali generali di terra e di mare, i maggiori generali ed i contrammiragli con almeno cinque anni di permanenza nel grado. Vennero definite modalità di dettaglio, come l’età minima per essere membri del Senato, (quarant’anni tranne i principi del sangue i quali erano membri a ventuno anni con possibilità di votare a venticinque) e l’imposta minima annuale da pagare per avere 4
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diritto a votare per la Camera dei Deputati. Infine, si trattarono questioni relative alla libertà di culto e in particolare all’emancipazione dei Valdesi (seduta del 17 febbraio). A tal proposito nell’art. 1 si precisò che la sola religione di stato era la Cattolica, Apostolica e Romana e gli altri culti erano tollerati.
Influenza dello Statuto sul Risorgimento Italiano Nei processi verbali non c’è nessuna traccia che possa fare pensare a progetti futuri di unificazione con il resto d’Italia. Il regno di Sardegna era indipendente e i Savoia andavano fieri di essere una delle dinastie più antiche d’Europa che regnavano senza l’aiuto di eserciti stranieri. Che il Piemonte avesse sempre ambito ad espandersi in Lombardia era noto da tempo; anche perché era l’unica direttrice di espansione possibile. Ma tutto ciò non aveva nulla a che fare con la volontà di unificazione nazionale. Si trattava semplicemente di ambizioni di conquista di tipo tradizionali, le stesse che ebbero tutte le principali dinastie europee: gli Asburgo e i Borbone; ambizioni per cui ogni re, per essere considerato dai posteri un buon sovrano, doveva lasciare a suo figlio, per lo meno gli stessi territori ereditati a suo tempo dal padre, se non gli era possibile espandersi ulteriormente. La politica estera piemontese era antiaustriaca, da almeno tre anni, ma se Carlo Alberto già pensasse di attaccare l’Austria per annettersi la Lombardia, ciò non fu certamente verbalizzato. Anzi è importante ricordare che quando i lombardi
Essendo stata la questione sufficientemente sviluppata e trovandosi tutti i membri del consilio di unanime pensiero sulle determinazioni da prendere. Gli articoli più importanti sono l’art. 3: “Il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal Re e dalle due Camere: il Senato e quella dei Deputati.“ Tuttavia Carlo Alberto cercò di concedere il meno possibile, visto che l’art. 5 stabiliva:” Al re solo appartiene il Potere esecutivo. Egli è il capo supremo dello Stato; comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra, fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio”. Pertanto la decisione che prenderà Vittorio Emanuele II di partecipare alla guerra di Crimea (1854-56), senza informare le Camere, trova giustificazione nell’art.5. Stessa cosa si può dire per gli accordi segreti presi con gli alleati nel 1915 che portarono il paese ad entrare in guerra contro l’Austria. Un altro articolo importante che in qualche modo impediva un ritorno all’assolutismo è l’art.9 “Il Re convoca in ogni anno le due Camere; può prorogarne le sessioni e disciogliere quella dei Deputati, ma in questo ultimo caso ne convoca un’altra nel termine di 4 mesi.” Un articolo moderno che limita il potere regio a favore delle Camere è l’art. 10: ”La proposizione delle leggi apparterrà al re ed a ciascuna delle due Camere. Però ogni legge d’imposizione di tributi o di approvazione dei bilanci e dei conti dello Stato sarà presentata prima all Camera dei Deputati.”
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Carlo Alberto, Re di Sardegna, firma lo Statuto, 4 marzo 1848. Arazzo. Museo Nazionale del Risorgimento Italiano di Torino
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chiesero aiuto a Carlo Alberto (23 marzo), l’esercito piemontese, a causa della rivoluzione di Parigi di fine febbraio, era stato schierato sulla frontiera francese, per eccesso di prudenza. L’”Itala Nostra Corona“ che troviamo nel preambolo non ha nulla a che fare con la futura Italia. La dinastia sabauda si sentiva italiana da più di due secoli; da quando Emanuele Filiberto (1553-80) spostò la capitale da Chambery a Torino il Piemonte ebbe mire espansionistiche soltanto verso la penisola italiana. L’art. 62 stabilì che l’italiano fosse la lingua ufficiale delle Camere. Ciò era necessario non tanto per le future conquiste, ma perché il Regno di Sardegna, era tutt’altro che un piccolo Stato. (Naturalmente per quei tempi!). Dimensioni a parte, il Regno di Sardegna era uno Stato eterogeneo che si estendeva dalle Alpi al centro del Mediterraneo occidentale. Sicuramente i Savoiardi non avevano nulla in comune con i Liguri, né tanto meno con i Sardi. La Liguria era poi stata annessa al regno di recente, in seguito ai trattati del Congresso di Vienna; infatti Genova era l’unica città che presentava seri problemi di ordine pubblico. Lo Statuto, quindi, così come risulta dai verbali, fu promulgato per decisione de re nonostante che la possibilità di entrare in guerra contro l’Austria rendesse consigliabile di soprassedere alla concessione di una costituzione fino al cessare delle ostilità, proprio per non indebolire l’autorità regia nel momento in cui la situazione richiedeva maggiori poteri. Ma Carlo Alberto comprese che a fronte di limitate riforme delle istituzioni del Regno concesse, grazie allo Statuto, avrebbe potuto cambiare le sorti della penisola a favore del suo casato. Non ci riuscì in prima persona, ma comunque offrì tale opportunità a suo figlio. Grazie all’intuizione di Carlo Alberto, i Savoia 6
riuscirono ad accattivarsi le simpatie di tutti quei moderati, che sentivano l’esigenza di abbandonare il superato e asfittico regime assolutistico, ma che al tempo stesso paventavano i movimenti democratici, pericolosi per l’ordine pubblico e soprattutto per le loro proprietà private. I Lombardi non si sarebbero mai liberati di un Imperatore assoluto per mettersi nelle mani di un altro Sovrano assoluto. Lo Statuto avrebbe garantito di esprimere le proprie idee e di partecipare all’attività politica soltanto a coloro che allora erano ritenuti degni di rappresentare la Nazione: i possidenti e i professionisti, aristocratici o borghesi che fossero.6 Ma lo Statuto, se Carlo Alberto non avesse posseduto un esercito, sarebbe rimasto un pezzo di carta. Un esercito regolare era infatti considerato necessario, non soltanto per contrastare gli austriaci, visto che i milanesi c’erano riusciti benissimo da soli, ma soprattutto per mantenere l’ordine, evitare l’anarchia e proteggere la proprietà. Nel 1859 i Savoia riuscirono a trascinare dalla loro parte anche molti democratici e mazziniani, come Crispi, i quali combatterono numerosi come garibaldini per l’Unità d’Italia. I tempi per la repubblica e per la sovranità popolare non erano ancora maturi: la Costituzione della Repubblica Romana del 1849 rimase sulla carta, mentre lo Statuto durò per quasi un secolo. Del resto, anche i democratici e i mazziniani provenivano dagli stessi ambienti culturali dei moderati; se non erano aristocratici o ricchi possidenti, comunque appartenevano al ceto medio ed avevano lo stesso interesse a tutelare l’ordine pubblico e la proprietà. Lo Statuto lasciava, quindi, la massima libertà d’azione a una nuova classe sociale: la BORGHESIA, che ben presto dominerà la vita politica
Si discusse molto sul censo minimo che dava diritto al voto per la Camera dei Deputati in occasione della seduta del 7 febbraio. Infatti un censo troppo elevato avrebbe favorito unicamente i proprietari terrieri, tagliando fuori dalla vita politica l’industria, il commercio ed i professionisti, ossia proprio quei ceti medi che stavano emergendo. Con l’Unità di Italia, vennero precisate quali erano quelle categorie di cittadini che pur non pagando la tassa minima di 40 lire l’anno, avevano diritto al voto, in quanto possessori non di beni economici, ma di culture e capacità professionali. medici, avvocati, ufficiali, insegnanti e impiegati dello Stato. Si calcola che non più del 2% della popolazione avesse diritto di voto.
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italiana. Al contempo, non cancellava gli antichi privilegi di una classe sociale ancora dominante, l’aristocrazia. Infatti l’art. 79 sanciva:”I titoli di nobiltà sono mantenuti a coloro che vi hanno diritto. Il Re può conferirne dei nuovi.“ Questo articolo permise agli aristocratici di non sentirsi traditi dalla monarchia: un titolo nobiliare garantiva nei confronti dei borghesi, per quanto ricchi fossero, qualcosa di più della semplice cortesia, una forma di rispetto che trovava le sue origini nell’ancien regime e che tarderà molto a morire. Per molti borghesi la nobilitazione rimase una romantica ambizione, un traguardo emozionante da raggiungere fino al 1946, anno in cui lo Statuto e i Savoia cessarono di regnare. La figura di Carlo Alberto dovrebbe essere rivista: fu aspramente criticato sia dai contemporanei sia dai posteri, come Sovrano inetto, ambiguo e tentennante. Se ebbe veramente mai simpatia per i liberali ciò risale ai tempi della sua giovinezza quando non era chiamato ad assumere responsabilità da re. Una volta al trono fu un sovrano assoluto; soltanto verso il ‘47 si sarebbe potuto definire un riformatore ma sempre assoluto. Anche il modo con cui concesse lo Statuto fu da sovrano assoluto. Non gli fu imposto; non fu il frutto di un compromesso tra un re che voleva concedere il meno possibile e una controparte che, con la forza, cercava di ottenere di più. Il re aveva deciso di promulgare lo Statuto prima di sentire l’opinione del Consiglio. Lo dimostra anche il fatto che vennero lasciati fuori ex ministri come Villamarina e Solaro Della Margherita che erano sicuramente contrari ai regimi costituzionali. Tutto il consiglio era favorevole, ma senza
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molti entusiasmi, ad abbandonare l’assolutismo; qualcuno si sentiva maggiormente incoraggiato a manifestare le proprie idee liberali, altri vi aderirono più tiepidamente per necessità. Ma se il re ci avesse ripensato, probabilmente nessuno avrebbe osato contrastarlo: a corte la devozione per Casa Savoia era tradizionalmente totale. Si può senz’altro dire che Carlo Alberto fu un pessimo condottiero visto che tra i suoi antenati ci furono ottimi generali; fu spesso indeciso, ma vista la situazione aveva più di un motivo di esserlo. Tra l’altro non ebbe la fortuna di suo figlio. Cosa avrebbe mai potuto fare Vittorio Emanuele II senza Cavour? Come politico invece fu eccellente! Seppe comprendere e stare al passo con i tempi e, quando fu necessario, la decisione di concedere lo Statuto la seppe prendere. Approfittò della crisi austriaca e intervenne in Lombardia. Regnò per pochi giorni sull’alta Italia, ma poi venne sconfitto a Custoza, l’anno dopo a Novara e quindi fu costretto ad abdicare. Lasciò comunque a suo figlio gli stessi territori che aveva ereditato e soprattutto gli lascio lo Statuto e le speranze di un popolo che presto si sarebbe unito sotto l’unica monarchia costituzionale presente in Italia.
BIBLIOGRAFIA DOMENICO ZANICHELLI: LO STATUTO DI CARLO ALBERTO, secondo i processi verbali del Consiglio di Conferenza. Società editrice Dante Alighieri ROMA 1898. (Biblioteca dell’Accademia Navale). GIANGIULIO AMBROSINI: Costituzione Italiana Piccola Biblioteca Einaudi. Torino 1975. STUART J. WOOLF: Il Risorgimento Italiano. Piccola Biblioteca Einaudi. Torino 1981.
N omine COMANDANTE DEL COI Gen. C.A. Marco Bertolini
Il Generale di Corpo d’Armata Marco Bertolini è nato a Parma il 21 giugno 1953. Ha frequentato dal 1972 al 1976 il 154° Corso presso l’Accademia Militare di Modena prima e poi presso la Scuola di Applicazione d’Arma di Torino. Promosso Tenente nel 1976, è stato assegnato al 9° Battaglione d’Assalto Paracadutisti “Col. Moschin” della Brigata Paracadutisti “Folgore”. Presso il Reparto ha conseguito il brevetto di incursore paracadutista ed ha ricoperto l’incarico di Comandante di Distaccamento Operativo e di Compagnia Incursori. Trasferito al 2° Battaglione Paracadutisti “Tarquinia” dal 1983 al 1985 ha comandato la 4^ compagnia paracadutisti. Dopo aver frequentato il 111° Corso di Stato Maggiore presso la Scuola di Guerra di Civitavecchia, è stato trasferito al III Reparto - Ufficio Operazioni dello Stato Maggiore Esercito
dove ha prestato servizio fino al 1990. Dal 1991 al 1993 e dal 1997 al 1998 ha comandato rispettivamente il 9° Battaglione e il 9° Reggimento d’Assalto Paracadutisti “Col. Moschin”, mentre tra il 1993 ed il 1997 è stato impiegato quale Capo Sezione presso il III Reparto - Ufficio Addestramento dello Stato Maggiore Esercito e successivamente quale Capo di Stato Maggiore della Brigata Paracadutisti “Folgore”. Dal luglio 1999 al settembre 2001 è stato Comandante del Centro Addestramento di Paracadutismo in Pisa per essere, successivamente, impiegato quale Vice Comandante della Brigata “Folgore” fino al settembre 2002. Dal settembre 2002 al luglio 2004 è stato Comandante della Brigata Paracadutisti “Folgore”. Trasferito a Roma, dal 29 luglio 2004 al settembre 2008 ha ricoperto l’incarico di 1° Comandante del Comando Interforze per le Operazioni delle Forze Speciali. Dalla fine del 2008 ha assunto l’incarico di Capo di Stato Maggiore del Comando ISAF in Afghanistan. Rientrato in Italia, il 16 dicembre 2009 ha assunto l’incarico di Comandante del Comando Militare Esercito Toscana con sede in Firenze fino alla nomina all’attuale incarico di Comandante del Comando Operativo di vertice Interforze il giorno 6 febbraio 2012. Il Generale Bertolini ha partecipato alle seguenti Operazioni fuori area: • con il grado di Capitano, dal set-
tembre 1982 al giugno 1983 in LIBANO, quale Comandante della Compagnia Incursori per il controllo dell’area di responsabilità del Contingente italiano; • con il grado di Tenente Colonnello, dal dicembre 1992 al giugno 1993 in Somalia, quale Comandante della Base Operativa Incursori per la condotta di operazioni speciali in tutto il settore italiano; • con il grado di Tenente Colonnello, dal giugno 1996 all’aprile 1997 in Bosnia Erzegovina, quale Capo di Stato Maggiore della Brigata Multinazionale Nord in Sarajevo; • con il grado di Colonnello, dal dicembre 1998 all’aprile 1999 in FYROM, quale Capo di Stato Maggiore della ”Extraction Force” della NATO per l’eventuale recupero dei verificatori dell’OSCE in Kosovo, prima dell’inizio della guerra contro la Federazione Yugoslava. • con il grado di Generale di Brigata, dal giugno 2003 al 18 settembre 2003 in Afghanistan, quale Comandante del Contingente italiano nell’ambito dell’Operazione Nibbio; • con il grado di Generale di Divisione, dal dicembre 2008 ad ottobre 2009, quale Capo di Stato Maggiore di ISAF in Afghanistan. Il Generale di Corpo d’Armata Marco Bertolini è insignito di varie onorificenze, fra cui: • Croce di Ufficiale dell’Ordine Militare d’Italia; • Croce al Valor Militare; • Croce d’Oro al Merito dell’Esercito; • Croce d’Argento al Merito dell’Esercito; • Croce di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica. Il Generale Bertolini è istruttore di paracadutismo con 1400 lanci TCL all’attivo. È sposato con la signora Caterina ed ha tre figli.
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O sservatorio Strategico
a cura del Centro Militare Studi Strategici
RUOLO E FUTURO DEGLI UAV
FRANCESCO LOMBARDI
Velivolo MQ-9A "Predator B" a pilotaggio remoto
Poco più di cento anni fa i fratelli Wright riuscirono a far decollare, seppure per pochi metri, l’archetipo degli odierni aeroplani. La prima “macchina volante” costituì, di fatto, nel 1903, la nascita dell’aviazione. Pochi anni dopo l’aereo era già strumento utilizzato sia a fini civili che militari. L’evoluzione che ha subito l’aeronautica dagli inizi ad oggi è stata impressionante, ma per lungo tempo non ha potuto prescindere dalla componente umana, necessariamente imbarcata su qualsiasi aereo. Così, mentre velocità, letalità, raggio d’azione, carico trasportato, sistemi di comando, comunicazione e controllo si evolvevano a ritmo crescente, il pilota rimaneva sostanzialmente soggetto ai limiti naturali della fisiologia umana. Inoltre, il costante incremento della complessità tecnologica e delle funzioni svilup-
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pate ha imposto addestramenti sempre più lunghi e articolati, rendendo particolarmente onerosa la formazione dei piloti. Ciò rende evidente, quindi, come “l’eliminazione” dell’essere umano dal velivolo rappresentati una svolta decisiva, svincolando le prestazioni dei velivoli dai limiti propri del corpo umano come, ad esempio, stress, fatica, stanchezza, necessità di riposo, concentrazione o limitata resistenza alle sollecitazioni meccaniche. Gli esperimenti per la realizzazione di aerei senza pilota (noti con le sigle Unmanned Aerial Vehicle - UAV, o Unmanned Aircraft System - UAS) cominciarono già verso la fine degli anni ’50, ma sono ormai archeologia rispetto agli sviluppi degli ultimi anni. Dato il rumore che emettono, gli UAV sono spesso chiamati droni (singolare “drone”), mutuando il nome
dal sostantivo e verbo inglese drone, ovvero “ronzio” o “ronzare”. Gli UAV sono pilotati in modo remoto, talvolta anche da migliaia di chilometri dal luogo in cui essi sono utilizzati. I conflitti in Afghanistan ed in Iraq hanno evidenziato (anche al grande pubblico) la definitiva utilità degli UAV. Le ragioni del loro successo, a parte il fatto di non avere i limiti dovuti alla fisiologia umana, sono molteplici. Per prima cosa gli UAV sono versatili, impiegabili in una molteplicità di funzioni, a cominciare da quelle più eminentemente militari quali quelle d’attacco. E’ ormai ben noto alla pubblica opinione cosa siano i targeted killings, ovvero gli “omicidi mirati”, che i droni possono compiere in diversi teatri di operazione; gli UAV, in questi casi, sono stati utilizzati per colpire obiettivi costituiti da terroristi in modo sostanzialmente analogo a quanto avrebbe fatto un aereo militare tradizionale. Oltre però a queste capacità combat, gli UAV possono svolgere altrettante funzioni militarmente rilevanti, in primis quelle di intelligence. La raccolta di informazioni, ottenuta tramite sensori, videocamere e fotocamere installate sul drone è una funzione fondamentale al pari di altre come la elint (Electronic Signals Intelligence), la sigint (Signals Intelligence), la ricognizione o il monitoraggio di aree determinate. Molte di queste capacità sono poi sfruttate anche dalle forze dell’ordine e da enti pubblici e privati, per attività come il monitoraggio ambientale, la protezione civile, il telerilevamento, il controllo del traffico o la acquisizione di dati scientifici. In secondo luogo gli UAV sono “politicamente spendibili”, in quanto possono compiere azioni in aree ad altissima pericolosità senza il rischio di perdere un pilota; per questo si prestano bene ad operazioni che richiedono una notevole segretezza o che sono particolarmente delicate. La terza caratteristica, però, è forse l’elemento più interessante, soprattutto in relazione ai futuri sviluppi degli UAV: la dimensione dei mezzi. Il fatto di non dover imbarcare un essere umano semplifica molto l’architettura di un UAV, permettendo di “recuperare” spazio prezioso e carico utile per sensori, armamento o sistemi di comando e controllo, sollecitando poi tecnici ed aziende ad una continua miniaturizzazione della componentistica. Ed ecco così che a fianco degli UAV di dimensioni simili ad un aereo normale, come i famosi General Atomics RQ-1 Predator o l’MQ-9 Reaper, esiste una serie di droni di dimensioni ben più piccole, che
giungono sino ai mini e micro UAV, dal peso talvolta di pochi chili. Naturalmente, in proporzione all’aumento della misura del drone è possibile aumentarne il carico operativo, anche se già quelli di dimensioni contenute sono ormai capaci di assolvere con efficacia funzioni elementari quali la ricognizione e la sorveglianza. Così, sistemi come il RQ-11 Raven, con i suoi pochi chili di peso ed un’apertura alare di meno di due metri sono l’ideale per ricognizioni tattiche in favore di unità minori. Questo modello, grazie alle dimensioni contenute, può facilmente essere trasportato e lanciato senza bisogno di particolari superfici. L’utilizzo di un UAV come questo, grazie alle videocamere che monta, può permettere anche ad un comandante di compagnia di acquisire informazioni su qualsiasi area a portata del velivolo, senza rischiare i propri uomini e con una discrezione ben maggiore di un qualsiasi aereo tradizionale. Il Raven, poi, è spinto da un motore elettrico, cosa che permette di ricaricarlo quando non viene utilizzato. All’opposto, esistono poi UAV da utilizzo strategico, come il Global Hawk della Northrop Grumman, con oltre 30 metri di apertura alare, capaci di volare per quasi 30 ore. Le dimensioni di quest’ultimo permettono l’installazione di una vasta gamma di sistemi di Intelligence, Surveillance e Reconaissance (ISR), consentendo a questo drone capacità di sorveglianza di estrema ampiezza e versatilità. Il notevole uso dei velivoli senza pilota in teatro – sia per funzioni combat che informative – ed il loro crescente sfruttamento nel settore civile hanno dato un notevole impulso alla ricerca ed allo sviluppo di tecnologie applicabili in tale campo. È quindi probabile che in futuro si assisterà ad un utilizzo sempre più pervasivo di queste tecnologie, in campo civile come in quello militare. Nuovi sviluppi, come il rifornimento in volo, magari effettuato da UAV a UAV, potrebbero ampliare ulteriormente le potenzialità dei velivoli senza pilota. La miniaturizzazione e la specializzazione della componentistica, della sensoristica e dei sistemi di sorveglianza, già oggi molto avanzate, avrà una decisa influenza dal piano strategico sino a quello tattico, come ben hanno dimostrato gli UAV più piccoli nei teatri di operazione. In definitiva, quindi, i velivoli senza pilota sono già in parte dei protagonisti della conflittualità del XXI secolo.
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F inestra sul mondo Evoluzione della crisi in Siria
NICOLA PEDDE
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato ai primi di febbraio, con 137 voti a favore e 12 contrari, una risoluzione di condanna contro la Siria. Il provvedimento, scaturito dalla constatazione del perdurare delle violenze ad opera delle forze governative, chiede formalmente al presidente Bashar al-Asad di cessare con immediatezza gli attacchi contro i civili e le forze dell’opposizione civile, ordinando al contempo di imporre alle forze armate di cessare ogni attività repressiva, e di collaborare con la Lega Araba per l’individuazione di un processo di transizione democratica. La risoluzione, per quanto lungamente attesa, ha tuttavia un valore puramente simbolico, non avendo l’Assemblea il potere coercitivo del Consiglio di Sicurezza, e si inserisce in un contesto particolarmente critico sia della posizione internazionale della Siria sia della gestione della crisi a livello nazionale, dove le forze di sicurezza non sembrano aver diminuito l’intensità della repressione, e dove il bilancio delle vittime civili sembra ormai superato la soglia delle 6000 unità. Al tempo stesso, gli Stati Uniti hanno apertamente accusato l’Iran di collaborare con il presidente al-Asad nella gestione della repressione, sostenendo di aver individuato uno specifico ruolo delle cellule appartenenti al Ministero dell’Intelligence di Tehran nell’appoggiare l’azione violenta delle cellule qaediste individuate quali
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autrici di alcuni dei più recenti attentati in Siria. In modo particolare, secondo gli Stati Uniti, soprattutto l’attentato del 10 febbraio è riconducibile ad una cellula irachena di Al Qaeda, che avrebbe goduto del sostegno logistico dell’Iran per far esplodere due auto-bomba. Chi si oppone alla risoluzione? Hanno votato contro la risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU dodici paesi, ed in particolar modo la Russia, la Cina e l’Iran. Il testo approvato a metà febbraio ricalca quasi integralmente quello bocciato al Consiglio di Sicurezza il 4 febbraio a causa del veto di Cina e Russia, e chiede la cessazione immediata della repressione e l’avvio di un processo di transizione democratica attraverso il ruolo di un governo di unità nazionale. La risoluzione è stata voluta soprattutto dagli Stati Uniti, per dimostrare alla comunità internazionale che la condanna verso al-Asad è netta e compatta, e che solo il veto di Russia e Cina blocca una più importante e significativa condanna da parte del Consiglio di Sicurezza. Una mossa politica, dunque, volta a denunciare il complesso groviglio di interessi che ruota, ad ampio raggio, dietro alla Siria ed al suo sempre più discusso leader politico, Bashar al-Asad. Nell’ambito di questi interessi risultano particolarmente
evidenti quelli della Russia, della Cina e dell’Iran, sebbene molto diversi tra loro e con diverse prospettive di sopravvivenza al regime di al-Asad. La Russia considera la Siria non solo un importante partner economico nel settore degli armamenti, con un volume d’affari per le industrie ex sovietiche che si aggira tra i 2 e i 3 miliardi dollari, ma anche una pedina strategica per la gestione della propria politica di influenza in Medio Oriente. Soprattutto quale contraltare al ruolo di Israele e come elemento di bilanciamento nella complessa ed assai delicata relazione tra Stati Uniti ed Iran. La Siria costituisce per la Russia anche una importante leva di potere in seno alle Nazioni Unite, soprattutto con riferimento alla particolare relazione con gli Stati Uniti e più in generale con la comunità internazionale. L’Iran ha un approccio alquanto pragmatico nei confronti della Siria. Storicamente un regime alleato – e religiosamente affine, sebbene non maggioritario in termini demografici – quello di al-Asad ha sempre rappresentato uno dei tre baluardi di stabilità regionale per Tehran, insieme alla componente sciita libanese e quella irachena. Per l’Iran non è di fondamentale importanza la tenuta di Bashar al-Asad, quanto la continuità del rapporto di alleanza tra i due paesi, che rischia tuttavia di essere fortemente compromesso dal solido legame con il vertice politico di Damasco. A questo proposito, l’Iran ha adottato una posizione alquanto pragmatica. Ben sapendo che un crollo del regime comporterebbe rischi gravi per la continuità della relazione con l’Iran, da un lato lo sostiene attraverso anche un apporto di tipo operativo alle forze di sicurezza, dall’altro esprime posizioni di critica sulle violenze ed inviti al dialogo ed alla pacificazione. Cercando di massimizzare il risultato della propria ricerca di consenso. La Cina vede invece nelle sanzioni alla Siria un pericoloso precedente politico, che potrebbe in un futuro prossimo trasformarsi in una aperta ingerenza anche negli affari interni di Pechino, con riferimento alla gestione delle minoranze e delle crisi politiche regionali, come ad esempio quella mai sopita del Tibet. Appoggiare una risoluzione contro la Siria, cui possa potenzialmente far seguito anche una richiesta di intervento, costituisce un precedente di estrema pericolosità per Pechino, che preferisce quindi schermarsi dietro la consueta maschera della politica di basso profilo e della non ingerenza. In realtà strumento operativo di tutela della propria politica interna e regionale. La restante parte dei paesi che si sono opposti alla risoluzione, come la Corea del Nord, il Venezuela e Cuba, hanno espresso il loro dissenso essenzialmente per ra-
gioni ideologiche e di diretta opposizione alla politica degli Stati Uniti, senza alcun riguardo per la situazione interna e senza alcun diretto interesse di natura economica o strategica. Cosa provocherà la risoluzione? Poco o nulla, in termini pratici. Il risultato è solo di natura politica e diplomatica, ed è stato cercato allo scopo di dimostrare alla comunità internazionale l’ambigua posizione dei paesi che si sono opposti, dimostrando al tempo stesso la compattezza e l’estensione quantitativa della maggioranza che ha votato a favore. Non avendo la risoluzione dell’Assemblea la forza di un provvedimento del Consiglio di Sicurezza, non ci saranno ampi margini di manovra per la comunità internazionale, e non potrà essere accolta la richiesta della Lega Araba relativa all’invio di un contingente militare sotto l’egida dell’ONU. La Francia vorrebbe proporre una risoluzione finalizzata all’apertura di un corridoio umanitario, che tuttavia per essere efficace dovrebbe essere presidiato militarmente, provocando quasi certamente il veto della Russia e della Cina. Il Consiglio di Cooperazione del Golfo ed alcuni attori locali della regione, come il Qatar e l’Arabia Saudita, sono impegnati nella ricerca di posizioni di conciliazione economica con la Russia, senza tuttavia comprendere come la Siria abbia un peso parimenti strategico per Mosca sotto il profilo degli equilibri di forza regionali. Una miopia ricorrente in Medio Oriente, soprattutto in seno ai paesi del GCC, impegnati nella difficile soluzione di una intricata crisi che rischia di sfociare in conflitto aperto, di estendersi all’Iran e potenzialmente all’Iraq e di coinvolgere – probabilmente travolgendoli – gli interessi economici di tutte le monarchie del Golfo. Non sarà quindi il provvedimento di metà febbraio a mutare le sorti della crisi siriana, sebbene lo stesso rappresenti un importante tassello dello sforzo diplomatico internazionale per accelerare la caduta del regime di alAsad ed avviare una transizione politica nelle intenzioni pluralista e democratica. Non è tuttavia possibile dimenticare come la crisi siriana sia anche un prodotto – parzialmente artificiale – di una strategia complessiva e largamente condivisa, per eliminare uno dei pilastri della sicurezza strategica dell’Iran. Nell’ambito di una crisi sempre più intensa che vede contrapporsi la Repubblica Islamica ad Israele, in un quadro dove gli Stati Uniti, pur sostenendo ogni sforzo contro gli interessi di Tehran, non sembrano tuttavia voler essere coinvolti in un vero conflitto, appoggiando al contrario con maggiore convinzione la linea della pressione politica ed economica che è ritenuta l’unica capace di produrre risultati concreti contro l’Iran.
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D ifesa alla Ribalta Monumento a Domenico Corazzi: emblema delle Scuole Militari Fu l’ispiratore della fondazione della Scuola Militare di Roma. Nel 1883, infatti, nel suo ruolo di membro del Parlamento italiano aveva fortemente sostenuto l’importanza della formazione ed educazione dei giovani per la crescita dei valori della nuova società civile, quali principi fondamentali di uno “Stato Moderno”. Al Maggiore di artiglieria e Medaglia d’Argento al Valor Militare Domenico Corazzi, è stato intitolato un monumento nel cimitero del Verano, scoperto il 16 febbraio 2012, nel corso di una cerimonia alla quale ha preso parte anche il Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola. La cerimonia di benedizione del monumento, alla quale hanno partecipato, tra gli altri, il Comandante della Capitale Gen. C.A. Mauro Moscatelli ed il Consigliere dell’Associazione Nazionale “Ex Allievi Nunziatella” e promotore dell’iniziativa, Annunziato Seminara, è stata celebrata da Mons. Vincenzo Pelvi, Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia. Storia e memoria camminano insieme Sono lieto di rivolgervi una parola di saluto e di apprezzamento per l’iniziativa di dedicare una targa monumento in ricordo del Mag. Art. Domenico Corazzi, Medaglia d'Argento a Custoza, ispiratore della fondazione della Scuola militare di Roma, Palazzo Salviati, in via della Lungara. Oggi, ancor più che in passato, fare cultura militare significa offrire modelli di riferimento per trasmettere la memoria storica, aprendo un dialogo sull’esperienza umana, affrontando certezze e incertezze di un’epoca che sempre più necessita di testimoni. Storia e memoria camminano insieme. Non ha futuro una società senza memoria. In un mondo plasmato dal positivismo e dal materialismo, ideologie che hanno condotto a uno sfrenato entusiasmo per il progresso tecnico e scientifico, sembra che non ci sia più spazio per la storia. II passato appare solo come uno sfondo buio, sul quale il presente e il futuro risplendono con ammiccanti promesse. Tipico di questa mentalità è il disinteresse per la storia, che viene trascurata. Ciò produce una società che, dimentica del proprio passato e quindi sprovvista di criteri acquisiti attraverso l'esperienza, non è più in grado di progettare un'armonica convivenza e un comune impegno nella realizzazione di obiettivi futuri. Vengono igno-
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rati, cosi, importanti personalità e dimenticate intere epoche. Desidero, dunque, incoraggiarvi di tutto cuore a tenere viva la memoria di militari che si sono distinti per gli ideali della Patria e per una costante azione a favore della pace nel mondo. La nostra famiglia militare è custode di un patrimonio prezioso per l'umanità intera. Dal suo cuore si levi un incessante messaggio di progresso sociale, di speranza, di riconciliazione e di solidarietà. Di qui l'impegno formativo delle Accademie e Scuole militari che assumono una particolare e insostituibile rilevanza nel preparare alla professione militare. Ogni professione, infatti, diventa occasione per testimoniare e tradurre in pratica i valori interiorizzati personalmente durante il periodo accademico. La profonda crisi economica, diffusa in tutto il mondo, con le cause che ne sono all’origine, ha evidenziato l'esigenza di un investimento più deciso e coraggioso nel campo del sapere e dell’educazione, quale via per rispondere alle numerose sfide aperte e per preparare le giovani generazioni a costruire un futuro migliore (cfr. Caritas in veritate, 30-31; 61). Ed ecco allora che si avverte la necessità di creare nell'ambito educativo legami di pensiero, insegnare a collaborare tra discipline diverse e ad imparare gli uni dagli altri. Dinanzi ai profondi mutamenti in atto, sempre più urgente è poi la necessità di appellarsi ai valori fondamentali da trasmettere, come indispensabile patrimonio, alle giovani generazioni e, pertanto, di interrogarsi su quali siano tali valori. Alle istituzioni accademiche militari si pongono, quindi, in modo pressante, questioni di carattere etico. Carissimi, immersi in una società frammentata e relativista, mantenete sempre aperti la mente e il cuore alla verità. Dedicatevi ad acquisire, in modo profondo, le conoscenze che concorrono alla formazione integrale della vostra personalità, ad affinare la capacità di ricerca del vero e del bene durante tutta la vita, a prepararvi professionalmente per diventare costruttori di una società più giusta e solidale. Resti viva, nel secolo e nel millennio appena avviati, la memoria di questo fratello, amico e maestro. Anzi, cresca! Sia trasmessa di generazione in generazione, perché germini un profondo rinnovamento culturale nell’amato mondo militare. + Vincenzo Pelvi Arcivescovo Ordinario militare per l'Italia
D ifesa Notizie AFGHANISTAN: OPERAZIONE “UPPER HAND”
A CURA DI VALTER CASSAR serie di incontri con i Presidenti della Repubblica libanese Michel Suleiman, del Parlamento Nabih Berri e del Consiglio dei Ministri Nagib Mikati. A Beirut, il Ministro ha incontrato anche il suo omologo libanese Fayez Ghosn, il Patriarca Maronita Bechara Boutros El Rai e l’ex Primo Ministro Fuad Siniora.
Nave Costa Concordia: lotta contro il tempo
Herat, 2 gennaio 2012 - Numerosi arresti e un deposito clandestino di armi sequestrato. È il bilancio dell’operazione “Upper Hand” che ha portato oltre alla cattura e all’arresto da parte delle forze di sicurezza afgane di 17 sospetti “insurgents”, anche al rinvenimento di un “cache” contenente una consistente quantità di granate, bombe a mano, proiettili per armi portatili, radio e apparati trasmittenti vari. L’operazione è stata condotta dal Combined Team West, composto dalla 1^ Brigata dell’Esercito afgano (Afghan National Army - ANA), dalle Forze di polizia locali e da Unità del Regional Command West (RC- West) a guida Brigata “Sassari”. Il luogo di conduzione delle attività è situato nel settore Nord dell’area di responsabilità italiana, ai confini con il Turkmenistan nel distretto di Tora Ghundey. I risultati sono stati conseguiti nelle prime quattro giornate dell’operazione, svolta con il contributo dell’Operational Mentor Liason Team (OMLT), delle Forze per operazioni speciali, di alcuni elicotteri e di assetti per l’osservazione e l’acquisizione degli obiettivi. L’OMLT italiano è un’iniziativa NATO – ISAF (International Security Assistance Force) che ha il compito di preparare, istruire e indirizzare le unità afgane, ai vari livelli, consigliando e supportando i Comandanti durante le fasi di pianificazione e di condotta delle operazioni.
Isola del Giglio, gennaio 2012 - A seguito dell’incidente occorso alla nave da crociera Costa Concordia in prossimità del porto dell’Isola del Giglio, le Forze Armate italiane sono prontamente intervenute per concorrere nelle operazioni di ricerca dei dispersi e di soccorso e assistenza ai naufraghi. In particolare, insieme con 3 elicotteri AB 412 della Guardia Costiera, sono stati impiegati 2 elicotteri EH 101 della Stazione elicotteri di Luni della Marina Militare e 1 elicottero HH 3F del 15° Stormo dell’Aeronautica Militare, che hanno svolto operazioni di recupero con verricello. Per fronteggiare l’emergenza la Marina Militare ha messo in campo anche due team del Gruppo Operativo Subacquei (GOS) del COMSUBIN e Nave Pedretti, dotata di camera iperbarica. Fin dalle prime ore, sul posto è intervenuta anche l’Arma dei Carabinieri. Inaugurato il nuovo Centro Operativo della Marina Militare
UNIFIL: l’Italia torna al comando Roma, 19 gennaio 2012 - “Siamo una realtà significativa nel Mediterraneo e in Europa e gli ultimi avvenimenti hanno dimostrato che il nostro Paese sa rispondere nei momenti di difficoltà”. Nel suo discorso per l’inaugurazione del nuovo Centro Operativo della Marina Militare, il Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola ha voluto ricordare l’importanza del ruolo
Beirut, 28 gennaio 2012 - Dopo due anni esatti, l’Italia torna alla guida della missione UNIFIL, aderendo ad una specifica richiesta da parte dell’ONU. Alla presenza del Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, in visita in Libano, si è svolta la cerimonia di cambio tra i Force Commanders spagnolo e italiano. A suggellare il passaggio di competenze tra il Gen. Alberto Asara Cuevas e il Gen. Paolo Serra, la consegna della Bandiera delle Nazioni Unite avvenuta nel Quartier Generale di Naqoura. In passato, l’Italia aveva già tenuto il Comando di UNIFIL (dal 2 febbraio 2007 al 28 gennaio 2010) con il Gen. C.A. Claudio Graziano, attuale Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Durante la sua permanenza in Libano, il Ministro Di Paola ha avuto una
svolto dalle Forze Armate per la sicurezza nazionale e internazionale riferendosi, nel dettaglio, all’impegno nei soccorsi della Nave Costa Concordia, alla lotta alla pirateria con gli importanti risultati messi a segno nell’Oceano Indiano da Nave Grecale e alle operazioni in Libia. Madrina della cerimonia, la
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Signora Irene Birindelli, figlia dell’Ammiraglio Gino Birindelli, incursore della Marina Medaglia d’Oro al Valor Militare, al quale è stata intitolata una sala del nuovo Centro Operativo. A lei l’onore di tagliare il nastro del nuovo Centro che ha ricevuto, inoltre, la benedizione da parte di Mons. Vincenzo Pelvi, Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia.
del Ministro della Difesa Marco Airaghi, è stata l’occasione per parlare anche di telemedicina nelle missioni di peacekeeping. Ad illustrarne l’importanza, il Consigliere per la Sanità Militare del Ministro della Difesa Michele Anaclerio. La telemedicina, infatti, soprattutto nell’ambito delle missioni internazionali alle quali le Forze Armate partecipano, consente di risparmiare risorse umane e finanziarie.
Visita del Comandante delle Forze ISAF Cerimonia di cambio del Comandante del Comando Operativo Interforze
Roma, 31 gennaio 2012 - Il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale Biagio Abrate, ha ricevuto a Palazzo “Caprara” (sede dello Stato Maggiore della Difesa) il Comandante delle Forze ISAF (International Security Assistance Force), Generale John R. Allen. Nel corso dell’incontro, il Generale Allen ha espresso apprezzamento e gratitudine per il prezioso contributo delle Forze Armate italiane alla missione in Afghanistan. Durante i colloqui, sono stati trattati argomenti relativi all’operazione in corso in Afghanistan, senza tralasciare gli impegni e le linee guida per il prossimo futuro. Spazio: una sfida duale
Roma, 1 febbraio 2012 - Puntare sul settore aerospaziale quale elemento di crescita del Paese, anche in termini occupazionali, è basilare. Questo, in sintesi, il messaggio che il Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola ha lanciato questa mattina intervenendo all’inaugurazione del workshop APDUSS dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), che si è svolta al Centro Alti Studi della Difesa (CASD) di Roma. Un appuntamento, al quale erano presenti, tra gli altri, i Sottosegretari alla Difesa Gianluigi Magri e Filippo Milone, il Capo di Stato Maggiore della Difesa Gen. Biagio Abrate ed i Vertici delle Forze Armate, che ha consentito di fare il punto della situazione su programmi e iniziative legati all’utilizzo dello spazio. Attività che vedono l’impegno della Difesa e dell’imprenditoria civile, con in primo piano l’ASI (Agenzia Spaziale Italiana) e l’ESA. Il workshop, al quale hanno preso parte il Presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana Enrico Saggese ed il Consigliere per le Attività Aerospaziali
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Roma, 6 febbraio 2012 - Si è svolta, presso l’aeroporto “F. Baracca” – Centocelle, sede del Comando Operativo di vertice Interforze (COI), la cerimonia di passaggio delle consegne tra il Comandante cedente, Generale di Corpo d’Armata Giorgio Cornacchione, ed il Comandante subentrante, Generale di Corpo d’Armata Marco Bertolini. Alla cerimonia, presieduta dal Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale Biagio Abrate, hanno preso parte le più alte cariche militari. Il Generale Abrate ha ricordato come “quanto è stato fatto e i risultati conseguiti sono nuovamente il frutto di un sistema difesa che, soprattutto nel momento dell’emergenza, è in grado di intervenire con efficacia, professionalità e valore, ovunque sia richiesta la sua presenza. I risultati espressi dai contingenti italiani sono sempre stati all’altezza delle aspettative e degni di ogni più ampio riconoscimento da parte di Autorità militari e politiche anche di altri Paesi. E questi risultati sono stati possibili anche grazie all’opera del Comando Operativo di vertice Interforze, di tutto il suo personale e del suo Comandante”. Il Comando Operativo di vertice Interforze, retto da un Generale di Corpo d’Armata, è stato costituito nel 1997 ed è la struttura di cui si avvale il Capo di Stato Maggiore della Difesa, responsabile dell’impiego delle F.A. nel loro complesso, per pianificare, predisporre e dirigere le operazioni nonché le esercitazioni interforze e multinazionali. Il Generale Abrate in visita in Francia
Parigi, 13 febbraio 2012 - Il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale Biagio Abrate, nei giorni 9 e 10 febbraio, si è recato a Parigi per i colloqui bilaterali con il suo omologo , Am-
miraglio Eduard Guillaud. Il Generale Abrate è stato accompagnato dal Gen. D. Salvatore Farina, Capo del III Reparto di SMD, dal Gen. B.A. Giampaolo Miniscalco, Capo del IV Reparto di SGD/DGA e dal Gen. B. Carlo Fortino, Addetto della Difesa in Francia. Le delegazioni italiane e francesi hanno trattato le principali tematiche di comune interesse, con particolare riguardo alla partecipazione alle operazioni internazionali, all’addestramento/preparazione delle Forze Armate, alle tematiche NATO e UE, nonché alla cooperazione industriale bilaterale. Durante la visita, il Gen. Abrate si è recato al Senato per incontrare il Senatore Jaques Gautier – Vice Presidente della Commissione Affari Esteri, Difesa e Forze Armate, per poi proseguire alla volta dell’Eliseo, dove ha incontrato il Generale Puga, Capo di Stato Maggiore Militare del Presidente della Repubblica Francese. Tutti gli incontri si sono svolti in un’atmosfera di cordiale amicizia e fattiva collaborazione al fine di rendere, in questo delicato periodo, le Forze Armate di entrambi i Paesi sempre più efficienti e sviluppare nuove sinergie industriali in ambito Difesa.
dell’inverno australe, durante il quale la base “Mario Zucchelli” rimarrà chiusa “in conservazione”. Tutto il personale è stato imbarcato a bordo di Nave Italica, la quale, accompagnata da tre lunghi fischi, ha lasciato la Baia di Terra Nova diretta verso il porto di Lyttelton, in Nuova Zelanda. Durante il periodo di permanenza in Antartide, i militari (20 tra Ufficiali e Sottufficiali) hanno fornito un fondamentale supporto al Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA). Programma che comprendeva diversi progetti relativi alle scienze della vita (biodiversità, evoluzione ed adattamento degli organismi antartici), della
Emergenza neve: verso la normalizzazione terra (glaciologia, contaminazioni ambientali, esplorazioni), dell’atmosfera e dello spazio (cambiamenti climatici, monitoraggio della atmosfera e della ionosfera, misure astronomiche). Difesa e Regione Lazio insieme per la sanità pubblica
Roma, 14 febbraio 2012 - Dopo le forti nevicate delle ultime settimane, il maltempo che ha investito tutto lo stivale si avvia ad un miglioramento. Gli interventi delle Forze Armate proseguono comunque senza sosta, al fine di ripristinare la viabilità nelle zone colpite dalla eccezionale nevicata. Per l'emergenza neve, il Ministero della Difesa ha reso disponibili, con specifico riferimento alle Regioni del Centro Sud, oltre 1000 militari e circa 300 mezzi e macchine speciali (autogru, gru, ACTL, Defender, VM 90, autobotti, terne ruotate, BV206, gruppi elettrogeni ecc..). Le attività, finalizzate a rendere gli interventi tempestivi in risposta alle esigenze della popolazione, sono svolte sotto il coordinamento delle varie Prefetture, in stretta collaborazione con la Protezione Civile, i Vigili del Fuoco e le Forze dell’Ordine. L'Esercito, in particolare, dopo le prime giornate in cui le operazioni sono state focalizzate sull’assistenza e trasporto di persone rimaste bloccate nelle loro autovetture, è tutt’ora impiegato per il soccorso a persone malate, il ripristino della viabilità e per la distribuzione di viveri, generi di conforto, medicinali e gruppi elettrogeni nei Comuni ancora isolati.
Roma, 28 febbraio 2012 - Un’intesa tra lo Stato Maggiore della Difesa e la Regione Lazio che punti a consentire il comune utilizzo di strutture, professionalità e mezzi della sanità civile e militare. Questo, in sintesi, l’obiettivo dell’accordo quadro per la cooperazione in tema di sanità pubblica tra la Regione Lazio e la Difesa, siglato dalla Presidente della Regione Renata Polverini ed il Tenente Generale Federico Marmo, Capo Ufficio Generale della Sanità Militare dello Stato Maggiore Difesa. L’intesa è finalizzata al raggiungimento di una sinergia tra la sanità civile e quella militare, unendo le esperienze cliniche, universitarie e scientifiche maturate in Italia con quelle proprie delle missioni militari, anche con compiti sanitari svolti in contesti internazionali. Il Generale Biagio Abrate, Capo di Stato Maggiore della Difesa, ha evidenziato “come il reciproco scambio di esperienze sarà sicuramente un arricchimento e di grande utilità sia alla Difesa che alla Sanità pubblica regionale e nazionale”. L’accordo quadro, che permetterà il coordinamento di convenzioni già avviate e l’implementazione di nuove attività di cooperazione tra le strutture sanitarie civili e militari, avrà una durata iniziale di cinque anni e prevede la costituzione di un Comitato Direttivo per la definizione di programmi e iniziative.
Antartide: conclusa la XXVII spedizione Baia Terra Nova, 21 febbraio 2012 - La campagna estiva della XXVII spedizione italiana in Antartide, che aveva preso il via lo scorso 4 novembre, si è conclusa. Completate le ultime operazioni logistiche necessarie alla messa in sicurezza della stazione, tutto il personale della base, sia militare che civile, ha salutato la Bandiera italiana per l’ultima volta prima dell’arrivo
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R assegna stampa estera BRIEFING: ATTIVITÀ SUGLI ESPLOSIVI L’attività di eliminazione degli ordigni esplosivi (EOD) è diventata la più vasta ed ufficiale funzione militare nel corso del 20° secolo, tanto che ai militari è richiesta la necessaria competenza per maneggiare le munizioni, talvolta difettose, che erano prodotte in massa durante la Prima Guerra Mondiale. La maggiore attenzione agli esplosivi sul campo di battaglia si è focalizzata sugli ordigni esplosivi improvvisati (IED) che, sebbene esistano da anni, sono emersi nell'ultimo decennio come strumento principale per la guerra asimmetrica, impiegati dagli insorti che combattono in Iraq contro le forze americane e della coalizione. Gli IED hanno causato la maggior parte degli incidenti in Iraq, dove le operazioni degli Stati Uniti sono cessate alla fine del 2011, e continuano ad essere la principale causa di vittime in Afghanistan. Questi dispositivi sono usati tatticamente per limitare la circolazione dei convogli di rifornimenti e delle forze di manovra, ma sono anche utilizzati strategicamente per attaccare obiettivi simbolici e demoralizzare le truppe di uno Stato e la popolazione civile nonché per dimostrare la forza degli insorti. L'utilizzo di IED non è solo localizzato in Iraq e Afghanistan, ha rilevato Frank Larkin, vice direttore dell’Pentagon’s Joint IED Defeat Organization (JIEDDO). “Quando si prendono in considerazione gli oltre 500 eventi causati da IED, segnalati ogni mese fuori dell'Afghanistan, emergono cose interessanti”, ha riferito durante un briefing tenuto lo scorso 24 gennaio. (PVR) STRUTTURA FUTURA DELL’ESERCITO BRITANNICO Il Capo del servizio del personale generale (CGS) britannico, dopo un periodo di "riflessione strategica”, ha riferito che l'Esercito, tra qualche mese, si troverà a dare una nuova impronta alla struttura futura delle forze. Nel corso di un meeting ad un Istituto internazionale di studi strategici, tenutosi a Londra il 31 gennaio scorso, il generale Sir Peter Wall ha dichiarato: “presto sarò in grado di suggerire al Segretario di Stato [della difesa] il più efficace, la più adeguata struttura del futuro esercito con le risorse che abbiamo ricevuto. Ci aspettiamo una decisione entro la primavera, dopo di che saremo in grado di presentare il progetto dettagliato, e spero che in quel momento il periodo di riflessione strategica avrà la sua conclusione”. Dopo un decennio di attività estenuante in Iraq e in Afghanistan, l'Esercito britannico ha di recente dovuto affrontare la necessità di porre in essere una quota di tagli al bilancio assegnato a causa della crisi economica globale. L'esercito sta avendo una propria trasformazione e si sta orientando verso una forza in grado di affrontare, in emergenza, operazioni future finora sconosciute, mentre il ridimensionamento della forza, entro il 2018, passerà dagli attuali poco più di 100.000 soldati regolari, oltre 40.000 riservisti, agli 82.000 regolari e 30.000 riservisti. Il CGS ha detto che la sfida principale dell'esercito è la gestione serial interconnected change, suddividendola in cinque attività principali. (PVR)
IL 300° EUROFIGHTER È DELLA SPAGNA Hallbergmoos. Il trecentesimo velivolo Eurofighter Typhoon, realizzato dai quattro partner del consorzio europeo, è stato consegnato da Cassidian all’Aeronautica spagnola, Ejército del Aire. Con questa pietra miliare il Typhoon, che è l'unico aereo da combattimento multi-ruolo di ultima generazione, ha raggiunto il ragguardevole il traguardo delle 300 unità. L'Eurofighter Typhoon è attualmente in servizio nelle forze aeree di sei nazioni ed ha sostituito undici differenti tipi di aeromobili. Ad oggi, l’intera flotta con oltre 130.000 ore di volo, è ben sopra della media di usabilità operativa e potenza aerea rispetto al passato. L'Eurofighter Typhoon è il velivolo scelto dalle forze aeree di Gran Bretagna, Germania, Italia, Spagna, il Regno di Arabia Saudita e Austria. (M.Po.) ILAVORI PER LA PRIMA FREGATA CLASSE 125 Amburgo. Alla presenza di numerosi ospiti, hanno avuto inizio i lavori per la realizzazione, nel cantiere navale di Amburgo, della prima fregata della classe 125 (F125). Progettata ed equipaggiata per la distribuzione come parte di missioni di difesa alleate e prevenzione delle crisi, nonché a sostenere le missioni umanitarie di soccorso, lotta al terrorismo e la lotta contro le minacce asimmetriche, la fregata di classe 125 è una delle fregate più avanzate del mondo. In aggiunta a questa flessibilità missione eccezionale, la classe 125 è caratterizzata da un nuovo concetto di occupazione e la conseguente attuazione tecnica del principio della fruibilità intensiva. Il contratto di costruzione firmato nel giugno 2007 prevede la produzione di un totale di quattro fregate classe 125, che dovranno essere consegnate dal consorzio F125 tra la primavera del 2016 e il 2018. (M.Po.)
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COOPERAZIONE INTERNAZIONALE • Paveant Turbinem Piratae (Giorgio Esposito), n. 2 • Prove di dialogo tra NATO e Russia (Gerardo Cervone), n. 2 • 60° anniversario del NATO Defence College (Mario Masdea), n. 2 • The comprensive approach (Giovanni Vultaggio), n. 5 • Aspetti teorico-pratici della cooperazione (Mario Rino Me), n. 6
DIRITTO secolo i del XXI lle mission Armate ne Le Forze • La legislazione antiterrorismo: quali prospetrrorismo: tite an ne zio La legisla ettive? sp quali pro tive? (Paolo Maria Ortolani e Francesco Zamumento di ip come str La delega zione e di leadersh amministra poni), n. 1 • La delega come strumento di amministrazione e di leadership (Enzo Fanelli), n. 1 • Il diritto internazionale umanitario nell’epoca della globalizzazione: l’accezione islamica (Arcangelo Marucci), n. 4 • Le nuove frontiere al contrasto dell’immigrazione clandestina (Enzo Fanelli), n. 5 • I relitti e le navi da guerra, status e tutela giuridica (Giuseppe Masetti e Fulvia Orsini), n. 5 • Il trasporto aereo di “dangerous goods” a supporto dei teatri operativi (Sebastiano Franco e Vincenzo Simonetti), n. 5 • “Il rapporto fra accesso agli Atti Amministrativi e diritto alla privacy (Francesco Zamponi), n. 6 SA N. DIFE
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EDITORIALE • Uniti. Adesso come allora (Gen. Biagio Abrate), n. 1 • Giovanni Paolo II tra i militari (Massimo Fogari), n. 2 • Cittadini con le stellette (Massimo Fogari), n. 3 • Friendship thruogh sport (Massimo Fogari), n. 4 • Vivi le Forze Armate. Militare per tre settimane (Massimo Fogari), n. 5 • Saluto del Capo di Stato Maggiore della Difesa (Gen. Biagio Abrate), n. 6
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EVENTI • Cerimonia di avvicendamento del Capo di Stato Maggiore della Difesa, n. 1
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FORZE ARMATE • Le Forze Armate nelle missioni del XXI secolo (Giorgio Battisti e Gianfranco Oggiano), n. 1 • Un servizio linguistico per la Difesa (Paolo Cappelli), n. 1 • Linee programmatiche dei nuovi vertici delle Forze Armate (Gen. Biagio Abrate), n. 2 • La formazione e la comunicazione - due fattori di successo nell’organizzazione militare (Gen. Biagio Abrate), n. 3 • A Lourdes i militari di tutto il mondo, n. 3 • Un moderno strumento per il futuro. L’analisi approfondita del modello organizzativo (Cristiano Bettini), n. 5 • L’attuazione della dottrina militare nazionale (Cristiano Bettini), n. 6 • La formula del giuramento (Luigi Francesco De Leverano), n. 6
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LOGISTICA • Evoluzione dell’organizzazione logistica (Gaspare Schiavone), n. 2 PANORAMA INTERNAZIONALE • Nuovi scenari nuovi conflitti (Antonio Cucurachi), n. 1 • Le tre nuove milestones della strategia della Difesa USA nell’era Obama (Antonio Galiuto), n. 1 • La sicurezza delle informazioni al tempo di Wikileaks (Stefano Ramacciotti), n. 3 • La transizione in Afghanistan. Quali prospettive? (Francesco Pagnotta), n. 3 • Se la Blu Line si allunga di ... 200 miglia (Elia Cuoco), n. 3 • Le sfide e le prospettive di pace nel corno d’Africa (Ottaviano Sillitti), n. 3 • Lesson Learned dall’Afghanistan (Gen. Biagio Abrate), n. 4 • Limiti e rischi del nucleare (Mario Rino Me), n. 4 • L’evoluzione della geostrategia della Geristan ll’Afghan mania nel XXI secolo (Gianluca Sardellone), arned da Lesson Le umanitario ernazionale int itto dir n. 4 Il e islamica l’accezion cleare chi del nu • Il servizio militare in Israele tra refusnik, Limiti e ris obiettori e pacifisti (Antonella Vicini), n. 4 • La questione delle “Curili” (Rodolfo Bastianelli), n. 6
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FORZE ARMATE E SOCIETÀ • La comunicazione non verbale (Giovanna Ranaldo e Carlo Di Somma), n. 1 • Aziende e Forze Armate (Paolo De Maria), n. 4 • Donne, Pace e Sicurezza (Enzo Fanelli), n. 6
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SPECIALE - FORZE ARMATE • La specificità della condizione militare (Luigi Francesco De Leverano), n. 3
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RELIGIONI • Il trattamento del corpo morto nell’islam (Chiara Galli), n. 5 SANITÀ MILITARE • NATO Maintenance and Supply Agency (NAMSA): una opportunità per il supporto sanitario (Enzo Liguori e Claudio Zanotto), n. 4
STORIA • Passato e presente della ricerca in Antartide (Francesco Palmas), n. 5 • La pubblicistica della Difesa tra storia ed attualità (Ada Fichera), n. 6
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SUPPLEMENTI • “Per l’onor del batajon” I Campionati sciistici delle Truppe Alpine, n.1 • Giovanni Paolo II tra i militari, n.2 • Festa della Repubblica Italiana, 2 giugno 2011, n.3 • I Giochi Mondiali Militari, n.4 • Ragazzo in marcia! Vivi le Forze Armate, Militare per tre settimane, n.5 • Panorama 2012 su scenari internazionali e di crisi, n.1
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TECNOLOGIA • Le comunicazioni satellitari della Difesa. Sistema Sicral (Tommaso Fracasso), n. 2 • Applicazioni militari e vantaggi dei materiali ceramici (Luigi Castellani), n. 2
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STORIA E MITO • Dedalus dal mito alla realtà (Gianlorenzo Capano), n. 5 STORIA MILITARE • Come il SIM sottrasse il cifrario americano - La beffa del “Black Code” (Carlo De Risio), n. 1 • 1° Aviere Salvatore Rubini: un eroe italiano a Rodi (Clara Salpietro), n. 2 • Sommergibilisti italiani prigionieri di guerra in Giappone (Giovanni Zannini), n. 2 • Attacco a Malta (Carlo De Risio), n. 6
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R ecensioni GINO FALLERI
L’ADDETTO STAMPA Professionista della comunicazione Centro di Documentazione Giornalistica, Roma, 2011, pp. 110, € 15,00 Non a caso il primo capitolo del libro “L’addetto stampa – professionista della comunicazione” titola “L’informazione un bene fondamentale”. Lo è. L’informazione è veramente un bene cui non si può rinunciare, ma opera e si sviluppa in un campo minato, perché quella del giornalista non è una professione facile e non mancano i problemi di carattere professionale, quelli occupazionali, quelli deontologici, quelli della stessa incolumità personale. In questo campo minato deve muoversi anche tutto ciò che ruota intorno al mondo dell’informazione e il miglior descrittore, analista e studioso della materia è il nostro Autore che non solo ha lavorato per una intera vita in questo campo minato ma, dopo tante battaglie, ha raggiunto la definizione del profilo professionale di un personaggio che è entrato a pieno titolo nel settore giornalistico: l’Addetto stampa. Gino Falleri, Presidente del Gruppo Giornalisti Uffici Stampa (GUS) attraverso una profonda analisi non solo della normativa, ma anche della giurisprudenza, descrive molto bene il mondo giornalistico soffermandosi sulle attribuzioni, sugli ambiti di azione, sulle proiezioni della figura che oggi ancora si muove in punta di piedi in questo campo minato. Con questa terza edizione, completamente aggiornata e, direi, attualizzata, de “L’addetto stampa – professionista della comunicazione” spiega in maniera esaustiva i dieci anni della legge 150/2000 … “inseguita e sollecitata per trent’anni”… descrivendo anche le battaglie delle associazioni di categoria e concludendo – anche questo non a caso – con il racconto della sua storia. (VC) MILLA PRANDELLI
SGUARDI DI PACE. GUARDIANI DI PACE. Viaggio in Afghanistan al seguito delle Forze Armate Italiane Edizioni Kissing The Sky, Brescia, 2010, 120 pagine, € 10,00 Vincitore del Premio giornalistico “Sodalitas” nella categoria Fotografia. Con un’immagine dopo l’altra e alcune pagine di testo, il libro fotografico della giornalista Milla Prandelli racconta l’impegno quotidiano in Afghanistan dei circa 4mila soldati appartenenti alle quattro Forze Armate italiane. Sono molti, per scelta dell’autore e dei curatori del volume, i ritratti di soldati, resi nella quotidianità del loro lavoro al servizio del popolo italiano e dei fratelli afghani. Non mancano anche scene della vita quotidiana degli afghani, che il lavoro di supporto fornito dai militari italiani rende meno difficile. Nel testo si scorgono vari aspetti che caratterizzano la presenza italiana in teatro operativo, anche se la fotoreporter ha volutamente lasciare in secondo piano l’aspetto combat per concentrarsi sulle attività cimic. Il tomo, come suggerisce la prefazione del generale Massimo Fogari, è anche occasione per analizzare il rapporto tra giornalismo e Forze Armate in teatro operativo. La Prandelli, difatti, ha lavorato come “embedded”, ovvero come giornalista “incastonata” tra le truppe, cui è consentito di seguire i militari persino sulle linee di combattimento, a meno che il comandante in teatro non giudichi la presenza del giornalista dannosa per l’esito della missione o pericolosa per la vita dei suoi uomini e donne. “Sguardi di Pace. Guardiani di Pace. Viaggio in Afghanistan al seguito delle Forze Armate Italiane” è anche un omaggio ai caduti di tutte le guerre reso con il ricordo dei sei caduti del settembre 2009, che dell’autrice sono stati la scorta a Kabul. Il testo, quasi un abbraccio che tramite la Prandelli il mondo civile rivolge verso le Forze Armate Italiane, è dedicato a loro, definiti, per l’appunto “Guardiani di pace”. (PVR)
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IL SITO INTERNET DEL MINISTERO DELLA DIFESA
www.difesa.it