LA DIFESA GIORE DEL ATO MAG ST LO L O DE PERIODIC
N. 4/2012
Comprehensive approach Approccio nazionale multi dimensionale Pubblico e privato per epr lo sviluppo Agenzia Industrie Difesa Info ops & Counterinsurgency ISSN 2036-9786
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Informazioni della Difesa 4/2012
Le missioni all’estero Quest'anno si celebra il trentesimo anniversari dell'operazione di pace in Libano. Se si escludono episodi minori, quali, a titolo di esempio, quello dell'ospedale da campo schierato nel 1950 in Corea o il salvataggio dei “boat people” vietnamiti ad opera dell'incrociatore Vittorio Veneto negli anni ‘70, proprio questo mese di settembre ricorre il trentennale della prima missione "di pace" compiuta con un imponente schieramento di forze: quella in Libano. In una Beirut devastata dalla guerra civile nel 1982 venne schierato un contingente di circa 8.500 militari, in gran parte soldati di leva, che con la loro presenza contennero gli episodi di violenza perpetrati dalle milizie contro la popolazione civile. Ancora oggi, memori del nostro operato, i libanesi ce ne sono grati e ci gratificano della loro amicizia. In questi 30 anni l'Italia ha partecipato a tutte le principali operazioni svolte dalla comunità internazionale. Lo ha fatto destinando ad esse ragguardevoli risorse ed impiegando un considerevole numero di uomini e mezzi, arrivando in certi momenti, ad essere il secondo paese contributore. Quella delle cosiddette missioni di pace, ormai, è una realtà consolidata che, tuttavia, spesso suscita nell'opinione un pubblica un interrogativo. Ci si chiede: che senso ha, in momenti di difficoltà economiche come quello che stiamo vivendo, spendere tanto denaro per inviare i nostri militari nelle parti più disparate del mondo, spesso così estranee alla nostra realtà? La risposta va cercata tra le righe di una legge, la n.331 del 2000, che ha rivisto, ovvero ampliato, i compiti delle F.A. sulla base della mutata situazione internazionale. Infatti, oltre a quelli tradizionali, ovvero la difesa dei confini nazionali e il concorso nelle pubbliche calamità, la nuova norma prevede anche (e direi soprattutto) la difesa degli interessi vitali della nazione dovunque se ne presenti la necessità. Interessi che sono quelli di ordine economico e, quindi, la difesa ad esempio delle fonti di energia indispensabili al nostro Paese, ma anche quelli più meramente legati alla sicurezza dell’Italia. E qui entra in gioco il terrorismo internazionale e la lotta per debellarlo. In questo ambito, le Forze Armate sono sì chiamate ad operare per mantenere/portare la pace nei paesi preda dell'instabilità o martoriati dalla guerra, ma non lo fanno al mero scopo di soccorrere la popolazione civile. Il loro compito principale è quello di evitare che, qualora l'eversione si impadronisca di un territorio, lo utilizzi poi per esportare il terrore più facilmente in Italia. Ovvero, ristabilire l’ordine laddove c'è forte instabilità, per evitare che si creino flussi migratori che possono poi mettere in pericolo la sicurezza interna del nostro paese. E quindi, quelle condotte ormai da trent’anni all’estero, sono sì missioni di pace, perché al contrario della guerra non si prefiggono lo scopo di annientare un nemico per conquistarne un territorio, ma sono anche operazioni militari propriamente dette, perché il loro obiettivo è quello difendere in senso lato il Paese. Capisco che ai nostri tempi sia invalsa l’abitudine a non chiamare le cose con il proprio nome, ma sono convinto che, quando sono messe in gioco la nostra sicurezza e la vita di tanti uomini, la chiarezza sia fondamentale.
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Le Rubriche Editoriale Le missioni all’estero
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Massimo Fogari
Forze Armate Comprehensive approach Approccio nazionale multi dimensionale Forze Armate e Società Pubblico e provato per lo sviluppo Agenzia Industrie Difesa
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Valter Cassar
Cooperazione Internazionale Alcune riflessioni su struttura e competenze del dipartimento delle operazioni di pace dell’ONU
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Enzo Fanelli
Forze Armate Info ops & Counterinsurgency Marco Stoccuto
2 INFORMAZIONI DELLA DIFESA 4/2012
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Finestra sul mondo Osservatorio strategico Notizie dal teatro Difesa Notizie Rassegna Stampa Estera Recensioni
68 70 71 73 77 79
RE DELLA STATO MAGGIO
DIFESA N.
4/2012
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DELLO PERIODICO
Comprehensive approach Approccio nazionale multi dimensionale Pubblico e privato per epr lo sviluppo Agenzia Industrie Difesa Info ops & Counterinsurgency ISSN 2036-9786
Copertina Mitrovica (Kosovo) Carabinieri della Multinational Specialized Unit e dell'Esercito in pattuglia (fotoelaborazione Gentile)
n. 4/2012 Periodico dello Stato Maggiore della Difesa fondato nel 1981 Direttore responsabile Gen. B. Massimo Fogari Redazione Ten. Col. Pier Vittorio Romano 1° M.llo Mario Polverino C I° Francesco Irde Fotografi M.llo 1^ cl. Fernando Gentile M.llo 1^ cl. Maurizio Sanità Sede Via XX Settembre, 11 - 00187 Roma Tel.: 06 4884925 - 06 46912544 Fax: 06 46912729 e-mail: informazionidifesa@smd.difesa.it Amministrazione Ufficio Amministrazione dello Stato Maggiore della Difesa Via XX Settembre, 11 - 00187 Roma
Panorama internazionale Un futuro incerto con conseguenze imprevedibili della rivolta araba
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Nicodemo Nkashama N.
Il contenzioso del Sahara occidentale fra passato e presente
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Francesco Palmas
Storia La politica estera di Enver Hoxha (1944-1985) Giovanni Armilotta
Abbonamento Italia: euro 16,40 - estero: euro 24,35 Il versamento può essere effettuato sul c/c postale 27990001 intestato a INFORMAZIONI DELLA DIFESA Ufficio Amministrazione SMD Via XX Settembre, 11 - 00187 Roma Gli articoli investono la diretta responsabilità degli autori, di cui rispecchiano le idee personali.
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© Tutti i diritti riservati Registrato presso il Tribunale Civile di Roma il 19 marzo 1982 (n. 105/982)
SOMMARIO 3
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Intervento del Capo di Stato Maggiore della Difesa, Gen. Biagio Abrate, presso il Centro Simulazione e Validazione dell’Esercito (Ce.Si.Va.) Civitavecchia - 28 giugno 2012
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COMPREHENSIVE APPROACH APPROCCIO NAZIONALE MULTI DIMENSIONALE
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esidero, innanzitutto, portare a tutti i presenti il saluto del Signor Ministro della Difesa, che non ha potuto, Suo malgrado, essere presente per sopravvenuti impegni. Mi ha però pregato di esprimere il più vivo apprezzamento a tutti coloro che hanno reso possibile questa iniziativa, su un tema che Lui stesso, nel solco anche della più convinta continuità con la Sua precedente esperienza di Chairman del Comitato Militare dell’Alleanza Atlantica, considera assolutamente attuale e rilevante. Vorrei, quindi, rivolgere un ringraziamento particolare al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il Generale GRAZIANO, per la lungimiranza dimostrata dando vita a questo “momento di incontro” e per avermene reso partecipe. Una eccellente opportunità di aggiornamento e condivisione rivolta all’alta dirigenza della Forza Armata, ai Vertici d’Area, ai Comandanti dell’area operativa fino al livello Brigata. Un’opportunità focalizzata sullo stato di implementazione del nuovo concetto strategico dell’Alleanza Atlantica e, segnatamente, sul Comprehensive Approach. La presenza a questo seminario di una così vasta e qualificata platea mi convince ancor più del valore dell’iniziativa e dimostra quanto sia tuttora d’attualità il tema oggi in discussione. Soprattutto in questo momento di significativi mutamenti del quadro strategico internazionale, ai quali si accompagnano stringenti contingenze economico-finanziarie, che chiamano ogni ambito istituzionale a profonde riflessioni, razionalizzazioni e revisioni: nelle dimensioni interna ed extra-nazionale; a livello tecnico ma, soprattutto, manageriale. Saluto e ringrazio il Comandante del Centro Simulazione e Validazione dell’Esercito –il Generale di Divisione Leonardo DI MARCO– per la squisita ospitalità e la puntuale introduzione. Colgo l’occasione per rinnovare, suo tramite, un plauso a tutto il Personale che quotidianamente da respiro ed energia alla preziosa atti-
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vità che questo centro di eccellenza svolge in favore della Forza Armata soprattutto per ottimizzare l’output operativo. Desidero, infine, esprimere il benvenuto della Difesa e mio personale agli illustri relatori che mi seguiranno: il Ministro Plenipotenziario Giovanni BRAUZZI del Ministero Affari Esteri e le Autorità militari che ben conosciamo –i Generali di Corpo d’Armata CORNACCHIONE e BERTOLINI e il Generale di Brigata PORTOLANO, il quale potrà certamente arricchire il dibattito con la sua recente esperienza maturata “sul campo” nel teatro afghano. Li ringrazio sin d’ora per la competenza e l’ampiezza di vedute che sapranno portare sul tema, a vantaggio di tutti gli intervenuti che voglio salutare affettuosamente, auspicandone una adesione aperta e partecipe. Sono quindi lieto di aprire il dibattito presentando alcune mie brevi riflessioni su uno dei principali concetti alla base della capacità, NATO e nazionale, di fronteggiare le molteplici e complesse sfide poste dal mondo e dalla società del terzo millennio, ovvero il cosiddetto Comprehensive Approach, oppure, nella sua versione nazionale, l’“Approccio Nazionale Multidimensionale per la gestione delle crisi”. Come punto di partenza, desidero citare alcune parole pronunciate già il 23 ottobre 2008 dal Vice Segretario della NATO, Ambasciatore BISOGNERO, durante il discorso di apertura al Forum sulla Sicurezza Euro-Atlantica: “Le nostre esperienze nei Balcani e in Afghanistan hanno dimostrato che il successo finale delle nostre operazioni dipende dallo sviluppo politico ed economico, piuttosto che solamente dalla supremazia militare. Ed è questa consapevolezza che ha reso la NATO uno dei principali propositori del “Comprehensive Approach” alle minacce e ai rischi odierni, un approccio integrato con cui intendiamo il più ampio coinvolgimento possibile da parte di Nazioni e Organizzazioni, e la più efficace combinazione di interventi militari e civili
In apertura: NATO Summit in Washington Sopra: Ufficiale dei paracadutisti del 186° Rgt. coordina le operazioni con 2 ufficiali dell esercito afghano
e di strumenti di “hard & soft security”. Questo è il pilastro dell’approccio della NATO”. Già da queste parole, alla base del Concetto Strategico della NATO e pronunciate, ripeto, ben quattro anni fa, emerge chiaramente la consapevolezza e l’indicazione, da parte dei massimi vertici della NATO, che il significato di “potere militare” è mutato. Esso infatti si è modificato. E si è arricchito della consapevolezza di affrontare in maniera ampia e multidisciplinare le sfide alla sicurezza. E’ pur vero che la dimensione prettamente militare dei conflitti rimane di “fondamentale rilevanza”, e deve, pertanto, rimanere al centro dell’attenzione dei Paesi alleati. Dovremmo, infatti, continuare a disporre, anche per il futuro, di adeguate capacità militari, coerenti con il livello di minaccia che ci si può attendere nei vari scenari. Senza una marcata superiorità militare, operazioni come quella in Libia e, prima di allora, in Medio Oriente e nei Balcani, sarebbero state
enormemente più onerose soprattutto in termini di vite umane sacrificate. Al tempo stesso, è necessario riconoscere la complessità di molte crisi, con aspetti sociali, culturali, politici e religiosi, che in parte prescindono dalla diretta contrapposizione militare. Difatti, oggi, la sicurezza è minacciata non solo da conflitti tra Stati, ma soprattutto da conflitti all’interno degli stessi. Non sono solamente le entità politiche ad essere minacciate, ma i singoli e le collettività, nelle loro molteplici necessità vitali (cioè nelle varie dimensioni della cosiddetta Human Security): • sicurezza alimentare (accesso alle risorse e libertà di produrre); • sicurezza della salute (capacità di fronteggiare pandemie; malnutrizione; carenza di farmaci); • sicurezza ambientale (disponibilità di acqua; lotta all’inquinamento; ecc.); • sicurezza della persona (protezione da violenze e abusi, in particolare sui minori);
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Operazioni aereonavali su nave Etna
• sicurezza della libertà di pensiero (certezza dei diritti fondamentali, ecc.). Potremmo sintetizzare affermando che gli Stati non si possono considerare “sicuri” se i loro cittadini si sentono o sono minacciati. La NATO, come l’Unione Europea, si propongono e si dovranno sempre più proporre quali attori “multinazionali” e anche “globali”, capaci di contribuire alla sicurezza internazionale intervenendo là dove sorgono o si materializzano minacce alla stabilità. Per la complessità delle crisi attuali, NATO e Unione Europea non possono limitarsi alla sola “fase militare” nel controllo e dominio delle crisi, proprio in quanto una marcata superiorità militare, da sola, non garantisce affatto il buon esito a lungo termine di un intervento di crisis management. La visione militare del Comprehensive Approach, consolidatasi sulla base di processi maturati nel corso degli anni sia all’interno di altre
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Nazioni (europee e non) sia nell’ambito di alleanze, unioni e partenariati di cui l’Italia è parte, ha quindi come presupposti: • la consapevolezza che gli scenari presenti e futuri richiederanno un completo coinvolgimento di tutti gli attori (governativi in primis), al fine di risolvere con successo le crisi che la Nazione sarà chiamata ad affrontare; • la convinzione che l’approccio integrato si debba e si possa applicare a qualunque tipo di crisi, indipendentemente dalla tipologia, dalle cause e dalla localizzazione geografica della crisi stessa; • la coscienza che il comparto militare non sarà l’unico a dover guidare, se non limitatamente ad alcune fasi, il processo di stabilizzazione di una crisi. In ambito NATO, si è raggiunta una sostanziale concordanza sul fatto che i conflitti futuri saranno condotti in ambienti (terraferma, mare, aria, spazio, ambiente cibernetico, mondo dei
sondaggi) sempre più interconnessi e permeabili tra loro. In senso generale, l’ambiente operativo futuro sarà COMPLESSO E CAOTICO, anche per un prevedibile e realistico insieme di vincoli e regole tese a salvaguardare i “non combattenti” e l’ambiente (cioè ad evitare i cosiddetti “danni collaterali”). Lo scenario, quindi, caratterizzato da incertezza, multilateralismo e forte complessità, può e potrà condurre ad una sovrapposizione e ad una potenziale commistione delle funzioni tradizionalmente ripartite tra civili e militari nel corso di una campagna disegnata ed attuata per la risoluzione di una crisi. Il personale coinvolto a vario titolo – lo dimostrano le operazioni oggi in atto – è sempre più eterogeneo e la demarcazione delle responsabilità non è sempre nitida; ciò può incidere pesantemente sulle catene di comando e controllo e in generale sullo svolgimento delle operazioni, specialmente in ambito multinazionale. Per contro, nella moltitudine delle agenzie/organizzazioni/dicasteri coinvolti, si nota una certa convergenza e comunità di attività e di obiettivi, dalle quali potrebbero scaturire reciproci e vantaggiosi accordi. Non a caso, già oggi, spesso si assiste ad una crescente collaborazione fra i militari e le varie entità governative tradizionalmente impegnate nelle situazioni di crisi. Purtroppo però non esistono ancora meccanismi di coordinamento collaudati ed efficaci; e sovente si rischiano sovrapposizioni/duplicazioni di compiti/missioni. Questo ci chiama ad una omogenea, continua e comune azione sin dalle fasi di design e pianificazione e poi di esecuzione e supporto alle operazioni. Non basta più. Anzi è necessario andare oltre la stretta sinergia tra Esteri e Difesa già esistente. Molte agenzie civili, infatti, sono abituate a funzionare con processi decisionali che seguono dinamiche molto fluide e si plasmano
spesso sulle percezioni politiche e mediatiche del momento. Viceversa i processi decisionali militari ricercano la minima indeterminatezza possibile e, dove non supportati da informazioni certe, si affidano alla formulazione di ipotesi plausibili. Nella gestione delle crisi, entrambi gli approcci possono essere ritenuti appropriati. Abbinando particolari aspetti e minimizzando i punti di frizione, si possono aumentare le sinergie e quindi le probabilità di successo. La NATO ha affrontato questo aspetto inserendo la figura del CIVAD (Civilian Actors Advisor) in seno ai Comandi operativi e strategici. Tale misura risolve parzialmente il problema offrendo all’apparato militare una migliore chiave di lettura della dimensione civile, ma al contempo non risponde alla necessità di una piena integrazione tra i due settori. In sostanza, è e sarà sempre più necessario sviluppare adeguate capacità multidimensionali, integrando sotto un’unica strategia di intervento gli strumenti militari e civili, nelle loro diverse articolazioni. La sfida è doppiamente impegnativa. Da un lato le Organizzazioni storicamente focalizzate sulla dimensione “tradizionale” (cioè militare) della sicurezza devono ampliare il loro campo d’azione, sviluppando legami efficaci con le entità non militari e, soprattutto, contemplando l’attivazione di misure non militari nella pianificazione degli interventi di crisis management. Dall’altro le entità non militari (comprese quelle non governative) devono a loro volta sviluppare una comprensione delle crisi che riconosca l’esistenza di un “continuum” virtuoso fra l’azione “militare” e quella non-militare, superando eventuali resistenze ideologiche rispetto alla cooperazione con le entità militari e accettando una piena integrazione della propria azione nel contesto di un intervento integrato, coordinato e sinergico fra tutte le componenti coinvolte.
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Tornado IDS del 6 Stormo
Passando ora a focalizzare la riflessione in un ambito più strettamente nazionale, è con una certa soddisfazione che mi sento di affermare come la Difesa, in ambito interministeriale, si sia sempre dimostrata elemento trainante e propositore di un modello di gestione delle crisi in linea con i principi precedentemente delineati. Il documento di riflessione congiunto Esteri-Difesa del 2010, intitolato “Approccio Nazionale Multidimensionale alla gestione delle crisi” parte dal presupposto che mentre il processo di elaborazione strategica è essenzialmente di tipo “verticale”, la successiva fase di implementazione richiede forme di approccio di tipo “orizzontale”, in grado cioè di assicurare, sul campo, l’integrazione e la sincronizzazione degli sforzi dei singoli attori nazionali coinvolti, ai fini del conseguimento di un obiettivo comune. Tali dinamiche si applicano anche a contesti di gestione internazionale/multinazionale delle crisi, in cui il contributo nazionale deve potersi
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configurare come il prodotto del “Sistema Paese” frutto di una strategia unitaria e condivisa. Il complesso sinergico delle predisposizioni, attività e strumenti che sovraintendono al processo di definizione e implementazione di detta comune strategia prende il nome di “Approccio Nazionale Multi-Dimensionale” alla gestione delle crisi”, vale a dire la dimensione (politica) nazionale del più ampio succitato concetto NATO di Comprehensive Approach. L’Approccio Nazionale Multi-Dimensionale, per sua natura, consiste in una impostazione metodologica che spinge gli “operatori” di un sistema complesso ad utilizzare gli strumenti a propria disposizione in un’ottica integrata e multidisciplinare, ai fini del conseguimento di un obiettivo comune. Nel contesto delle moderne operazioni militari, l’applicazione del concetto si basa non soltanto sugli aspetti di carattere culturale e procedurale sopra descritti, ma soprattutto nell’accettazione reciproca delle responsabilità e dei ruoli
Carabiniere della MSU con autorità locale
assegnati ai singoli attori militari e civili. L’esperienza delle recenti operazioni suggerisce, infatti, che l’unicità di comando e di direzione tra strutture militari e civili non appare realisticamente perseguibile e soltanto una chiara condivisione del problema e un impegno a trovare soluzioni comuni (unità degli sforzi) può garantire ragionevoli probabilità di successo. In conclusione credo che oggi sia ormai evidente per chiunque la necessità di passare da una visione “di componente” (militare, diplomatica, informativa, economica e così via) ad una “interministeriale ed interistituzionale”. Credo che sia altrettanto urgente la necessità di coinvolgere nell’Approccio Integrato anche un numero sempre crescente di soggetti privati, cioè non governativi e non istituzionali. Oggigiorno un numero sempre maggiore di decisioni dalle enormi ed imprevedibili ripercussioni globali vengono prese da attori da considerarsi a tutti gli effetti privati. Mi sto ri-
ferendo ad agenzie di ratings, grandi gruppi industriali ed economico-finanziari, media, multinazionali del settore energetico, dei trasporti e delle telecomunicazioni, motori di ricerca e social networks. Ogni efficace sistema di Comprehensive Approach – Approccio Nazionale Multi Dimensionale non potrà prescindere dal coinvolgere in maniera diretta e responsabile anche questi attori privati, pena la mortificazione di quella dimensione omnicomprensiva che, unica, potrà costituire la chiave per il successo. Sono sicuro che la Difesa, che in questo momento ho l’onore di guidare e di rappresentare, si dimostrerà sempre e in ogni contesto in grado di affrontare efficacemente le nuove sfide, e saprà assolvere la propria missione istituzionale così come ha già ampiamente dimostrato e sta dimostrando anche oggi di saper fare in contesti anche molto complessi ed impegnativi. Vi ringrazio dell’attenzione.
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PUBBLICO E PRIVATO PER LO SVILUPPO AGENZIA INDUSTRIE DIFESA DI VALTER
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Intervista all’On. Ing. Marco Airaghi ’Agenzia Industrie Difesa è un ente di diritto pubblico istituito come strumento di razionalizzazione e ammodernamento delle Unità Industriali del Ministero della Difesa. Opera secondo criteri industriali sotto la vigilanza del Ministro della Difesa, con la missione di portare all’equilibrio economico gli stabilimenti industriali assegnati in gestione, in una logica di creazione di valore sociale ed economico per lo Stato e la collettività. Con l’intenzione di conoscere più a fondo questo nuovo soggetto nel panorama della Pubblica Amministrazione, abbiamo incontrato il Direttore Generale dell’Agenzia, l’On. Ing. Marco Airaghi, colui che la rappresenta, ne dirige e controlla l’attività ed è responsabile della sua gestione e del conseguimento degli obiettivi fissati dalle norme legislative istitutive. L’On. Airaghi, nato nel 1959, ha conseguito la laurea in ingegneria meccanica nel 1982 presso il Politecnico di Milano. E’ iscritto all’albo degli ingegneri della Provincia di Varese. Ha lavorato nel settore metalmeccanico come responsabile tecnico, responsabile manutenzione ed impianti, e successivamente, come Direttore di Stabilimento, export manager e responsabile marketing. E’ stato Consigliere di Amministrazione e Membro del Comitato Esecutivo di Fondazione E.A. Fiera Internazionale di Milano. E’ stato Consigliere e Assessore comunale del Comune di Gorla Minore. Eletto deputato nella XIV legislatura e riconfermato nella XV (2001-2008), successivamente chiamato a subentrare ad altro Deputato nella XVI legislatura, ha rinunciato all’incarico parlamentare preferendo rimanere nella Difesa. A lui abbiamo rivolto le seguenti domande.
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L’Agenzia Industrie Difesa è un ente di diritto pubblico istituito come strumento di razionalizzazione e ammodernamento delle Unità Industriali del Ministero della Difesa (D.Lgt. n.300/99). Questo è quanto si legge sul portale
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del Ministero della Difesa. Ci vuole spiegare cosa rappresenta effettivamente l’Agenzia? L’Agenzia Industria Difesa nacque nel 2001 per l’esigenza che si vide allora di razionalizzare l’apparato industriale della Difesa e nell’esame delle unità produttive se ne identificarono nove che venivano considerate dal Ministero della Difesa non più strategiche. Di conseguenza si scelse il sistema di creare questa Agenzia che in realtà, secondo la mia interpretazione, aveva forse lo scopo di portare alla chiusura o all’alienazione questi stabilimenti. Dico nove perché ai primi tempi c’era nell’AID anche l’ex arsenale della Maddalena che poi fu ceduto alla regione Sardegna in previsione del G8 che poi si svolse, purtroppo, in seguito al terremoto, all’Aquila. In realtà però il sistema di agenzia, mi permetto di dire, aveva forse inconsciamente in sé una grande potenzialità, ossia la possibilità di aprire al mercato privato e gestire in modo leggermente più privatistico questi enti. Quando mi è stato dato questo incarico, nel 2008 dal Ministro La Russa, avendo un background culturale di dirigente di industria privata, ho cercato di affrontare la gestione di questa agenzia non come ente liquidatore, ma cercando di sfruttare quelle che io vedevo come potenzialità, come prima ho detto, e quindi cercare di ottimizzare ed efficientare la produzione e proporla al mercato privato. Quali sono e cosa trattano gli stabilimenti che fanno capo a AID? Attualmente gli stabilimenti che fanno capo alla AID sono otto. Partendo da nord verso sud, per seguire un ordine geografico, abbiamo lo stabilimento di Noceto di Parma che tratta prevalentemente le manutenzioni di missili e la distruzione o comunque il recupero di armi obsolete, in particolare armi esplosive, quali bombe o bombe a grappolo. Facciamo anche la demilitarizzazione di queste armi non convenzionali, giudicate vietate dalle convenzioni attuali e quindi con obbligo di distruzione. Negli ultimi
In apertura: Allestimento della bomba a mano MF2000 Sopra: stabilimento Militare Ripristini e Recuperi del Munizionamento di Noceto. Attività di DEMIL
anni abbiamo particolarmente rafforzato la mission della demilitarizzazione che è un problema internazionale importante e con orgoglio dico che la Difesa italiana è l’unica che demilitarizza in casa queste armi: la Difesa degli altri Paesi nel mondo, di solito, appalta il lavoro solamente ai privati quindi dovendo sopportare i costi di tale operazione. Noi lo tramutiamo in opportunità e infatti, proprio negli ultimi mesi abbiamo vinto gare internazionali anche della NAMSA per distruggere armi di altri Paesi. Più a sud, a Firenze c’è il famoso e noto stabilimento chimico farmaceutico. Lo stabilimento già esisteva in periodo pre-unitario a Torino e poi fu spostato a Firenze. Negli ultimi anni la sua missione è cambiata: non più produzione di medicinali solo per le esigenze della Difesa, ma una missione orientata molto più verso il pubblico e quindi verso una collaborazione col Ministero della Salute. Abbiamo stretto un accordo di programma importante con l’Agenzia Italiana del Farmaco, che sarà in vigore per 3 anni – ma credo che sarà confermato - per la
produzione di alcuni farmaci che vengono considerati carenti dalla Sanità Nazionale, in particolare, molto importante, la produzione di quelli che vengono chiamati “farmaci orfani”, ossia farmaci che servono per la cura delle cosiddette malattie rare, che come tali avendo poco consumo, non sono più giudicati di interesse delle case farmaceutiche. Mi sembra ovvio, che uno Stato che si rispetti non può che essere vicino ai cittadini più deboli e chi è più debole di un cittadino malato e malato di una malattia rara? Per cui mi fa piacere dire che in questo caso la nostra Difesa, le nostre Forze Armate ancora una volta sono a fianco dei cittadini in tempo di pace, come lo sono per i terremoti, per le alluvioni, per il problema dei rifiuti, per la sicurezza sulle strade, e siamo anche a fianco del Ministero della Salute. Scendendo verso sud troviamo Baiano di Spoleto dove abbiamo un altro stabilimento per il munizionamento, anche questo in parte orientato alla demilitarizzazione e distruzione, in questo caso di cartucce e artifizi esplosivi. In questo stabilimento
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Firma AIFA AID - Ing. Marco Airaghi e Dottor Luca Pani
inoltre, in gran parte si fabbricano bombe a mano anche di ultima generazione. Scendendo troviamo, a Gaeta, quella che una volta era una tipografia militare. Oggi che, evidentemente, la concorrenza dei privati su un tema non strategico come la stampa è veramente imbattibile, stiamo riconvertendo lo stabilimento di Gaeta per una missione molto innovativa, ossia la creazione di un centro di dematerializzazione della documentazione della Difesa. Stiamo realizzando, infatti, un importantissimo impianto innovativo che, con un progetto sperimentale finanziato dallo Stato Maggiore della Difesa, sta realizzando la dematerializzazione di faldoni di documenti di alcune caserme che, considerate alienabili, dovevano essere liberate al più presto per poter essere cedute e monetizzate. Il progetto è avviato, lo facciamo in collaborazione con una società privata che ha vinto la gara d’appalto per la costituzione di una associazione temporanea con noi, progetto che ha vinto addirittura
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un premio dalla Funzione Pubblica perché giudicato innovativo in un settore così importante. Quindi anche a Gaeta riusciremo ad assicurare un futuro produttivo in una zona dove le opportunità non sono così facili da trovare. Nella parte centrale dell’Italia, a Fontana Liri, abbiamo uno stabilimento per il munizionamento dove produciamo nitrocellulosa. E’ l’unica produzione italiana di questo prodotto così importante da cui otteniamo delle polveri sferiche per esplosivi e cartucciame. Questo è uno stabilimento oggi molto interessante perché, come dicevo, la nitrocellulosa non viene prodotta in altre parti in Italia e siccome in Europa quasi tutti gli stabilimenti stanno chiudendo i battenti perché schiacciati dalla concorrenza dell’estremo oriente, noi stiamo ampliando, con investimenti opportuni la produzione, per porci anche sul mercato, diciamo, civile ossia per la produzione di nitro per le vernici, materiale che è stato molto richiesto e ci è stato raccomandato dal mercato privato con società che chiedono ad-
dirittura di poter avere l’esclusiva e ritirare l’intera produzione dello stabilimento che quindi avrà un futuro produttivo assicurato. Se scendiamo ancora verso sud troviamo gli stabilimenti di Torre Annunziata e di Castellamare di Stabia. Il vecchio stabilimento, dove si producevano le spolette per le granate, rischiava di perdere ogni occupazione, diminuite, ovviamente, le esigenze di granate e quindi di spolette. Qui stiamo portando avanti un progetto sperimentale molto interessante, giudicato tale anche dalla Corte dei Conti, che è la demilitarizzazione e il refreshing dei mezzi ruotati che vengono dismessi dalla Difesa. In particolare, per esempio, abbiamo pronto un primo lotto di “Defender” dell’Arma dei Carabinieri che abbiamo demilitarizzato e messo a nuovo con un’importante manutenzione e verifica e che metteremo presto sul mercato privato dopo averli immatricolati tramite la motorizzazione civile. E’ in corso, allo stesso scopo, la predisposizione di un importante lotto di moto Guzzi sempre dell’Arma dei Carabinieri. La stessa attività sarà presto estesa al dismounting e disposal dei mezzi blindati e dei carri armati, altra operazione importante che ci viene richiesta non solo dalla Difesa italiana, ma anche dalla NAMSA per le Difese dell’Europa e della NATO. A Castellamare di Stabia abbiamo lo storico stabilimento dei cordami. Ovviamente le funi, le corde per le navi sono ormai una produzione marginale e dobbiamo scontare, altresì, la grande concorrenza dei paesi dell’estremo oriente che hanno dei prezzi di produzione assolutamente stracciati. Per il futuro di questo stabilimento stiamo avviando dei progetti importanti, cito quello, secondo me più importante che abbiamo in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana e con la Ricerca della nostra Difesa e che consiste nella realizzazione di un laboratorio sperimentale per la produzione di manufatti in carbon-carbon, un prodotto che si ottiene dalle fibre di carbonio e serve a produrre, per esempio, gli ugelli dei missili, come l’ugello del nostro
orgoglio nazionale, il lanciatore “Vega” da poco mandato in orbita. Ma serve anche per materiali esclusivi come i freni della Ferrari e dei treni ad alta velocità. Non esiste in Italia produzione di carbon-carbon e siamo totalmente costretti ad approvvigionarci dalla Francia, quindi è chiaro come questa iniziativa sia determinante per l’indipendenza produttiva del nostro Paese in settori strategici. Noi qui ci siamo orientati molto fortemente sul mercato privato. Per esempio abbiamo ripetutamente vinto gare per la manutenzione dei traghetti dello Stretto essendo, oltretutto, Messina una location molto particolare per il suo Stretto con un bacino di carenaggio: è una postazione molto strategica. Perché si è sentita l’esigenza di creare un’agenzia, non era sufficiente mantenere l’efficienza degli stabilimenti con la vecchia gestione? Credo di aver parzialmente risposto con la prima domanda. Io non credo che l’Agenzia nacque a quei tempi con l’idea di efficientare gli stabilimenti. Credo che fosse una sorta di loro eutanasia. Forse inconsciamente o forse con una grande lungimiranza, chi l’ha fatta ha invece creato questo “sistema” che consente di gestire, pur in una logica assolutamente statale, quindi con tutte le regole di funzionamento che devono assolutamente essere mantenute per un’attività pubblica e con le cautele e i controlli precisamente riferiti a questa gestione, però ha la possibilità di aprirsi al mercato privato e di gestire gli stabilimenti in modo industriale. Infatti io per i miei stabilimenti applico delle logiche di gestione di tipo privatistico con rispetto della bilancistica statale ma vado a costruirmi un vero e proprio budget, una vera e propria analisi di funzionamento, conteggi di fine anno e quindi i piani industriali relativi, con la necessità o l’opportunità di investimenti per migliorare l’efficienza degli stabilimenti. Il sistema di Agenzia funziona e riesce a migliorare nettamente i parametri di funzionamento. Se andiamo a confrontare questi parametri dei
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nostri stabilimenti prima della forma dell’agenzia e oggi, dopo dieci anni di agenzia, ci si stupirebbe perché si vedrebbe di tre volte circa migliorato il risultato operativo. L’AID opera secondo criteri industriali sotto la vigilanza del Ministro della Difesa, con la missione di portare all’equilibrio economico gli stabilimenti industriali assegnati in gestione. Sono compatibili i criteri industriali con le logiche amministrative della PA? Dovrei rispondere: “NI” ossia: si deve mantenere per legge le logiche amministrative della Pubblica Amministrazione. Dico onestamente che, ovviamente è difficile riuscire ad essere in competizione con le industrie private che, avendo delle regole molto più “smart” possono essere più rapide nelle decisioni, nell’attivazione degli investimenti ed hanno anche molta più elasticità nell’utilizzo del personale, mentre l’utilizzo del personale con il contratto statale diventa molto delicato e critico. Devo dire che i criteri industriali che utilizzerei avendo un background culturale di manager privato, ovviamente sarebbero molto più agili e mi consentirebbero una ancor migliore gestione di questa Agenzia. Comprendo che bisogna ricorrere a compromessi ma non mi arrendo a sperare di poter fare almeno delle minime variazioni normative per dare alla mia Agenzia un po’ più di grinta e possibilità di essere ancora più penetrante nel mercato privato in modo da tracciare risultati operativi sempre migliori e quindi consentirmi di avere ancora più posti di lavoro da assicurare in quelle zone d’Italia dove il lavoro non c’è. Come si raggiunge l’equilibrio economico nel momento di crisi economica che ci ha colpito e come si pongono sul mercato le vostre industrie? L’equilibrio economico, in questo momento di grave crisi economica internazionale è difficile da raggiungere per ovvi motivi e siccome viviamo in un mondo reale e sappiamo che la spending review, come si usa dire adesso, ma comunque
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la contrazione di spesa è necessaria e che il nostro Dicastero già da anni l’ha intrapresa. Questo fa sì che le commesse interne, quindi quelle per l’amministrazione Difesa, dei miei stabilimenti siano calate costantemente negli anni. Si può perciò raggiungere l’equilibrio solo aumentando, in modo almeno proporzionale, la penetrazione nel mercato privato. Cosa che, di fatto, siamo riusciti ad ottenere tanto che, nonostante il pesantissimo calo delle commesse della nostra Difesa, il valore della produzione dell’Agenzia non è diminuito ma anzi è aumentato, ovviamente grazie ai ricavi ottenuti dai privati: fatto molto positivo perché ciò porta denaro “fresco” nella casse della nostra Agenzia e quindi della Difesa. Avete in programma lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi? Lo sviluppo e l’innovazione sono sempre in programma. Noi stiamo avviando in tutti gli stabilimenti nuovi progetti, anche progetti di ricerca in collaborazione con il Segretariato Generale della Difesa, e anche, come detto, con l’Agenzia Spaziale Italiana, e probabilmente con l’Agenzia Spaziale Europea. In ogni caso soprattutto in cooperazione con aziende private che si dimostrano interessate a fare accordi di programma o delle vere e proprie associazioni temporanee d’impresa con noi, in modo da abbinare la forte struttura e l’importanza del brand Difesa con l’elasticità e la grinta dell’industria privata. Credo che questa sia la carta più importante da giocare per il futuro di questi stabilimenti. Recentemente si è svolto a Firenze il convegno “Malattie rare e farmaci orfani - Esigenze cliniche e sinergie terapeutiche”. Mi sembra che l’argomento sia un po’ il fiore all’occhiello dello Stabilimento chimico-farmaceutico militare. Qual è il suo ruolo in questo campo? Il Convegno di Firenze è stato un momento fondamentale per lo Stabilimento Chimico Farmaceutico e devo dire con molta soddisfazione
Nitrocellulosa (particolare) dal Polverificio di Fontana Liri
che è stata una giornata di grande successo. La presenza era qualificata: c’erano, oltre a studiosi di fama internazionale dei veri e propri “mostri sacri” del settore. L’incontro, devo dire, è stato nobilitato dalla presenza del Sottosegretario Magri che ha voluto portare il suo saluto e la sua importante presentazione al Convegno; era presente il Presidente della Commissione Igiene e Sanità del Senato, Sen. Tomassini, il Presidente della Commissione Difesa della Camera, on. Cirielli ed un ampio parterre di vertici delle Forze Armate che hanno assistito alla presentazione di quella che è l’attività dello Stabilimento nel settore dei farmaci orfani, giudicato fondamentale. Era presente anche il Direttore Generale dell’Agenzia Italiana del farmaco, il prof. Luca Pani, che ha confermato la bontà dell’accordo con Agenzia Industrie Difesa. Lo Stabilimento di Firenze, è sicuramente un fiore all’occhiello, devo ricordare che ormai da quattro anni è in attivo di bilancio, quindi è uno stabilimento che non costa assolutamente nulla agli Italiani e alla nostra Difesa, pur svolgendo quest’opera
importante di supporto al Ministero della Salute quindi alla Sanità nazionale, in settori dove i privati non arrivano perché non ne hanno convenienza. Per concludere una domanda del tutto personale: mi risulta che lei abbia assolto il servizio militare nell’Aeronautica quale ufficiale di complemento. Cosa ricorda di quell’esperienza? Qui c’è un errore nella domanda: io ho svolto il servizio militare nell’Aeronautica ma ero un militare di truppa nella Vigilanza Aeronautica Militare, la cosiddetta VAM, mentre l’orgoglio di questi anni al Ministero della Difesa è quello di essere stato nominato, su proposta del Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, approvata dal Ministro La Russa e sottoscritta dal Presidente Napolitano, Maggiore di Complemento del Corpo del genio Aeronautico. Devo dire, visto il mio amore per le Forze Armate e la mia convinzione a restare in questo ambiente, che questa è stata credo, una delle più grandi sod disfazioni di questi ultimi anni.
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Cooperazione internazionale
ALCUNE RIFLESSIONI SU STRUTTURA E COMPETENZE DEL DIPARTIMENTO DELLE OPERAZIONI DI PACE DELL’ONU DI ENZO FANELLI
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l Dipartimento delle operazioni di pace (DPKO) è una struttura autonoma dell’ONU che si occupa di organizzare le missioni di peacekeeping1, fornire appoggio logistico alle stesse, reperire i contributi economici e coordinare il lavoro del personale civile e militare. Ha sede presso il Palazzo di Vetro, a New York, ed è stato creato nel 1992 allorquando assunse le funzioni fino ad allora svolte dal Dipartimento delle Nazioni Unite per gli affari speciali. Entrando in maniera più approfondita nelle competenze, il DPKO si interessa delle attività di peacekeeping, con una struttura organizzata prevalentemente per materia in cui la parte politica, la componente militare, quella di sostegno, unitamente alla Divisione di Polizia ed al Mine Action Centre, si incontrano periodicamente (almeno tre volte la settimana) per l’esame della situazione generale e per discutere i provvedimenti che richiedono maggiore coordinazione. Per alcune operazioni in fase di avvio, o in caso di particolare deterioramento della situazione, una task force per la specifica esigenza può essere attivata per monitorare lo scenario. Esiste una forma di coordinamento a livello di staff con la convocazione di appositi gruppi di lavoro per valutare le priorità e le attività da svolgere. Il DPKO non dispone di strutture di Comando e Controllo «Strategico» e non ha alcuna possibilità di gestire o manovrare unità nella dimensione aerea, né in quella navale, così come non dispone di alcuna capacità di intelligence per prevenire le situazioni ed avere un supporto nel processo decisionale, soprattutto in fase di prevenzione delle crisi e di gestione delle stesse. La funzione di intelligence, infatti, non appare adeguatamente strutturata e tutto ciò che è connesso con le informazioni è generalmente legato alle fonti aperte ed a quelle di-
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plomatiche. Tuttavia, l’esigenza di “conoscere” inizia ad essere percepita come una necessità per prevenire e pianificare in anticipo, invece di attendere lo sviluppo degli eventi. Generalmente il Comandante sul terreno ha ampia delega per la direzione delle operazioni, secondo le risoluzioni del Consiglio di sicurezza, riceve il conseguente CONOPS (Concept of operations), i Terms of Reference (TORs) ed è supportato nelle sue richieste, con una particolare attenzione a non eccedere nell’impegno delle risorse disponibili. In situazioni di crisi, il DPKO non dispone di alcuna “riserva strategica” con cui intervenire, sia per sostenere la missione, che per effettuare un’operazione di recupero secondo una pianificazione predisposta per situazioni contingenti. Sono allo studio varie ipotesi, ma nessuna ancora è pienamente concretizzata, anche per le difficoltà di trovare un ampio consenso nell’ambito di un organismo internazionale così complesso, quale è l’ONU, con visioni operative, a volte, non del tutto concordanti. L’esperienza di una cellula strategica è stata fondamentale per capire e sostenere che l’organizzazione interna deputata a gestire le missioni deve fornire direttive al passo con l’evolvere della situazione, senza dover attendere a lungo per la loro finalizzazione. Che la si chiami Strategic Military Cell o Integrated Operational Team ha poca importanza, purché tale struttura abbia rappresentanti qualificati, militari e civili, per tutti gli aspetti del moderno peace-keeping e non si richiedano ulteriori attività di “staffing” da parte di altri organi del DPKO o addirittura esterni. In sostanza, l’organo di comando a New York dovrebbe assumere sempre più le funzioni di un “tradizionale” Stato Maggiore2. Sul campo sarebbe, altresì, possibile fare un salto di qualità mettendo a disposizione, secondo
In tema, P. PICONE, “Il peace-keeping nel mondo attuale: tra militarizzazione e amministrazione fiduciaria”, in Rivista di diritto internazionale, 79/1 (1996); P. GARGIULO, “Le peace keeping operations delle Nazioni Unite. Contributo allo studio delle missioni di osservatori e delle forze militari per il mantenimento della pace”, Napoli, Editoriale scientifica, 2000; N. RONZITTI, “Comando e controllo nelle forze di pace e nelle coalizioni militari”, Roma, Franco Angeli Edizioni, 1999; G. CELLAMARE, “Le operazioni di peace-keeping multifunzionali”, Torino, Giappichelli Editore, 1999. Cfr. Atti del convegno promosso dal Centro Studi Difesa e Sicurezza “L’ONU e l’Italia: impegni e prospettive per la sicurezza”, Roma, 29 maggio 2007.
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In apertura: United Nations in Timor-Leste peace Sopra: Unità MONUC in uso al Department of Peacekeeping Operations (Copyright UNEP)
un calendario prestabilito, strutture precostituite di comando per le missioni del tipo “framework”, un’aliquota di personale permanente, analogamente a quanto avviene in ambito NATO. L’ONU avrebbe in più la possibilità di estendere il numero dei Paesi contributori, in modo da accrescere “l’accettabilità” politica delle strutture di comando nei vari teatri operativi. In senso generale, nell’ultimo decennio è stato previsto un aumento significativo delle risorse e la creazione di nuove strutture, al fine di fronteggiare le attività designate e garantire unitarietà di direzione degli interventi. All’interno della nuova articolazione, il lavoro del DPKO si focalizza sulla direzione strategica e sulla gestione e conduzione delle operazioni di peacekeeping. Il Department of Field Support (DFS)3, invece, fornisce sostegno negli ambiti personale, finanza, gestione finanziaria, tecnologie 3 4
informatiche e logistica. Il mandato del DPKO annovera anche un nuovo “Rule and Law and Security Reform Office”, oltre che un Ufficio per gli affari militari, che è stato potenziato.
Il percorso evolutivo verso la tendenza ad un ruolo guida da parte dell’ONU Il BRAHIMI Report del 20004 richiamava l’esigenza di fornire al DPKO la competenza e la capacità di planning strategico e l’analisi per le missioni di pace. La reale applicazione è stata inibita dal timore dei Paesi membri di perdere le redini del processo di decisionmaking, anche se, negli ultimi anni, si sono manifestati taluni segnali di cambiamento, con la volontà di dotare l’ONU di linee guida che vadano nella direzione di strutturare quella
Infra. Si tratta di uno studio sulle operazioni di pace delle Nazioni unite commissionato dal Segretario Generale ad un gruppo di esperti internazionali guidati dal suo consigliere di lunga data Lakhdar BRAHIMI.
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dottrina strategica finora mancata5. In seguito al citato report, le Nazioni Unite e gli Stati membri hanno introdotto una serie di misure volte a migliorare le attività di mantenimento della pace dell’ONU ed il Dipartimento è stato autorizzato ad incrementare lo staff del suo quartier generale per sostenere le operazioni. In particolare, sono stati rafforzati gli uffici dei consiglieri militari e di polizia ed è stata aggiunta un’unità di studi dei casi di peacekeeping per analizzare le lezioni e migliorare la condotta degli operatori di pace, pianificare i programmi di disarmo, smobilitazione e reintegrazione nonché sviluppare i mezzi per dare attuazione allo stato di diritto. Si è stabilito un meccanismo di finanziamento pre-mandato per assicurare che linee di bilancio fossero disponibili per l’avvio di nuove missioni e la base logistica del Dipartimento delle operazioni di pace a Brindisi6 ha ricevuto fondi per acquisire materiale di dispiegamento strategico. La formazione continua è stata rafforzata per fornire una capacità ulteriore di reazione rapida. Il DPKO ha riorganizzato il sistema di accordi per la messa a disposizione di truppe delle Nazioni Unite, compreso il personale militare e civile specializzato, il materiale e l’equipaggiamento disponibile per il peacekeeping da parte degli Stati membri. Il nuovo sistema (denominato UNSAS) fornisce ora forze che possono essere rese disponibili nel periodo compreso tra i primi 30 e 90 giorni dall’inizio di una nuova operazione. In particolare, nel Report BRAHIMI vengono riassunti i punti chiave della riforma del sistema del peacekeeping, prevedendo il cambiamento della cultura gestionale del Dipartimento, passando da un approccio reattivo ad un approccio proattivo, che sappia trarre il massimo vantaggio 5
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dalle capacità di ciascuna componente e migliori il coordinamento interdipartimentale. Inoltre, si è tracciato un ri-orientamento dei rapporti del Dipartimento con le missioni sul campo, attraverso il miglioramento dei sistemi di comunicazione, coordinamento e supporto, anche mediante lo strumento della delega. Non è un caso che il vademecum per le missioni di peacekeeping distribuito dal DPKO, ossia l’Handbook of United Nations on Multidimensional Peacekeeping Operations, non definisca il peacekeeping, ma fornisca una lista delle attività richieste al personale militare e civile impiegato in missioni “multidimensionali” di peacekeeping. Il compito di sviluppare ciò che fu inizialmente definita come “capstone doctrine” per le operazioni di pace spettava alla “Best Practices Sections” del DPKO. Il DPKO ha, inoltre, continuato a lavorare sullo sviluppo del concetto di una forza permanente di polizia, ad esplorare la gamma completa di opzioni realizzabili per reagire a situazioni di crisi nelle missioni esistenti ed a sviluppare un servizio di formazione integrata per assicurare un addestramento completo per tutto il personale militare, di polizia e civile. Un documento interdipartimentale del DPKO del 2006 contiene cinque obiettivi del Dipartimento, relativi al reclutamento del personale, alla dottrina, alle partnership con le altre organizzazioni regionali, alle risorse ed all’organizzazione interna, nel tentativo di recuperare il terreno perduto con la mancata definizione della “capstone doctrine”. Da questo punto di vista, viene affidato un compito importante alla Peacekeeping Best Practices Section e le relative risorse finanziarie per svolgere il proprio ruolo nell’individuazione di maggiori forme di integrazione multidimensionale delle missioni.
Cfr. A. PIGOLI, “La riforma delle operazioni di mantenimento della pace: Nazioni unite, organizzazioni regionali e nuove potenze emergenti”, CE.Mi.SS 2010. Istituita nel 1994, fa parte della Divisione Logistico-Amministrativa del D.P.K.O. dell’ONU. Il compito della UNLB si articola in ricevere materiale proveniente dalle missioni in chiusura o ridimensionamento, mantenere in condizioni di efficienza i cosiddetti “start up kits” (materiali necessari all’apertura di una nuova missione) ed operare da centro di smistamento delle telecomunicazioni satellitari.
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Department of Peacekeeping Operations in azione (Copyright Fotopedia)
Logo del Department of Peacekeeping Operations
Al maggio del 2006, il Dipartimento dirigeva 18 operazioni di pace in tutto il mondo, coinvolgendo quasi 89.000 uomini, tra polizia e personale civile. Il Dipartimento sostiene inoltre missioni politiche, come quella di assistenza ONU in Afghanistan, l’Ufficio ONU a Timor Est e l’Ufficio integrato dell’ONU in Sierra Leone. Rispetto al 2000, le truppe presenti sul campo sono aumentate di cinque volte. A parte gli Stati Uniti, l’ONU dispone oggi del più elevato numero di forze militari dispiegate nel mondo. Quando viene deciso di avviare un’operazione di pace, il Consiglio di sicurezza definisce di norma un mandato contenente i compiti della missione. Per avviare una nuova missione di pace o modificarne il mandato occorre il voto favorevole di nove dei quindici Stati membri del Consiglio di sicurezza. Il DPKO dirige e gestisce le missioni per conto del Segretario Generale, che ha il compito di riferire al Consiglio sul loro andamento. La maggior parte delle missioni sono guidate da un Rappresentante Speciale del Segretario Generale. Il DPKO affianca il Segretario Generale nella formulazione delle politiche e delle procedure per le attività di mantenimento della pace, redigendo raccomandazioni per avviare nuove missioni e gestire quelle in corso. Con la risoluzione autorizzativa della missione che ne definisce il mandato, viene anche delegata al Segretario Generale la direzione strategica dell’operazione e la conduzione degli aspetti logistici, in concreto gestite proprio dal suddetto
Dipartimento, guidato da un funzionario con il grado di Under-Secretary General. Una volta individuati i Paesi membri disponibili a fornire personale (militare e civile) ed equipaggiamento, viene definita la composizione della forza e nominato il Comandante. Stabilita l’operazione di mantenimento della pace, il Consiglio di sicurezza continua ad esercitare un ruolo di direzione e controllo politico e può decidere di prorogare o modificare il mandato delle forze, con il consenso delle autorità territoriali. In alcune situazioni, il Consiglio di sicurezza ha disposto l’autorizzazione all’uso della forza prescindendo dal consenso dello Stato ospitante: in questi casi le originarie operazioni di peacekeeping si sono tramutate in operazioni di peace-enforcement, aventi chiara natura coercitiva. I funzionari militari di più alto grado, gli Ufficiali di Stato maggiore e gli osservatori militari al servizio delle missioni dell’ONU, sono direttamente impiegati dalle Nazioni Unite. Le truppe di pace (i cosiddetti “caschi blu”) partecipano alle missioni di pace in base a condizioni accuratamente negoziate dai loro governi, i quali mantengono l’autorità e la responsabilità amministrativa sul proprio personale, anche quando esso agisce sotto il comando operativo dell’ONU. Analogamente, gli Stati membri mettono a disposizione i funzionari di polizia che, come gli osservatori militari, operano in qualità di “esperti in missione”, con fondi a cura delle Nazioni Unite. Il DPKO si è impegnato a garantire l’inte-
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e le richieste di assistenza. Il DPKO ha istituito grazione in tutte le aree funzionali del peaceunità territoriali per il controllo del rispetto keeping, dai negoziati alle riforme nel settore degli standard disciplinari e comportamentali: della sicurezza, dalle iniziative sulle mine antiuomo al riguardo, il personale deve partecipare ad un al rafforzamento dello stato di diritto. corso di formazione nelle regole di condotta Il Dipartimento ha l’obiettivo di stabilire una dell’ONU. Ad esempio, nell’ambito di talune struttura equilibrata tra uomini e donne: per le missioni in Africa, sono nomine a posizioni apistate redatte liste di luocali, è stata introdotta ghi non accessibili al una banca dati di canpersonale dell’ONU. didate provenienti da diInoltre, il DPKO collabora verse regioni del mondo. con i Paesi che mettono Le politiche di reclutaa disposizione il persomento hanno lo scopo nale militare per garandi eliminare le barriere tire l’applicazione delle che possano impedire raccomandazioni conteprogressione in carriera nute nel rapporto del o conservazione del pomarzo 2005 del Principe sto. In collaborazione con Zeid Ra’ad Zeid AL HUSgli Stati membri, sono SEIN, Consigliere Speciale state riviste le procedure del Segretario Generale per aumentare l’entità in materia di sfruttadel personale femminile mento e abusi sessuali. nelle missioni di pace, Da altra prospettiva, le anche nelle posizioni di recenti linee guida pubvertice, tra cui oggi spicca Personale femminile del Department of Peacekeeping Operations blicate dal Dipartimento contengono riferimenti la figura del Direttore del personale del DPKO. alle c.d. operazioni multifunzionali, che comSulla scorta dell’incidenza dello sfruttamento prendono attività di ricostruzione delle istituzioni, sessuale e degli abusi scoperti negli ultimi anni, la riforma degli apparati giudiziari, il monitoraggio il DPKO ha avviato ampie riforme in materia di del rispetto dei diritti umani ed il reintegro condotta, disciplina e responsabilità. nella società di ex combattenti grazie ai proA New York, il DPKO ha istituito al proprio grammi Ddr (Disarmament, demobilization and interno una task force per sviluppare linee guida reintegration). Ha anche pubblicato un documento al riguardo. Sul terreno, le operazioni di pace che tratta il tema del coordinamento civilihanno adottato una vasta gamma di misure per militari, adottando la seguente definizione: “il prevenire comportamenti illegittimi da parte coordinamento nelle Nazioni unite tra civili e del personale, proibendo rapporti sessuali con militari è il sistema di interazioni che coinvolgono prostitute e con minori di 18 anni e scoraggiando lo scambio di informazioni, il negoziato, l’evitare relazioni con “beneficiari” che, nel caso delle indesiderate interferenze reciproche (il cosiddetto operazioni di pace, includono tutti i membri de-confliction), il mutuo soccorso e la pianificadella popolazione ospitante. zione a tutti i livelli tra elementi militari e orgaSquadre di condotta sono state istituite nelle nizzazioni umanitarie, agenzie di sviluppo, pootto maggiori missioni di pace; inoltre, una rete polazione civile locale per raggiungere i rispettivi di strutture specializzate in tema di sfruttamento obiettivi”. Il DPKO ha istituito una Integrated e abuso sessuale facilita la ricezione di denunce
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Mission Training Cell che si prefigge di integrare le funzioni di formazione di militari, forze di polizia e civili in un’unica unità. Il documento “A New Partnership Agenda: Charting a New Horizon for UN Peacekeeping”, redatto dal DPKO nel 2009, è alla base del processo interno di sviluppo e revisione dell’agenda ONU. Obiettivo principale è la creazione di un piano politico relativo al mantenimento della pace che rifletta le prospettive di tutti i soggetti coinvolti a livello globale. Il documento, partendo dai precedenti tentativi di riforma del sistema di peacekeeping, si focalizza sulle nuove sfide che la “peacekeeping partnership” deve affrontare. Il Segretario generale, BAN KI-MOON, nel suo Rapporto Speciale al Comitato per le Operazioni di Peacekeeping del 2010, ha invitato i vari stakeholder del settore del mantenimento della pace a sviluppare una visione comune sugli strumenti necessari a rafforzare l’opera di peacekeeping, per consentire alle Nazioni Unite di svolgere effettivamente il proprio ruolo di sostegno alla pace ed alla sicurezza internazionale. Nell’ottobre 2010, il DPKO ha pubblicato un nuovo documento, “The New Horizon Initiative: Progress Report No. 1”, che fornisce una panoramica dei principali risultati del dialogo sul mantenimento della pace nel contesto del “New Horizon process”, nonché sui tentativi di migliorare le capacità ONU nel settore. La visione di una maggiore effettività ed efficienza in tale ambito è ulteriormente ribadita nel Progress Report No. 2 del dicembre 2011, diretto verso tutti i membri della peacekeeping partnership. Per quanto riguarda gli obiettivi della riforma del sistema di mantenimento della pace, particolare importanza viene dedicata anche alla raccolta di informazioni sul campo ed allo sviluppo di un modello integrato di analisi. Lo scopo è quello di colmare il gap operativo già sottolineato nella redazione degli aspetti generali. E’ indubbio che negli ultimi anni sia emersa la necessità di sviluppare la raccolta e l’analisi 7
delle informazioni operative e la condivisione di queste tra DKPO, Head-Quarters delle missioni e personale sul campo. La cosiddetta Peacekeeping Intelligence (PKI) risulta sempre più una figura prioritaria delle nuove missioni di pace dell’ONU e dei vari soggetti interessati (singoli Paesi, coalizioni di Stati o organizzazioni regionali). Ciò si deve alla circostanza che sia le missioni di peacekeeping che di peace-enforcement riguardano situazioni e contesti diversi da quelli delle missioni tradizionali. Pertanto, conoscenza del territorio, degli attori coinvolti e degli interlocutori diventa un elemento prioritario a garanzia del successo di una missione7.
L’affiancamento del Department of field support In una lettera inviata nel febbraio del 2007 all’Assemblea generale, nel quadro delle consultazioni sull’iniziativa di ristrutturazione del Dipartimento per le Operazioni di Peace-keeping, il Segretario generale BAN KI-MOON ha indicato una serie di misure, tra cui la suddivisione dell’attuale DPKO in un Dipartimento per le Operazioni di Pace (Department of Peace Operations) e un Dipartimento per il supporto sul campo (Department of Field Support). La proposta di riforma interviene in una fase di massima espansione delle attività di peace-keeping, il cui livello di personale dispiegato ha raggiunto il suo apice storico con circa 100.000 unità operative. Nel giugno del 2007, l’Assemblea generale dell’ONU ha approvato il piano generale di ristrutturazione interna che ha visto la riorganizzazione del DPKO e l’istituzione del DFS, distaccato, che fornisce sostegno a 32 fra operazioni di peacekeeping e missioni politiche speciali (dirette dal Dipartimento per gli Affari Politici), con finalità politiche o di mantenimento della pace. Tutto ciò con l’obiettivo finale di rafforzare il Dipartimento per le Operazioni di Peacekeeping. Più precisamente, con le risoluzioni dell’Assemblea
Ibidem.
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Generale nn. 61/256 e 61/257 è stata istituita una Cellula Strategica Militare dedicata ad UNIFIL presso il DPKO che risponde a tre esigenze: coinvolgere i vari Paesi contributori di truppe nell’adozione delle decisioni a carattere strategico, assicurare il raccordo effettivo tra le forze sul campo ed il vertice ONU e portare maggiore expertise di tipo militare all’interno del Segretariato dell’ONU. Il Dipartimento per il supporto sul campo fornisce sostegno alle missioni per la promozione della pace e della sicurezza relativamente al finanziamento, logistica, informazione, comunicazione e tecnologia, amministrazione delle risorse umane. Per avere successo, infatti, le operazioni – siano esse di peacekeeping o missioni politiche – debbono poter contare su un efficace sostegno logistico, gestito da uno staff in grado di far fronte alle complesse richieste derivanti dai rispettivi mandati. Il Dipartimento è stato creato per rendere autosufficienti le missioni sul campo, dato che il teatro di tali operazioni è perlopiù situato in luoghi remoti, pericolosi, privi di infrastrutture e spesso ostili alla presenza delle Nazioni Unite. Poiché i mezzi necessari (aerei, veicoli, tecnologia), così come il personale, hanno provenienza eterogenea – alcuni sono forniti direttamente alle Nazioni Unite, altri dagli Stati membri, altri ancora provengono da contratti con privati – è compito non secondario del Dipartimento di operare una necessaria integrazione per ottenere un utilizzo efficiente delle risorse. La funzione di sostegno logistico deve tenere conto del fatto che nel ciclo di vita di una missione il mandato e le esigenze operative mutano in relazione agli sviluppi della situazione in loco; le prospettive del sostegno devono ad esempio considerare la necessità di una transizione senza traumi tra il peacekeeping e altri tipi di missione (missioni politiche o di peacebuilding). Nel Rapporto del Segretario generale del gennaio 2010 (Global field support strategy) viene delineata la strategia globale al sostegno logistico che,
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sulla base dell’esperienza acquisita, si propone di riorganizzare i servizi di assistenza alle missioni all’estero. Si tratta di un programma integrato con lo scopo di raggiungere quattro obiettivi centrali, focalizzati sull’operatività, e due obiettivi legati alla presenza delle missioni sul territorio. Questi ultimi, in particolare, rispondono al pieno utilizzo degli investimenti ed alla riduzione dell’impatto ambientale delle varie missioni. Specifico rilievo assume, nella prospettiva italiana, l’obiettivo di trasformazione della base logistica di Brindisi in un centro di servizi globale per le comunicazioni, il sostegno logistico ed i servizi amministrativi non strategici. In seguito alla creazione di un Integrated Training Service (IT Servizi integrati di addestramento), il Dipartimento di Peacekeeping ha deciso di collocare la Training Delivery Section (Sezione di Addestramento) a Brindisi. Nei recenti dibattiti presso la Commissione Speciale per il peacekeeping ed al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il Direttore del Dipartimento (Under Secretary General) ha rimarcato lo sviluppo da parte del DPKO e del DFS del “nexus paper”, che si caratterizza sostanzialmente attraverso la definizione di tre direzioni delle peacekeeping operations: aiutare i Governi a stabilire le priorità, rendere capaci gli attori nazionali ed internazionali ad incrementare i compiti di peacebuilding, estendere compiti di peacebuilding da svolgere autonomamente. Viene inoltre evidenziata l’importanza di aiutare i Paesi a creare condizioni per una pace sostenibile, offrendo il Dipartimento una comune piattaforma che coniuga politica, giustizia, diritti umani, protezione di bambini e di persone comunque bisognose, attraverso l’expertise di militari, polizia ed esperti di settore e consolidate capacità operative e logistiche. Lo svolgimento delle suddette attività ha inevitabilmente postulato una struttura complessa riprodotta nelle sue più significative articolazioni nel seguente diagramma. Al riguardo, occorre tuttavia sottolineare che l’architettura di comando e controllo e, soprattutto, le potenzialità operative necessiterebbero
Struttura del Department of Peacekeeping Operations
di ulteriori perfezionamenti8. È dunque presumibile che il Dipartimento per le operazioni di pace in futuro assumerà sempre più un ruolo centrale nell’ambito del peacekeeping. Ciò per due ordini di ragioni: da un lato, le operazioni di mantenimento della pace gestite dalle Nazioni Unite hanno evidenziato un costante incremento; da un’altra prospettiva, le attuali missioni richiedono un’attività direttiva di livello qualitativo sensibilmente superiore rispetto al passato. Per tale ragione è in corso un mutamento della filosofia, del ruolo, delle competenze e dei mandati delle operazioni di mantenimento della pace9. Ne sono una riprova le recenti linee guida pubblicate 8
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dal DPKO che contengono precisi riferimenti alle cosiddette “operazioni multifunzionali”, i cui mandati comprendono attività quali la ricostruzione delle istituzioni, la riforma degli apparati giurisdizionali, il monitoraggio del rispetto dei diritti umani ed il reintegro nella società di ex combattenti grazie ai programmi Ddr (Disarmament, demobilization and reintegration). Si tratta di obiettivi di grande rilievo che indubbiamente, allorquando verranno conseguiti nella loro completa configurazione, faranno del Dipartimento, ancor più di oggi, uno strumento operativo indispensabile all’assolvimento delle missioni essenziali delle Nazioni Unite.
Si porta ad esempio la ridotta capacità di una risposta flessibile adattata in base alla situazione concreta per la mancanza di appropriati elicotteri. Ma si sta esplorando un’altra possibilità per ridurre il gap nelle capacità operative, ricorrendo all’uso della moderna tecnologia: il Dipartimento sta conducendo uno studio di fattibilità per l’uso di aerei senza pilota. Si vedano gli Atti del convegno “L’ONU e l’Italia: impegni e prospettive per la sicurezza”, cit.
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Forze Armate
INFO OPS & COUNTERINSURGENCY INTERCONNESSIONI TRA AZIONI CINETICHE ED EFFETTI NEL CAMPO DELLE INFORMATION OPERATIONS DI
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MARCO STOCCUTO
“Non si può non comunicare” Paul Watzlawick Più semplicemente possiamo dire che: “ … dovremmo preoccuparci molto meno di come comunicare le nostre azioni … e molto di più di cosa le nostre azioni stanno comunicando.”
a soluzione concettuale esposta nell’articolo, per quanto riconducibile in gran parte agli aspetti dottrinali alleati (peraltro in corso di aggiornamento), non vuole rappresentare il pensiero dottrinale nazionale sull’argomento specifico, le cui competenze sono attestate presso lo Stato Maggiore della Difesa III Reparto/Centro Innovazione della Difesa. Essa vuole invece descrivere in forma semplificata un quadro generale relativo alla materia, sviluppato dall’autore sulla base di esperienze e contenuti acquisiti, ed in tal senso elaborati e sviluppati. Il fine è quello di proporre spunti di discussione ed analisi in un settore di alta valenza ed interesse nell’ambito delle operazioni odierne di stabilizzazione e contro insurrezionali (Counterinsurgency). Peraltro tali considerazioni non vogliono sovrapporsi ma bensì integrare ed ampliare quanto già presentato dall’autore in un articolo precedentemente pubblicato1 Come si connotano le Information Operations2 (Info Ops) nella condotta di operazioni di Coun-
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“Le information operations: uno strumento per influenzare i processi decisionali”, apparso sul numero 4/2009 “Informazioni della Difesa” Info Ops è una funzione militare preposta al coordinamento di attività militari collegate con le informazioni ed I sistemi preposti alla loro trasmissione al fine di creare effetti desiderati sulla volontà, comprensione e capacità dell’avversario, di potenziali avversari ed altri gruppi obbiettivo approvati dal NAC (essi possono includere decision maker, gruppi etnici e/o culturali, elementi della comunità internazionale ovvero coinvolti nelle attività informative dell’Alleanza), al fine di conseguire gli obbiettivi e la missione dell’Alleanza stessa (AJP-3.10, Allied Joint Doctrine for Information Operations e MC 422/3 NATO Military Policy on Information Operations).
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terinsurgency3 (COIN) o nel quadro di operazioni di stabilizzazione e ricostruzione (S&R)4? Che cosa significa lottare per la credibilità e la legittimità agli occhi della popolazione locale contrastando l’insorgenza locale senza alienarsi i cuori e le menti? Quali sono le relazioni tra la componente politica e quella militare nel contesto generale dell’Information Strategy5 e chi ne detiene la responsabilità? Siamo sicuri che si stia fornendo una visione strategica inequivocabile a tutti i livelli da quello strategico fino a quello tattico? Allorché azioni tattiche implichino effetti informativi di livello strategico (positivi o negativi che siano), qual è il livello di responsabilità del comandante tattico? Ed infine la domanda più critica: i comandanti a tutti i livelli, ma soprattutto a livello tattico sono preparati a prendersi i rischi di perdite tra le proprie forze per condurre operazioni finalizzate al conseguimento di effetti informativi? Da sempre la componente militare è stata addestrata a prevalere nell’arte degli scontri fondati sulla forza, senza alcuna capacità nel riconoscere i legami tra le azioni cinetiche e gli effetti nel campo informativo che le stesse generano, men che meno all’impatto che questi possono avere nell’intento generale del piano politico-strategico che le ha determinate. Nell’era della globalizzazione le Informazioni rappresentano un assetto strategico da cui tutte le operazioni militari dipendono. In tale 3
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quadro l’Information Superiority6 è divenuto molto di più della semplice abilità di gestire le informazioni per un’accurata e tempestiva applicazione della forza. Essa infatti rappresenta l’abilità di competere in un ambiente complesso e globalmente interconnesso dove azioni tattiche, seppur condotte con successo secondo precise procedure, rischiano seri e compromettenti stravolgimenti o stalli politici laddove comunicate non coerentemente. Ecco quindi l’importanza di sistematizzare l’approccio militare “convenzionale” con azioni coordinate nella sfera informativa. Si potrebbe addirittura azzardare l’ipotesi che sia giunto il momento in cui le Info Ops debbano evolvere dal livello di mera funzione di coordinamento7 in supporto alla manovra a competenza centrale. Come citato dall’ammiraglio Michel G. Mullen potrebbe essere il momento di passare: “da un classico ordine d’operazioni con un annesso Info Ops ad un Ordine Info Ops supportato, tra gli altri, da un annesso Operazioni”! Oggi giorno ai militari è sempre più spesso richiesta la capacità di sapersi rapportare con i media mentre impegnati ad operare in un ambiente operativo; la stessa componente militare è impegnata in molteplici contesti nella medesima area d’operazioni, quale che fosse un mosaico, dove contrastare gli Insurgents in un settore, garantire sicurezza e stabilità in un altro o favorire le operazioni di ricostruzione in un terzo.
Quelle azioni military e paramilitary, politiche, economiche, psicologiche e civili intraprese per sconfiggere ogni forma di insorgenza (AAP-6 Glossario NATO dei termini e delle definizioni) – COIN è definita come l’insieme di attività politiche, economiche, sociali, civili, legali militari e psicologiche intraprese con l’intento di sconfiggere ogni forma di insorgenza ed indirizzate ad ogni forma di accusa (AJP-3.4.4, Allied Joint Doctrine for Couterinsurgency – COIN) S&R: Stability and Reconstruction Operations, peraltro tale secondo acronimo viene accettato ed utilizzato nella NATO AJP-3.4.5 “Allied Joint Doctrine for Military Support to Stabilization and Reconstruction” nel puntualizzare che la sfera militare fornisce solo un contributo alle attività di stabilizzazione e ricostruzione in un contesto di lead non militare e in un ambito di “Comprehensive Approach”; Information Strategy: Direttive Politico-strategiche emanate dal North Atlantic Couincil (NAC) al fine di massimizzare gli effetti desiderati in tutti gli aspetti derivanti dalle operazioni ed attività della NATO (MC 422/3) . In particolare il NAC fornirà direttive generali sia per gli sforzi diplomatici della NATO così come direttive specifiche di carattere strategico e politico per le Military Infomration Activities della NATO (AJP 3.10) Information Superiority: l’ abilità di un attore di raccogliere, processare e disseminare informazioni in un dominio, che confrontata con gli altri attori nello stesso ambito consente l’acquisizione di un temporaneo vantaggio (NATO Bi-SC Info Ops Ref. Book). AJP-3.10: Allied Joint Doctrine for Information Operations e MC 422/3 NATO Military Policy on Information Operations.
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In apertura: Soldati del North Central Information Operations Center di Coraopolis Sopra: Provincial Reconstruction Team Zabul - information operations officer
Il concetto di “puzzle” espresso poc’anzi, obbliga a pensare sempre in termini di “effetti informativi”, includendo in ciò le conseguenze indesiderate delle nostre azioni sia nel campo non cinetico sia in quello cinetico. Quanto sopra peraltro si sviluppa in un quadro generale dove la battaglia per i cuori e le menti è essenziale per guadagnarsi il consenso della popolazione locale. La linea operativa collegata alla volontà ed alle modalità per influenzare favorevolmente atteggiamenti e comportamenti (“Influence8”) di gruppi obbiettivo approvati, è divenuta quella portante e più sostanziosa nel piano generale. Tuttavia è naturale chiedersi come sia possibile valutare correttamente già nell’ambito del processo di pianificazione i rischi di un fallimento strategico quale risultato inaspettato di un’azione cinetica? Come si può evitare che l’applicazione della forza divenga un comportamento stig8
matizzato spostando il conflitto dal campo di battaglia alla guerra di idee? L’obbiettivo è quello quindi di utilizzare le Info Ops per favorire ed attrarre il consenso della popolazione indigena prevenendo il rischio di confondere il messaggio o di causare “informazioni fratricide”. In teatro d’operazioni il compito di combattere l’avversario in maniera asimmetrica richiede di istituire la Sicurezza, trasformare le basi del Governo, estendendo la Legittimità della nazione ospitante. In tale quadro di Counterinsurgency Operations le Info Ops rappresentano, lo sforzo principale a livello tattico, operativo e strategico, con l’obiettivo di vincere la guerra delle idee. Al tal fine è tuttavia necessario vincere la fiducia e la lealtà della popolazione affinché in modo spontaneo essa decida di supportare l’Host Nation e la presenza straniera piuttosto che gli Insurgents. Ecco perché la lotta si
Il termine Influence Operations non è contemplato nella dottrina NATO, tuttavia è accettato da alcune Nazioni, pertanto si indica la semplice accezione di Influence come: capacità produrre un effetto sul carattere o sul comportamento di cose o persone ovvero l’effetto stesso di per sé (Oxford English Dictionary).
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Soldiers training in Military Information Support Operations
incentra soprattutto nel definire un’agenda che aiuti a presentare legittimità e credibilità attraverso le azioni proprie e degli alleati in maniera benevola agli occhi della popolazione, discreditando quelle degli insorgenti. Le Info Ops devono qui essere considerate al di là del semplice insieme delle capacità dottrinali9 finora prese in considerazioni nel processo di shaping delle forze opposte sul campo di battaglia. Piuttosto possiamo affermare che tutto ciò che la componente militare fa o dice in teatro diviene de facto una Information Operation10: ogni azione ed ogni parola infatti crea degli effetti informativi nella percezione della popolazione, siano essi voluti o meno. Tra l’altro l’odierno Mondo Globale dell’Informazione che livella il campo della comunicazione, 9
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favorisce l’avversario nella sua condotta di lotta assimetrica e complica il quadro generale del messaggio proposto, a causa della stretta interconnessione esistente tra i differenti audiences ed il tempo reale in cui i media sono in grado di riportare il messaggio stesso. “Sareste in grado di riconoscere una rivoluzione se ne foste parte in causa?”11 L’ambiente dell’informazione globale è divenuto il campo di battaglia in cui la tecnologia, viene utilizzata per dispensare contenuti critici e persuasivi al fine di modificare la percezione, gestire le opinioni e controllare i comportamenti. Questo nuovo campo di battaglia si focalizza su quell’area grigia ed indeterminata delle menti dove si formano le opinioni che influenzano poi le scelte decisionali. La più efficace, se non unica, arma in questo campo è rappre-
Psychological Operations (PSYOPS); Electronic Warfare (EW); Military Deception (MILDEC); Computer Network Operations (CNO); Operations Security (OPSEC), Key Leader Engagement (KLE) e Presence, Posture e Profile (PPP). Sempre nella AJP 3.10 si fa riferimento a tutti gli “strumenti, tecniche e capacità” utilizzate in supporto agli Information Objectives inserendo tra l’altro anche: Physical Destruction, Information Security e Civil-Military Cooperation, con una relazione, anche se con ambiti nettamente distinti, con il Public Affairs. RAND. The Zapatista Social Netwar in Mexico, Washington, D.C.: RAND Corporation, 1996, Pg. 45.
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sentata dall’informazione stessa, e dagli strumenti per veicolarla. Il successo in questa rivoluzione informativa è rappresentato dalla trasparenza e dall’immediatezza con cui si è in grado di coprire gli eventi sottolineando in tal modo l’importanza e l’impatto delle Info Ops. “C’è una guerra là fuori amico mio. Una Guerra Globale. E non importa chi avrà il maggior numero di proiettili. Importerà chi avrà il controllo dell’informazione. Cosa sentiremo e cosa vedremo, come lavoreremo e cosa penseremo. Tutto girerà attorno all’informazione”12. Molti si chiedono cosa ha indotto cambiamenti tali da rendere le Info Ops così innovative e differenti da ogni recente arma o dottrina. Innanzitutto è bene ricordare che le Info Ops non sono un’arma di per sé, ma piuttosto un processo; un modo di pensare gli aspetti relazionali intercorrenti tra i vari attori che hanno un ruolo nel Teatro d’Operazioni; un facilitatore o moltiplicatore di forza in grado di aumentare le possibilità di un Comandante di plasmare l’ambiente operativo13. Le Info Ops rappresentano soprattutto una metodologia di pianificazione finalizzata a supportare l’uso tradizionale della forza, dal livello strategico a quello tattico, proponendo una strategia atta a delineare i parametri di una campagna militare dove è lo strumento della forza tradizionale quello che deve supportare il conseguimento degli effetti in funzione del raggiungimento degli obbiettivi. Le Info Ops consentono tutto ciò attraverso l’uso di strumenti di pianificazione atti a sincronizzare, sinergizzare e deconflittare attività, favorendo nel contempo l’integrazione orizzontale tra agenzie interministeriali competenti. 12 13
In quest’era dell’informazione, Networks ed Organizzazioni Internazionali dall’architettura interconnessa, stanno sottraendo aree di potere agli Stati Nazionali. Piccoli gruppi tecnologicamente ben organizzati sono in grado di condurre attacchi capaci di modificare addirittura linee politiche. Accesso ed interconnettività, inclusa la disponibilità della Banda Larga, ne sono il benchmark. La verità e la trasparenza sono gli approcci che devono essere utilizzati sia nel privato che nelle organizzazioni governative al fine di assicurarsi il successo nel lungo periodo; i fusi orari hanno maggior valenza dei confini. In tale quadro potremmo definire il Potere come: “La capacità di un elemento A di indurre un elemento B a fare qualche cosa che B altrimenti non farebbe”. Gli elementi chiave per acquisire questo potere includono: • linee di comunicazione aperte e di grossa capacità dove la velocità è essenziale; • limitata se non totale assenza di censura dove è il singolo individuo il responsabile del controllo del proprio flusso informativo; • la verità e la qualità dell’informazione vengono sempre a galla, ma non inizialmente; • progressivo indebolimento degli Stati Nazionali a favore del consolidamento dei grossi networks Al di là di ciò che si possa credere, l’esplosione tecnologica di computer, telecomunicazioni e media ha in un modo o nell’altro modificato la nostra percezione del potere. Tuttavia i concetti tradizionali di forza militare, prodotto interno lordo, popolazione, energia, territorio e risorse naturali hanno
Sneakers, movie, director: Phil Alden Robinson, 1992 la dottrina italiana, in tal senso, è in linea con il dettato dottrinale NATO, con la specifica, ferma determinazione di non sviluppare attività di influence e di PsyOps nei confronti di “friendly public opinion”. Tale attività, infatti, secondo il documento MC 402/2 NATO Military Policy on Psychological Operations, può essere applicata solo nei confronti di “approved audiences” da parte del NAC, o dal livello politico militare, ed è chiara la proibizione di condurre attività nei confronti di “international press, NATO/Coalition Nations, Allied/Coalition forces, or civilian audiences outside the JOA”
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Se vogliamo analizzare come vincere la pace nelle operazioni di Counterinsurgency (COIN) e in attività di Military Support to Stabilization and Reconstruction (S&R), è necessario inquadrare il problema ricorrendo a 12 specifiche osservazioni • Nelle operazioni di Couterinsurgency il Centro di Gravità (CoG) è rappresentato dalla popolazione e non dagli insorgenti. Un movimento d’insurrezione richiede il consenso della popolazione locale per tutte le forme di intelligence e di supporto logistico: dal cibo ai rifornimenti attraverso tutte le forme di protezione al movimento stesso. Questo supporto è spesso dato prontamente quando il gruppo è nativo e sostiene un impegno di “lotta a favore della popolazione”. La Controinsurrenzione non avrà modo di prevalere sugli insorti senza ottenere a sua volta l’aiuto e l’assistenza della popolazione locale. • Il Centro di Gravità dovrà sempre essere inequivocabilmente ed esplicitamente determinato al fine di identificare lo sforzo principale. Se il CoG è rappresentato dalla popolazione locale per i quali sia gli insorgenti che la contro insurrezione stanno competendo, allora lo sforzo principale dovrà essere quello di conquistare i cuori e convincere le menti. • L’obbiettivo principale è quello di attrarre la popolazione dalla propria parte. La battaglia è per “i cuori e le menti” della popolazione locale e la vittoria si ottiene quando la stessa supporta voi e la host nation piuttosto che gli insorti. Tuttavia questa cooperazione deve essere volontaria e spontanea pena l’impossibilità di conseguire stabilità e ricostruzione. • Il vero “fuoco” è quello informativo. Nelle operazioni di COIN e attività S&R il focus deve essere orientato maggiormente a discreditare la strategia ed i metodi degli insorti agli occhi della popolazione piuttosto che pensare di sconfiggere il movimento d’insurrezione attraverso effetti cinetici. I’impegno è quello di discreditare la strategia degli insorti così come i loro metodi agli occhi della popolazione. Gli insorti sono spesso fratelli e parenti di quella parte di popolazione che stiamo cercando di influenzare. Eliminare gli insorti non aiuta certo a vincere i cuori e le menti, ma piuttosto ad alimentare ulteriormente il movimento con nuove reclute. La “”vittoria” si deve appoggiare sulla capacità di convincere la popolazione (se non addirittura gli insorti stessi) che il nostro sistema è il sistema migliore ed i nostri scopi sono i più vantaggiosi. Ovviamente ciò richiede che nel contempo scopi e metodi dell’insurrezione vengano discreditati. In tale quadro l’uso degli strumenti dell’informazione sono critici … e l’attenzione deve essere maggiormente orientata più sugli effetti strategici che sulle azioni tattiche. Nel contempo il nostro modo sarà attrattivo solo se percepito dalla popolazione come allineato con i suoi bisogni, aspettative ed obbiettivi. • Gli Insorti hanno un vantaggio iniziale: la consapevolezza che la battaglia è innanzitutto per conquistare la lealtà ed il supporto della propria popolazione. Il loro concetto di fuoco è prioritariamente informativo e politico, ed in tal senso sono organizzati per la lotta. Gli insorti usano anch’essi mezzi cinetici, ma sostanzialmente solo per conseguire effetti informativi e politici presso la popolazione. Ad esempio acquisire adesioni perseguendo coraggiosi azioni fisiche il cui messaggio è “la difesa della popolazione contro il Golia invasore” o per terrificare quelli che supportano (etichettati come collaboratori) le forze di liberazione (occupazione) ed in tal modo minare la pace e la sicurezza promessa dalle attività S&R. Inoltre gli insorti capitalizzano anche sulle azioni cinetiche intraprese dalle nostre forze militari sfruttando gli effetti informativi conseguenti a proprio vantaggio. La loro abilità in tal senso è favorita dal fatto che spesso i pianificatori militari trascurano la pianificazione di contingenza orientata a mitigare o sfruttare sotto il profilo informativo gli effetti delle azioni cinetiche, ovverosia il saper spiegare le motivazioni collegate a determinate azioni; il rassicurare la popolazione ed il gestire gli effetti informativi che queste azioni generano. Questo vacuum informativo sia antecedente che susseguente all’azione offre una grande opportunità agli insorti. Essi possono in tal modo dominare le risultanze di questo vuoto con storie di martiri eroici o di vittime civili, che spesso riecheggiano profondamente nell’ambito dell’ambiente culturale locale come forme di resistenza da parte della popolazione occupata minando la legittimità della nostra azione fisica. • Lo svantaggio del nostro approccio: le Info Ops continuano ad essere focalizzate più sul supporto alla vittoria fisica a livello tattico che sul creare degli effetti informativi di livello strategico. Nella realtà la componente militare non è affatto organizzata e supportata con risorse atte a combattere con decisione una guerra info-centrica. Gli sforzi continuano ad essere orientati a contrastare il conflitto su un piano fisico a livello meramente tattico. Nelle operazioni di stabilizzazione, l’essenza di un operazione è information-centrica.
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L’attuale approccio è ancora totalmente fisico o cinetico-centrico considerando gli aspetti informativi semplicemente quale un supporto aggiuntivo. Anche nelle operazioni di Stability l’attività tattica deve essere Information-centrica. Per fare ciò è essenziale concentrarsi sulle implicazioni derivanti dalle modalità di condotta delle operazioni, della scelta dei target e di come le capacità informative sono gestite. La componente militare non può comunque operare sconnessa da tutte le altre componente del potere nazionale con le quali deve coordinarsi nel quadro delle operazioni COIN e attività S&R. La prospettiva degli effetti informativi nelle operazioni COIN e attività S&R, sfuma i confini tra i livelli strategico e tattico, richiedendo coordinazione di tutte le dimensioni del potere nazionale – Diplomatico, Informativo/Interno, Militare ed Economico (DIME), al fine di realizzare attraverso gli effetti informativi l’End-State prefissato. La commistione dei livelli dal tattico allo strategico, sotto il profilo informativo richiede un grosso sforzo di coordinazione, e soprattutto delle linee guida inequivocabili che, emanando dal livello politico, possano fornire le adeguate direttive alla componente militare. I tre livelli Tattico, Operativo e Strategico possono essere rappresentati come tre cerchi che intersecandosi vedono le operazioni prevalentemente in un’area che sia comune a due se non a tutti e tre i livelli, anche perché gli stessi tendono sempre più a sovrapporsi. Ecco perché diviene necessario smussare i contrasti sotto il profilo del quadro informativo d’insieme, al fine di limitare le resistenze tra le diverse comunità nella definizione di chi trasmette cosa a chi e quando. Un Information Strategy efficace richiede un end-state chiaramente definito e unanimemente compreso dalle varie componenti. La cosa principale ai fini dello sviluppo di una Information Strategy risiede in una chiara ed inequivocabile definizione del significato di vittoria. Una politica nazionale si estrinseca nella definizione di una Information Strategy capace di permeare con una risposta chiara a questo quesito in modo inequivocabilmente comunicabile tanto al audience domestico, quanto ad alleati, avversari ma soprattutto alla popolazione locale. La difficoltà in questo contesto risiede tuttavia nel fatto che l’end-state identificato, al fine di una riconosciuta legittimità e credibilità, deve coincidere con interessi ed desideri della detta popolazione locale. La sfida più impegnativa per le Operazioni COIN/S&R è quella di convincere la popolazione locale che la nostra presenza, la nostra agenda e quella delle forze locali ed alleate, offrono un futuro decisamente più credibile e legittimo di quanto possano offrire gli insorgenti. Stabilizazione e Ricostruzione richiedono che la popolazione abbia fiducia nella nostra presenza e nella nostra agenda e soprattutto sia indotta ad acquisire la consapevolezza che, attraverso l’ampia cornice di sicurezza che possiamo instaurare, siamo in grado ed impegnati ad implementare un’agenda più legittima e credibile di quella degli insorti. E’ chiaro che il fatto stesso che esistano degli insorti e che essi trovino protezione presso la popolazione locale, significa che qualche cosa nel piano di comunicazione della nostra legittimità e credibilità presso certi gruppi va rivisto e corretto. Per vincere la pace è indispensabile attrarre a sapere tenere dalla nostra parte la popolazione. La priorità degli effetti informativi: qualunque cosa si faccia o si dica essi hanno un impatto drammatico sul modo in cui la popolazione percepisce la nostra legittimità. La legittimità e la credibilità della nostra presenza dipendono da alcuni elementi percettivi quali: come la popolazione indigena vede le motivazioni che hanno spinto la nostra presenza; come essa valuta le cose che si è promesso di conseguire; quanto coerentemente e apprezzabilmente le azioni conseguono alle promesse fatte e soprattutto quanto di ciò che si offre incontra le aspettative, desideri ed obiettivi della popolazione indigena. Tutto ciò comporta che ogni cosa si faccia od addirittura non si faccia, dal livello Teatro a quello del “three block war”: dalla scelta dei target da attaccare fino a ciò che fanno o dicono i nostri soldati, rappresenta un’interazione con la gente nella strada in grado di indurre effetti informativi tali da rinforzare o minare la legittimità e credibilità percepita dalla popolazione. L’imperativo risiede nella risonanza del messaggio: nelle Operazioni COIN/S&R la predominanza del messaggio non è data dalla sua pervasiva presenza, bensì da quanto trova risonanza e sedimento nella popolazione locale. Si più anche saturare tutti i canali informativi promuovendo i buoni propositi e le belle iniziative intraprese a favore della popolazione, tuttavia se questo messaggio non ha senso per la popolazione locale in quanto non sentito come un problema proprio o poiché non affronta problemi e aspettative oggettive, tale messaggio non avrà eco e ripercussione alcuna, lasciando l’audience totalmente indifferente. E’ necessaria una coerenza e consistenza di messaggi che sia trasversale a tutte le componenti ed attori governativi: tutti i piani, tutte le azioni di una campagna Info Ops devono essere considerati in un’unica prospettiva informativo - strategica. I messaggi (incluse le azioni) devono in tale quadro essere consistenti e coerenti trasversalmente a tutte le componenti del potere al fine di prefigurare gli effetti sulla percezione ambientale della popolazione ed i conseguenti comportamenti indotti.
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continuato a dominare gli equilibri del potere. Queste risorse caratterizzanti il primato di un paese ancora contano, tuttavia sono sempre più dipendenti dagli aspetti dell’Information edge14. Tra l’altro il potere dell’Information benché difficile da caratterizzare, attraversa trasversalmente tutti gli altri aspetti e risorse del potere in tutte le sue connotazioni: militare, economico, sociale e politico, a volte limitandone ed a volte amplificandone la forza. L’Information Technology, nella sua accessibilità diffusa, è divenuta fondamentale sia per l’applicazione del potere sia come movimento in grado di sfumare gli effetti e l’applicazione dello stesso. Essa favorisce e contribuisce l’integrazione globale del mondo dell’economia e la diffusione del vento di libertà, divenendo nello stesso tempo sempre più cruciale sia per la componente militare sia per le altre forme di potere. La sfera informativa è così divenuta un ambiente aperto che nessun attore è in grado di controllare nella sua totalità, cosicché qualunque messaggio può emergere. Bisogna quindi iniziare a pensare come inserire le nostre informazioni in questo ambito affinché esse possano prevalere. Le nuove tecnologie, in particolare quelle multimediali offerte da Internet, sono prontamente accessibili ad una moltitudine di desiderosi produttori di informazioni, consentendo praticamente a chiunque di condurre delle Information Operations di una certa sofisticazione, per quanto condotte con materiali di basso livello tecnologico e tuttavia in grado di raggiungere un vastissimo audience. Tutto ciò che serve sono 500 Euro di tecnologia; la determinazione di divenire un attore in questo territorio ed un messaggio che possa apparire legittimo e credibile ad un gruppo obbiettivo. 14
Bisogna allora chiedersi come poter vincere la pace nelle operazioni di Counterinsurgency e di Stabilization e Reconstruction. Vediamo alcune considerazioni: La lotta, che normalmente si disputa nei vari consessi di discussione, verte attorno alla comprensione di quali siano le competenze e soprattutto chi abbia la primazia nei diversi aspetti informativi e le diverse connessioni necessarie a poter vincere la pace in uno scenario misto di COIN e S&R, attività che richiede di combattere gli insorgenti, senza nel contempo perdere i cuori e le menti della popolazione. Parallelamente, tuttavia è necessario implementare la sicurezza e facilitare lo sviluppo e la funzionalità di un governo con tutte le sue correlate istituzioni ed i suoi meccanismi funzionali. In tale quadro possiamo identificare tre temi chiave: • le sfide introdotte dall’appiattimento del campo di battaglia nel nuovo Mondo Globale dell’Informazione, rinforzano gli avversari e precludono un dominio della sfera informativa; • l’attuale natura del campo di battaglia ne rende la dimensione informativa la componente principale; • le sfide necessarie a porre in atto una risposta efficace prevedono la capacità di gestire gli effetti informativi quale elemento critico se non quale unica chiave risolutiva; Le Info Ops ed i suoi effetti informativi benché orientati ad indurre favorevolmente i neutrali ovvero a modellare il campo di battaglia, sono soprattutto focalizzate a contrastare l’avversario. Tuttavia è necessario vincere la diffidenza e le possibili insinuazioni della gente che supporta o comunque chiude un occhio sulle azioni di questo. Un campo di battaglia anomalo richiede
Information Edge: il livello raggiunto in termini di integrazione tra le varie capacità tecnologiche e procedurali che concorrono al sistema Informativo e che consentono di conseguire un livello superiore nel raccogliere, processare, trasferire e disseminare informazioni, al fine ultimo di applicare correttamente quel “soft power” che consente di conseguire i risultati prefissati nel settore degli affari internazionali attraverso il consenso piuttosto che attraverso la forza.
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Mezzo in uso alle Forze Armate Canadesi per Information Operations
mezzi e procedure necessariamente non convenzionali. Azioni cinetiche per contrastare gli insorti possono creare effetti informativi negativi e contrastanti agli occhi della popolazione locale e quindi far perdere terreno nel campo strategico. Gli insorti spesso sono parenti della popolazione locale ed alla stessa in un certo qual modo forniscono benefici cosicché la comunità locale manifestando il proprio cordoglio nei confronti di quanto caduti, dovrebbe indurci a pensare sul fatto che: uccidere gli insorti spesso accende ed accentua il reclutamento e tende a radicalizzare il movimento. Inoltre elimina possibili prospettive di futuri negoziati di riconciliazione. La storia peraltro è piena di esempi di nemici di ieri divenuti leader politici ed alleati di oggi. “L’Informational fire” è più importante di quello convenzionale. Il compito principale è quello di discreditare la strategia e le azioni degli
insorti agli occhi della popolazione. Questo tipo di lotta può ovviamente essere solo guidata dalle Info Ops. Le azioni tattiche devono essere orientate a raccogliere prove ed informazioni che mostrino chiaramente le contraddizioni tra ciò che insorti dicono di voler fare (es. combattere per aiutare la popolazione) e ciò che realmente fanno (attentati che coinvolgono popolazione inerme o sparare facendosi scudo delle donne). Queste prove associate ad una corretta Information Strategy devono, tuttavia, essere calate in una meticolosa analisi culturale/ambientale per comprendere quali siano i punti sensibili della legittimità e credibilità dell’avversario. In pratica, al fine di porre fine ai movimenti di guerriglia, è necessario colpirne le motivazioni. E questo lancia il problema nel campo prettamente politico e/o interministeriale. In tale quadro la componente militare, rappresentata dalle forze sul terreno, gioca un suo
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Timothy Haugh, 318th Information Operations Group commander
ruolo significativo, ma non risolutivo . Al fine di garantire sicurezza alla popolazione, essenziale per vincere la naturale diffidenza degli indecisi, di coloro che ancora non si sono palesemente schierati in quanto impauriti o perché anche solo perplessi dai metodi operativi nostri o degli insorti è quindi necessario: • documentare con prove inoppugnabili fatti che siano in grado di alienare la strategia degli insorti agli occhi della popolazione; • assicurare che le azioni dei nostri uomini non mortifichino la popolazione o favoriscano le motivazioni presentate dagli insorti; • avere sempre la leva forte del “martello o del maglio” in riserva; • assicurarsi di tenere sempre aperti dei canali di comunicazione. Una campagna efficace COIN/S&R necessità di far leva e coordinazione attraverso tutte le componenti del potere nazionale – Diplomatico, Informativo/Interno, Militare ed Economico (DIME). “Non si tratta più di esercitare un’opzione
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militare con le Info Ops in suo supporto”. I militari hanno bisogno di chiare guide politiche e di una Information Strategy mirata a conseguire un chiaro ed inequivocabile end-state. Possiamo affermare che l’influence sia divenuta l’elemento indispensabile per il campo di battaglia. Tuttavia proviamo a pensare come sia difficile influenzare qualcuno. Prendiamo ad esempio un ragazzo adolescente: lo si conosce, poiché è cresciuto nella nostra casa. Si sa perfettamente il gruppo che frequenta, i suoi interessi, ciò che ama e ciò che non sopporta. Ciononostante come ogni genitore sa bene, modificare od indirizzare l’opinione di questo sedicenne dopo che ha scelto una particolare linea comportamentale è estremamente difficile. Proviamo ora ad applicare questa linea di pensiero ad un Afgano di cui non si sa nulla, cresciuto in una cultura totalmente differente dalla nostra, con valori e credenze completa-
mente ancorate ad un mondo a noi sconosciuto. Come si pensa di essere capaci di influenzarlo? Nelle Operazioni di stabilizzazione qualunque cosa si faccia ha un impatto ed un effetto nel dominio informativo. Ogni qualvolta ci si trova a confrontarsi in uno scontro asimmetrico, ogni azione fisica è sempre seguita da una nella sfera informativa. Al fine di poter discreditare gli insorti, tuttavia è richiesta una profonda conoscenza interculturale, per l’acquisizione della quale due sono gli elementi chiave: Saper gestire le prove in modo credibile: prediamo ad esempio il presentare delle immagini di insorti che sparano facendosi scudo dietro ad un minareto o che utilizzino ambulanze per trasportare armi, sebbene possa essere impiegato per discreditare la moralità degli insorti agli occhi della popolazione ed aiutare a rinforzare la legittimità delle nostre forze facendole per contro accettare, tuttavia, in un’atmosfera di sfiducia e sospetto, potrebbe esser letto sotto una diversa angolazione. Quali che le immagini fossero state artefatte o costruite ad hoc. Tra l’altro dal punto di vista dell’impatto emotivo funzionerebbe nel mondo occidentale ma non in quello islamico. Assicurarsi che i messaggi possano essere compresi in modo assolutamente inequivocabile. Sempre con il nostro esempio, nel caso di combattenti che sparino da dietro un minareto, essi verranno presentati agli occhi degli indecisi come dei “difensori della fede” mentre le nostre forze militari come coloro che disprezzando i luoghi sacri della fede islamica non si preoccupano di danneggiarli in quanto cristiani invasori (e non nel quadro legittimo della legge di Guerra). Analogamente la perquisizione di un’ambulanza non verrà dipinta come un illecito ma come la brutale violenza degli occupanti invasori che mettono a rischio la vita di inermi civili feriti. Comune ad entrambe le situazioni è dal sotto15
linearsi il fatto che gli insorti rappresentano, o pretendono di rappresentare, un argine legittimo alle ingiustizie poste in essere dagli occupanti verso la popolazione. Ciò si sviluppa attraverso azioni di resistenza capaci di evocare immagini eroiche agli occhi della popolazione stessa, così come su molti simpatizzanti. Tutto ciò ovviamente impone una sfida per trovare mezzi e modi idonei ed efficaci a discreditare gli insorti. Certo negli ultimi anni si sono fatti incredibili passi avanti, ma il gap da colmare è ancora immenso, soprattutto nel campo dell’analisi del Target Audience e nella corretta identificazione delle Misure d’Efficacia. Il piano della Campagna, alla fine, deve essere in grado innanzitutto di gestire le aspettative. “intuire la fisica dei corpi nello spazio è un gioco da ragazzi se confrontata con la … comprensione dei giochi da ragazzi”15 Si parla di combattere una guerra di cuori e menti, ma noi ci siamo rivolti finora solo alle menti, perché tendiamo ad affermare la nostra volontà di democrazia in una società autodeterminante. La cultura occidentale è quella che afferma una persona un voto e, mentre noi stiamo producendo quelle che consideriamo ottime argomentazioni, gli insorti si contrappongono con ben altre linee di pensiero. Essi comprendono cosa è in grado di muovere emotivamente la popolazione. Noi possiamo portare tutti gli argomenti che riteniamo più opportuni, ma gli insorti sventolano la bandiera del martirio per raggiungere i cuori della gente piegando la componente razionale attraverso la leva della risposta emotiva. Essi sanno come toccare i cuori con leve simboliche. Mentre noi cerchiamo di combattere la componente razionale, gli insorti combattono quella emozionale, troppo spesso vincendo.
George M. Whitesides: the improbability of life - forward. Cambridge university Press.
FORZE ARMATE 41
Panorama internazionale
UN FUTURO INCERTO CON CONSEGUENZE IMPREVEDIBILI DELLA RIVOLTA ARABA N N N. DI
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ICODEMO
KASHAMA
ino ai nostri giorni, il mondo arabo del medio e vicino oriente e del nord Africa è stato governato da sistemi politici di carattere monarchico e dittatoriale. Le popolazioni da tempo soffocate da tali regimi hanno detto basta, manifestando il loro desiderio di cambiamento, di libertà e del rispetto dei diritti umani fondamentali. Partito dalla Tunisia il 18 dicembre 2010, in seguito alla reazione di Mohamed Bouazizi che si è dato fuoco dopo essere stato maltrattato dalla polizia tunisina, il treno della rivolta araba non è ancora arrivato alla sua destinazione finale. Fin dall’inizio, queste manifestazioni spontanee sono state organizzate soprattutto dalle classi sociali dei delusi ed esclusi dai palazzi del potere tradizionalmente nelle mani delle famiglie regnanti. Si tratta infatti dei giovani la cui maggioranza è disoccupata e abbandonata al proprio destino, dagli intellettuali la cui libertà di espressione non è mai stata garantita. Ecco perché molti di questi intellettuali si sono rifugiati nei paesi occidentali. E poi uomini e donne i quali, stanchi di continuare a subire la legge del più forte e della repressione spesso crudele, reclamano il cambiamento radicale delle loro condizioni di vita. Seguite e commentate dai media internazionali, queste manifestazioni sono talora chiamate la rivoluzione araba, la primavera araba, la rivolta araba o ancora il risveglio arabo. Nonostante questa diversità di termini che possiamo racchiudere in una sola parola “rivoluzione”, ciò che è fondamentale e comune a tutti i paesi dell’Oriente è, da una parte, il desiderio assoluto del cambiamento dei regimi totalitari nel mondo arabo in governi democratici e, d’altra parte, la determinazione dei manifestanti di mettere fine a tutto e subito. Ma cosa si intende per rivoluzione con queste manifestazioni? Per definizione la rivoluzione è l’insieme degli eventi storici che si verificano quando un gruppo di persone riesce a rovesciare un regime e a prendere il potere, causando dei cambiamenti profondi sul piano politico, sociale, economico
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in seno alla società. Paragonabili al risorgimento italiano e agli altri movimenti rivoluzionari che hanno cambiato la storia di molte nazioni nel mondo, le manifestazioni pubbliche in atto nei vari paesi arabi musulmani continuano a fare delle vittime. Iniziato in Tunisia, passando dall’Egitto alla Libia e negli altri paesi come lo Yemen, la Siria, l’Algeria, il Marocco ecc., queste proteste contro i regimi arabi hanno colto di sorpresa il mondo intero. Il risultato è ben conosciuto da tutti. Eccezione fatta per: • l’Algeria dove, dopo i primi giorni della protesta contro il caro vita e la disoccupazione, la situazione rimane apparentemente per il momento calma e senza preoccupazioni; • la Siria dove, malgrado il numero elevato delle vittime (circa 3000), l’indignazione della comunità internazionale e la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che è stata bloccata dal veto della Russia e della Cina, che prevedeva misure restrittive contro il governo di Damas, la situazione sembra essere sotto controllo del governo di Bachar al-Assad; • lo Yemen dove, trovandosi di fronte alla protesta dei manifestanti e la volontà della comunità internazionale, il dittatore Saleh sceglie di mantenere un confine tra le esigenze dell’opposizione e il sostegno internazionale a favore di una transizione pacifica. Ecco perché nonostante le prime manifestazioni che sono sembrate decisive e capaci di cambiare il destino del paese, le anime degli insorti si sono subito raffreddate e calmate; • in Bahrein, nonostante l’intensità delle manifestazioni, la determinazione degli insorti, la solidarietà alla rivolta contro le monarchie del Golfo, è stato dato un colpo fatale contro il movimento di protesta e il cambiamento reclamato dai manifestanti rimane per ora una vera utopia; • il Marocco dove “nessuno mette in discussione
la legittimità della monarchia”, scrive Juan Goytisolo, molti marocchini vogliono che la monarchia si adatti alla realtà del mondo globalizzato. Essi reclamano la libertà, la democrazia e la dignità: le stesse esigenze di tutti i giovani degli altri paesi arabi. In altri termini i manifestanti chiedono una Costituzione democratica e una monarchia parlamentare1. Dopo le reazioni immediate del Re Mohammed VI in risposta alla richiesta dei manifestanti riguardante le riforme costituzionali, le agitazioni degli insorti si sono calmate. Se fino ad oggi i dittatori di questi paesi arabi hanno saputo resistere alle esigenze degli insorti contro il loro sistema di governo rimanendo al potere, cercando di soddisfare in un modo o in un altro i bisogni del popolo, altri dittatori invece sono stati costretti a lasciarlo. Dopo una trentina di anni in Tunisia, Ben Ali è stato costretto ad abbandonare il potere e fuggire all’estero, lasciando il paese in preda agli insorti. Ben Ali se n’è andato, ma la Tunisia continua a cercare faticosamente di darsi un governo affidabile che corrisponda alle aspirazioni ed esigenze dei manifestanti che avevano e ottenuto le dimissioni del dittatore. Dal 7 novembre 1987, infatti, Zine el-Abidine Ben Ali, prende il potere in Tunisia ed è costretto a lasciarlo il 14 gennaio 2011 in seguito ad un movimento rivoluzionario che contesta il suo regime ed esige le sue dimissioni con un unico slogan: Ben Ali “dégage” in arabo “Erhal “ vai via. Ecco la stazione di partenza del treno della rivolta araba che ha già fatto tre vittime eccellenti di cui abbiamo già parlato. Ma ciò che ha scatenato la collera dei tunisini dando così l’inizio alle proteste fino alla caduta del regime de Ben Ali è come di è "immolato" il commerciante ambulante Mohamed Bouazzi. Il 17 dicembre 2010 ancora una volta, la polizia municipale confisca le merci di Mohamed che sporge denuncia, ma che, purtroppo, nessuna autorità è disposta a
1 Cfg: Le printemps arabe est l’événement le plus important depuis Ibn Khaldoun, in Le nouvel Observateur - Bibliobs.nouvelobs.com, 2011.
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In apertura: la rivolta araba Sopra: la rivolta araba. Cittadini in piazza
ricevere. Peggio ancora, scrive Frida Dahmani, “una ausiliare municipale, Feida Hamdi, gli dà un schiaffo e gli sputa in faccia. L’umiliazione pubblica ricevuta da una donna in un ambiente dove il rispetto fa parte del codice sociale, è un gesto di troppo, una lordura di cui Mohamed si purifica dandosi il fuoco in una piazza pubblica”(Jeune Afrique n°2615). Arrivato al potere all’indomani dell’assassinio di Anouar al-Sadate in ottobre del 1981, il Rais egiziano dei tempi moderni Hosni Mubarak, lascia tutto in seguito all’insistenza dei manifestanti che chiedono le sue dimissioni ed è subito sottoposto ad un processo con i suoi due figli Gamal e Alaa per la morte di un centinaio di insorti durante le manifestazioni. Considerato da anni fino al giorno delle sue dimissioni come un personaggio incontournable del Medio e Vicino Oriente, Mubarak, che stava preparando il suo figlio a subentrargli al potere, non è riuscito a resistere alle esigenze dei rivoluzionari determinati ad esautorarlo per instaurare un nuovo governo democratico con
leggi democratiche. I militari hanno dovuto assumere il potere per gestire il paese fino alle elezioni parlamentari del mese di novembre 2011. Ma nel frattempo, i manifestanti sono di nuovo ritornati nelle piazze per chiedere il rispetto dei loro diritti. Infatti, nei giorni immediatamente precedenti le elezioni, il maltrattamento delle manifestazioni pacifiche e l’uccisione dei cristiani copti le cui chiese sono state bruciate dai musulmani, è stata la dimostrazione della fragilità delle attuali istituzioni e della discriminazione religiosa capace di creare tensioni pericolose in Egitto. Un’altra vittima della rivolta araba di primo rango è Muammar Gheddafi. Una lunghissima permanenza al potere di 42 anni cominciata nel 1969 con un colpo di stato è giunta a termine con la cacciata del Rais dal potere. Una rivolta subito degenerata in guerra civile tra l’esercito del colonnello e gli insorti di Bengasi. Questi ultimi si sono organizzati nel Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) e hanno chiesto di aver il sostegno della NATO,
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La rivolta araba. Proteste in piazza
in seguito alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazione Unite. L’intervento della Nato è consistito in bombardamenti delle strutture militari e delle truppe di Gheddafi, mentre le truppe di terra degli insorti hanno combattuto città per città casa per casa fino ad arrivare a Tripoli dove, attualmente, stanno cercando di organizzare un vero governo per il paese. Circa sei mesi di insurrezione, ventuno settimane di bombardamenti della Nato e tre giorni dell’operazione Sirène, scrive Cherif Ouazani, hanno messo fine al regime de Muammar Gheddafi e termine a quarantadue anni di dittatura (Jeune Afrique n°2642 - Aout-Septembre 2011).
Tattica e mezzi a disposizione dei manifestanti La possibilità con la quale i manifestanti si radunano in ogni paese con le stesse modalità non è causale. I manifestanti non usufruiscono dei mezzi di comunicazione di massa dei regimi contro i quali manifestano. Come fanno allora a essere così numerosi e determinati giorno
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per giorno senza che abbiano i leaders che li organizzano e gli strumenti per fare passare i loro messaggi? I giovani di questi ultimi decenni hanno la fortuna di vivere in un mondo globalizzato dove lo sviluppo sempre più costante e innovativo della tecnologia rende facile la comunicazione. Si tratta particolarmente dell’invenzione e della produzione dei vari apparecchi di comunicazione con telefonini e internet. Grazie alla tecnologia nel campo della comunicazione, i giovani arabi musulmani riescono facilmente a radunare un numero sempre maggiore di manifestanti. Parlare della spontaneità delle recenti proteste nei paesi arabi, non esclude che tali movimenti di protesta siano organizzati a monte da chi pianifica le manifestazioni, la tattica da seguire e i mezzi di comunicazione a loro disposizione per raggiungere un numero importante di manifestanti sulle piazze. Xavière Jardez, (AFI-Flash, mars 2011) si augura l’introduzione sulla scena di strumenti tecnologici apolitici come Facebook, Twitter, i blogs, i telefonini, la televisione satellitari. Il successo della rivoluzione araba registrato
fino ad oggi è dovuto, oltre alla determinazione degli insorti, anche soprattutto ai mezzi di comunicazione moderni tra i quali la potente televisione araba di Qatar degli ultimi anni Al-Jazeera. Infatti, la televisione Al-Jazeera si rivolge a circa 300 milioni di abitanti, riunendo così quasi 40 milioni di persone ogni giorno costituiti da 2 terzi dei giovani di età più o meno di 30 anni. Per gli osservatori mediatici internazionali, la televisione Al-Jazeera ha coperto per qualche settimane le manifestazioni nel nord Africa diventando quindi, allo stesso titolo delle rete sociali, uno degli elementi chiave della solidità dei movimenti di contestazioni. “Anche se essa non è la causa di tali eventi, è quasi impossibile immaginare che tutto ciò sia successo senza AlJazeera” Marc Lynch (New York Times).
Le cause della rivolta nei paesi arabi musulmani L’analisi delle cause che hanno scatenato la rabbia delle popolazioni arabe del nord Africa
e del Medio e Vicino Oriente permette di scoprire l’origine del malcontento che ha provocato una rivoluzione senza precedenti. Tra le numerose cause della rivoluzione araba si mette in evidenza principalmente: la mancanza di libertà, l’assenza della democrazia, la disoccupazione, la miseria, il caro vita ecc.. Se ci convinciamo che la mancanza di questi valori universali, che sono alla base di ogni sistema democratico, sia la causa principale della rivoluzione nei paesi arabi nel terzo millennio, coup de chapeau ai rivoluzionari per il coraggio e la determinazione. A questo punto un’altra domanda s’impone: perché soltanto nei tre paesi (Tunisia, Egitto e Libia) l’insurrezione ha avuto successo rovesciando i regimi di Ben Ali, di Mubarak e di Gheddafi e non negli altri paesi? I grandi dittatori del mondo arabo sono stati cacciati dal potere e quelli che ancora resistono potranno anch’essi fare le valigie in nome della democrazia, garante della libertà individuale e collettiva, del rispetto dei diritti umani spesso calpestati e di uno stato di diritto. Un altro
Marocco. Marrakech
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motivo è la miseria permanente causata dalla mancanza di lavoro insufficiente per tutti, sorgente del benessere e dello sviluppo sociale ed economico di ogni nazione. Di che cosa è capace un sistema democratico di governo nei paesi dove i limiti tra religione, politica e potere temporale non sono bene definiti? La parità di diritto tra uomini e donne è stato da sempre un altro problema spinoso del mondo arabo-musulmano. Nei ranghi dei manifestanti le donne non si sono mai tirate indietro. Al contrario, insieme agli uomini, hanno gridato nelle strade rivendicando i loro diritti alla libertà, all’uguaglianza, al lavoro, alla vita ecc. Dovranno anche loro beneficiare del frutto della rivoluzione. Infatti, mettendo in evidenza la presenza e il ruolo delle donne arabe nelle manifestazioni della primavera araba, Juan Cole e Shahin Cole (TomDispatch.com) riassumono la partecipazione attiva delle donne come segue: La primavera araba ha ricevuto un’attenzione copiosa nei media americani, ma uno dei suoi elementi fondamentali è stato ampiamente trascurato: il ruolo sorprendente delle donne nelle proteste radicali del mondo arabo. Nonostante l’insufficiente attenzione dei mass-media rispetto al loro ruolo, le donne sono state e rimangono spesso in prima linea durante le proteste. Innanzitutto le donne hanno avuto un posto significativo nelle manifestazioni tunisine che ha dato il via alla primavera araba, marciando spesso su Avenue Bourguiba di Tunisi, con i loro mariti e figli. Successivamente, la scintilla della rivolta che ha costretto il presidente egiziano Hosni Mubarak a rassegnare le dimissioni è stata la manifestazione del 25 gennaio a Tahrir Square a il Cairo promossa da una giovane e appassionata donna attraverso un video postato su Facebook. Nello Yemen, i cortei di donne velate hanno manifestato a Sanaa e Taiz per spingere l’au-
tocrate di quel paese fuori dal suo ufficio, mentre in Siria, di fronte alla polizia segreta armata, le donne hanno bloccato le strade manifestando per la liberazione dei loro mariti e dei loro figli in prigione. Quando le donne pensano al futuro, si preoccupano se sulla strada dei nuovi regimi democratici parlamentari i loro diritti saranno messi da parte sia dal patriarcato liberale che dai fondamentalisti islamici, in favore di candidati di sesso maschile”. Aspettando all’indomani delle elezioni in Tunisia e più tardi in Egitto si vedrà se le attese delle donne saranno soddisfatte.
Le conseguenze imprevedibili della rivolta Nel momento in cui stiamo scrivendo questo articolo, il CNT ha appena dato la notizia della cattura e dell’uccisione dell’ex dittatore della Libia Muammar Gheddafi. Ecco la notizia che tutti gli insorti libici, il CNT (Consiglio Nazionale di Transizione) nonché la comunità internazione aspettavano da quando il colonnello è stato cacciato da Tripoli. Il dittatore è morto, adesso si aspetta la formazione di un governo di transizione nel quale tutte le tribù libiche dovrebbero fare parte per gestire il paese fino all’organizzazione delle elezioni parlamentare e presidenziale libre e democratiche. Siamo a circa un anno e qualche mesi da quando il treno della rivoluzione araba, una sollevazione popolare contro i regimi dittatoriali del mondo arabo, è partito dalla Tunisia toccando parecchi paesi arabo-musulmani. Il fatto è che tale rivoluzione, dopo aver fatto tre vittime eccellenti, continua ancora a fare parlare di sé, non impedisce che si faccia un bilancio. A sentire le esigenze e gli slogans dei manifestanti di tutti i paesi dove è transitato il treno della rivoluzione, ci si rende conto che il popolo arabo è stanco dei suoi dirigenti e
1 Cfg: Le printemps arabe est l’événement le plus important depuis Ibn Khaldoun, in Le nouvel Observateur Bibliobs.nouvelobs.com, 2011.
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La rivolta araba. Cittadini in piazza
vuole cacciarli dal potere. Il desiderio di cambiare la storia che si manifesta con coraggio e determinazione è segno della disperazione di un popolo i cui diritti sono stato calpestati dai regimi dittatoriali. L’uccisione di Gheddafi è stata considerata dal presidente americano Barak Obama come un segnale per tutti i tiranni, coloro che, invece di rispettare e promuovere la dignità umana la negano o la calpestano. In conclusione si può ribadire la paura non solo degli osservatori internazionali del mondo arabo musulmano, ma anche dei rivoluzionari arabi stessi. E’ una paura giustificata e legittima al di là dell’entusiasmo che ha animato queste manifestazioni. La caduta di questi tre regimi prima e poi la morte di Gheddafi, vanno considerati con soddisfazione da parte degli insorti. Ma una domanda va fatta per ciò che riguarda il riconoscimento dei loro diritti il rispetto della loro dignità nonché la loro partecipazione alla costituzione di un stato democratico. Le stesse inquietudini le ha anche la comunità
internazionale riguardo soprattutto l’avvento del nazionalismo islamico con le costituzioni basate sulla sharia e non sulle leggi democratiche. In questo caso, ci sarà la delusione non solo dei rivoluzionari ma anche della comunità internazionale. La possibilità di avere i Fratelli Musulmani al potere in Egitto non è completamente esclusa anche attraverso elezioni libere e democratiche. Per Cherif Ouazani, J.A. n°2614, 2011, in seno alla comunità internazionale, la diffidenza cede talvolta al panico. Washington e l’Unione Europea temono un scenario simile all'Iran e la prossima nascita di una Repubblica islamica d’Egitto. Le stesse inquietudini si manifestano anche nella popolazione egiziana secondo Cherif Ouazani: alla speranza che suscitano in seno di una parte della popolazione risponde la diffidenza di alcuni dei loro compatrioti, soprattutto quelli legati alle libertà e alla laicità. Infine è meglio “dare il tempo al tempo”, aspettando che gli eventi stessi diano ragione agli uni o agli altri: chi vivrà vedrà.
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Panorama internazionale
IL CONTENZIOSO DEL
SAHARA OCCIDENTALE FRA PASSATO E PRESENTE FRANCESCO PALMAS
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lla fine del 15o secolo, la Spagna, mediatore il Papato, si garantì il controllo delle Canarie e della costa africana da capo Boujdour fino all’hinterland di Agadir. Nonostante la superiorità militare, gli iberici non s’avventurarono nell’entroterra e per 4 secoli non avviarono alcuna impresa colonizzatrice. Tutto cambiò a fine ’800. Nella corsa europea all’Africa, gli spagnoli temettero per il possedimento delle Canarie, cui urgeva garantire profondità strategica. Incalzati dai successi francesi in Senegal, Mauritania e Algeria, tentarono di conquistare i deserti limitrofi al Marocco, dove già possedevano Ceuta e Melilla. Con le spedizioni di Emilio Bonelli, iniziarono l’esplorazione atlantica fra i capi Boujdour e Bianco, nella regione ove i portoghesi solevano cogliere un tempo polveri d’oro: il Rio de Oro. Alla conferenza di Berlino, nel 1884-85, i Grandi regolarono le questioni imperiali d’Africa. Nella prima fase, la Conferenza non impose una definizione precisa dei confini, ma la semplice notifica delle nuove acquisizioni. Madrid comunicò esser suo il Rio de Oro, fra le poteste ufficiali del sultano marocchino, Mulay Hassan. Dato che i francesi si erano insediati in alcune zone del Sahara mauritano, controllavano l’Algeria e la loro influenza cresceva in Marocco, furono necessari negoziati bilaterali franco-spagnoli per definire le frontiere. Tra il 1900 e il 1912, furono siglati un trattato e due convenzioni: in poche parole ne vennero fuori i confini del futuro Sahara Occidentale. Parigi e Madrid seguirono il dettato di meridiani e paralleli, trascurando gli elementi etnico-geografici delle popolazioni coinvolte. Solo nel 1934, spinta da alcuni africanisti e dai francesi, la Spagna occupò militarmente il territorio e v’insediò un apparato amministrativo. Durante la guerra civile nella metropoli (1936-39), la presenza militare iberica scemò nuovamente fin quasi a scomparire. Le tribù nomadi ritrovarono parte della loro libertà. Ma attraversavano da tempo due fasi di profondo cambiamento: la pe-
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netrazione commerciale e politica europea ne stava erodendo le strutture tradizionali e i legami col Makhzen, l’establishement marocchino. I saharawi stavano sedentarizzandosi e organizzando una resistenza organica contro gli occupanti. Finita la seconda guerra mondiale e impostisi i movimenti indipendentisti africani e arabi, la Spagna si trovò a fronteggiare una duplice sfida: le rivendicazioni straniere e la ripresa della lotta saharawi, il cui anelito all’indipendenza era un corollario del principio di autodeterminazione dei popoli, oggi norma cogente di diritto internazionale, dagli effetti erga omnes.
Interessi economici crescenti Proprio negli anni ’50, la Spagna aumentò il controllo sul territorio. Nel 1958, unificò le province del Rio de Oro e del Sakiet el Hamra, trasformandole in possedimento d’oltremare: nasceva il Sahara Occidentale. Madrid iniziò a sfruttare i giacimenti di un fertilizzante indispensabile all’agricoltura: il fosfato grigio-verde, opulento in fosforo. L’avvio della miniera di Bouchra, nel Sakiet, fu determinante nel risvegliare l’interesse regionale dei gruppi finanziari internazionali. Come prevedibile, le holding fecero pressioni sul regime franchista perché conservasse il più a lungo possibile il controllo dei territori e avviasse la costruzione d’infrastrutture per il trasporto e la commercializzazione delle materie prime. Nel 1976, Rabat e Madrid crearono una società mista nel ramo. Oltre 160 milioni di dollari di capitale affluirono nella zona, modificandone la fisionomia: in un quindicennio, la popolazione di Smara quadruplicò e Laayoune passò da 6 a 28mila abitanti. Fra il ’59 e il ’74, i nomadi declinarono dal 90 al 16%.
Il progetto del Grande Marocco La decisione francese d’istituire una repubblica islamica di Mauritania e di concederle l’indi-
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pendenza (1958-1960) rilanciò le rivendicazioni marocchine. Mossa dai nazionalisti dell’Istiqlal, Rabat aveva già manifestato il progetto di riesumare gli antichi confini, dal Mediterraneo al fiume Senegal, passando per il sud algerino: era il sogno del Grande Marocco, confliggente con gli interessi mauritani e con quelli algerini. Nel suo piano, il Marocco rimase isolato: la nascente Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) stabilì infatti tra i principi fondativi l’intangibilità delle frontiere coloniali, imprescindibile per evitare lotte fratricide. Che il pericolo non fosse scongiurato lo mostrò la guerra delle Sabbie combattuta fra Algeri e Rabat nell’ottobre del ’63. Le tensioni rimasero alte fino al 1970, quando fu raggiunta un’intesa bilaterale fra i contendenti e trovato un accordo con i mauritani, inclusivo perfino del Sahara. Tutti convennero sul principio di autodeterminazione, appena ribadito dalle Nazioni Unite (dicembre 1965).
La nascita del Fronte POLISARIO Nel 1973, un nucleo di nazionalisti saharawi si riunì in Mauritania e costituì il Fronte POLISARIO (Frente Popular para la Liberacion de Saguia ElHamra y Rio de Oro), sintesi di due gruppi di militanti: agli ex membri del Movimento di Liberazione si sommava l’elite degli studenti saharawi di Rabat, fra cui Lulei, il futuro primo segretario. Nel congresso del ’74, il nuovo movimento ribadì che sarebbe ricorso anche alla lotta armata per conseguire l’indipendenza. Algeria e Libia iniziarono ad aiutare il POLISARIO, militarmente e diplomaticamente. Marocco e Mauritania riuscirono invece ad ottenere tramite l’Assemblea Generale dell’ONU un parere della Corte Internazionale di Giustizia. Due erano i quesiti posti: il Sahara Occidentale poteva considerarsi res nullius, territorio senza autorità, al momento della colonizzazione spagnola? In caso negativo, quali erano i legami giuridici con il regno del Marocco e le autorità mauritane? All’unanimità, la Corte escluse che il territorio de
In apertura: Bandiera Saharawi Sopra: distruzione di mine antiuomo nell’area di Tifariti. Il Sahara Occidentale è regione fra le prime al mondo per concentrazione di ordigni anticarro e antiuomo (2 milioni circa). Nel 2005, il Fronte Polisario ha firmato l’Appello di Ginevra, documento che impegna i gruppi armati non statali, coinvolti in un conflitto, a non far ricorso alle mine antipersona, e a distruggere quelle in dotazione.
quo fosse res nullius quando colonizzato dalla Spagna. Sebbene in epoca precoloniale alcune tribù del Sahara Occidentale avessero avuto legami di fedeltà con il sultanato marocchino, questi non erano sufficienti a legittimare le pretese di sovranità territoriale. Sarebbe stata una sentenza sfruttata da entrambi: il Marocco riteneva che la prima parte confermasse le sue rivendicazioni. Considerava la sovranità un concetto prettamente religioso. Il POLISARIO insisteva invece che la seconda parte non desse adito a dubbi. Il 16 ottobre 1975, giorno di pubblicazione del responso della Corte, Hassan II pronunciò un discorso nel quale ribadiva la legittimità delle tesi del ‘grande Marocco’ e mobilitava l’opinione pubblica, annunciando una ‘marcia pacifica’ verso il Sahara Occidentale. Si trattava di una decisione maturata a lungo e appoggiata da quasi tutti i partiti. Faceva appello al sentimento religioso e al patriottismo delle masse. La Marcia partì il 6 novembre: attraversarono il
confine 350mila persone, protette da circa 20mila soldati marocchini. A sud, i mauritani fecero altrettanto. Migliaia e migliaia di nomadi saharawi furono costretti alla fuga. Il Marocco informò che avrebbe marciato fin quando la Spagna non avesse accordato negoziati bilaterali e trattato il trasferimento di sovranità. Valery Giscard d’Estaing, presidente francese, Henry Kissinger, segretario di Stato americano, ed il re del Marocco Hassan II, riuscirono a convincere Arias Navarro, Primo Ministro spagnolo, ad abbandonare l’idea avanzata dal suo governo nel 1974. Anziché organizzare un referendum d’autodeterminazione, si sarebbe diviso il Sahara Occidentale fra Marocco e Mauritania. Nel grande gioco della guerra fredda, il Marocco era una pedina troppo importante per esser consegnato agli interessi sovietici: il governo d’Estaing favorì investimenti economici e stipulò accordi di cooperazione militare. Anche Washington appoggiò Rabat: temeva che un paese
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di nuova indipendenza potesse garantire alla Russia basi militari nella cerniera strategica fra l’Atlantico e il Mediterraneo. Il 14 novembre 1975 i rappresentanti spagnolo, marocchino e mauritano si ritrovarono a Madrid per stipulare i famosi ‘Accordi Tripartiti’: sei punti in cui si esprimeva la volontà spagnola di ritirarsi dal territorio, la costituzione di un’amministrazione provvisoria con la partecipazione della Djemaa, (l’assemblea saharawi con funzioni di rappresentanza), subito esautorata dal POLISARIO, e la decolonizzazione non oltre il 28 febbraio 1976. Alla gestione provvisoria del territorio era prevista la partecipazione di Marocco e Mauritania. In pratica, Rabat si sarebbe insediata nel Sakiet el Hamra, Nouakchott nel Rio de Oro. Conformemente all’accordo di Madrid, l’amministrazione e l’esercito spagnoli evacuarono il 26 febbraio 1976. Il giorno dopo, il Consiglio nazionale saharawi provvisorio proclamò la Repubblica Araba Saharawi Democratica. La RASD fu l’incipit di una nuova lotta di liberazione: il conflitto che ne seguì durò fino al cessate il fuoco del 6 gennaio 1991. L’avvio del processo di pace non avrebbe messo fine alla questione, ancora aperta dopo oltre un trentennio di guerra e trattative.
La risposta militare saharawi Nella risposta militare all’occupazione, l’Esercito di liberazione popolare saharawi (ELPS) si rivelò strumento particolarmente efficace. Concentrò i suoi attacchi dapprima contro la Mauritania, l’anello più debole dell’alleanza, poi contro il Marocco. Sfruttava appieno la natura del terreno, che conosceva a menadito, e la velocità dei fuoristrada Land Rover. Riuscì a sferrare attacchi in profondità, oltre le linee nemiche, infliggendo gravi perdite sia in termini di vite umane che di armamenti e mezzi. Dopo tre anni di guerra, la Mauritania era in ginocchio, costretta a rivolgersi ai suoi alleati e a chieder loro protezione. Era un’importante fonte
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di ferro per l’industria francese e, nel 1977, Parigi mandò alcuni aerei a combattere le unità militari del POLISARIO. Servì a poco, perché nel luglio 1978, un colpo di stato militare rovesciò il presidente Ould Daddah. Il Fronte POLISARIO decise per il cessate il fuoco unilaterale. Per un anno, il nuovo regime tergiversò, ma il 5 agosto 1979, un accordo di pace fu firmato ad Algeri. La Mauritania dichiarava solennemente che non avrebbe più rivendicato alcunché nel Sahara Occidentale. Uscì definitivamente dalla guerra e riconobbe sia la RASD (1984), sia il Fronte POLISARIO come «unici rappresentanti del popolo saharawi». Neutralizzate le minacce da sud, il Fronte poté concentrare tutte le sue forze contro il Marocco, che nel frattempo aveva assorbito la zona saharo-mauritana, creando una nuova provincia. Gli uomini dell’ELPS non demorsero. Abbatterono oltre 70 velivoli nemici, grazie agli SA-6 antiaerei provenienti dall’Algeria. Operando prevalentemente di notte, penetrarono in profondità nel deserto. Presero di soppiatto le posizioni marocchine e attaccarono i fianchi delle colonne meccanizzate. Riuscirono a spingersi perfino nel Marocco meridionale: a Tantan e sul massiccio dell’Ourkziz, le forze marocchine subirono pesanti sconfitte e la cattura di quasi 3mila uomini. Nel 1980, il comandante del fronte Sud marocchino, generale Dlimi, decise di riorganizzare la difesa: con la collaborazione economica saudita e, pare, l’assistenza tecnica israeliana, iniziò a costruire una serie di muri difensivi, che divisero il territorio e bloccarono l’accesso all’Atlantico. Fu una strategia vincente.
L’interesse delle Nazioni Unite Durante il conflitto, le Nazioni Unite continuarono a ribadire il diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi e condannarono ripetutamente le azioni del governo marocchino. Il quadro di riferimento era in piena evoluzione: nel 1984, la RASD divenne il 51° membro dell’Unione Africana e il Marocco l’unico a non farne più parte in
segno di protesta. Quando ripresero le relazioni bilaterali con l’Algeria, era il 1988. Si aprì uno spiraglio per trattative fra le parti. Quell’anno, il Consiglio di Sicurezza, autorizzò il Segretario Generale dell’ONU a nominare un Rappresentante Speciale per il Sahara Occidentale, che elaborasse quanto prima un rapporto sulla realizzazione del referendum. Dopo tre anni di trattative si arrivò a un piano di pace ben definito, nel quale Perez de Cuellar, Segretario Generale, proponeva alle parti di cessare il fuoco, di organizzare il referendum e di comporre le liste elettorali sulla base del censimento spagnolo del 1974, con un aggiornamento demografico, espressione anodina, oggetto di controversie interpretative nel corso degli anni. Approvato il rapporto del Segretario generale, la risoluzione 690/91 del Consiglio di Sicurezza istituiva anche la MINURSO: la Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara Occidentale, tuttora in corso. Con quartier generale a Laayoune, la Missione ha due Comandi settoriali, a Nord e a Sud, cui afferiscono rispettivamente 5 e 4 team sites: accampamenti ubicati nel
Intervento delle Forze Reali Marocchine in un campo saharawi, allestito nell’area di Laayoune. Fonte: Maghreb Arab Press
deserto, a contatto con i Reparti del POLISARIO o del Marocco. Non mancano un Ufficio di collegamento a Tindouf e un’Unità Medica. Della componente militare fanno parte 201 ufficiali osservatori di 29 paesi, 5 dei quali provenienti dall’Esercito italiano: è chiesto loro di effettuare pattuglie terrestri o via elicottero, per tenere contatti continui coi belligeranti, prevenire e identificare possibili violazioni al cessate il fuoco. Fra gli obiettivi della Missione rientrerebbe anche la consultazione referendaria, fissata una prima volta per il febbraio 1992. Inutile dire che non se n’è fatto niente, né allora, né negli anni successivi. Il conflitto nel Sahara Occidentale ha sfidato la mediazione di tre segretari generali delle Nazioni Unite e sta facendo altrettanto con il quarto (Ban Ki-Moon), rappresentato nell’area da Christopher Ross.
Il Berm Il simbolo dello stallo politico e negoziale è il Berm, una quinta difensiva colossale, che si
Una pattuglia della MINURSO nei pressi del Berm, il muro di sabbia e roccia che corre lungo l’intero territorio del Sahara Occidentale
Pattuglia delle Nazioni Unite nel Sahara Occidentale
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snoda per oltre 2mila km: un doppio vallo di sabbia e roccia, ampio fra 15 e 20 metri, alto 3 e protetto da campi minati, sia antiuomo sia anticarro. Nessuno dimentichi che il piccolo Esercito di Liberazione Popolare Saharawi ha un parco corazzato forte di oltre un centinaio di T55, e un numero imprecisato di fuoristrada Land Rover o Toyota, 4x4 armati di cannoncini binati ZU-23 o mitragliatrici ZPU o DShK (12,7 mm). Partendo da nord, il Berm segue per alcune decine di km la frontiera marocco-algerina e poi l’insieme del confine Sahara OccidentaleMauritania, ricongiungendosi a sud con la costa atlantica. Per una ventina di km si spinge in territorio mauritano. É il muro a dividere il Sahara dell’Ovest: i 2/3 sono appannaggio dei marocchini, 1/3 del POLISARIO. Lungo il tracciato, fra un complesso minore e l’altro, vi sono 698 capisaldi a livello di compagnia o plotone. Pochissimi sono i varchi, usati quasi esclusivamente dai membri della MINURSO per supportare il personale ubicato a est del Berm. Con gli accordi di cessate il fuoco del 1991 sono state delimitate tre aree più o meno limitrofe al tracciato: una fascia cuscinetto (buffer strip) di 5 km che corre lungo tutto il versante orientale: in pratica nella zona del POLISARIO. Accedervi è proibito tanto ai membri delle forze armate marocchine quanto alla controparte saharawi. Non è possibile il sorvolo, né l’impiego di armi, fermo restando che il solo Marocco dispone di un’aviazione, ormai capace di operare anche di notte con gli F-16 in arrivo e i Mirage ammodernati, cui si aggiunge qualche elicottero Puma. Alla buffer strip si affiancano due aree ad accesso limitato: 30 km di ampiezza lungo i due lati del Berm, in cui sono interdette tutte le attività militari, eccezion fatta per l’addestramento fisico di personale non armato. Il resto deve essere autorizzato dalla MINURSO: sia che si tratti di movimenti di truppe pronte ad addestrarsi altrove, sia di voli medici o di trasporto VIP. É necessaria un’autorizzazione preventiva anche
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per i lavori periodici di manutenzione del muro, per la gestione delle riservette di munizioni o per la perforazione e scavo di pozzi, qualora sia previsto l’uso di mezzi meccanici. L’ultima delle tre aree è quanto rimane del Sahara Occidentale, a regime limitato: nell’area of limited restrictions è vietato concentrare forze, costruire nuovi alloggiamenti per le truppe, nuovi comandi e riservette. Proibito è minare e potenziare i campi già esistenti, spesso non segnalati e talmente copiosi da eleggere la regione fra le prime al mondo per concentrazione di ordigni (2 milioni circa).
I belligeranti I marocchini hanno un organico di 175mila uomini e due comandi: uno settentrionale, metropolitano stricto sensu, e un altro meridionale per il Sahara occidentale. La tattica è basata sulla difesa statica di posizioni lungo il muro, ripartito in tre settori operativi: uno a nord con comando a Mahabes, uno al centro, comandato da Laayoune, ed uno a sud, imperniato su Dakhla. Ogni 4-5 km sorgono capisaldi, fatti di trincee e bunker, camminamenti di sabbia e roccia, reticolati di filo spinato, mitragliatrici pesanti, pezzi anticarro, mortai e artiglieria leggera. Tra una postazione e l’altra si muovono pattuglie appiedate e si ergono posti di osservazione, dotati di radar per la sorveglianza del campo di battaglia. Non si tratta di forze mobili, ma di una prima schiera chiamata a resistere fino all’arrivo delle forze d’intervento: unità di fanteria meccanizzata o motorizzata, carri, artiglierie, dipendenti da un comandante operativo. I combined groups sono equipaggiati con opulenza di mezzi, materiali e sistemi d’arma e sono adeguatamente supportati per la difesa statica. Hanno autonomia variabile fra i 15 e i 30 giorni. Per organico, l’esercito marocchino nel Sahara ammonta a 80-100mila uomini. La prontezza operativa è dubbia, mentre è certa l’enormità
Due rifugiate saharawi a Tindouf
dei costi logistici e manutentivi: 1 milione di dollari al giorno, se non oltre. Le forze armate del POLISARIO sono organizzate a loro volta in 7 Regioni Militari, che comprendono uno o più battaglioni rinforzati. All’estremo nord, comandata da Bir Lalhou, è la 5a Regione; scendendo a sud-ovest, con comando a Tifariti, è la volta della 2a Regione, forse la più importante di tutte, perché cerniera fra le forze dell’ELPS e le linee di rifornimento algerine e le basi avanzate. Vi sono schierati tre battaglioni operativi, una compagnia antiaerea ed una di supporto: 2mila uomini circa, gran parte dei quali (60%) entrata in servizio dopo il 1991. Nella 6a Regione, con sede a Rabouni, in Algeria, è il comando generale e la principale base logistica dei reparti operativi. Siamo a una ventina di km da Tindouf, nel cuore del parco corazzato dell’ELPS, forte di due battaglioni di T-55. Rabouni ospita gran parte delle difese antiaeree (SA-6,-8 e -9) e dell’artiglieria pesante, essendo sede del governo della RASD e dei vari ministeri.
Le unità sono costituite prevalentemente da fanteria leggera: scarseggiando le armi pesanti, la forza del POLISARIO dipende dalla mobilità e dalla guerriglia. L’equipaggiamento è obsoleto e parco, residuato dei 15 anni di guerra con il Marocco. La forza complessiva è stimata oggi intorno ai 6mila uomini a pieno organico, con un migliaio di quadri in servizio permanente. Sono attive tre scuole di formazione e addestramento: una per la fanteria, una per l’artiglieria e la cavalleria corazzata e la restante per i quadri. Gli istruttori sono tutti veterani della guerra contro il Marocco o specialisti formati in Algeria, a Cuba o in Libia, prima del 1984. Nonostante la cessazione delle ostilità, le forze del POLISARIO continuano ad addestrarsi regolarmente e si dichiarano pronte a riprendere le armi qualora costrette. Una guerra di usura, fatta di raid, incursioni, azioni di disturbo e così via, perché in un conflitto classico il confronto non reggerebbe.
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Abdelkader Taleb Omar, primo ministro della RASD, non ha usato giri di parole, l’ottobre scorso: «16 anni di lotta armata hanno prodotto maggiori risultati di un ventennio di diplomazia. La maggior parte dei militanti del Fronte POLISARIO è convinta che soltanto una ripresa delle armi possa portare il Marocco a rivedere le sue posizioni».
miniere di fosfati, senza dimenticare gli agglomerati urbani. Negli ultimi trent’anni ha investito nella regione oltre 2,5 miliardi di dollari, edificandovi aerodromi, porti, reti elettriche e idriche, che servono attualmente l’82% del territorio. I marocchini che si trasferiscano al sud beneficiano d’incentivi fiscali. Se dipendenti pubblici, godono di una serie d’indennità e di vantaggi pensionistici. La monarchia ha distribuito sovvenzioni a pioggia, creato dal nulla la città di Oum Dreyga e costruito Sviluppi recenti 10mila km di strade, il 35% delle quali asfaltate, come l’arteria fra il caRabat si oppone a qualpoluogo Laayoune e siasi processo referenSmara, seconda città redario, bollato ormai come gionale. I due centri sono obsoleto. Ha avviato una il perno delle omonime riforma costituzionale province, cui si sommano per il decentramento reAousserd, Assa Zag, gionale e, dal 2007, ha Boujdour e Oued Edsostituito l’opzione reDahab, tutte accomuferendaria con un pronate da un alto tasso di getto di autonomia per urbanizzazione, dalla il Sahara Occidentale, centralità del settore dei riuscendo ad ottenere servizi nel mercato del l’avallo di Francia, Spalavoro e da una media gna e Stati Uniti, sia pur di disoccupati quasi dopcon sfumature diverse. pia rispetto al resto del La proposta è stata sapaese. I giovani alimenlutata come ‘seria e cretano le fila di un maldibile’ anche dalle Nacontento crescente, che zioni Unite: lascerebbe mappa del Sahara Occidentale. I 266.000 kmq di territorio sono di poco inferiori alla superficie italiana; il limes atlantico sfiora i 1.110 si manifesta nelle proal Marocco la sola re- km di estensione; 400 sono invece i km confinanti con il Marocco a nord; 40 con l’Algeria a est; 1.560 con la Mauritania a est e a sud. teste nei principali centri sponsabilità della politica urbani. Relegati nella monetaria, della difesa Fonte: Nazioni Unite. fascia meno ospitale e produttiva del Sahara, gli e degli esteri. Ma la reazione del POLISARIO è stata immediata: il Fronte non rigetta l’offerta altri devono la loro sopravvivenza alle donazioni marocchina, ma insiste perché sia considerata delle organizzazioni non governative e agli aiuti come terza opzione nei colloqui fra le parti, di governi amici e di amministrazioni regionali insieme alle ipotesi d’indipendenza e d’integrazione (spagnole e comunitarie in primis). Altri ancora sono tributari dell’Algeria che ha concesso loro al Regno. In caso di vittoria referendaria, il POLI5 campi profughi nei pressi di Tindouf oltre alSARIO si è impegnato ad offrire al Marocco conl’amministrazione di parte del deserto dell’Hamtropartite economiche, culturali e di sicurezza. mada. Nell’ultimo ventennio, il POLISARIO ha Inutile ricordare che la realtà sul campo volge a favore dell’ultimo. Rabat controlla i centri perso legittimità e credibilità nei confronti della nevralgici sahariani: dalla linea di costa alle sua base. I metodi autoritari gli hanno alienato
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Un combattente dell’Esercito di Liberazione Popolare Saharawi, il braccio armato del Polisario
Nella foto un obice D-30 da 122 mm. Il pezzo equipaggia i battaglioni di artiglieria dell’ELPS
le unità motorizzate dell’ELPS sono imperniate su veicoli Toyota 4x4 armati di mitragliere ZU-23 (23 mm). Nella foto, alcuni di questi veicoli.
solo il Marocco dispone di un’aviazione, ormai capace di operare anche di notte con gli F-16 e i Mirage ammodernati. Nella foto, un Mirage F1, presto aggiornato allo standard MF2000
molti saharawi. Dal 1976, la struttura piramidale filo-marxista è rimasta invariata: al vertice è un segretario generale, Mohamed Abdelaziz al contempo presidente della RASD, assistito da un esecutivo di 9 membri. Ossessionato dagli imperativi di sicurezza, il Fronte dispone di un Servizio di sicurezza militare, inquadrato dall’omologo algerino. E se non fosse per l’appoggio dell’Algeria. L’ultima finanzia ambasciate e rappresentanze estere della RASD, centinaia di siti web poliglotti che promuovono le posizioni del POLISARIO e i viaggi della sua leadership, cui concede documenti e passaporti diplomatici. Ha il suo tornaconto: da un Sahara occidentale indipendente e vassallo otterrebbe infatti accesso all’Atlantico e un’indiscutibile supremazia regionale. Pensa di contenere gli aneliti marocchini, ma fomenta una gara a due, che si declina in una corsa agli armamenti, annosa e senza uguali in Africa, e legittima il ruolo preponderante delle forze armate nella società algerina. E’ curioso notare come l’Algeria sia favorevole all’indipendenza dei sa-
harawi, ma draconiana verso le aspirazioni autonomistiche dei berberi kabili. Ed è ancora più curioso notare che, secondo un documento della CIA, declassificato di recente, Algeri propose nuovamente, nel 1985, una soluzione di compromesso per il Sahara Occidentale: autonomia allargata per i saharawi sotto sovranità marocchina. Conflitto dimenticato e congelato, quello del Sahara Occidentale ha avvelenato non solo le relazioni fra POLISARIO, Algeria e Marocco. A farne le spese è stata anche l’Unione per il Maghreb Arabo, inaugurata in pompa magna nel 1989 e bloccata pochi anni dopo (1996) a causa del contenzioso sahariano. Risale alla stessa epoca (1994) la chiusura della frontiera terrestre algero-marocchina, che ha colpito pesantemente l’economia di Ujdah, città dipendente dal commercio e dal turismo algerino. Nonostante il Marocco abbia chiesto a più riprese la riapertura del confine, l’Algeria l’ha condizionata a un accordo d’insieme, inclusivo del Sahara Occidentale.
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Storia
LA POLITICA ESTERA DI ENVER HOXHA (1944-1985) GIOVANNI ARMILOTTA
La figura di Enver Hoxha uando il comunismo implose miseramente qualcuno parlò di Giovanni Paolo II, di Ronald Wilson Reagan, o del suo scudo stellare, ma gli eventi passano sempre sotto la finestra, solo che raramente ci trovano affacciati. Dalla morte di Stalin (5 marzo 1943) vi fu una trasmissione ritualizzata dei poteri universali marxisti: dal simulacro della dittatura del proletariato (il PCUS) al simbolo del capitalismo vincente (El’cin). Al contrario, l’albanese Enver Hoxha, fu il solo intellettuale e capo comunista a comprendere. Fece di tutto per impedire lo sfacelo del socialismo reale, entrando nella Storia come il più grande marxistaleninista dell’ultimo cinquantennio del sec. XX. Grazie all’imperscrutabile polizia segreta albanese – Sigurimi i Shtetit – che ebbe sempre la meglio
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sui complotti di KGB, CIA, UDB jugoslava e servizi cinesi, Hoxha fu l’unico eponimo di Stalin a sopravvivergli lungamente al potere. François Fejtö ha affermato: «In Albania [...] Enver Hoxha dimostrò maggiore astuzia: al momento della divisione egli conservò per sé la direzione del partito»1. E fu proprio da Hoxha2 che incominciarono i contrasti con i vertici cruscioviani. Ma chi era Hoxha? Il solo leader fra le democrazie popolari di cultura occidentale e perfetto conoscitore degli umori del vecchio continente, al cui confronto gli altri segretari e capetti dell’Europa Orientale parevano dei contadini inurbati3. I testi di Hoxha sono i diretti continuatori delle opere di Marx, Engels, Lenin e Stalin, e si possono considerare l’ultima, completa e definitiva interpretazione del marxismo nell’epoca contemporanea. Le sue opere lo collocano nella schiera dei massimi ideologi e rivoluzionari marxisti di ogni tempo. È
François Fejtö, ‘Storia delle democrazie popolari’, Bompiani, Milano 1977, Vol. 2: ‘Il dopo Stalin 1953/1971’, p. 23 (per ‘divisione’ è da intendersi la ‘direzione collegiale’ stabilita nel luglio 1953 dalla conferenza segreta del Cominform convocata a Mosca). Il 12.7.1954 fu eletto Primo Segretario del PLA. Hoxha (16.10.1908-11.4.1985) fu il terz’ultimo protagonista sopravvissuto dalla seconda guerra mondiale (prima della scomparsa di Hirohito nel 1989 e Kim Il Sung nel ’95). Intervista al candidato Premio Nobel per la letteratura, Ismail Kadare su «L’Espresso», N. 7/1991, p. 91.
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stato l’unico leader comunista ad opporsi contro ogni forma di imperialismo. Hoxha, tra le opere, scrisse – in terza persona, come Giulio Cesare nel De bello gallico –Teoria dhe praktika e revolucionit (1977) sul quale tratteremo in seguito, e che dimostrò l’amarxismo del maozedong-pensiero. Tengo a sottolineare l’inciso per ribadire ancora una volta la semplicistica e dolosa omogeneizzazione cino-albanese tanto in voga fra alcuni “intellettuali” coevi nel periodo 1961-1977.
La geopolitica albanese dal 1944 La proclamazione dell’indipendenza (28 novembre 1912) e la creazione dello Stato nazionale furono avvenimenti di grande portata storica per gli Albanesi, che per la prima volta superarono la fase “tribale” della loro omogenea etnia. D’altro canto, le grandi potenze (Italia, Austria-Ungheria, Germania, Francia, Gran Bretagna) e gli Stati limitrofi (Serbia, Grecia), amputarono il Paese nel 1913 della metà dei suoi territori, ma non desisterono neppure dal disegno di cancellarlo totalmente dalle mappe balcaniche o sottometterlo al proprio controllo, attraverso la politica del protettorato di fatto – austro-ungarico, italiano, jugoslavo e ancora italiano. Per cui le radici dell’effettiva indipendenza vanno necessariamente collocate nel periodo successivo alla liberazione, che concretizzò le aspettative di un ruolo definitivamente autonomo. Uno fra i grandi meriti del Partito Comunista d’Albania4 fu quello di aver chiamato nelle fila dell’Esercito di Liberazione Nazionale tutti gli Albanesi, qualunque fossero le loro idee politiche5 e convinzioni religiose, cosicché chi voleva combattere l’invasore si arruolava nell’ELNA, dato che le altre formazioni politico-militari (Balli 4 5 6
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Kombëtar e Legaliteti) erano, all’indomani della capitolazione italiana (8 settembre 1943) – più o meno legate ai tedeschi, e mal tollerate dalla maggioranza della popolazione. Il dato che l’Albania fu l’unico Paese europeo a sconfiggere i nazi-fascisti senza l’aiuto statunitense o sovietico, diede al nuovo governo, controllato dal PCd’A e dominato dalla figura di Hoxha una libertà di decisioni che si ripercosse nei successivi quarant’anni e sino alla caduta dei marxisti-leninisti in Albania. Contrariamente a quanto pensino i fan dell’infoibatore Tito, la Jugoslavia non si liberò da sola da Wermacht ed SS, ma ebbe un decisivo aiuto dall’Armata Rossa sovietica, come le pubblicistiche moscovita e non c’insegnano6. Il primato spetta unicamente ai comunisti albanesi e a nessun altro. L’Albania si è destreggiata abilmente fra confinanti rapaci, in un gioco di accordi e denunce, che non tenessero conto di alleati troppo vicini – preferendo punti di convergenza distanti, non in grado di sovvertire l’ordine interno.
L’ostilità occidentale e il contributo italiano alla salvaguardia dell’indipendenza albanese Gli aiuti apertamente forniti dall’Albania – «being the principal source of material assistance»7 – alle formazioni comuniste greche dell’EAM-ELAS (1946-49) in guerra contro il governo di Atene, e l’incidente di Corfù con la Gran Bretagna maldisposero verso l’Albania i Paesi occidentali, che si opposero alla sua entrata nell’ONU fino al 1955 È indicativo, invece, come la ripresa dei rapporti diplomatici con l’Italia8 (2 maggio 1949) fosse
Dal 22.11.1948, Partito del Lavoro; dal 12.6.1991, Partito Socialista. L’Albania fu l’unico Stato comunista ad annoverare fra i capi di Stato un non-comunista (Omer Nishani: 1946-53). «[L’Armata Rossa sovietica] diede un contributo decisivo alla liberazione della Jugoslavia. Il 20 ottobre 1944, l’Esercito sovietico liberò Belgrado, capitale della Jugoslavia» (Bakhruscin, Bazilevic, Foght, Pankratova, Storia dell’U.R.S.S., sotto la direzione di A. Pankratova, Edizioni di Cultura Sociale, Roma, 1953, Parte terza, p. 681). Pure Atlante Storico, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 2004 (Vol. 31 de L’Enciclopedia, La Biblioteca di Repubblica), pp. 478-479; Atlante Enciclopedico, TCI, Milano, 1990, Vol. 5: Storia moderna e contemporanea, p. 129; Atlante Storico, Garzanti, Milano, 1966, p. 508. Risoluzione N. 288 (IV) A, adottata il 18 novembre 1949 dall’Assemblea Generale dell’ONU. Il governo italiano sin dal 1912 si è sempre pronunciato nettamente in favore dell’integrità albanese (British Documents on the Origins of the War 1898-1914, cit., London, 1934, Vol. IX, p. II, doc. 210).
STORIA 61
stata preceduta da contatti informali avviati nell’estate del 19489. Eliminata la longa manus della Jugoslavia (espulso il PC jugoslavo dal Cominform in primavera) – che bloccava l’apertura verso Roma per la questione di Trieste – la politica estera albanese trasse grandi benefici potendo agire con tutta quella libertà contestatale pochi anni prima da Belgrado. Il Governo Democratico d’Albania (24 maggio 1944-11 gennaio 1946) era stato riconosciuto dalle potenze vincitrici: Gran Bretagna, Stati Uniti ed Unione Sovietica (10 novembre 1945) e Francia (26 dicembre 1945). Qualche mese dopo Londra ruppe le relazioni (4 aprile 1946), per le critiche mosse dalla stampa albanese nei confronti delle ingerenze della missione britannica a Tirana. La Casa Bianca si comportò ugualmente l’8 novembre 1946, in quanto Tirana non riteneva più validi i trattati stipulati con Washington da re Zog. La Jugoslavia, intanto, non tollerava una politica estera difforme dai suoi orientamenti, in specie dopo il consolidamento delle relazioni sovieto-albanesi, e con gli altri Paesi dell’Est ed occidentali. È certo che se lo Stato albanese non avesse goduto di un appoggio trasversale – com’era quello sovietico e delle democrazie popolari in specie nel 1948 – una forma di governo “occidentale” seguìta all’ex dominio di una perdente (l’Italia) avrebbe necessariamente comportato la spartizione dell’Albania fra le due vincitrici Jugoslavia e Grecia (Atene vicina a Londra, e Belgrado a Parigi e poi a Washington). Al contrario, Tirana dové cercare lontano i sostegni alla propria sopravvivenza, poiché fra le ataviche e tradizionali inimicizie etnico-geopolitiche dei vicini, non poteva di certo contare su Roma, debilitata dal trattato di pace. Per cui alla fine degli anni Quaranta, il bisogno di creare una salda politica estera che legittimasse 9 10
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e conservasse l’indipendenza era finalmente una realtà compiuta. L’Albania venne a trovarsi in grave pericolo per il Patto balcanico, siglato cinque giorni prima (28 febbraio 1953) della scomparsa di Stalin; ma in ottobre e novembre il governo di Roma riaffermò l’interesse dell’Italia all’integrità e all’indipendenza albanesi. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Pella, al discorso alla Camera dei Deputati sul bilancio degli esteri (6 ottobre 1953), affermò: «Per quanto in particolare concerne l’Albania è bene ripetere che, a prescindere dalle forme di governo che possono comunque colà essere in atto, l’Italia continua a considerare interesse suo proprio e dell’occidente il mantenimento della indipendenza e dell’integrità di quel paese»10. Inoltre alla conferenza-stampa, al termine del viaggio di Stato in Turchia (14 novembre), aggiunse: «L’Italia considera fondamentale il mantenimento della indipendenza e della sovranità dell’Albania»11 (il primo trattato commerciale con l’Italia fu siglato il 17 dicembre 1954). Già Alcide De Gasperi, in visita ad Atene (8-12 gennaio) si era riferito all’integrità dello statu quo albanese12: precisazione sintomatica quando si continuava ancora a pensare a ventilati progetti di spartizione greco-jugoslavi. Le manovre destabilizzanti della Jugoslavia e lo stato di guerra con l’Albania in vigore in Grecia, indussero Tirana a sottoscrivere nel 1955 il Trattato di Varsavia.
Lo scontro con l’Unione Sovietica e la strategia dell’allontanamento progressivo delle alleanze Nel maggio 1955, il segretario del PCUS, Khrushchëv, senza chiedere l’approvazione degli altri partiti, decise di invalidare le delibere del Comiform e gli apprezzamenti negativi sul-
«Relazioni Internazionali», XIII (1949), N. 19, p. 293; «Keesing’s Contemporary Archives», ivi, p. 9969. Camera dei Deputati, Legislatura II, ‘Atti Parlamentari’, Anno 1953, Discussioni dal 30 settembre (pomeridiana) (XXV) al 15 ottobre 1953 (XXXIX), Vol. II, Roma, p. 1508. «l’Unità», 15 novembre 1953. «La Comunità Internazionale», VIII [1953], p. 361.
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In apertura: Intervento di Enver Hoxha al 4° Congresso di Arte Pitorica Sopra: Enver Hoxha con Stalin (Mosca, Stadio “Lenin”, Luglio 1947)
Enver Hoxha col successore Ramiz Alia (a sinistra) nel 1984, un anno prima della scomparsa del leader albanese
l’operato di Tito, e di recarsi a Belgrado a capo di una delegazione del partito e del governo sovietici (26 maggio-3 giugno). Khrushchëv a tutti i costi volle imporsi unilateralmente, e soltanto due giorni prima della partenza, informò il PLA del fatto compiuto, chiedendo fosse annullata la terza risoluzione del Cominform del novembre 1949, e revisionata quella del giugno 1948, che condannavano i titisti. Nello stesso tempo pretendeva l’appoggio per un comunicato su tale argomento, da lui stesso redatto e che doveva essere diffuso a nome del Cominform senza che questo si riunisse. II CC del PLA considerò il gesto con grande diffidenza e, a mezzo di una lettera inviata al PCUS il 25 maggio 1955, si pronunciò contro il viaggio, opponendosi alla riabilitazione di Tito. Tralasciando di esaminare il rapido aggravarsi delle relazioni fra i due Paesi giungiamo al 1961, quando Khrushchëv, dopo il XXII Congresso del PCUS (Mosca, 17-27 ottobre) ruppe, il 3 dicembre dello stesso anno, i rapporti con Tirana. Già dopo il XX Congresso del PCUS (1956), Hoxha aveva compreso da subito che il processo degenerativo, una volta che avesse preso piede nella madre patria del socialismo, sarebbe dilagato a macchia d’olio, innanzitutto nei partiti comunisti europei, coinvolgendo nel lungo periodo aspetti geopolitici di difficile previsione, specie per il proprio Paese con alle spalle la Jugoslavia, a cui Mosca aveva porto la mano nel 1955. Hoxha non tollerò mai la concezione di un comunismo fossilizzato in un’area geografica
ben definita, e combatté la teoria della sovranità limitata. Egli contestava a Mosca la degenerazione dell’ortodossia in strumento di compromesso stabilizzante, atto a favorire l’equilibrio del terrore atomico fra Stati Uniti ed Unione Sovietica. Successivamente Hoxha, dopo aver stimolato, incoraggiato e caldeggiato pure le critiche cinesi all’URSS – in vista d’indebolire l’autorevolezza sovietica nel Terzo Mondo – stigmatizzò il maozedong-pensiero (infra). Sin dagli anni Sessanta Hoxha spiegò come nella scomparsa di un potente punto di riferimento (l’Albania era troppo piccola, ed in Cina egli aveva già ravvisato, sin dai tempi della rivoluzione culturale, che il socialismo si mutava rapidamente in capitalismo), l’intero castello sarebbe crollato. Paesi dell’Est, Cuba, Indocina, Mongolia, e partiti comunisti occidentali erano rispettivamente protettorati e ambasciate-quinte colonne del Cremlino e avrebbero basato la loro legittimità sulla “coesistenza pacifica” fra sistemi politici differenti. Nel luglio 1968 la stampa albanese ravvisava i pericoli cui andava incontro chi anelava rompere definitivamente qualsiasi legame con l’Unione Sovietica. L’invasione della Cecoslovacchia (21 agosto) non trovava impreparati gli Albanesi: il 13 settembre il Kuvendi Popullor (parlamento) approvò il disegno di legge che denunciava il Patto, solidarizzando con i Cechi e gli Slovacchi, e difendendo l’indipendenza patria. È significativo constatare come alla solidarietà albanese, europea e mondiale ai Ceci e agli Slovacchi, l’estrema sinistra parlamentare dell’Occidente elevasse peana
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Lo scespiriano ufficio politico eletto al termine del VI Congresso del PLA (1-7 novembre 1971): Abdyl Këllezi (1ª fila/1° da sinistra, filocinese, fucilato nel 1976), gen. Beqir Balluku (1ª/3°, filocinese, fucilato nel 1975), gen. Kadri Hazbiu (2ª/2°, filo USA-URSS-Jugoslavia, fucilato nel 1983), Koço Theodosi (2ª/3°, filocinese, fucilato nel 1976), Mehmet Shehu (3ª/1°, filo USA-URSS-Jugoslavia, suicida nel 1981), gen. Petrit Dume (4ª/1°, filocinese, fucilato nel 1975), Pirro Dodbiba (4ª/3°, filosovietico, fucilato nel 1977)
al grande fratello, ed esponenti dell’attuale politica europea ed italiana13 – a poco tempo dai tragici eventi – esprimessero affermazioni di pieno sostegno all’invasione.
Lo sviluppo delle relazioni con l’Occidente I primi trattati erano stati già firmati con l’Italia (1954, 1961); proseguirono con Grecia, Svizzera, Belgio (1970), Tunisia (1973), ecc., ma gli eventi di Praga segnarono pure l’inizio di un graduale sganciamento dalla Cina, in quanto la minaccia sovietica non poteva controbilanciarsi con un’alleanza remota, e per giunta militarmente debole rispetto alle superpotenze. In più Tirana considerarò che l’aiuto simbolico e obsoleto cinese non fosse in grado di porre rimedio ai seri problemi economici albanesi, in specie dopo l’avvicinamento sinostatunitense dei primi anni Settanta. 13 14
Enver Hoxha nel 1933, quando studiava alla prestigiosa Università di Montpellier
Pechino, a sua volta, rendendosi conto di essere sul punto di perdere l’alleato europeo, cercò di abbattere il regime attraverso due putsch (1974 e 1975), e il 7 luglio 1977 («il giorno dei quattro sette») gli Albanesi costrinsero i Cinesi ad abbandonare ogni velleità, attraverso la pubblicazione dell’editoriale del quotidiano «Zëri i popullit»: Teoria dhe praktika e revolucionit14. Il manifesto dottrinario di 7.500 parole smontò la «teoria dei tre mondi» elaborata da Mao Zedong, accusando la Cina di egemonismo, imperialismo e complicità con gli Stati Uniti. Una denuncia scientificamente argomentata che ebbe vaste ripercussioni a livello mondiale: fu trasmessa da tutte le agenzie di stampa, e se ne parlò sui maggiori quotidiani. «Le Monde» dedicò all’avvenimento l’editoriale del 10-11 luglio 1977 (Et s’il n’en reste qu’un...) e l’apertura (L’Albanie s’éloigne de la Chine. Tirana dénounce la strategie de Pékin). In Italia «la Repubblica» del 9 luglio riportò nel taglio di prima,
«l’Unità», 7 novembre 1969. Ampi stralci del documento (in lingua italiana) sono riportati da «Relazioni Internazionali», XLI (1977), N. 30, pp. 731733. Chi desiderasse il testo intero in lingua inglese può rivolgersi all’autore del presente saggio.
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l’articolo di David Tonge Contro la Cina duro attacco dell’Albania, e seguì la vicenda successivamente. «La Stampa» dello stesso giorno commentò favorevolmente l’aspra critica albanese: «[...] l’Unione Sovietica, e talvolta anche la Cina, hanno appoggiato regimi decisamente reazionarî dei Paesi in via di sviluppo, senza preoccuparsi della sorte da essi riservata all’interno agli elementi rivoluzionarî marxisti leninisti. Gli esempi non mancano: basta pensare ai cordiali rapporti tra Pechino e l’attuale regime cileno, e persino con la Spagna di Franco, oppure all’appoggio dato da Mosca, con aiuti militari e di altro tipo, all’Uganda di Idi Amin Dada». Esattamente dopo un anno (7 luglio 1978) la Cina interruppe tutti i rapporti economico-commerciali. Il mutamento delle alleanze albanesi nel mondo comunista, la stretta osservanza ai principî del marxismo-leninismo e il modello staliniano, celavano in realtà il timore atavico di assorbimento da parte jugoslava, in questo facendo leva sul nazionalismo interno, l’irredentismo dei connazionali nei Paesi balcanici e della diaspora mondiale (in specie quella statunitense), nonché sugli equilibri strategici occidentali. Fra gli anni Sessanta e Settanta, la dirigenza di Tirana preferì iniziare ad orientarsi in un confronto diplomatico-commerciale con l’intera Europa, sorpassando le incompatibilità poste dai differenti sistemi – anche per uscire dalle difficoltà economiche dovute dalla rottura dei rapporti con l’URSS voluta da Khrushchëv, ma fomentata dagli stessi Albanesi che temevano il riavvicinamento jugo-sovietico. Subito dopo Tirana espresse il desiderio di un costruttivo riferimento ad Ovest. Ed infatti, trascorsi quattro giorni dalla rottura voluta dai sovietici, l’Albania firmava un accordo a lungo termine con l’Italia concernente gli scambî commerciali15. Nel frattempo l’Albania aveva già stretto relazioni e trattati con molti Paesi occidentali (anche della NATO): Argentina, Brasile, Danimarca, Finlandia, 15 16
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India, Indonesia, Iran, Lussemburgo, Marocco, Messico, Norvegia, Paesi Bassi, Perù, Svezia, Turchia, ecc. Al contempo mantenendo vivi contrasti insanabili, ed evitando sia pure un minimo dialogo politico con Washington e Mosca. Alla fine degli anni Settanta, si registrò un’apertura verso la Jugoslavia (maggior partner commerciale, che subentrava alla Cina), bilanciato da un rafforzamento di scambi e cooperazione con Italia, Grecia e Turchia. Mossa accorta, poiché non passò tempo che la repressione militare jugoslava ai danni del Còssovo (anche allora oltre il 90% della popolazione era albanese), provocò una crisi nei rapporti con Belgrado (primi del 1980). Su questa linea, l’Albania alla morte di Hoxha, giunse a sviluppare relazioni ufficiali con 105 Stati; svolgendo attività commerciali anche con Paesi con i quali non intratteneva rapporti, e pure – com’è inedito ai più – con gli stessi Stati Uniti, nonostante la mancanza assoluta di contatti diplomatici16. Inoltre il governo schipetaro, mostrando intelligenza ed acume, non espropriò i locali dell’ex Ambasciata statunitense, sita nell’allora Rruga Labinoti. In seguito, questa diventò sede dell’ambasciata italiana, al N. 10317: il governo di Roma s’impegnò a pagarne la locazione direttamente alla Casa Bianca col consenso amministrativo delle autorità comuniste, nonostante i due Paesi non avessero rapporti diplomatici. Alla ripresa delle relazioni albano-statunitensi (1991), l’Ambasciata di Washington tornò puntualmente in Rruga Labinoti N. 103, e gl’Italiani si recarono in Rruga Lek Dukagjini18.
Conclusioni Hoxha pose con lungimiranza le basi all’esclusione bellica del proprio Paese dai tre grandi eventi che avrebbero marcato i primi anni Novanta: l’esaurimento di Jalta, l’unificazione tedesca, il disfacimento dell’Unione Sovietica. L’intreccio
«Diritto Internazionale», XVI (1962), p. 490. Dal 1974 l’Albania diede vita a scambi di import-export con Canada, Germania Federale, Giappone, Gran Bretagna, Spagna e Stati Uniti d’America, per decine di milioni di dollari («The Europa Year Book», 1977, I, p. 422). Per l’ultimo anno cfr. «The Europa World Year Book», 1992, Vol. I, p. 313. «The Europa World Year Book», 1993, Vol. I, p. 293-294.
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Enver Hoxha il 21 agosto 1946 alla Conferenza di pace di Parigi
Vilson Kilica (n. 1932): “11 gennaio 1946: la proclamazione della Repubblica Popolare d’Albania”
La prima trasmissione di Radio Tirana dopo la liberazione di Tirana avvenuta il 17 novembre 1944
Valona, 28 novembre 1912: Ismail Qemali bej Vlorë, proclama l’indipendenza d’Albania. Ismail Qemali fu il primo Capo di Stato e premier albanese; si dimise il 22 gennaio 1914: subentrò in entrambe le cariche Fejzi bej Alizoti
di questi processi ha favorito la Terza Guerra Balcanica (1992-99), con una serie di cripto-alleanze europee dagli equilibri sottili. L’Albania è restata l’unico angolo pacifico dei Balcani occidentali: pure considerando innanzitutto il violento cambiamento istituzionale che prese piede in Romania nel 1989, e le minacce e aspirazioni territoriali greche alla neorepubblica ex jugoslava della Macedonia all’indomani della dichiarazione d’indipendenza (8 settembre 1991). L’Albania in una prima fase – nonostante lo stato di violenza in Còssovo – riuscì non solo a evitare di farsi trascinare nelle ostilità, ma addirittura a controllare l’irredentismo di Prishtina (1989-1992), potendo contare sulle aperture ad Occidente. Da principio degli anni Ottanta, Tirana si volse verso la Germania Federale (1983) e la Spagna (1984), avviò il dialogo con la Gran Bretagna (1985) nonché rafforzò le relazioni con l’Italia, mentre non si era mai alienata il rispetto della NATO (e di conseguenza degli Stati Uniti) in virtù della
sua politica rigidamente equilibrata che, col tempo, pagò attraverso il congelamento pacifico dell’ultracentenaria questione albanese fino al 1999. Il periodo 1944-85, perciò, è stato caratterizzato da una precisa fisionomia nel quadro dei rapporti internazionali. Quando gli Albanesi espulsero tutti i consiglieri sovietici e affrontarono alcuni mesi senza gli aiuti alimentari di Mosca essi rifiutarono di integrarsi totalmente nel mondo comunista (il Cremlino aveva deciso di trasformare l’Albania in granaio e frutteto oltre che come base militare avanzata contro l’Italia e quindi la NATO). Questo avvenne perché negli anni precedenti e contemporanei la reciproca sopportazione Tirana-Pechino, Hoxha ebbe l’intuizione che il proprio Paese non dovesse accettare alcun legame di sudditanza. Egli considerò che se l’Albania fosse stata risucchiata nella logica dei blocchi (costruzione di basi militari straniere, ingerenze esterne, omologazione della politica estera: come accadde per gli altri Paesi dell’Est e
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dell’Ovest), l’intero processo di stabilità strategica e diplomatica avrebbe subìto un totale annichilimento, condizionato da esigenze di equilibri foranei completamente estranei agl’interessi di Tirana. Fra l’altro, Hoxha precisò sempre di avere a cuore l’integrità statale jugoslava, come elemento insostituibile nella stabilità balcanica: ed il tempo non ha tardato a dargli ragione; ma non per questo lasciò a se stessi i fratelli del Còssovo, aiutandoli fattivamente nel corso degli anni Settanta ed Ottanta19. Negli anni Ottanta si parlò tanto dell’antisovietismo del popolo polacco, in Albania già da vent’anni era antisovietico anche il governo – ma per volontà di determinate lobby di alcuni Paesi europei si preferiva non discuterne, contrariamente a quanto accadeva in Austria, Francia, Germania, Scandinavia, in altri Stati e nella stessa URSS. La quarantennale tenacia con cui tale atteggiamento fu sostenuto, conferì gradualmente all’Albania massimo prestigio, in una dura condizione strategica, ed in una non meno difficile dal punto di vista economico. Non dimentichiamo, però, che il mantenimento del consenso interno e la compattezza della popolazione attorno all’esecutivo, furono possibili ricorrendo a metodi drastici, in specie nei confronti di pur minime dissidenze provenienti non tanto dalle masse ma, in specie, dalla nomenclatura e dagli intellettuali. La politica estera albanese 1961-91 rimanendo strettamente legata agl’imperativi della sicurezza e dell’interesse nazionali, per dirla con le parole di Deutsch riferite alle superpotenze – applicò i propri princìpi attraverso le politiche diplomatiche «di aiuto alle nazioni straniere» (sostegno albanese ad alcuni movimenti di liberazione sudamericani); mediante gli sforzi «per diffondere la propria propaganda nazionale e ideologica»; e tramite l’«appoggio allo scambio di missioni culturali e scientifiche che favoriscono questo fine». Essa seppe prima fronteggiare e 19 20 21
poi gestire le difficili situazioni, presentatesi sullo scenario in maniera improvvisa o progressiva. L’Albania ha condotto battaglie politiche e assunto posizioni conformi all’avito spirito del proprio Popolo. Le tradizioni bizantino-ottomane, che resero gli Albanesi i Signori del Levante fra i secc. XVI-XIX, temperarono una diplomazia determinata e intelligente, severa e flessibile, concreta e raffinata. Non si trattava di dirigenti di basse origine ed estrazione sociale, con raccogliticcia acculturazione marxista, e insufficiente bagaglio culturale. E nemmeno di ex burocrati del Comintern o della sezione internazionale della NKVD che avevano svernato a Mosca negli anni Venti-Quaranta e poi imposti dall’Armata Rossa come propri agenti, per cui ammaestrabili e riconducibili alla casa madre. Gli albanesi erano uomini cólti che avevano studiato nelle capitali europee e quindi, come riporta Brzezinski20, con educazione e cultura occidentale, i quali conoscevano i testi, la dottrina e l’arte della guerra, e che perciò sapevano come fronteggiare chi avesse sin troppo alzato voce e mani contro il proprio Paese. Nel loro sangue scorrevano le esperienze delle grandi famiglie claniche; in principio baluardi della Cristianità occidentale a difesa dell’indipendenza nazionale fino al sec. XV; successivamente ammiragli, generali e gran visir della Sublime Porta; capi di Stato mediterranei, da sempre tutelanti l’etnia schipetara nel mare slavo-ortodosso della Balcània. Lo scontro RussiaImpero Ottomano per lo sbocco nel Mediterraneo, si spostò nel 1961 – quale ironia della storia – dall’asse Seconda e Terza Roma a quello TiranaMosca21. E basti solo dire che l’Albania fu l’unico Paese comunista che, dopo la rottura con la Jugoslavia – contravvenendo gli ordini di Stalin – non prese per primo l’iniziativa di abrogare il relativo trattato bilaterale di amicizia, cooperazione e mutua assistenza.
I balcani secondo gli Albanesi – Fate come in Kuwait, Conversazione di Arjan Konomi con Bardhyl Mahmuti, leader dell’Uçk (esercito di liberazione del Còssovo), in «Limes», VI (1998), N. 3, Il triangolo dei Balcani, p. 126. Zbigniew Kazimierz Brzezinski, The Soviet Bloc. Unity and Conflict, Harvard University Press, Cambridge (MA), 1969, p. 387. Cfr. Giovanni Armillotta, La crisi della base sommergibilistica di Valona del 1961, in «Rivista Marittima», CXLII (2009), NN. 2-3, Febbraio-Marzo, pp. 99-106.
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F inestra sul mondo La complessa ed eterogenea struttura delle forze di opposizione sirianeN P ICOLA EDDE
In seno all’opposizione siriana tendono ad accentuarsi le divisioni tra i gruppi di più recente adesione e quelli della compagine iniziale, e questo fenomeno si è accentuato soprattutto a seguito della defezione di Manaf Tlass e Riad Hijb, rispettivamente ex generale della Guardia Repubblica e stretto alleato di Bashar al-Asad il primo ed ex Primo Ministro di recente defezione il secondo. Il presidente del Consiglio Nazionale Siriano (SNC), Abdulbaset Sieda, ha infatti senza mezzi termini confermato nel corso di recenti interviste televisive, come i due importanti personaggi un tempo parte dell’inner circle di Bashar alAsad, pur benvenuti nelle fila dell’opposizione, non potranno far parte del costituendo governo ad interim, in quanto non appartenenti al nucleo originale dell’opposizione al regime di Damasco. I due personaggi, sebbene non in modo palese, sono accusati dal gruppo di comando dell’SNC di aver aderito all’opposizione solo per calcolo politico e non per convinzione, e di non aver chiarito – soprattutto nel caso di Hijb – le controverse indiscrezioni relative alle accuse di appropriazione indebita nel momento della fuga da Damasco. La progressiva tendenza alla chiusura nei confronti delle più recenti leve della defezione è stata criticata tuttavia dalla gran parte degli alleati occidentali dell’opposizione siriana, che chiedono invece maggiore spazio per la componente dell’Esercito Libero Siriano, FSA, e per le minoranze religiose
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dei cristiani e degli alawiti. Lo scopo di Abdulbaset Sieda è quello di giungere all’imminente Conferenza degli Amici della Siria, che si terrà in Settembre in Marocco, con una compagine politica che possa essere riconosciuta univocamente come governo ad interim della Siria, trattando quindi da un punto di forza con i delegati occidentali e mediorientali che sostengono l’opposizione, e vedendo riconosciuto di fatto il proprio ruolo come predominante su ogni altra posizione politica dell’opposizione. Senza considerare, però, che questo progetto sarà apertamente contrastato da Mohammad Nawfal Dawalibi, al vertice di un ulteriore “governo in esilio”, Basma al-Qadamani, transfuga dell’SNC e anch’egli all’opera per costituire una forza politica di transizione, e Haitham Maleh, impegnato nel tentativo di costituire un governo provvisorio con sede al Cairo. Ma Sieda sembra anche aver trascurato come la gran parte dei paesi occidentali sembra oggi voler concedere maggiore spazio di manovra alle forze dell’Esercito Libero Siriano, a danno dell’SNC. Non poche informazioni sono trapelate, infatti, circa l’insoddisfazione delle cancellerie europee circa il ruolo dell’SNC e soprattutto della sua incapacità di realizzare un progetto di raccordo politico unitario, disperdendo progressivamente la capacità e la credibilità dell’opposizione siriana soprattutto agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. Circostanza che avrebbe quindi imposto un muta-
mento di indirizzo atto a favorire al contrario un tentativo di unificazione delle forze dell’opposizione militare sotto l’egida dell’Esercito Libero Siriano. Che, sebbene anch’esse estremamente frammentate e conflittuali, possono almeno vantare la capacità operativa sul terreno e quindi un peso maggiormente significativo nella conduzione del tentativo di rovesciamento di Bashar al-Asad. E in seno all’Esercito Libero Siriano è in atto un ulteriore tentativo di consolidare un gruppo politico cui attribuire un ruolo istituzionale sotto forma di governo provvisorio, sotto la guida del Colonnello Qassem Saad Eddin in Rastan. Che, tuttavia, non rappresenta in alcun modo il vertice di comando delle milizie armate operative sul terreno, ma solo la componente dell’FSA costituta da ex militari dell’esercito siriano. E non, quindi, l’altrettanto consistente quanto eterogenea compagine delle milizie irregolari, di ispirazione jihadista e, non ultime, quelle sospettate di legami con la galassia di Al Qaeda. Un mosaico di posizioni, quindi, estremamente differenti tra loro, caratterizzate da interessi e finalità spesso in disaccordo e in larga parte ampiamente sottovalutate dagli osservatori occidentali. Che, nella frenetica ricerca di un credibile avversario al regime di Damasco, sembrano aver ignorato – più o meno volutamente – l’ambigua quanto spesso pericolosa composizione delle forze che compongono l’opposizione armata, procrastinando ogni valutazione circa il rischio di un loro effettivo consolidamento sul terreno. Secondo fonti russe, invece, sarebbero presenti lungo il confine della Siria e nelle aree limitrofe numerosi campi di addestramento, organizzati dalla Turchia, dagli USA, da alcuni paesi europei e dalle stesse organizzazioni islamiche e jihadiste. Questi campi di addestramento sarebbero gestiti da personale delle forze speciali di alcuni paesi occidentali, ma soprattutto da mercenari professionisti, di diversa estrazione e nazionalità. Secondo i russi, inoltre, una consistente componente del jihadismo ceceno avrebbe varcato il confine della Siria e sarebbe entrato in azione al fianco di gruppi guerriglieri radicali e, forse, aderenti alla rete di Al Qaeda. Confermerebbe questa versione dei fatti la notizia della morte in Siria di Rustam Gelayev, figlio del leader ceceno Ruslan Gelayev. I russi denunciano quindi il rischio di un probabile riarmo delle cellule jihadiste cecene, ed il concomitante rischio di un loro rientro nel Caucaso russo una volta che il regime di Bashar al-Asad dove collassare sotto i colpi dell’opposizione. Ritorno, tuttavia, che sarebbe caratterizzato questa volta dall’ampia disponibilità di armi ed equipaggiamenti sofisticati forniti da Stati Uniti, Arabia Saudita e Qatar, e che renderebbero queste organizzazioni una minaccia gravissima per la sicurezza nazionale russa. Le forze dell’opposizione armata siriana sono quindi tutt’altro che unite e coese. Quelle dell’Esercito Libero Siriano, al comando del Colonnello Riad Assad, sono visibilmente sog-
gette al volere della Turchia, che tuttavia non controlla ogni singolo elemento del gruppo, ma solo il suo quadro di comando. Verificandosi quindi spesso che le unità minori sul terreno si trovino ad operare sulla base di decisioni autonome, maturate sul momento per necessità operativa o per orientamento ideologico dei quadri intermedi. Le forze delle milizie armate irregolari sono invece a loro volta suddivise in una miriade di gruppi e fazioni dall’ambigua linea di comando. La gran parte di queste unità è caratterizzata da un elevato grado di autonomia, sebbene nell’ambito di posizioni generali solitamente dettate dai rispettivi finanziatori. Tra questi spiccano l’Arabia Saudita e il Qatar, sebbene con posizioni e interessi distinti e non raramente divergenti tra loro. Sono presenti sul terreno anche numerose cellule cosiddetti “dormienti”, composte da elementi delle formazioni islamiste non intenzionate a partecipare alla fase dei combattimenti contro le forze militari di damasco, ma in attesa di un crollo del regime per sviluppare la propria rete di connessioni soprattutto nelle aree rurali e nelle periferie dei grandi centri urbani. Queste forze, forti dell’esperienza tunisina e libica – ed in un certo qual modo egiziana – contano di poter giocare un ruolo significativo nel futuro post-regime della Siria, inserendosi nel tessuto locale come alternativa alle forze combattenti dell’opposizione, dell’SNC e dei gruppi laici della diaspora. La gran parte di queste cellule dormienti è legata alla Fratellanza Musulmana, sebbene con linee di dipendenza e fedeltà più vicine alla compagine egiziana che non a quella locale siriana. Considerata da molti troppo vicina alle posizioni saudite e dei gruppi salafiti. Le cellule “dormienti” sono state accusate apertamente da alcuni esponenti del FSA di voler beneficiare dello sforzo delle unità combattenti sul terreno, con una logica però competitiva ed alternativa a quella dei transfughi dell’esercito siriano. Accusa sostanzialmente confermata alla fine di agosto dalle dichiarazioni dell’addetto alle relazioni internazionali della Fratellanza Musulmana, che ha apertamente ammesso la presenza di unità “dormienti” nel nord della Siria, il cui compito è quello di attendere che le condizioni sul terreno permettano di avviare la fase della propaganda politica. Altro elemento significativo, infine, è stata la netta e manifesta presa di posizione del presidente egiziano Mursi contro la Siria, nel solco di un aperto e sempre più incisivo sostegno alle locali gemmazioni della Fratellanza Musulmana fedeli alla linea ispiratrice egiziana. In occasione della Conferenza dei Paesi Non Allineati tenutasi a Tehran a fine agosto, Morsi ha infatti apertamente accusato il regime siriano di essere repressivo ed antidemocratico, determinando l’abbandono dei lavori da parte della delegazione di Damasco, e delineando con grande precisione e clamore mediatico il nuovo corso della politica regionale egiziana.
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a cura del
O sservatorio Strategico
Centro Militare Studi Strategici
ORDEM E PROGRESSO, ANCHE NELLA DIFESA FRANCESCO LOMBARDI Quando si pensa ai paesi che, in parte indenni dalla crisi economico-finanziaria che attanaglia il Vecchio Continente, stanno assumendo un ruolo crescente nelle dinamiche geopolitiche, la mente corre ad est. Principalmente alla Cina e agli altri colossi con essa confinanti: Russia ed India. Pure interessanti sono poi il Vietnam e le Filippine, che, nel segnare tassi di sviluppo da far fare salti di gioia ogni ad governo europeo, tentano di guadagnare posizioni strategicamente rilevanti sgomitando tra i giganti vicini. Ma anche la Turchia a noi vicina o la lontana Indonesia sono sinonimi oramai di economie in crescita, pronte ad assumere un ruolo significativo nell’assetto multipolare che, come generalmente acclarato, sta assumendo il nostro pianeta. Meno immediatamente il pensiero corre ad occidente. Eppure, in questo mondo sempre più piccolo, a 9000 km dalla nostra penisola, sta crescendo un paese che, almeno culturalmente, è molto legato all’Italia. Il Brasile. Una crescita che non è solo economica, ma anche politica, strategica e militare. E, come tale, un paese da seguire, non solo in senso accademico. Opportunità da cogliere e di sinergie da sviluppare, non esclusivamente in senso mercantilistico. Paese dalle forti potenzialità, in parte ancora inespresse. Con una classe politica decisa a traghettare il gigante sudamericano verso una modernità basata su nuovi paradigmi di sviluppo, che tengano lontano le patologie, sempre possibili, che si sono palesate nei modelli classici e negli standard occidentali. Una leadership che vuole affiancare, alle dimensioni geografiche, demografiche ed economiche del paese, anche una significativa dimensione politico-strategica. In tale ambito, la modernizzazione del settore della difesa sta procedendo di pari passo con lo sviluppo degli altri settori, con forti sinergie interne, allo scopo di dare al paese credibilità ed autorevolezza in campo militare; premesse per ulteriori e significative azioni in campo internazionale. La modernizzazione nel settore della difesa e della sicurezza, per un paese che è storicamente pacifico, è sostanzialmente motivata dalla positiva congiuntura economica, dalle ambizioni a consolidare una leadership regionale e, soprattutto, dall’aspirazione ad acquisire posizioni di rilievo sulla scena mondiale e, in prospettiva, un ruolo da protagonista al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. In tale contesto, la disponibilità di uno strumento militare credibile, operativamente valido e significativamente utilizzabile, consente di proporsi nell’agone internazionale con credenziali di rispetto. Partecipando ad attività multinazionali ed intervenendo in aree di crisi (da Haiti al Medio Oriente) le Forze Armate Brasiliane vogliono dimostrare la volontà e la capacità del paese di partecipare da protagonista non secondario alla governance globale. La modernizzazione della difesa del paese ha solide radici e guarda lontano. Essa ha come pilastro la legge firmata nel dicembre 2008 dall’allora presidente Lula che approvò l’Estrategia Nacional de Defesa Brasilera. Documento base su cui è stato innestato un più articolato processo di analisi e programmazione, certo ancora da completare. A breve, dopo un processo elaborativo che ha visto impegnate varie realtà istitu-
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zionali, sarà emanato un Libro Bianco destinato a dettagliare strategie e risorse. Nel documento del 2008, pur non identificando minacce particolari, si concentra l’attenzione sul possibile confronto con consistenti forze militari in Amazzonia, sul contrasto a penetrazioni ostili negli spazi aerei e marittimi, su eventi catastrofici di particolare gravità originatisi anche oltre frontiera e sulla protezione degli interessi nell’Atlantico meridionale. E’ presente nel documento del 2008, come in quelli discendenti, forte attenzione all’Amazzonia ed alle acque prospicienti la parte meridionale del paese. Ciò in ragione, da un lato, del valore che hanno assunto, nella nuova geografia economica, questi due immensi bacini, dall’altro, dei timori di perdere, o vedere limitati, i propri legittimi interessi. L’Amazzonia, infatti, non è più quello spazio senza regole e senza controllo di alcuni decenni orsono; essa è diventata un serbatoio di risorse che in futuro saranno sempre più preziose: dalla biodiversità alla stessa aria, che coi protocolli di Kyoto diviene un bene economicamente sfruttabile. Senza dimenticare la permeabilità delle frontiere amazzoniche che hanno permesso ad avventurieri, terroristi, criminali e contrabbandieri di operare senza molte difficoltà. L’esercizio effettivo della sovranità su questo vasto territorio permetterà al Brasile sia di dimostrare la piena ed assoluta competenza nello sfruttamento di ogni risorsa in essa contenuta, sia di garantire il corretto ed economico sfruttamento delle risorse stesse. Inoltre, la scoperta, nel 2007, di ingenti giacimenti di idrocarburi al largo delle coste atlantiche ha aperto nuove possibilità all’economia del paese. Nel contempo, ha innescato timori per possibili ingerenze esterne, anche forti e pervasive, finalizzate a sottrarre al paese la piena disponibilità di ciò che viene vissuto come un vero e proprio tesoro, capace di dare ulteriore impulso ai già invidiabili trend di crescita ed assicurare un futuro prospero ed un benessere diffuso. La modernizzazione della difesa e la riorganizzazione delle strutture militari si sono quindi orientate verso il rafforzamento delle capacità di monitoraggio, controllo e mobilità. Si sta, infatti, avviando lo spostamento verso il centro del paese di reparti prima operanti nella parte meridionale o gravitanti nelle grandi metropoli. Parimenti, importanza è stata data al settore dello spazio, essendo i brasiliani interessati a sviluppare satelliti con scopi duali. Gli approvvigionamenti programmati, poi, danno il senso delle priorità strategiche definite. Accanto all’acquisizione di nuovi mezzi terrestri ed aerei, il settore navale sta per avviare un deciso rafforzamento, con l’acquisizione di unità di superficie, di UAV e, soprattutto, con la creazione di una forza subacquea basata sia su battelli a propulsione convenzionale che nucleare. Investimenti che vedono coinvolte soprattutto aziende francesi e tedesche ma in cui anche l’Italia può giocare una partita di rilievo, per il valore delle capacità nazionali e per l’interesse brasiliano ad acquisire, insieme ai prodotti, know-how e tecnologie. Il Brasile, quindi, pare oramai voler dare effettività all’ordine come base ed al progresso come risultato, da oltre un secolo sintetizzato sulla bandiera nazionale.
N otizie dal teatro
A CURA DI PIER VITTORIO
ROMANO
OPERAZIONE “SHRIMPS NET” Lo scorso luglio si è conclusa l’operazione denominata “SHRIMPS NET”, che ha interessato la provincia di Farah, area Sud della zona di responsabilità del Comando Regionale Ovest (RC-WEST), tenuta congiuntamente dalle forze di sicurezza afgane (Afghan National Security Forces- ANFS) e dai militari italiani. Durate tutto il periodo di attività - oltre un mese - sono state impegnate sul terreno le forze di sicurezza afgane (Afghan National Security Forces- ANFS) coadiuvate dalle Task Forces South East, Center e South (1° reggimento bersaglieri, 19° reggimento GUIDE e 82° reggimento fanteria TORINO), con assetti del 21° reggimento genio, del 4° reggimento alpini paracadutisti, del 185° reggimento acquisizione obiettivi, del 7° reggimento trasmissioni, aerei italiani e della coalizione, elicotteri della task Force FENICE, assetti APR (velivoli a pilotaggio remoto) con compiti di sorveglianza dell’area interessata
previsto decremento delle forze. L’operazione ha dato i suoi frutti: sono stati rinvenuti 67 IED - Improvised Esplosive Device - ed un deposito di munizioni, poi distrutti dagli artificieri italiani, statunitensi ed afgani. Nel corso dell’operazione, gli insorti hanno tentato, più volte, di ostacolare le attività, ma sono stati sempre respinti e sette di loro sono stati posti sotto arresato dalla polizia afgana. Al termine dell’operazione, il distretto del Gulistan è tornato completamente sotto il controllo della Afghan National Security Forces. L’operazione “Shrimps Net” ha portato alla cessione di una base (FOB ICE) alle autorità di sicurezza afgane ed allo smantellamento di un’altra (COP SNOW) ritenuta non più necessaria, ed è l’ultima attività congiunta in ordine di tempo. Qualche mese prima, a maggio, dopo oltre 20 giorni di pattugliamento continuo e circa 10.000 km percorsi, si era conclusa l’operazione “SOUTHERN ARROW”. L’attività
alle operazione, per un totale di circa 3000 uomini. Le attività hanno avuto come obiettivo quello di disarticolare la rete degli insorti, di prendere pieno possesso del Distretto del Gulistan e di concentrare forze ISAF nei Distretti chiave della provincia di Farah, in ragione del
operativa, condotta dalla Task Force Center, su base 82° reggimento fanteria “TORINO”, aveva visto impegnata una compagnia di manovra con 12 VBM “FRECCIA” e 20 VTLM “LINCE”, che quotidianamente pattugliava la RING ROAD, strada che attraversa le quattro province che co-
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stituiscono il Regional Command West. Il controllo del territorio si è spinto sino ai limiti dell’area di competenza. L’operazione ha permesso di mantenere la libertà di movimento lungo la rotabile, chiamata anche Highway 1, di grande importanza strategica e commerciale, e di contrastare la criminalità e l’insorgenza locale, incrementando notevolmente le condizioni di sicurezza delle aree pattugliate. A giugno si è conclusa nel villaggio di Shewan, nella provincia di Farah, dopo cinque giorni di intensa attività, l’operazione congiunta di contrasto al terrorismo tra le forze armate afghane e i militari italiani della Task Force South, su base Reggimento “Cavalleg-
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geri Guide” (19°), denominata “ZAFAR 4”. Circa 700 uomini sono stati impegnati nell’operazione, che aveva lo scopo di liberare l’area dagli insorti, ed ha portato al fermo di 23 persone, di cui 9 arrestate dalle forze di polizia afghane. E’ opportuno ricordare che dallo scorso 31 marzo la Brigata bersaglieri GARIBALDI costituisce la base del contingente italiano che, con altri 9 Paesi contributori, forma il Regional Command West, nell’ambito dell’operazione ISAF (International Security Assistance Force) nell’ovest dell’Afghanistan. Il compito precipuo è quello di sostenere il governo Afghano nel ripristino della necessaria stabilità, affinché possa riacquisire l’effettivo controllo del territorio. Il contingente, al comando del Generale di Brigata Luigi CHIAPPERINI, opera a sostegno della risoluzione n. 1386 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, è interforze, e conta circa 4000 militari tra uomini e donne, cui si aggiungono ulteriori 3000 soldati degli altri 9 Paesi della Coalizione. Il Regional Command West ha la responsabilità di 4 province: HERAT, FARAH, BADGHIS e GHOR, che si articolano su 43 Distretti, con una popolazione di circa 3.200.000 abitanti distribuiti su 250.000 Kmq. Su questo territorio operano, inoltre, circa 32.000 tra militari dell’ANA ( Afghan National Army) e poliziotti Afghani, che hanno acquisito una buona capacità per pianificare e condurre operazioni in piena autonomia.
D ifesa Notizie Dopo 69 anni ritrovata la Corazzata Roma Roma, 5 luglio 2012 - Dalle prove fotografiche, la Marina Militare rende certo il ritrovamento del relitto della nave militare affondata 69 anni fa e ‘fotografata’
A CURA DI VALTER
CASSAR
militare e tecnico-militare avviata con l’Italia ed ha apprezzato il fatto che oggi, grazie alla cooperazione industriale militare, alcuni prodotti dell’industria italiana vengono realizzati in Russia. “Tra noi esiste un confronto franco ed aperto - ha sottolineato il Ministro della Difesa russo – in tema di politica estera e di collaborazione tra i due Paesi”. Le Commissioni Difesa di Camera e Senato in Libano Shama 10 luglio 2012 - Una rappresentanza delle Commissioni Difesa di Camera e Senato, si è recata in visita al Contingente italiano presso le basi di Shama e Al Mansouri. La delegazione parlamentare è stata aggiornata sugli sviluppi della situazione e sulle attività correnti svolte dai militari italiani d parte del Gen. B. Gaetano Zauner, Comandante della 132^ Brigata corazzata “Ariete” e del Contingente italiano. La Senatrice Roberta Pinotti, a nome del Parlamento Italiano, ha
per la prima volta il 17 giugno 2012. Le immagini dimostrano, infatti, che i pezzi di artiglieria contraerea corrispondono con quelli imbarcati sulla Corazzata Roma. La documentazione fotografica è stata presentata in una conferenza stampa, presso il Circolo Ufficiali di La Maddalena, durante la quale è stato anche proiettato il filmato delle attività svolte da ‘Pluto Palla’, il robot subacqueo che ha raggiunto il relitto, ideato dall’Ingegner Guido Gay. Nell’affondamento della Corazzata persero la vita 1352 marinai, insieme al Comandante delle Forze navali da battaglia della Regia Marina, l'Ammiraglio Carlo Bergamini, Medaglia d'Oro al Valor Militare. Incontro dei Ministri della Difesa Italiano e Russo Roma 10 luglio 2012 - Il Ministro Di Paola ha incontrato il Ministro della Difesa della Federazione Russa Anatoliy Serdyukov, in visita ufficiale in Italia. Durante l’incontro, che si è svolto a Palazzo Baracchini, il Ministro Serdyukov ha sottolineato l’importanza della buona collaborazione
rivolto ai militari italiani parole di stima e apprezzamento per l’opera svolta in Libano. Nel pomeriggio la delegazione ha incontrato il Gen. Paolo Serra, Capo Missione e Comandante delle Forze UNIFIL (United Nations Interim Force in Lebanon), che ha presentato un’analisi sulle linee evolutive della missione e ha illustrato gli aspetti significativi della “Strategic review”, documento recentemente approvato dalle Nazioni Unite. Il primo avamposto torna agli Afgani Herat 12 luglio 2012 - Durante una cerimonia, che si è svolta presso la base operativa avanzata “Columbus”, a Bala Mourghab, sede del Comando della Task Force North, è stato trasferito ufficialmente alle Forze di Sicurezza afgane il controllo del Combat Out Post (COP) “Mono”, primo avamposto del Regional Command West, area a guida italiana. Si tratta di un momento importante nel processo di transizione soprattutto perché le Forze di Sicurezza afgane dovranno tenere sotto controllo la
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Il Capo di Stato Maggiore della Difesa in Azerbaijan Azerbaijan 18 luglio 2012 - Il Capo di Stato Maggiore della Difesa, in visita ufficiale in Azerbaijan, dopo aver reso omaggio ai Caduti di tutte le guerre, ha avuto una serie di incontri di vertice con le Autorità responsabili dei settori della Difesa e della Sicurezza del Paese. Nel corso della visita, il Generale Abrate è stato ricevuto
delicatissima area attraversata dalla strada denominata “Bronze”, che collega il Paese con il vicino Turkmenistan, già teatro di violenti scontri tra militari italiani ed insorti. In questa zona, infatti, il 25 luglio 2011 cadde il Caporal Maggiore Scelto David Tobini, decorato di Croce d’Onore alla Memoria. International Air Show 2012 Farnborough 13 luglio 2012 - Il Ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, accompagnato dal Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale Biagio Abrate. si è recato al Salone Internazionale di Farnborough, in visita agli stand della Difesa e delle più importanti aziende nazionali del settore. “L’Italia è ai primi posti nel mondo per le realtà produttive che esprime nei settori della Difesa e della sicurezza e nel settore civile” - è quanto ha affermato il Ministro della Difesa, Giampaolo Di
dal Presidente della Repubblica e Capo delle Forze Armate Ilham Aliyev. Successivamente ha incontrato il Ministro della Difesa, Colonnello Generale Safar Abiyev, e il Ministro dell’Industria per la Difesa, Javar Jamalov. Durante gli incontri, cui ha partecipato anche l’Ambasciatore italiano in Azerbaijan, S.E. Mario Baldi, sono stati trattati argomenti circa la situazione geostrategica della regione mediorientale, le possibilità di cooperazione militare - anche a livello industriale - tra Italia e Azerbaijan, e la situazione in Afghanistan, alla luce degli esiti del recente Summit NATO di Chicago. Italia-Israele: accordo sulla cooperazione militare Roma 19 luglio 2012 - I Ministeri della Difesa italiano e israeliano hanno siglato un accordo di cooperazione nel settore della tecnologia militare. Il documento è stato firmato dai rispettivi Segretari Generali dei due dicasteri. L’accordo prevede la fornitura alla Difesa israeliana di
Paola, promuovendo l' industria aeronautica e spaziale, civile e militare italiana, il Ministro, inoltre, è intervenuto all’Atlantic Partnership Breakfast, soffermandosi sul ruolo odierno della NATO e, più in generale, sulle relazioni internazionali nella dimensione europea e trans-atlantica. Di Paola, insieme con il Ministro degli Affari Esteri Giulio Terzi, ha poi preso parte, a Londra, alla riunione Esteri/Difesa in formato “2+2” con gli omologhi britannici William Hague e Philip Hammond.
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30 velivoli da addestramento avanzato M-346 e relativi sistemi operativi per il controllo del volo. Le Forze Armate italiane, dal canto loro, potranno utilizzare un sistema satellitare ottico ad alta risoluzione per l’osservazione della Terra denominato OPTSAT3000, realizzato in Israele, e la fornitura di sottosistemi standard NATO di comunicazione per due aerei destinati all’Aeronautica Militare. L’accordo consente a Finmeccanica di avviare contratti per un valore di circa 850 milioni di dollari attraverso le società Alenia Aermacchi, Telespazio e SELEX Elsag. COCER: cambio del Presidente Roma 20 luglio 2012 - Nel corso di un cerimonia, che si è svolta a Palazzo Barberini ed alla quale ha partecipato anche il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale Biagio Abrate, il Gen. C.A. Domenico Rossi ha ceduto l’incarico al subentrante Gen. D. (CC) Saverio Cotticelli, che assume la Presidenza del COCER. Nel suo intervento, il Sottosegretario di Stato alla Difesa, Dott. Gianluigi Magri ha ringraziato il Gen. Rossi per l’operato svolto e, nel dare il benvenuto al Gen. Cotticelli, ha sottolineato la volontà del Ministro di mantenere stretti contatti con
piastrine (PRP). Le cellule staminali, prelevate dal bacino del paziente, sono state prima isolate e concentrate, poi impiantate con un intervento chirurgico che garantirà al paziente il recupero delle funzioni iniziali. Il Policlinico Militare di Roma, grazie ad una moderna e sofisticata strumentazione ed a specialisti del settore, sviluppa un’efficace ricerca sugli innesti di cellule staminali e piastrine in campo ortopedico-traumatologico. Il Capo di Stato Maggiore della Difesa in visita al Contingente italiano in Kosovo Pristina 30 luglio 2012 - Il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale Biagio Abrate, nel corso di una visita al Contingente italiano in Kosovo, ha incontrato a Pristina il Ministro della Kosovo Security Force (KSF) Agim Ceku ed il Vice Comandante KSF Gen. B. Gezim Hazrolli. Durante l’incontro, il Ministro Ceku ha ringraziato
il COCER - anche attraverso il Capo Di Stato Maggiore della Difesa - in particolare per quanto riguarda la valutazione degli aspetti specifici dei provvedimenti di Spending Review e di riordino dello Strumento Militare. Il Sottosegretario ha assicurato, inoltre, il suo personale impegno nel seguire gli sviluppi del provvedimento di riordino pensionistico del settore Forze Armate, che dovrebbe essere licenziato entro il prossimo mese di ottobre. Al Celio intervento con cellule staminali Roma 23 luglio 2012 - L’équipe ortopedica coordinata dal Colonnello medico Marco Liccardo, assistita dall’équipe trasfusionale del Colonnello medico Roberto Rossetti, ha eseguito un intervento chirurgico di ricostruzione delle ossa della gamba utilizzando cellule staminali autologhe in associazione al plasma ricco di
il Generale Abrate per il servizio reso dal Contingente italiano a favore del Paese ed, in particolare, per la funzione di addestramento e di consulenza prestata a favore della Forza di Sicurezza del Kosovo (KSF). Il Generale Abrate ha ribadito l’impegno delle Forze Armate italiane nella missione KFOR per il mantenimento di un ambiente sicuro ed ha confermato il supporto italiano nei termini stabiliti dalla risoluzione ONU 1244 e dal piano Ahtisaari. Nel corso della giornata il Generale Abrate si è recato al Quartiere Generale della KFOR a Pristina, dove ha incontrato il Vice Comandante della KFOR, Generale Johan Luif. Dopo aver salutato il
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personale italiano che opera presso il Quartier Generale di KFOR, il Capo di Stato Maggiore della Difesa si è trasferito a Pec, presso il Comando del Multinational Battle Group West, dove ha incontrato i militari italiani della base, tra i cui compiti principali vi è la sicurezza del Patriarcato Ortodosso di Pec. Il Generale Abrate ha ringraziato tutto il personale italiano che opera in Kosovo esprimendo il proprio apprezzamento per l’impegno profuso nello svolgimento di una missione ancora molto importante. Mostra fotografica “I Volti dei Militari Italiani… I Valori della Patria in un’Immagine Roma 31 luglio 2012 - Si è conclusa la mostra fotografica inaugurata il 24 maggio scorso dal Ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, al Sacrario delle Bandiere delle Forze Armate, presso il Complesso Monumentale del Vittoriano a Roma. La Mostra, realizzata seguendo l’intendimento espresso dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, di diffondere le immagini dei soldati italiani impegnati all’estero, è stata visitata, nei due mesi di apertura, da circa 90 mila persone. L’iniziativa, organizzata dalla Commissione Italiana di Storia Militare (CISM) – aveva lo scopo di rendere
omaggio all’impegno profuso dai nostri militari ed ai valori in cui credono, raccontandoli attraverso le foto esposte e le e-mail che gli stessi soldati hanno inviato dai teatri operativi alle proprie famiglie, ai cari, ai colleghi rimasti in Patria, arricchite da due filmati sulla storia di alcune missioni e sulla vita quotidiana in Afghanistan. Le testimonianze e le immagini della Mostra sono ora disponibili sul sito della Difesa www.difesa.it, affinché continui a vivere ed a trasmettere le stesse emozioni a coloro che non hanno avuto modo di visitarla. Le ‘Frecce Tricolori’ sui cieli russi Dar Es Salaam 17 agosto 2012 - La nostra Pattuglia Acrobatica Nazionale ha partecipato dal 10 al 12 agosto alle celebrazioni del centenario delle Forze Aeree russe, svoltesi nell’aeroporto di Zhukovksy nei pressi di Mosca.
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Alla manifestazione che ha coinvolto altre prestigiose formazioni, quali le ‘Red Arrows’ inglesi, i ‘Midnight Hawks’ finlandesi e la pattuglia acrobatica polacca, hanno partecipato le nostre ‘Frecce Tricolori’, eredi dalla grande tradizione acrobatica italiana, nata negli anni ’20 e simbolo nel mondo dell’eccellenza italiana, frutto di grande preparazione, professionalità e creatività Nave “Scirocco” in Tanzania Mosca 13 agosto 2012 - La fregata italiana “Scirocco” fino al 20 agosto è in sosta nel porto di Dar Es Salaam, per l’attività bilaterale Tanzania - Italia, riguardante lo sviluppo della Capacity building. L’attività rientra nel progetto Africa Partnership Station, che ha lo scopo di rafforzare i rapporti di collaborazione con alcuni Paesi africani, attraverso molteplici attività di supporto e formazione, per incrementare e sviluppare le capacità operative dei Paesi interessati, nel campo della Difesa e della Sicurezza marittima. In particolare, il personale della nave "Scirocco", con il coordinamento delle autorità militari locali, sta conducendo un corso di addestramento a favore di quarantasette ufficiali della Marina Militare del Paese africano, in diversi settori: dal contrasto alla proliferazione degli ordigni esplosivi improvvisati (IED), alla navigazione e al carteggio, alla difesa passiva (antincendio e antifalla), alla condotta di imbarcazioni e al pronto soccorso. Il corso si svolge in parte a bordo dell’unità, in parte nella locale Scuola Navale.
R assegna stampa estera A CURA DI PIER VITTORIO
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NATO-EU: AL LAVORO PER COLMARE LE LACUNE NELLA CAPACITÀ DI DIFESA Le relazioni della NATO con l'Unione Europea tornano indietro di vent'anni: il trattato di Maastricht del 1992 è stato il primo trattato dell'UE a menzionare la NATO. Oggi, in un momento di crisi finanziaria e riduzione dei bilanci della difesa, è più importante che mai che le due organizzazioni rafforzare la cooperazione, spendere in modo più intelligente, e migliorare la complementarietà dei loro capacità di difesa, al fine di affrontare le sfide della sicurezza comune. NUOVO COMANDANTE SUPREMO DELL’ALLIED COMMANDER TRANSFORMATION (ACT) Il Consiglio Atlantico del Nord ha approvato la nomina del Presidente della Repubblica francese, quale comandante supremo dell’Allied Commander Transformation, del generale (Aeronautica Militare) Jean-Paul Paloméros. AD UN ANNO DALL'INIZIO DELLA TRANSIZIONE, AGLI AFGHANI LA RESPONSABILITÀ PER LA SICUREZZA Un anno fa, il 17 luglio 2011, le forze di sicurezza afghane presero formalmente la responsabilità per la sicurezza nella provincia di Bamyan ceduta dalla NATO - International Security Assistance Force (ISAF). Bamyan faceva parte della prima tranche di province e distretti dove avviare la transizione. Da allora, altri due tranche sono state scelte per la transizione – al più presto il 75 % della popolazione afghana vivrà in zone sotto la responsabilità afghana riguardo la sicurezza. Il processo di transizione dovrebbe essere completato entro la fine del 2014, quando la missione ISAF avrà termine. MODELLO NATO VERTICE DELLA GIOVENTÙ DI SIMULARE SCENARI DI CRISI DELLA NATO La prima edizione del Model NATO Youth Summit (MoNYS), una simulazione su larga scala riguardante processi decisionali della NATO, si è tenuta a Bruxelles dal 9 al 13 luglio. “MoNYS 2012” ha riunito 220 partecipanti provenienti da 77 università e da 37 diversi paesi, dimostrando loro come vengono prese le decisioni al quartier generale dell’Alleanza. La simulazione ha interessato sei comitati della NATO e 12 principali argomenti, tra cui la “smart defence”, la difesa missilistica, la “cyber defence” e le attività operative. (PVR) LA TOKYO CONFERENZA DÀ SPERANZA E CORAGGIO AGLI AFGHANI La NATO ha messo in evidenza l’odierna Conferenza di Tokyo su l’Afghanistan come la terza, in ordine di importanza, di una serie di importanti incontri che danno sostegno al continuo impegno della comunità internazionale in Afghanistan. A CURA DI PAOLA ALLORI
VERSO IL RILANCIO DELLA COOPERAZIONE FRANCO-TEDESCA In occasione dal Salone della difesa e della sicurezza terrestre “Eurosatory 2012”, il Direttore Nazionale per gli armamenti francese ed suo omologo tedesco hanno raggiunto un accordo destinato a rilanciare la cooperazione militare tra i due paesi. La lettera di intenti firmata dai due rappresentanti dei rispettivi dicasteri contiene una lista di otto settori per i quali Parigi e Berlino si sono dichiarate pronte ad analizzare la fattibilità di progetti in comune. I campi di applicazione della cooperazione vanno da quello spaziale (proseguimento della cooperazione in materia di intelligence ottico e radar) alla difesa contraerea e antimissile, dai sistemi navali (studio di un nuovo siluro pesante) alla definizione di un approccio comune per gli elicotteri Tigre e NH 90, dai droni (possibili soluzioni "MALE" per il breve e lungo termine) alla manutenzione dell'A400M.
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www.defense.gouv.fr PROGRAMMA CONTACT, AGGIUDICATA LA PRIMA FASE DEL CONTRATTO La DGA (Direzione Generale per gli Armamenti) ha aggiudicato alla società Thales la prima fase del programma CONTACT (comunicazioni digitali tattiche e di teatro) per un ammontare di 1,06 miliardi di euro. Programma ad alta valenza tecnologica ed elevato potenziale, CONTACT è destinato allo sviluppo di postazioni radio di nuova generazione per dotare le forze armate di sistemi di comunicazione con prestazioni superiori, in termini di portata, protezione e interoperabilità. La prima tappa del programma prevede la fornitura di 2400 postazioni fisse per veicoli e 2000 postazioni portatili. La consegna dei primi sistemi di serie è prevista a partire dal 2018. CONTACT utilizza la tecnologia software defined radio e si avvale, in particolare per rispondere alle esigenze di interoperabilità, dei risultati del programma ESSOR (European Secure Software Defined Radio), condotto sotto l’egida dell’OCCAR (Organizzazione Congiunta di Cooperazione in materia di Armamento) e in associazione con l’EDA (Agenzia Europea di Difesa). AVVIATI I LAVORI PER IL NUOVO LIBRO BIANCO Lo scorso 13 luglio, all’Hotel de Brienne, sede del Ministero della Difesa, il Presidente della Repubblica francese François Hollande ha annunciato l’avvio dei lavori per il nuovo Libro Bianco sulla Difesa e la sicurezza nazionale. Le attività saranno condotte da una commissione, presieduta da Jean-Marie Guéhenno. Nella stessa occasione il Ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian ha rivolto un messaggio alle forze armate e a tutto il personale della Difesa, sottolineando l’esigenza di riconsiderare le scelte in termini di missioni e capacità delle forze armate, definire una strategia di difesa e sicurezza nazionale che sia coerente con il livello di ambizione nazionale e “elaborare una politica di difesa all’altezza di quel che la Francia rappresenta e dei valori propugnati”. I primi risultati di questa nuova fase di riflessione sono attesi per l’inizio del 2013, alla quale seguirà una nuova legge di programmazione militare. A CURA DI
MARIO POLVERINO
GERMANIA E FRANCIA COLLABORANO Germania e Francia vogliono collaborare per ottimizzare gli acquisti inerenti la Difesa. A Eurosatory entrambi i paesi hanno firmato un memorandum d'intesa, per la cooperazione nello studio di carri armati ed artiglieria di nuova generazione, nonché di unificante i progetti europei in corso, come l'elicottero da combattimento Tiger e l’elicottero da trasporto NH90. Insieme al Regno Unito c’è anche allo studio la possibilità di sviluppare un drone europeo al cui sviluppo potrebbe partecipare anche l’Italia. Il progetto di una cooperazione sulla difesa missilistica è un’altra ipotesi da esplorare. Quando al velivolo da trasporto A400M, saranno esaminate le possibilità di una manutenzione congiunta. Entrambe le nazioni cercano di intensificare ulteriormente la stretta cooperazione esistente con i sistemi satellitari. NUOVE REGOLE PER LE NAVI MERCANTILI E MILITARI Germanischer Lloyd (GL) ha rilasciato gli aggiornamenti del suo regolamento per navi mercantili e da guerra. Le modifiche apportate riguardano: Classificazione, strutture dello scafo, macchinari, impianti elettrici, automazione, regole strutturali per le navi portacontainer e sicurezza del carico contenuto. Il regolamento è valido per tutti gli ordini successivi il 1° maggio 2012. I regolamenti, tra l'altro, prevedono nuovi requisiti per i sistemi di controllo delle emissioni, test operativi, requisiti per la struttura dei propulsori trasversali e di spessore del materiale delle coperture dei boccaporti o nuovi orientamenti per derive (Crew Boats).
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R ecensioni FIORENZA DE BERNARDI
India, Kilo, Alpha Qui Fiorenza, forte e chiaro! LoGisma Editore, Vicchio-Firenza, 2008, pp. 140, Euro 15,00 Il racconto della vita di ogni persona è un romanzo affascinante per le molteplici esperienze, per i tantissimi personaggi che hanno fatto parte delle vicende, per le curiosità, gli aneddoti, i ricordi particolari. Se questa persona è Fiorenza De Bernardi, il fascino si moltiplica, essendo lei un pioniere, un esempio, un personaggio particolare che non si è accontentata di vendere birre e salsicce in Val Gardena, come sognava di fare durante gli studi, ma ha preferito seguire la passione dell’amato padre, Mario De Bernardi, asso dell’aviazione, vincitore della Schneider del 1926 e collaudatore del Campini-Caproni, con cui ha solcato i cieli fin da bambina arrivando ai traguardi che, all’epoca, nessuno avrebbe pensato potesse raggiungere una donna. Da lui ha ereditato l’amore per il volo, la passione e la voglia di vivere e riempire ogni attimo della vita di esperienze positive. Fiorenza è stata la prima donna italiana a pilotare un DC8 ed è stata la prima donna pilota a comandare un aereo di linea. Come è arrivata a questi risultati? Genitori speciali, amici speciali, lei speciale, una vita molto intensa e un carattere particolare che, anche dopo aver interrotto la sua carriera a causa di un brutto incidente stradale, la spinge - tutt’ora - a darsi da fare in attività a favore delle donne pilota e a rincorrere il suo sogno, quello di fare dell’aeroporto dell’Urbe il city airport di Roma togliendolo dal degrado trasformandolo in una struttura moderna ed efficiente a favore della cittadinanza. Il libro riporta i momenti salienti della sua vita, e tra questi, emergono i valori intrinseci di una persona che ha aperto una nuova strada e che rappresenta un riferimento per tutti i giovani in generale ma, in particolare, per tutte le donne che volano. Valter Cassar
PIETRO DE CARLI
Afghanistan nella tempesta. La farsa della ricostruzione Centro di Studi Strategici (CeMiSS) ed edita dalla Laurus Robuffo, Roma 2012, pp. 190, Euro 19,00 De Carli è stato responsabile per la Cooperazione italiana delle operazioni di emergenza in Afghanistan dal 2004 al 2008 quando lasciò l’incarico per trasferirsi in Mozambico e venne creata l’Utl, l’Unità Tecnica presso l’Ambasciata. La storia che si dispiega lungo le pagine che compongono l’opera racconta di un sogno parzialmente infranto, quello della ricostruzione, di tanti progetti umanitari diretti alla popolazione locale soffocati dalla logica bellica e dalla volontà di favorire un più massiccio intervento militare. Una farsa, per De Carli, consumata sullo sfondo di una realtà caratterizzata da povertà, contraddizioni, errori tattici, retorica. Ma anche
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un omaggio appassionato alla attività di tanti cooperatori schierati su terreni difficili, come quello afgano, ed un pretesto per descrivere la vita di un Paese difficile, analizzato nelle sue sfumature ed offerto al pubblico con l’intenzione di favorirne una lettura più consapevole. Ampio spazio poi è dedicato alla condizione femminile,al tragico destino riservato a molte donne, spesso costrette ad individuare la strada della libertà nelle fiamme dell’autocombustione. Uno scenario intriso di fatti, dalla ricostruzione del sequestro Mastrogiacomo al racconto della “rivolta di Kabul” del 2006, che, nonostante i rammarichi, lascia aperti tanti interrogativi. Monia Savioli MASSIMO BIAGINI - MATTEO MINEO
CAPOSALDO CAVOUR Edizioni Uniart, Roddi d'Alba (CN), pp 205, Euro 25,00. Si chiama “Caposaldo Cavour-Storia fotografica del 2° Reggimento Alpini in Afghanistan" il primo libro dedicato a una missione italiana all'estero redatto da due militari della Brigata Taurinese. Il volume, nato per rendere onore a chi con abnegazione e spirito di altruismo ha vissuto la difficile esperienza del teatro operativo, ha 228 pagine, tutte a colori, e ripercorre con testi e centinaia di immagini inedite i sei mesi, da aprile a ottobre 2010, di esperienza delle "penne nere" nella zona di Herat, in particolare nella base operativa avanzata di Bala Murghab. E’ stato pubblicato anche, e forse soprattutto, per far conoscere meglio all’opinione pubblica locale e nazionale ciò che significa prendere parte a una missione come quella in Afghanistan e quali importanti risultati ne scaturiscano. Il caposaldo “Cavour” è un insieme di più postazioni, italiane e afghane, collegate da profonde trincee scavate a mano, proprio come le "penne nere" fecero quasi cento anni fa, durante la prima guerra mondiale, intorno al villaggio di Quibcaq, uno dei piccoli centri del distretto di Bala Murghab liberati dagli Alpini della brigata "Taurinense" durante l’operazione “Buongiorno”. Nelle pagine del testo viene doverosamente trattato l'aspetto prettamente militare della missione, ma l'attenzione si sofferma in particolare, da un lato, sul lato umano, per dare spazio ai pensieri e alle motivazioni delle "penne nere" e, dall'altro, sul rapporto con la popolazione locale che, superato il primo momento di diffidenza, ha accettato la presenza italiana, arrivando a collaborare per sventare gli attacchi dei talebani e far individuare i loro depositi di armi ed esplosivi. Gli Alpini, confermando una tradizione che fa onore alla storia dell’Esercito italiano, hanno saputo combattere con valore, questo sì, ma sono anche riusciti a conquistare la fiducia degli afghani, prime vittime degli integralisti islamici e dei narcotrafficanti, non a caso alleati strettissimi, tanto da non poter quasi più distinguere gli uni dagli altri. Gli autori sono il colonnello Massimo Biagini empolese, tre lauree e due master, e il genovese Matteo Mineo, maggiore delle Truppe Alpine già portavoce del reggimento cuneese. Entrambi hanno una grande esperienza nelle missioni in Italia e all’estero. Milla Prandelli
80 INFORMAZIONI DELLA DIFESA 4/2012
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