dal Canavese al Piemonte
n°3
ISBN 978-88-95704-50-0
Sped. in A.P. 70% NO/TORINO n° 1/13 - D.L. 353/03 art. 1 comma 1 DCB Ivrea - cod. SAP 31065010-001 - Stampa Tip. Bolognino, Ivrea
primavera 2013
€5
Periodico di cultura e turismo sostenibile www.inognidovepiemonte.it
Speciale sostenibilità
a • Intervista Luca Mercalli
Natura
• Into tHe Wild Cultura che • Incontri cambiano il mondo
Borghi storici
• Ivrea la bella Guida weekend • Canavese in bicicletta walking • Nordic ad Andrate • Ultime ciaspolate
EDITORIALE di Alessandra Luciano
La stagione del tepore e della luce invita un poco a ben sperare nel rinnovamento, in quello ciclico della natura, ma soprattutto in quello stanco delle istituzioni e dei modi di gestire la cosa pubblica nel nostro Paese. In un periodo così difficile, soprattutto per i “molti” che perdono il lavoro, la casa, le possibilità stesse di poter sperare in un domani diverso, occorre riuscire con forza a credere che questo momento, così amaro nella storia del nostro Paese, possa rivelarsi una preziosa occasione per profonde trasformazioni dell’etica politica e istituzionale. Un vecchio proverbio recita che è l’occasione a far l’uomo ladro e, forse, tutto questo difficile travaglio sociopolitico evidenzia che in crisi, in profonda crisi, è non tanto un sistema quanto un modello ideale in cui tutti crediamo e per il quale si è versato molto sangue. La democrazia come teoria politica fondata sui principi della sovranità popolare, dell’uguaglianza giuridica dei cittadini, dell’attribuzione di diritti e doveri sanciti dalla Costituzione è oggi in profonda crisi. Lo è perché non può esserci reale democrazia senza cultura democratica che ispiri le azioni, dunque l’etica, e la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Perché l’uomo non subisca le tentazioni dell’occasione occorre infatti una profonda interiorizzazione dei valori etici che ispirano l’impegno democratico. Gestire il potere di governare significa operare nell’interesse della collettività che delega fiducia ai suoi rappresentanti. E ciò dipende da quanto una cultura democratica è interiorizzata in coloro che sono chiamati a governare in nome del popolo.
Solo la formazione culturale e umanistica in grado di tramandare valori, che devono essere profondamente assimilati in ognuno, può garantire che la democrazia sia effettiva. Perché una democrazia politica senza una cultura democratica diffusa, non è una democrazia ma una farsa. E forse di questa farsa abbiamo ormai visto più di quanto possa essere tollerabile vedere. I problemi sono dunque complessi. Credo infatti che non sia la democrazia come modello ad essere in crisi, ma piuttosto la mancanza di una cultura democratica diffusa nel nostro Paese. La democrazia si realizza attraverso l’impegno di ognuno vissuto come ideale profondo in cui credere in ogni occasione della vita: implica il rispetto dell’altro, del diverso, la sincera volontà di lavorare per il bene collettivo, dunque al di là, e oltre, interessi personali e o di parte. La sovranità popolare, concetto chiave della democrazia, può essere effettiva solo se ognuno vive e pratica i valori più profondi di quella cultura democratica in grado di renderlo consapevole delle scelte per le quali è chiamato ad esprimersi. Diversamente si assiste a quella tirannide della maggioranza di cui parlava Tocqueville, che nel 900 ha alimentato l’affermazione di totalitarismi fondati sull’esaltazione di capi totalitari a cui passivamente proprio il popolo aveva delegato scelte e decisioni. Hannah Arendt riteneva che il totalitarismo fosse un fenomeno tipico della società di massa... Non dovremmo forse considerare con attenzione la nostra recente storia passata per non ripetere gli stessi errori? Buona lettura
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SOMMARIO
EDITORIALE pag.
1 Siamo sempre noi di Alessandra Luciano
SOSTENIBILITà 4 pag. 8 pag. 12 pag. 18 pag.
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Sostenibilità a rischio. intervista a Luca Mercalli di Giulia Maringoni Auto elettriche, una rivoluzione a metà di Giulia Maringoni Visita al mercato del territorio di Giulia Ricca La città possibile di Letizia Gariglio
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CULTURA pag. 24
Imparare a imparare di Letizia Gariglio pag. 30 Incontri che cambiano il mondo di Giulia Ricca pag. 36 Ricordo di Silvano Fumero di Alice Fumero
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SOMMARIO
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NATURA E PAESAGGIO pag. 40
Mare d’inverno di Arianna Zucco pag. 44 Into the wild di Arianna Zucco
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BORGHI STORICI pag. 50
Ivrea la bella di Silvia Coppo
InOgniDove
dal Canavese al Piemonte
n. 3 - Primavera 2013 Euro 5 Direttore Responsabile Alessandra Luciano alessandra.lcn@gmail.com Redazione Silvia Coppo, Francesco Comotto, Letizia Gariglio, Arianna Zucco
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Hanno collaborato a questo numero Martina Federico, Alice Fumero, Giulia Maringoni, Lorenzo Perotti, Giulia Ricca Trimestrale di Cultura e Turismo sostenibile Registrata presso il Tribunale di Ivrea n. 3 del 4/7/2012 del Registro periodici Edita da Bolognino Editore
GUIDA WEEKEND
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pag. 58
Canavese in bicicletta di Alice Fumero pag. 62 Nordic Walking, uno sport per tutti di Arianna Zucco pag. 68 L’anello verde della collina torinese di Arianna Zucco pag. 72 Ciaspolate di fine inverno di Giulia Maringoni
Progetto grafico Graphic design - Galliano Gallo Layout e impaginazione Davide Bolognino Fotocomposizione e stampa Tipografia Bolognino via Dora Baltea, 4 - 10015 Ivrea tel. 0125 641162 - fax 0125 40332 tipografia@bolognino.it Direzione, redazione, amministrazione e pubblicità Via Dora Baltea, 4 - 10015 Ivrea tel. 0125 641162 - fax 0125 40332 mob. 347 7042939 redazione@inognidovepiemonte.it Foto di copertina Una delegata di Terra Madre edizione 2012 (foto Giulia Ricca) La rivista è stampata su carta certificata FSC, Forest Stewardship Council. È un sistema di certificazione internazionale che garantisce che la materia prima usata per realizzare la carta proviene da foreste dove sono rispettati dei rigorosi standard ambientali, sociali ed economici.
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SOSTENIBILITĂ A RISCHIO Testi e foto di Giulia Maringoni
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I
ntervista al meteorologo Luca Mercalli, una voce contro che ci invita a uscire dal conformismo ideologico, dall’ignoranza, dalla supponenza per raccogliere la sfida ecologica globale come punto di partenza per un mondo migliore, con meno risorse, meno abbondanza... e, forse, più felicità.
INTERVISTA A LUCA MERCALLI
Nella pagina accanto: Gli effetti disastrosi di un recente incidente in mare aperto In alto: Luca Mercalli con le Guide naturalistiche del Gran Paradiso al lago Serrù (Ceresole Reale)
Dottor Mercalli, ogni giorno sentiamo parlare di crisi ambientale, ma i problemi che ne afferiscono spesso non vengono messi nella giusta prospettiva e soprattutto connessi l’uno con l’altro. Sono in genere trattati in modo indipendente così da farci sembrare che siano problemi staccati, ma l’impressione è che siano invece profondamente interrelati e formino una problematica ambientale e delle risorse planetarie unica. Ma è proprio così? «Mai tante crisi tutte insieme: clima, ambiente, energia, risorse naturali, rifiuti, economia. Tutto quello che abbiamo fatto negli ultimi 200 anni, dalla rivoluzione industriale ad oggi, è stato un continuo saccheggio delle risorse energetiche fossili; fino a quel momento l’umanità era una rappresentante minuscola nell’ambito della biosfera e le sue attività erano tutte basate sull’energia rinnovabile del sole, dell’acqua e del vento. Dal 1782, anno del brevetto della macchina a vapore perfezionata di James Watt, in poi è stato un susseguirsi di scoperte che hanno portato l’energia fossile (carbone, petrolio e infine il gas metano) alla ribalta, partecipando alla meccanizzazione del mondo e alle prime due guerre motorizzate della storia».
Ma qual è la grande differenza dei combustibili fossili rispetto all’energia rinnovabile? «L’energia rinnovabile è un’energia di flusso, pressoché illimitata nel tempo, limitata e incostante nella potenza disponibile localmente. Adeguarsi a questo flusso, deciso dal sole, dal vento, dalla pioggia, crea un vincolo forte. Ma non dimentichiamoci che i capolavori dell’arte, dalla pittura all’architettura, sono quasi tutti anteriori all’energia fossile! Anche l’antica Roma è stata costruita a energia rinnovabile! Questo va detto contro i pregiudizi di una visione retrograda, che associa l’energia rinnovabile al tempo delle caverne o al Medioevo. L’energia fossile, al contrario, ribalta completamente l’approccio alle risorse planetarie. Appartiene ad una riserva, non a un flusso, dunque abbiamo noi il coltello dalla parte del manico, o per lo meno così ci siamo illusi che fosse, in quanto i giacimenti, per quanto vasti non sono illimitati. Basta estrarre più carbone, più petrolio e costruire più macchine! Tutto ciò ha creato nella specie umana una sorta di tossicodipendenza, insieme a sottoprodotti indesiderabili, come gli inquinanti persistenti e i rifiuti non biodegradabili da smaltire, mettendo in circolo forze nuove che rivaleggiano con quelle della natura stessa, alterando per esempio in maniera incontrovertibile il ciclo del carbonio, dell’azoto e del fosforo. L’attività umana ha liberato radioattività, sterminato la biodiversità, creato un marchio indelebile dei sedimenti e introdotto la plastica, che oggi tappezza letteralmente i fondali oceanici. Per questo il Nobel Paul Crutzen ha battezzato gli ultimi due secoli “Antropocene”». Tutto ciò è agghiacciante. In sostanza abbiamo messo in atto un sistema che ci sta sfuggendo di mano. Ma dove ci porterà? «A una forte riduzione numerica o potenzialmente pure all’estinzione della specie Homo sapiens. Ma per salvarci siamo ancora in tempo: lo scontro con il muro dei
limiti della crescita può essere evitato proprio grazie alla consapevolezza delle leggi che governano il funzionamento del pianeta e dal senso di responsabilità. C’è un proverbio egiziano di 5000 anni fa che appare di un’attualità sconvolgente: “Non accendere un fuoco se non sai come spegnerlo”. Ci stiamo rendendo conto solo ora che la finitezza del mondo è un fattore che non può più essere nascosto, come se ne accorse l’economista torinese Aurelio Peccei, promotore del famoso rapporto “I limiti dello Sviluppo” del 1972, una sorta di manuale di istruzioni per il futuro dell’umanità. Allora avremmo avuto i margini per fare la giusta virata. Ma nessuno lo ascoltò e morì nell’oblio totale. Continuando a consumare risorse a ritmi famelici, non usando la conoscenza e la tecnologia acquisita per prendere provvedimenti, arriveremo presto al collasso e gli scempi fatti si ritorceranno contro di noi, ma non in maniera mitizzata (“la Natura si ribella”), semplicemente per effetto dei meccanismi fisici, chimici e biologici che reggono il pianeta e che ci pongono limiti invalicabili. Crollerà anche la curva della popolazione come reazione al crollo della capacità di produzione del cibo e del livello di inquinamento: il che significherà fame, miseria e guerre. Se, al contrario, gestiamo la crisi, potremmo aggrapparci e farci sicurezza, senza sfracellarci rovinosamente al suolo, ma bisogna ovviamente cambiare l’approccio economico basato sulla crescita infinita e fare della sobrietà, della sufficienza e dell’efficienza il nuovo paradigma». Come mai queste tematiche non approdano ai dibattiti politici ed economici, e l’economia continua a dirci che dobbiamo crescere, creando nuovi posti di lavoro e nuovi consumi? «In effetti siamo piuttosto malmessi: non c’è curiosità e se c’è, anche se in buona fede, si sbaglia l’obiettivo. Avvertimenti accorati della comunità scientifica al mondo economico sono all’ordine del giorno, ma non fanno notizia. A maggio del 2011 è stato sottoscritto il Memorandum di Stoccolma da ben 18 premi Nobel, un lavoro egregio, che non è stato neppure tradotto in italiano! In sostanza: parole al vento. E tra gli ultimi fallimenti, il vertice ambientale delle Nazioni Uni-
SOSTENIBILITà A RISCHIO
te Rio+20 e la diciottesima conferenza sul clima di Doha, entrambi nel 2012. È la politica che dovrebbe opporsi al sistema predatorio e promuovere un’educazione civica a regola d’arte, invece è l’ennesima complice di questo silenzio assordante. C’è indifferenza, disinteresse e rimozione psicologica. Adesso la parola d’ordine è creare lavoro, incentivare i consumi; la decrescita non è contemplata. Purtroppo i numeri ci sono nemici: nel 2050 saremo 9 miliardi di persone, di cui alcuni destinati a morire di fame e altri obesi. Il problema non è l’evoluzione della specie, ma la mancata chiusura dei cicli biogeochimici, in sostanza dovremmo diventare capaci di riciclare tutto. Purtroppo la nostra specie non è tra le più adattabili a un nuovo ambiente molto più caldo e pieno di scorie tossiche: scarafaggi e batteri ci sopravviveranno di certo!». Possiamo ancora progettare un mondo che rientra nei limiti fisici, che ricicla tutto, che funziona ad energie rinnovabili? O è ormai troppo tardi? «Il punto è che per la società tutto ha un costo e tutto richiede compromessi. O c’è da parte delle persone, dai capi di stato agli economisti, dagli intellettuali agli operai, la volontà di ritornare a una situazione di base e ripartire con una cultura diversa, oppure non c’è soluzione. Dobbiamo stabilire dei saggi paletti planetari basati sui limiti fisici e avere i dati allarmanti ogni giorno sotto gli occhi... non per fare catastrofismo ma perché se veramente questi numeri hanno un senso, soldi a palate a tutte le università del mondo perché approfondiscano e trovino soluzioni!». Dottor Mercalli, dunque l’unico strumento che abbiamo per tirarci fuori dai guai è di tipo culturale? «Le nostre scelte di sobrietà individuali ci faranno sicuramente dormire sonni più tranquilli. Ma i valori morali non bastano. Ci vuole anche ricerca scientifica e comunicazione capillare. L’alternativa è l’ecodidattura: quando i problemi diverranno conclamati, il rischio sarà che, invece di discutere se rinunciare al cibo e all’acqua calda piuttosto che alla Ferrari, ci sarà l’obbligo per i più di andar in giro con calzari di tiglio, mentre pochi eletti avranno i comfort. Dobbiamo imparare a consumare meno e in modo più sostenibile, ma l’energia rinnovabile, per quanto si possa sviluppare, non arriverà mai a coprire i nostri fabbisogni così come abbiamo fatto con i combustibili fossili. Dobbiamo quindi imparare ad essere più efficienti, per avere le comodità – quelle indispensabili – a metà energia. Un esempio sono gli edifici passivi, che sfruttano il calore dissipato dal corpo umano senza fonti di riscaldamento esterne, oppure le automobili elettriche».
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Tra il dire e il fare c’è poi sempre di mezzo il mare... come fare il primo passo? «Io l’ho fatto. Ho cominciato a mettere i pannelli solari sul tetto, facendo altre piccole rinunce (meno viaggi esotici, meno consumi superflui) e traendone un beneficio ambientale ed economico ma pure un impalpabile, non monetizzabile, beneficio spirituale: il piacere di avere fatto funzionare la mia casa senza emissioni di CO2, senza devastazioni ambientali e in modo indipendente, e di essere in fondo più padrone del mio tempo. Ho fatto anche l’esperimento con una delle prime auto elettriche: ha dei limiti certo, come l’autonomia di soli 130 km. La uso per piccoli tragitti, ma ne traggo il piacere d’avanguardia di andare avanti con gli elettroni prodotti dal sole a costo ed emissioni zero. La speranza per il futuro è che, grazie alla tecnologia, possa anche funzionare come sistema di accumulo di energia, per accendere le luci in casa di notte attingendo dalla batteria. Come disse Winston Churchill, “è un peccato non fare niente con la scusa che non si può fare tutto”. L’importante è esplorare sempre sentieri nuovi purché ci allontanino dal baratro che abbiamo davanti».
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Intervista tratta dal convegno “Confrontarsi con clima e territorio in cambiamento”, nell’ambito del XX meeting internazionale AIGAE, tenutosi a Ceresole Reale, nel Parco Nazionale del Gran Paradiso (8-11 novembre 2012).
Per saperne di più L. MERCALLI, Prepariamoci... a vivere in un mondo con meno risorse, meno energia, meno abbondanza... e forse più felicità, ed. Chiarelettere, 2011. A. PECCEI, I Limiti dello sviluppo, Massachusetts Institute of Technology, Cambridge, 1972. Memorandum di Stoccolma, 3° Simposio dei premi Nobel sulla Sostenibilità Globale, Stoccolma, (Svezia, 16-19 maggio 2011).
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sostenibilITÀ
AUTO ELETTRICHE UNA RIVOLUZIONE A METà Testi e foto di Giulia Maringoni
Veicoli a emissione zero. Una sfida impegnativa e controversa, ma dalle enormi potenzialità. Se ne parla da tanto, ma qual è lo stato dell’arte? Di cosa c’è bisogno perché questo settore si sviluppi anche in Italia?
D IL RUOLO CHIAVE DELLA NORMATIVA EUROPEA
Nella pagina accanto: Una colonnina dove fare rifornimento di energia elettrica. i motori elettrici hanno meno necessità di manutenzione abituale e i pezzi di ricambio si usurano molto meno.
a un sondaggio dell’osservatorio Cetelem dell’Automobile, realizzato su un campione di 6mila persone di dieci paesi (Spagna, Francia, Portogallo, Italia, Belgio, Germania, Regno Unito, Polonia, Turchia e Russia) risulta che, nel vecchio continente, l’auto elettrica interessa al 71% degli intervistati e il 57% di essi ha intenzione di acquistarne una, pur stimando ancora troppo alto il costo del veicolo. Un terzo, invece, accetterebbe di pagarla anche il 10% in più rispetto a un veicolo tradizionale. Le resistenze, oltre ai prezzi, sono causate dalle diffidenze verso i sistemi di autonomia: il 55%, infatti, non si fida ad acquistare un’auto con un’autonomia inferiore ai 250 Km. Se da una parte sono stati evidenziati i nodi che impediscono una diffusione dell’auto elettrica su larga scala (batterie non troppo durature, pochi punti di ricarica pubblici e scarso sostegno da parte dei governi), dall’altra il sondaggio ha messo in luce i punti di forza di chi vede nella mobilità elettrica la soluzione ai cambiamenti climatici. La Direzione Clima della Commissione Europea ha pubblicato uno studio sulle conseguenze derivanti nei prossimi decenni dalla diffusione dei veicoli elettrici: una riduzione del 10-20% entro il 2030 delle emissioni di CO2 oltre che un abbattimento dell’inquinamento acustico. Oggi, però, il punto di svolta non è l’aspetto tecnologico ma la normativa in merito, italiana ed europea, che punta a regolamentare tutti gli attori della filiera, rendendo più chiari standard e processi produttivi. «Quando parliamo di veicolo elettrico dobbiamo renderci conto che esistono norme che lo
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sostenibilITÀ
riguardano in quanto auto e altre in quanto strumento elettrico e che queste mutano considerevolmente tra livello nazionale, europeo e internazionale – ha sottolineato Iva Gianinoni, del centro studi Ricerca sul sistema elettrico (Rse) –. La vera sfida è armonizzarle, per garantire una normativa condivisa su scala continentale». L’attuale proposta di legge include 17 articoli che adeguerebbero la normativa italiana a quella già in vigore in altri paesi, con l’introduzione di agevolazioni fiscali, incentivi all’acquisto fino a 5mila euro e di un piano nazionale infrastrutturale per la ricarica dei veicoli alimentati a energia elettrica con competenze specifiche per i diversi livelli di Governo (Stato, Regioni ed enti locali). Tra le disposizioni previste, il sostegno alla ricerca, la semplificazione dell’attività edilizia per l’installazione di punti di ricarica privati e l’istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla mobilità sostenibile con il compito di monitorare lo sviluppo della rete. Criticità, vantaggi e dilemmi L’alto costo delle vetture, l’insufficiente disponibilità di colonnine sul territorio, i lunghi tempi di rifornimento, la bassa au-
tonomia dovuta alle prestazioni, ancora scarse, delle batterie. Questi i problemi relativi alle auto elettriche. Tra i fattori positivi: il risparmio di carburante, il minor impatto ambientale, le dimensioni, la maneggevolezza, l’assenza di rumore e la possibilità di ottenere incentivi monetari e benefici relativi, come la parziale detassazione e il poter circolare nei giorni di blocco del traffico e nelle zone ztl ed ecopass. Il dilemma invece proviene da alcuni studi i quali sostengono che l’inquinamento generato in realtà è dato per lo più dal processo di costruzione e smaltimento delle batterie una volta esauste. «Già ora – ha commentato Maurizio Riva, ricercatore nel settore Impatto sistemi energetici sull’ambiente, durante l’incontro Sviluppare la mobilità elettrica tenutosi recentemente all’Università Bocconi – lo sviluppo delle auto elettriche porterà a una produzione di 8 miliardi di tonnellate di CO2 che, divise per i veicoli elettrici circolanti, significa una media di 75 gr di CO2/Km, valore di molto inferiore ai 95gr/km da raggiungere a livello europeo per ogni auto entro il 2020». È da valutare inoltre come viene prodotta l’elettricità di cui hanno bisogno. Forse le cose cambieranno quando si svilupperà di più il settore delle rinnovabili per produrre energia elettrica al posto delle sorgenti fossili.
Nella pagina accanto e a destra: Modelli di auto elettriche e bus già in circolazione nelle città europee dove le auto elettriche usufruiscono gratuitamente dei parcheggi in zona blu.
Buone pratiche e incentivi Negli ultimi anni molti paesi hanno sviluppato idee per alimentare la mobilità elettrica. Per esempio il governo italiano ha deciso di stanziare incentivi fino a 5mila euro e la polizza Rca per le ibride costerà meno delle polizze per le auto tradizionali. Anche l’Australia e il Giappone stanno scommettendo su questa nuova linea di pensiero. Nella terra dei canguri entro il 2013 sorgerà la prima rete integrale del mondo per la ricarica di veicoli elettrici, basata sulla battery swapping in cui l’automobilista lascia in una stazione automatizzata la batteria esaurita (che sarà ricaricata interamente in meno di 5 minuti) e ne preleva un’altra carica con un’autonomia di 185 km. Vicino a Tokyo, invece, è stata inaugurata una postazione di ricarica gratuita alimentata da un piccolo generatore a turbina in grado di servire cinque vetture contemporaneamente. Una rivoluzione a metà Per ottenere risultati virtuosi tangibili urge una maggiore sinergia tra le imprese della filiera e la pubblica amministrazione, nell’interesse di incoraggiare un’economia locale sensibile ai temi ambientali attraverso programmi e azioni concrete. Inoltre bisognerebbe smorzare la competizione fra produttori che inibiscono lo sviluppo della stessa mobilità elettrica, puntando a standard normativi comuni e alla condivisione delle informazioni. Solo in questo modo nel lungo periodo si potranno attivare vantaggi di sistema che stimoleranno di conseguenza la domanda dei consumatori. Il tassello fondamentale affinché la mobilità elettrica possa imprimere una svolta effettiva sotto il profilo ambientale e dell’efficienza dei trasporti ecosostenibili è la creazione di un sistema che coinvolga tutte le istituzioni interessate al processo di cambiamento e, con esse, le piccole e medie imprese del settore energetico. Occorre capire che la mobilità elettrica non è più un progetto futuristico, volto alla mera
sperimentazione, ma una realtà concreta ed è proprio in questa fase che servono azioni d’incentivazione che vengano percepite come concreti vantaggi. Se i governi e le aziende si prodigheranno in questo, lo sviluppo della nuova tecnologia sarà la vera rivoluzione ambientale e un’opportunità di ripresa per un mercato delle auto ormai stagnante.
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Per informazioni su auto elettriche Concessionaria di Renault Alternativa di AUTOINGROS spa Corso Vercelli, 115 - 10015 Ivrea Responsabile Commerciale: Davide Vottero Reis cell. 340.9251990 Tel. 0125 1961816 Fax. 01251961899 email: davide.votteroreis@intergea.net www.alternativarenault.com www.facebook.com/alternativarenault
Per saperne di più L. Cassioli, Guida all’auto elettrica, Il mio libro, 2012 L. Senn ( a cura di) Sviluppare la mobilità elettrica. Teconologie, ambiente, infrastrutture, mercato e regole, Gieedizioni, 2011. M. Boxwell, Owing an electric car, Greenstream Publishing, 2010 Siti Web: www.greenemotion-project.eu/ www.enel.com/it-IT/ www.ceiweb.it
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sostenibilITÀ
VISITA AL MERCATO DEL TERRITORIO Testi e foto di Giulia Ricca
Il mercato è da sempre il luogo di incontro e vita di una comunità. Questo mercato che si svolge in piazza Freguglia ad Ivrea è anche l’occasione per incontrare i produttori e gli artigiani del Canavese e gustare i loro ottimi prodotti.
A SPASSO TRA LE BANCARELLE itorio ivrea o del Terr Il Mercatim navese a entare del Ca
L’Eccellenza
M
Agroal
i aggiro tra le bancarelle del Mercato del Territorio organizzato a Ivrea, in piazza Freguglia, macchina fotografica in mano, e incontro volti sorridenti che dietro a banconi di formaggio, birra, ortaggi, si informano su cosa sto facendo (sono una giornalista? farò un articolo su di loro?) oppure mi informano loro, a titolo puramente gratuito, sui prodotti, mi fanno assaggiare, senza impegno, si mettono in posa per farsi fotografare oppure continuano schivi il loro lavoro. Sono piccoli produttori canavesani che rappresentano l’eccellenza agroalimentare del Canavese, che si riuniscono il primo e terzo sabato di ogni mese a Ivrea per stabilire un dialogo più allargato con consumatori consapevoli ma anche tra loro stessi, trovandosi a vendere faccia a faccia. Il progetto parte da un’idea di Enrico Levati e Stefania Casazza, già per molti altri aspetti impegnati nel settore agroalimentare; si propone, secondo le loro dichiarazioni, di “far conoscere e promuovere le realtà produttive della filiera agroalimentare del Canavese e delle sue Valli, operanti secondo i criteri quanti-qualitativi dell’autentico, del pulito, del buono e del giusto”. In altre parole, di valorizzare quegli stessi criteri che hanno dato vita al movimento Slow Food: la ricerca di un cibo “pulito”, scevro da contaminazioni chimiche, a salvaguardia della salute dell’uomo e dell’ambiente, con un atteggiamento che implichi uno sguardo al futuro e non si bruci nell’istante del “consumo”. In questo modo il cibo diventa anche “giusto”, per chi lo consuma e per la terra che ce lo offre, ma anche, e qui è forse il più importante significato dell’iniziativa di Stefania ed Enrico, per il piccolo produttore virtuoso, che, come è noto, è ormai soffocato e stretto da ogni parte dall’aberrante tabula rasa dell’industrializzazione dell’agricoltura, e così rischia di soccombere, anzi in troppi casi si è già estinto. Iniziative come quella del Mercato del Territorio prendono le mosse da quello stato di aberrazione, ma, con un atteggia-
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sostenibilITĂ€
Alcune aziende agricole artigiane che esponogono e vendono i loro prodotti al Mercato del Territorio
mento radicalmente ottimistico, non vogliono soffermarsi soltanto a deplorare ciò che non funziona nel “sistema”, ma realizzano piccole realtà di costruzione di benessere. E a proposito di benessere, la caratteristica principale di un “cibo” così concepito è quella di essere “buono”, semplicemente buono e gradevole al gusto: un’iniziativa di cambiamento o di “resistenza” non dimentica che l’industria dell’agricoltura è ingiusta non soltanto eticamente, ma anche edonisticamente: i pomodori che sanno di acqua, e non più di pomodoro, fanno male non solo all’ambiente e al nostro organismo, ma anche e soprattutto alla nostra felicità quotidiana. L’associazione si propone anche di “promuovere l’incontro tra i produttori ed i consumatori in un biunivoco rapporto di consapevolezza della qualità e della cultura dei prodotti del territorio”: ossia, come si è detto, di far incontrare i singoli produttori, per creare legami di solidarietà e maggiore forza. La salda consapevolezza che si vuole creare, anche coinvolgendo i consumatori, riguarda la necessità di tenere uniti il concetto di “cibo” e quello di “territorio”, di fronte alla realtà che invece ormai per sempre più consumatori, e soprattutto per i bambini, diventa più difficile il processo di astrazione necessario a collegare un cavolo alla terra da cui è nato, a capire che non è cresciuto direttamente sul banco del supermercato. E ancora più a rischio di estinzione è l’idea che ad un territorio diverso corrisponda un prodotto diverso, che non esista solo “la mela” ma infinite varietà di mele, e varietà di ortaggi diverse a seconda della provenienza. Proprio ai bambini si rivolge il terzo intento dell’Associazione che è quello di “organizzare eventi e manifestazioni volte alla promozione ed alla valorizzazione delle produzioni locali, con particolare riferimento ai giovani ed alle scuole”: il riferimento è infatti anche ai vari progetti di creazione di orti nelle scuole, per familiarizzare i bambini con la terra, per aiutare a capire quella relazione così diffusamente dimenticata. Inoltre l’Associazione vorrebbe diventare uno strumento per la promozione del territorio canavesano anche dal punto di vista artistico, culturale, turistico: settori non scindibili da quello enogastronomico nel modo in cui è inteso da Enrico e Stefania e da tutti i loro produttori: il cibo è e si vuole che continui ad essere parte della cultura di un popolo. Ma cosa si può trovare, concretamente, al Mercato? Birra Canavesana, il famoso cavolo verza di Montalto, farine di tutti i tipi, per pane e polenta, il miele di Azeglio, riso, formaggi, confetture e ortaggi di diverse aziende agricole, vino Canavesano (Canavese rosso, Passito di Caluso), liquori, caramelle e dolciumi...e non manca un settore “tessile”, dove si possono acquistare oggetti fatti a mano, sciarpe, maglie, e ammirare “dal vivo” la filatura... insomma, in poche bancarelle si trova rappresentata tutta la varietà di ciò che può comparire sulle nostre tavole, e anche qualcosa di più.
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CON GUSTO
Il Mercato del territorio è un'associazione di produttori, agricoltori ed artigiani del Canavese. Si svolge in piazza Freguglia ad Ivrea il primo e il terzo sabato di ogni mese, qui sono in vendita diretta dal produttore al consumatore i prodotti dell'eccellenza agroalimentare ed artigiana del Canavese. Si inaugura con questa esperienza un mercato locale dove i prodotti venduti sono a km zero e sono tutti rigorosamente di produzione biologica e sostenibile. In questa pagina sono segnalati i recapiti dei produttori presso i quali ci si può rivolgere per acquisti e visite dirette presso le loro cascine, laboratori artigianali o imprese agroalimentari.
L'ORTO DI ANDREA
Produzione e vendita diretta di ortaggi e piantine coltivati senza impiego di di pesticidi Via Daberò, sn 10014 Caluso ( To) cell. 320 8716096 capand@inwind.it
NICOLETTA
www.agricolanicoletta.it azienda@agricolanicoletta.it Inverno: Fraz. Cesnola 10010 Settimo Vittone (To) tel. 0125 658396 - fax 0125 658381 cell. 340 8988443
CASCINA AMALTEA
www.piccoli-frutti.it piccoli-frutti@tiscali.it Via L. Cossi, 91 Borgiallo ( To) tel. 0124 699508 cell. 347 4257550
rio a del Territo avese a Ivre an Il Mercato C el d imentare
L’Eccellenza
Agroal
IL CARDALLEGRO
loredana.perla@libero.it Via Peschiera, 19 Scarmagno (To) cell. 340 6441412
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MASSOGLIA
vinimassoglia@libero.it Fraz. San Grato, Via Fontanasse, 1 10011 Agliè ( to) tel. 0124 33704 - cell. 340. 2506412
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sostenibilITÀ
LA CITTà POSSIBILE Testi e foto di Letizia Gariglio
La città è un mondo ancora possibile per i bambini? Una domanda difficile, certo è che rendere la città meno aggressiva si può... ma bisogna crederci.
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Nella pagina accanto: Allestimento educativo per la mobilità sostenibile, promosso dall’Associazione Città Possibile di Torino, attiva fin dal 1988 su temi di ecologia urbana e partecipazione sociale. Gli allievi del Plesso del 1° Circolo di Murazzo (a Fossano) hanno allestito sulla strada provinciale davanti alla loro scuola la minacciosa presenza di due sagome dipinte a grandezza naturale di due vigili urbani. Sono talmente realistiche da produrre effettivi risultati sulla eccessiva velocità di attraversamento del piccolo centro abitato. In alto: Dario Manuetti, presidente dell’Associazione Città Possibile
onosco Dario Manuetti da tanti anni. So che è uno che non si rassegna. Non si rassegna alle perdite e ai costi che il cosiddetto progresso impone, né alla rinuncia a cambiare le cose, almeno nell’ambito in cui da molto tempo si è reso attivo, con risultati che danno speranza. Si è sempre occupato di ragazzi, di bambini, del loro rapporto con l’ambiente circostante e con una città che lui vorrebbe sostenibile: una città in cui per loro sia possibile vivere. La città possibile: è questo il nome dell’associazione di cui è presidente e che ha fondato trent’anni fa con un gruppo di architetti, paesaggisti, sociologi, insegnanti e ambientalisti urbani, nata per stimolare il cambiamento di un quadro urbano aggressivo nei confronti dell’infanzia, in grado purtroppo di condurre all’isolamento. L’associazione svolge un lavoro educativo sulla mobilità sostenibile e sui percorsi sicuri fra casa e scuola; fornisce un nuovo approccio all’educazione stradale e alla comunicazione pubblica su questi temi; propone una nuova cultura tecnica della sicurezza stradale e della moderazione del traffico, con progetti e proposte in grado di mutare gli spazi urbani di vita in modo sostanziale e possibile. L’associazione, sorta a Torino, ha in seguito proposto messaggi ad altre città italiane allargando il bacino delle sue sedi; ha lungamente condiviso obiettivi ed esperienze con altre associazioni e città europee. Ha molto lottato contro quella che mi sento di definire la cricetizzazione dei bambini: tentativo di metterli
In alto: XIV edizione de “La città dei bambini” a Bagnacavallo, in provincia di Ravenna dove ogni anno è allestita una festa che coinvolge le scuole del territorio.
al sicuro in una gabbietta, dove tenerli impegnati a giocare con piccoli giochi, predisposti dagli adulti per loro, al pari della gabbia. Certo, il tutto avviene a fin di bene, per proteggerli dai tentacolari pericoli delle città disumane e, ancor più, se si preferisce, “disbambine”. Le gabbiette hanno forma di case, di palestre organizzate, sono i luoghi delle innumerevoli attività a cui le nostre giovani vittime vengono spesso iscritte “d’ufficio”, in modo da salvaguardare il loro tempo, così che ne rimangano sempre minori porzioni libere, nelle gabbiette si possono ripetere piccole attività per lo più ripetitive, ossessive, non creative, non inventive. Sono certa che tutti siano d’accordo sulla necessità di creare un cuscinetto fra i ragazzini e i video-giochi, e qualche altra situazione potenzialmente “pericolosa”, come la televisione, predisposta per tenere occupati i bambini senza che debbano mescolarsi con ambiente esterno, eppure anche qui il barlume di coscienza degli adulti cozza con le loro necessità. E tra il dire e il fare... Una città nemica, avversa alle esigenze dei bambini è
Nella pagina accanto: La “Città dello Zecchino”, manifestazione interamente dedicata ai bambini, per far scoprire loro i tanti tesori di Bologna e renderli protagonisti della città in cui vivono. Tutto ovviamente all’insegna del divertimento.
quella in cui normalmente ci muoviamo, accettando il pieno diritto delle automobili di fare il bello e il cattivo tempo. Siamo così avvezzi ormai alla situazione in cui ci muoviamo, noi adulti con i nostri bambini, che molti di noi non si chiedono più se ci sia ancora la possibilità di fare qualcosa per cambiare: una muta, indolente rassegnazione ricopre la vita nelle città, tutte le città, come un velo. Ma è questa l’unica realtà possibile? Manuetti se l’è chiesto da molto tempo, senza mai smettere di pensare a soluzioni, proporre idee, ideare progetti, muovere forze politiche. Anche oggi comunica con l’abituale energia, provando a smuovere pigrizie e infondere fiducia. Quanto alla politica della sicurezza stradale l’associazione lavora in sintonia con la cultura e le politiche dei paesi più evoluti in Europa. Nel suo agire culturale e formativo fa riferimento al programma svedese Visione Zero che parte dal principio di non accettare come dato scontato la possibilità di incidenti mortali o gravi nel traffico urbano, adottando cioè lo stesso principio di riferimento pienamente accettato per
l’organizzazione del traffico ferroviario e aereo. Se nelle politiche e nei programmi operativi si modifica radicalmente l’approccio al problema della sicurezza stradale (Visione Zero vuol dire zero morti o feriti gravi), operando una esplicita e rigorosa scelta eticosociale in tal senso, si potranno avere grandi risultati sul piano delle sicurezza stradale e della sostenibilità ambientale. Già dal 2000 la vicina Svizzera ha scelto di impostare su questa linea tutta la sua politica, elaborando poi un programma articolato di obiettivi con misure e interventi specifici. Non dimentichiamo che l’aspetto educativo, per tutte le età, è sempre molto importante e che lo stesso automobilista forsennato che scalpita nel ridurre la sua velocità è spesso anche padre o madre degli stessi ragazzi che fruiscono in modo sostanziale dei miglioramenti che si possono ottenere: mostrare, parlare, comunicare, scambiare idee sui temi dei bambini e del traffico, dell’influenza del traffico sullo sviluppo dei bambini, sull’importanza dell’avventura tra casa e scuola, rimane un aspetto molto importante dei progetti di “La città possibile”.
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sostenibilITÀ
Intervista a Dario Manuetti, presidente dell’Associazione Città Possibile
Nella pagina accanto: La strada provinciale davanti alla scuola di Murazzo (Fossano) dove gli allievi hanno posto due sagome di cartone raffiguranti due vigili urbani, a scopo deterrente per far ridurre la velocità delle auto che transitano davanti alla scuola.
La città possibile ha aperto nuove piste già da tempo. Oggi collaborate con altre realtà simili alla vostra? Come vi muovete? «Collaboriamo con l’Istituto Municipale di Educazione di Barcellona e il suo progetto Camì Escolar. Lavoriamo con insegnanti, operatori sociali e culturali nel campo dell’educazione ambientale. Collaboriamo attivamente ad una Rete nazionale di gruppi e associazioni operanti in altre città con le stesse finalità, metodologie e gli stessi strumenti comunicativi: ci coordiniamo con le altre realtà nazionali impegnate sul tema dell’ambiente urbano, coltiviamo gli scambi, i legami e la collaborazione con associazioni, gruppi, progettisti e operatori svizzeri (Gruppo per la Moderazione del Traffico della Svizzera Italiana, A.T.A., Pro Juventute), tedeschi (Urbanes Wohnen, Info Spiel), francesi (Co.de.J. e Atelier de Launay) e italiani (La città in gioco, Amici della Bicicletta, Strada Amica e altri)». Come si fa ad agire concretamente sulla moderazione del traffico? «La città possibile con questo tipo di obiettivi ha collaborato attivamente a diversi progetti comunali di Zone 30 (veicoli a 30 Km/h) per le strade interne di quartieri residenziali di Torino, Fossano, Savigliano, Valenza. Ha inoltre proposto e progettato anche interventi puntuali di microzone a 20 km/h in corrispondenza di ingressi di scuola. Entrambi (Zone 20 e 30) comprendono misure fisiche e sistemazioni stradali di moderazione del traffico per scoraggiare la velocità delle automobili, ma nel contempo sono state promosse iniziative per coinvolgere le popolazioni locali, prima a livello conoscitivo, poi a livello partecipativo, con forme diverse di animazioni e di coinvolgimento delle diverse fasce di utenza della strada: anziani e bambini, automobilisti e pedoni, ciclisti, al fine di porre buone basi per una coesistenza pacifica, fondata sul riconoscimento e il rispetto reciproci». Svolgete anche attività di formazione? «Sì. Gli esperti, animatori e volontari dell’associazione svolgono attività di formazione, animazione e monitoraggio presso le scuole (elementari e medie),
CIBI CHE CAMBIANO IL MONDO
incontri di informazione e di formazione dei politici e tecnici locali, incontri con gli insegnanti per l’impostazione dei programmi di attività delle diverse classi, interventi di informazione e animazione con gli allievi in classe. Sono davvero numerosi gli aspetti del loro lavoro diretto, ma voglio citare in particolare la rilevazione dei flussi di traffico e delle velocità nelle vie interessate dai percorsi di scuola, con l’assistenza di Agenti della Polizia Municipale: numero e tipo dei mezzi transitanti, velocità medie e istantanee dei veicoli, misurate cronometrando i tempi di percorrenza su un tratto di strada di 100 metri: attività condotte con grande serietà che risultano per i ragazzini entusiasmanti. A rendere concretamente educativi gli interventi degli operatori dell’associazione è soprattutto la traduzione sul piano della realtà dei progetti a cui i ragazzi, puntualmente informati circa le migliori realizzazioni in ambito europeo, hanno contribuito sul piano delle idee e dei numeri». Con Strade per bambini, strade per tutti l’associazione ha collaudato da diversi anni una sua metodologia innovativa di educazione stradale nella scuola e nella comunità locale. Ce ne parli? «L’iniziativa viene messa in atto con l’impegno congiunto di tecnici comunali, polizia municipale e insegnanti e con il coinvolgimento delle famiglie I bambini sono spronati all’osservazione e al monitoraggio della realtà della circolazione, vengono sti-
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molati ad attivarsi concretamente rispetto ai temi. Partecipano alla pianificazione dei percorsi di scuola e alla realizzazione di una rete di percorsi pedonali e ciclabili, apportando idee e proposte. Interessante in questo senso è anche il coinvolgimento a Torino degli insegnanti e degli allievi del Liceo Artistico “Renato Cottini”, che hanno molto lavorato sul piano delle idee e della stesura di elaborati di formazione per nuove Zone 30 e Zone 20 (misure di moderazione del traffico e verde stradale, arredo e arte urbana) impegnandosi anche in una sorta di tutoring nei confronti dei più giovani allievi della scuola primaria e allestendo mostre di tavole progettuali e plastici tridimensionali». Concludiamo sorridendo. Perché vicino a Fossano, a Murazzo, sulla strada provinciale ci sono segni di tante frenate? «Ah, certo. Si deve a noi. Gli allievi del Plesso del 1° Circolo di Murazzo ha piazzato sulla strada provinciale a traffico intenso e veloce che passa davanti alla scuola la minacciosa presenza di due sagome dipinte a grandezza naturale: due vigili urbani; sono talmente realistiche da produrre effettivi risultati sulla eccessiva velocità di attraversamento del piccolo centro abitato. I vigili Gianni e Beppe danno talmente fastidio che recentemente sono stati rapiti. Ma sono stati puntualmente restaurati e sostituiti. Il 13 giugno c’è stata la terza inaugurazione… Una bella storia di educazione e resistenza civile».
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CULTURA
IMPARARE AD IMPARARE Testi e foto di Letizia Gariglio
Apprendere e migliorare nell’apprendere... A qualunque età!
IL METODO FEUERSTEIN
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’è una fondamentale fiduciosa condizione di ottimismo alla base del Metodo Feuerstein: quella che ciascun individuo sia modificabile e migliorabile a livello intellettivo. La convinzione è innanzi tutto umana, ma Feuerstein ha fornito la dimostrazione teorica di quest’assioma e ha tracciato la strada perché coloro che si occupano di educazione possano operare in modo scientifico nel loro lavoro. L’idea è apparentemente semplice: l’intelligenza è un’abilità addestrabile, modificabile, migliorabile; quando ci si trova di fronte a danni dell’intelligenza, causati da fattori genetici o ambientali, si può intervenire per recuperare delle carenze e ri-mediare nel processo di sviluppo dell’individuo. L’intelligenza, dunque, non è un pacchetto prefissato che ci cucchiamo così com’è da mamma e babbo, inoltre nel caso disgraziato in cui una parte del contenuto del pacchetto per varie ragioni sia andato deteriorato è possibile recuperare. L’idea, apparentemente così semplice, è di un uomo che oggi ha 91anni (è nato nel 1921 in Romania da famiglia di rabbini) e che è tuttora pedagogista e psicologo attivo e infaticabile. Egli è, a mio parere, il più grande pedagogista vivente. È passato nel corso della sua esistenza e della sua storia personale attraverso le guerre, l’internamento nel campo di concentramento, la tubercolosi: le difficoltà non l’hanno mai piegato. Quando nel 1944 la Romania fu occupata Reuven Feuerstein, che in quel periodo insegnava a Bucarest in una scuola per figli dei de-
portati, fu internato in un campo di concentramento. Riuscito in maniera fortunosa a fuggire, si trasferì in Israele. Ha sempre insegnato: in un’ intervista raccontava tempo fa di aver iniziato a otto anni a insegnare ad un ragazzo di 15, spinto dalla preghiera di suo padre. Al quindicenne, “irrecuperabile zoticone” nessuno era mai riuscito a insegnare a leggere e scrivere, suo padre pregò Reuven di riuscirci: prossimo alla morte nessuno avrebbe potuto leggere per lui la preghiera funebre, affidata ai figli nei riti di religione ebraica. Reuven riuscì a rispondere alla richiesta. Si occupò di adolescenti sopravvissuti alle persecuzioni razziali, di orfani, insegnò ai bambini che arrivavano dai campi di sterminio: qualcuno di loro si era letteralmente fatto strada uscendo da una montagna di cadaveri ammonticchiati sopra di lui. Si potevano recuperare situazioni come questa, dove la sofferenza umana, fisica e psichica, avevano raggiunto proporzioni catastrofiche, minando anche le capacità dell’intelletto? Molti erano tentati di pensare negativamente. Ma Feuerstein non disperò. Dentro di lui non venne mai meno la convinzione che almeno in parte ci fosse sempre possibilità di risanamento per un trauma. La logica suggerisce che nell’apprendimento il risultato dipenda dalla condizione di partenza: compromessa tale situazione tutto farebbe pensare ad un successivo esito poco ottimistico. Ma Feuerstein ha dimostrato che il livello iniziale non costituisce un ostacolo insormontabile nel percorso verso la modificabilità.
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CULTURA
La sua convinzione, mattone dopo mattone, divenne teoria: la Teoria della Modificabilità Cognitiva. Essa analizza la possibilità di cambiare strutturalmente i processi di pensiero degli individui, cambiando il modo con cui essi si accostano alla conoscenza. I neuroni del cervello umano, infatti, possono potenziare la loro rete di connessioni, incrementando quantità e qualità degli apprendimenti realizzabili. Già, ma come fare? Qui interviene l’importanza del Metodo. L’esperienza di apprendimento, infatti, ha luogo, per mezzo del Metodo Feuerstein, in modo mediato, vale a dire attraverso la presenza e il supporto di un mediatore che, anziché esporre in modo diretto l’allievo agli stimoli, opera intenzionalmente, selezionando e organizzando gli stimoli stessi. Inoltra il Mediatore opera in maniera che l’esperienza attuata dall’allievo sia utilizzabile in altri contesti, attraverso
un processo di generalizzazione. Il Mediatore ha il compito di creare le condizioni psicologiche e cognitive migliori per l’apprendimento e di dissolvere gradualmente i blocchi di chi deve imparare. I blocchi sono stati messi in atto da paure, fallimenti, delusioni, sofferenze, hanno scatenato cattive abitudini cognitive: il mediatore interviene per sostituirle con altre, buone. Sebbene non sia proprio semplice come cambiare una lampadina, il Metodo Feuerstein fornisce al Mediatore gli strumenti per farlo e passa all’allievo paradigmi cognitivi che gli serviranno per affrontare situazioni via via più complesse e diverranno suo patrimonio metodologico e strumentale personale. L’obiettivo del Mediatore non è mai il puro accrescimento delle conoscenze nozionistiche di un allievo, bensì lo sviluppo delle capacità, degli strumenti conoscitivi, i quali si possono solidificare in lui in buone abitudini cognitive, spendibili in contesti diversi, nell’approccio con diverse soluzioni problematiche. Il Metodo Feuerstein, di cui sono accesa sostenitrice nel mondo scolastico, ha trovato numerosi cam-
Nella pagina accanto: Il dottor Reuven Feuerstein, candidato al Nobel per la pace A lato: La scuola elementare De Amicis nel quartiere Regio Parco di Torino
pi di applicazione negli ultimi anni. È utilissimo per espandere le capacità intellettive a qualunque livello, perché ciascuno di noi, a qualunque età, mostra predilezione o antipatia per particolari forme di ragionamento: il Metodo spinge a frequentarle tutte, aprendo la mente. Un nodo fondamentale è il passaggio attraverso la verbalizzazione, la quale plasma il pensiero, influendo fortemente sulla qualità del pensiero stesso della persona. È passata attraverso i benefici del Metodo buona parte della formazione di dirigenti e quadri di azienda, nonché la fascia degli anziani. Non è un mistero che l’età avanzata sia comunemente percepita, nell’opinione diffusa, come un blocco alla modificabilità cognitiva, se ne attribuisce la causa al fatto che la maturazione del sistema nervoso è in fase conclusiva; gli anziani stessi sono molto critici nei confronti della propria memoria, affermano comunemente che sia per loro più difficile imparare di quando erano giovani. Al di là del fatto che l’età possa essere percepita nell’opinione comune come un impedimento all’evoluzione cognitiva, Feuerstein ha dimostrato che l’età non è un deterrente all’apprendimento: il suo Metodo è assai utile per lo sviluppo negli anziani delle funzioni comunicative e cognitive; essi sono in grado di migliorare rispetto alla loro storia personale quando una mediazione è idonea, arricchente dal punto di vista relazionale e intessuta con l’influenza del loro vissuto. Del resto chi potrebbe non essere d’accordo oggi sulla necessità di un’educazione permanente? L’apprendimento deve essere una costante della nostra vita, dobbiamo costantemente prepararci ad essere flessibili per affrontare novità. I dinosauri sono da tempo definitivamente scomparsi, anche nel campo del sapere.
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Per saperne di più La sede madre di “The Feuerstein Institute” è situata in Gerusalemme; 70 centri autorizzati operano nel mondo. La scuola forma a diversi livelli, compresi quelli universitari, offerti in lingua inglese. A Torino opera secondo il Metodo Feuerstein l’ARRCA NOVA Onlus; sede in via Pesaro, 4 - 10153 Torino. Info 340 6968934. Organizza corsi di formazione e interventi di Mediazione. La stessa Istituzione opera a Treviso, in via Isonzo, 10 - 31100 Treviso. Info 347 9055059.
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CULTURA
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onostante le numerose espansioni Il terreno naturale di applicazione dei Metodi cognitivi resta la scuola, luogo designato nella nostra società per la trasmissione culturale. Intervistiamo due insegnanti, entrambe Mediatrici Feuerstein, Rossana Alessandria e Pina Longobardi, che nell’ambito della scuola primaria (elementare) si sono trovate ad affrontare, negli anni più recenti, molte difficoltà in ambito educativo. Insegnano in una zona calda della città, che raccoglie un bacino di utenza attorno a Porta Palazzo, il più grande mercato d’Europa e nello stesso tempo il fulcro dell’immigrazione in città. Definire pluralistica la situazione educativa in cui operano non rende del tutto giustizia ai numeri: le classi dell’istituto in cui insegnano sono formate talvolta da totalità o quasi totalità di allievi stranieri, alcuni dei quali non conoscono per niente o pochissimo la nostra lingua. Capita che qualcuno più grande non sia mai stato scolarizzato nel paese da cui proviene.
MEDIAZIONE COGNITIVA E MEDIAZIONE CULTURALE S’INCONTRANO NELLA SCUOLA
In alto: Le insegnanti Rossana Alessandria e Pina Longobardi mediatrici Feuerstein
Volete descriverci la situazione, Pina e Rossana? «Vista dall’esterno, la situazione dell’istituto dove insegniamo, il Regio Parco, può sembrare molto difficile. In effetti la nostra scuola è un ambiente complesso, ma è anche molto stimolante per noi insegnanti. Oltre ad alunni che presentano strumenti cognitivi o modalità operative inadeguati per affrontare la scuola, o difficili esperienze di crescita e di apprendimento all’interno della famiglia o della cultura d’origine, i nostri plessi scolastici possono vantare numerose eccellenze». È ovvio che in una situazione del genere gli insegnanti abbiano dovuto rivedere alcune delle certezze sulle quali fondavano in precedenza i propri metodi d’insegnamento. Una bella lezione di flessibilità per voi. Immagino abbiate dovuto esplorare molte possibilità per trovare la strada migliore. Volete dirci perché il Metodo Feuerstein vi è sembrato il più adatto per giungere a buona integrazione dei gruppi di allievi e ad attivare nello stesso tempo le risorse dei singoli allievi? Pina «Durante i miei anni di precariato, il mio lavoro tra i banchi di scuola è sempre stato sostenuto da una grande dose di entusiasmo, che per quanto grande
IMPARARE AD IMPARARE
fosse, non era sufficiente a spiegare i problemi di apprendimento degli allievi. I corsi di formazione, i testi di pedagogia e didattica mi hanno sempre lasciato interrogativi aperti finché, nove anni fa, sono approdata al metodo Feuerstein«». Rossana «Mi sono avvicinata alla metodologia Feuerstein 6 anni fa, grazie ai i presupposti da cui parte Feuerstein: a spingermi sono stati il concetto che l’intelligenza può essere modificata e che si possono insegnare i processi intellettivi necessari a svilupparla, l’importanza che attribuisce alla mediazione nell’apprendimento e la visione ottimistica del processo insegnamento/apprendimento. Attualmente nell’Istituto Regio Parco ci sono più di 40 insegnanti formati alla metodologia Feuerstein che la sperimentano nei plessi di scuola dell’Infanzia, di scuola primaria e scuola secondaria di primo grado. Pina ed io facciamo parte di ARRCA NOVA onlus (Associazione Ricerca Ristrutturabilità Cognitiva Apprendimento) che si occupa di sperimentazione e formazione continua». Insieme «Sicuramente abbiamo modificato le pratiche e il nostro stile di lavoro, abbiamo imparato a far ricorso a più modalità comunicative, a riconoscere e a rispettare differenti stili cognitivi, abbiamo con Feuerstein appreso a “leggere” il processo mentale, a proporre costantemente attività metacognitive, a snellire i programmi senza abolirne la qualità. La lezione di flessibilità ha avuto bisogno di coraggio prima di tutto, per ridimensionare e riorientare in itinere sia il nostro lavoro programmato sia le situazioni di classe in continua mobilità e cambiamento. È un dato che nuove accoglienze di allievi o trasferimenti in corso d’anno scolastico nel nostro Istituto Comprensivo si verificano più che in altre scuole. Il metodo Feuerstein è sicuramente il più adatto perché propone una batteria di strumenti, strutturata in modo tale che i contenuti sono lontani da qualunque disciplina e non assomigliano affatto ai compiti scolastici; non si basano sui contenuti, con successiva valutazione dei prodotti, ma sui processi mentali da attivare. L’utilizzo di tali strumenti da parte del docente mediatore consiste nel selezione determinati stimoli e nell’esercitare i processi mentali, attraverso
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compiti che non indicano cosa sa o non sa fare un alunno ma cosa potrebbe fare, qual è il suo potenziale, il perché delle sue capacità inespresse. Inoltre questo lavoro può essere proposto a chiunque, al limite anche a chi non sa leggere perché non richiede particolari competenze, né conoscenze pregresse; proprio perché non riconducibile alle materie tradizionali, non causa ansia da prestazione o reazioni di rifiuto, atteggiamento normale tra le “vittime” di insuccessi scolastici; le risposte degli alunni possono essere di tipo grafico, verbale, gestuale, mimico, etc.». Feuerstein propone una visione plastica dell’intelligenza, che nella sua concezione non è fissa, non è immutabile e non è misurabile. Per contro l’intelligenza è educabile. In una società complessa quale quella in cui vi trovate ad operare se non si attiva un approccio alla situazione in cui per davvero si cerchino soluzioni, si creda veramente con fiducia nello sviluppo dei giovani, si può essere sopraffatti dalle difficoltà. Quali sono a vostro parere gli aspetti più importanti da Feuerstein suggeriti, da mettere in atto nel rapporto con gli allievi? «La Teoria della “Modificabilità Cognitiva Strutturale di Feuerstein nasce più di 50 anni fa grazie ad una forte convinzione, una grande intuizione da parte del suo creatore, ma sono solo 10 anni che le neuroscienze ne confermano la fondatezza e questo ci sembra già un bell’esempio di uno dei criteri di mediazione, quello della mediazione della scelta di un’alternativa ottimistica. Il protagonista è il soggetto che apprende, non l’insegnante, il clima nel quale viene a vivere le sue esperienze deve farlo stare bene con se stesso e con gli altri. Vanno incoraggiati, da un lato il sentimento di appartenenza, dall’altro si deve instillare una buona dose di autostima per creare “la convinzione di potercela fare”. Ciò che ognuno di noi pensa di se stesso è probabilmente la diretta causa del successo o del fallimento negli apprendimenti, del trovare o meno soluzioni ai problemi che la vita ci presenta. Mediazioni come quella del senso di competenza o del sentimento di sfida sono fondamentali se si spera di accrescere la motivazione ad apprendere, ad aprire la strada al cambiamento».
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INCONTRI CHE CAMBIANO IL MONDO Testi e foto di Giulia Ricca
L’Associazione Intercultura opera in Canavese da oltre quarant’anni. Il programma coinvolge giovani dai 15 ai 18 anni che trascorrono un periodo di studio ospitati in una famiglia all’estero.
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In alto: Studentessa dell’Associazione Intercultura ospitata in una famiglia del Canavese
ntercultura è una ONLUS che ha l’obiettivo di creare il dialogo interculturale attraverso gli scambi scolastici ed è gestita da migliaia di volontari. Il programma invia ogni anno all’estero quasi 1500 studenti delle scuole secondarie e accoglie altrettanti giovani di ogni nazione nelle nostre famiglie e nelle nostre scuole. L’attività è volta a garantire l’incontro e il dialogo tra persone di tradizioni culturali diverse, favorendo indirettamente la pace tra i popoli (a Intercultura è stato infatti assegnato il Premio della Solidarietà della Fondazione Italiana per il Volontariato per oltre 40 anni di attività in favore della pace). I partecipanti agli scambi sono soprattutto giovani tra i 15 e i 18 anni (ritenuti sufficientemente maturi per affrontare l’esperienza in modo non superficiale, ma non ancora coinvolti in scelte di vita definitive). I ragazzi che intendono vivere questa esperienza vengono seguiti passo passo dall’organizzazione, che in primo luogo tramite colloqui seleziona i ragazzi in grado di affrontare l’avventura (in certi casi l’impatto culturale può essere destabilizzante); si preoccupa poi di selezionare la famiglia ospitante e la scuola dove verrà mandato il ragazzo, e al ritorno affianca lo studente nel graduale reinserimento nel proprio paese (ad esempio tramite un ritrovo, alla fine dell’esperienza, di tutti i ragazzi che hanno vissuto nello stesso paese per un anno, che fanno un ultimo viaggio insieme vivendo un momento di “raccoglimento” prima di rientrare nei rispettivi paesi). In Italia già più di ventimila famiglie hanno accolto
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studenti stranieri, confrontandosi con stili di vita e mentalità diverse. Il ragazzo non è solo un ospite, ma un vero e proprio figlio per i genitori, un fratello o una sorella per il figlio italiano; e non solo per il tempo delle permanenza, perché naturalmente la convivenza crea nuove relazioni che si estendono in certi casi per tutta la vita, oppure occasioni di nuovi incontri e scambi futuri. I volontari di Intercultura si richiamano all’esempio degli ambulanzieri AFS che agli inizi del secolo scorso crearono il servizio di volontariato internazionale; sono i volontari che selezionano i candidati ad andare all’estero e le famiglie che accolgono, preparano a vivere l’esperienza e assistono per tutta la durata del programma.
Nel Canavese Intercultura opera da 40 anni. Secondo le statistiche il numero di ragazzi che partecipano ai programmi di studio all’estero in questi ultimi anni è visibilmente cresciuto. Nell’anno 1999-2000 erano partiti 7 ragazzi mentre nel 2012-2013 sono 24 i ragazzi del Canavese che partecipano ai programmi all’estero. Normalmente, ci sono da 8 a 10 famiglie Canavesane che ospitano. Oltre alla gestione locale dei programmi di scambio, il Centro Locale di IvreaCanavese promuove iniziative a livello cittadino allo scopo di sensibilizzare sempre più sui temi dell’interculturalità. Ogni anno si organizza la Mostra fotografica “Così Vedo l’Italia”, un concorso fotografico per i ragazzi stranieri ospiti in Italia. Il concorso si conclude a Maggio con una mostra fotografica pubblica e la premiazione al Municipio di Ivrea presenziata dalle alte cariche cittadine; oppure la Giornata Europea del
Nella pagina accanto e in alto: Giulia Presbitero, collaboratrice di Intercultura e Ryosuke studente giapponese di Nagoya al Carnevale di Ivrea 2013
Dialogo Interculturale: ogni settembre vengono organizzati concerti di musica, lettura di poesie, esposizioni di arte, animazione, tavole rotonde. Inoltre il centro locale di Ivrea organizza due volte l’anno campi di quattro giorni dove si aggrega tutta la “zona zero”, cioè tutti i ragazzi ospitati tra Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. Gli incontri sono finalizzati a far riflettere i ragazzi sull’esperienza (infatti il primo viene fatto a un mese e mezzo dall’arrivo perché si suppone che sia il momento in cui le difficoltà iniziano ad emergere, l’altro un mese prima della partenza per aiutare a metabolizzare il distacco), ma soprattutto servono a “fare gruppo” e a ricordare ai ragazzi che non sono soli in questa esperienza. Vengono organizzate anche varie visite, alla fiera del cavolo verza a Montalto, all’acquario di Genova in primavera; inoltre possono partecipare al Carnevale “dall’interno” grazie alla collaborazione dell’Associazione aranceri dei Credendari, che coinvolgono i ragazzi in molte attività durante tutto l’anno, anche al di là dei giorni di Carnevale. Infine, in primavera i ragazzi possono fare una settimana di scambio in un’altra famiglia di un’altra regione italiana a loro scelta (di solito scelgono di andare al mare) e a giugno, sempre da parte del centro locale, è organizzata una gita a Venezia.
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I RAGAZZI DI INTERCULTURA
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n una gelida serata invernale, costeggiando i giardinetti di Ivrea, mi dirigo per un’intervista verso la casa della mia carissima amica Giulia Presbitero, già “allieva” di intercultura, con alle spalle un’esperienza di un anno in Cina, e ora collaboratrice dell’organizzazione, a sei anni da quel viaggio. Ma sono un po’ agitata, perché non sto andando a intervistare lei: Giulia fa l’insegnante di italiano per il gruppo di ragazzi che è ospite a Ivrea quest’anno, e io voglio parlare con i ragazzi, che ancora non conosco. Salite le scale, mi trovo davanti una bellissima scena: Giulia alla lavagna, dietro le finestre che danno su piazza Ottinetti, i ragazzi e le ragazze intorno al tavolo, seduti su sedie (reali o di fortuna), il tavolo disordinato come deve esserlo ogni banco di scuola, con i quaderni, le penne, le bottiglie delle bibite, e i ragazzi così oggettivamente diversi tra loro che in quel clima disteso compongono a turno una frase con il condizionale, tra risate e reciproche prese in giro, ma tutti con successo. Questo successo all’inizio mi stupisce, mi sembra un miracolo che ragazzi che sono qui da un paio di mesi e magari arrivano da paesi dove la lingua non si esprime neanche con l’alfabeto, ma con
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Nella pagina accanto e a destra: I ragazzi ospiti di famiglie canavesane frequentano le scuole superiori di Ivrea, Rivarolo, Castellamonte, Caluso e Cuorgnè
altri segni, siano già così in grado di comporre i nostri segni e la nostra grammatica. Finita la lezione, mi siedo anche io al tavolo e davanti ad una enorme ciotola di pop corn ci mettiamo a parlare. Ma non è ancora ora dell’intervista, perché oggi è un giorno particolare, è l’ultima lezione prima di Natale, dopo tutti andranno a festeggiare a cena con l’insegnante, e ora le consegnano sorridenti un regalo: se prima mi era sembrato che tutti quanti si impegnassero per tessere correttamente segni e grammatica, in questo momento mi sembra che i fili della trama che stanno tessendo non siano fatti solo di grammatica, ma anche di amore, affetto e impegno e non solo nei confronti di Giulia, ma della loro intera esperienza in Italia, di cui la scena che sto vedendo è per me un simbolo. I ragazzi si presentano: Emma viene dalla Finlandia (Kuopio), Indira è Russa (di Alexandrov), Suchaya, che si fa chiamare Minnie, viene dalla Thailandia (Bangkok), Ryosuke è Giapponese di Nagoya, Sergio è nato in Colombia ma viene dagli USA (Washington DC), Matthew invece è nato in Olanda ma arriva dall’Australia (Perth). Hanno tra i 16 e i 17 anni, sono ospitati da famiglie di Ivrea e dintorni, frequentano il liceo (scientifico o linguistico) o gli isitituti. Iniziamo a parlare dei lati “scioccanti” dell’Italia: alcuni sostengono che sia wild, chiedo spiegazioni e mi rispondono che wild è innanzitutto il modo di guidare (non rispettiamo i limiti e i cartelli stradali!) e in questo caso noi italiani siamo addirittura scary...
E poi “everybody smokes”, ovunque, addirittura a scuola, con gli insegnanti! Inoltre alcuni hanno avuto perplessità sull’utilizzo di alcuni “oggetti” nei bagni (la turca, o la solita questione dei bidet...). Infine, gli Italiani parlano tanto, troppo, e troppo veloce, e i ragazzi trovano curioso il nostro eccessivo gesticolare... Dopo esserci dedicati alla pars destruens passiamo alla construens e chiedo stavolta qual è la cosa più bella dell’Italia. Ricevo subito il luogo comune per eccellenza: il cibo... Tanto più che uno di loro, Sergio, frequenta l’istituto alberghiero ed è entusiasta di questa scuola in Italia, perché mi spiega che da loro non è previsto il lato pratico, mentre qui si diverte a cucinare tutto il giorno (Il suo dolce preferito? Il panettone, che non aveva mai visto in vita sua!). Altra cosa mai vista prima di venire qui, per Minnie e Matthew, è la neve, e tutti quanti trovano amazing il nostro paesaggio di montagne innevate. Di Ivrea ammirano i vicoli e le strade vecchie e trovano che la vita per i giovani sia divertente. A questo punto passiamo all’argomento decisivo e parliamo di cosa li ha spinti a fare questa esperienza di un anno all’estero. L’argomento è meno concreto, ma mi vengono diverse risposte: erano genericamente interested al pensiero, andare all’estero “è figo”, e un anno è il giusto tempo per poter enjoy al massimo l’esperienza. E perché proprio in Italia? Qualcuno mi dice di nuovo per il cibo, Emma mi dice, con occhi timidi e dolcissimi, perché voleva imparare l’Italiano.
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CULTURA
Ricordo di Silvano Fumero Testi e foto di Alice Fumero
Ricordo di Silvano Fumero
L ’Associazione K.I.T.E., per ricordare la figura del suo fondatore Silvano Fumero, scomparso cinque anni fa, mette in scena al Teatro Giacosa uno spettacolo teatrale ambientato nel controverso mondo imprenditoriale della ricerca scientifica...
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osa accadrebbe se un batterio fosse in grado di distruggere - senza controllo - tutta la carta esistente al mondo? Libri, quadri, banconote, fotografie… tutta la carta stampata verrebbe divorata e ridotta a brandelli irrecuperabili. La civiltà del genere umano sarebbe in gravissimo pericolo, perché la sua storia, la sua cultura, l’unica vera eredità per le generazioni future potrebbe essere distrutta per sempre da questa misteriosa forma epidemica. Questo terribile scenario è quello che viene raccontato nel romanzo“ Il Clone Africano. La carta a rischio”, edito nel 1997 nella Collana “I Gialli di Fogola” di Torino. “ Il Clone Africano”, è stata la prima esperienza narrativa di Silvano Fumero, che nella scrittura ha sempre trovato un modo di rielaborare in maniera creativa le sue passioni e la sua professione. Silvano Fumero, saluzzese di nascita ed eporediese di adozione, fu scienziato ed imprenditore di livello internazionale: laureato alla facoltà di Biologia dell’Università di Torino, iniziò la sua carriera proprio qua nel Canavese, nei laboratori dell’Istituto di Ricerche Marxer. Per più di trent’anni si è occupato di ricerca e sviluppo in farmacologia e la sua carriera lo ha portato a Bruxelles, a Cambridge e a Ginevra, dove ha rivestito la posizione di Vice Presidente della multinazionale Serono. Nel 1991 è stato promotore e fondatore del Bioindustry Park di Colleretto Giacosa, che oggi porta il suo nome. Ma per Silvano Fumero, scomparso prematuramente nel 2008, la scienza non era solo la sua professione ma anche la sua più grande passione. E con scienza non si intende solo l’inesauribile curiosità e ricerca dei segreti della vita, ma anche tutti quegli aspetti che intorno alla scienza ruotano e che la trasformano in un business da milioni di dollari. Scienza intesa come una realtà molto più complessa di quello che si può immaginare. Infatti quando si parla di scienza e delle sue applicazioni entrano in gioco anche altri fondamentali fattori: culturali, strategici, politici, finanziari, etici, organizzativi e gestionali…. Sono tutti questi gli aspetti che si intrecciano nella vicenda del biologo Jeremy Rodgers, protagonista dell’avventura – “verosimile” – del suo imprevedibile clone, appunto il famigerato “clone africano”. Il termine clone risveglia – è inutile negarlo – paure ancestrali in ognuno di noi: paure legate al potere
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CULTURA
In alto: Il BioIndustry Park e una sua ricercatrice Nella pagina accanto: Gli attori protagonisti dell’allestimento teatrale con Alice Fumero (terza da sinistra), Omar Ramero, Giulia Brenna e Marco Panzanaro
della scienza e della tecnica. Pensare ai risultati eccezionali a cui la scienza è arrivata nei secoli ci costringe a riflettere su quale ruolo la scienza debba rivestire nella nostra esistenza e su quali siano i suoi limiti nel sondare i segreti della vita. Sono questi i temi a cui la nostra società, giunta ormai ad un livello tecnicoscientifico molto complesso, deve affrontare. La questione è se la società abbia tutti gli strumenti conoscitivi per essere davvero in grado di capire e prendere una posizione. Le reazioni mediatiche che i protagonisti del romanzo devono affrontare e valutare li costringono a gestire un mondo mosso da interessi che vanno ben oltre il mercato, il denaro e il successo personale, ma che sfociano nella sfera dell’etica. Per questo motivo, sebbene scritto più di quindici anni fa, le riflessioni che scaturiscono dalla storia del clone africano sono ancora oggi drammaticamente attuali ed è per questo che, in occasione dei cinque anni dalla scomparsa dell’autore, la famiglia Fumero ha deciso di realizzare una versione teatrale del romanzo, che andrà in scena sabato 18 maggio ore 21.00 al Teatro Giacosa di Ivrea. L’iniziativa sarà curata dall’Associazione K.I.T.E., associazione culturale che dal 2006 realizza una stagione annuale di divulgazione scientifica attraverso il teatro, l’arte e la musica proprio all’interno del Bioindustry Park. D’altronde l’Associazione K.I.T.E. è nata – in collaborazione con sua figlia Alice Fumero – proprio dal volere del Dr.
Fumero, che credeva che la comunicazione scientifica dovesse essere parte integrante e fondamentale del ricercatore e del sistema parco. Lo stile dello spettacolo sarà riconoscibile in quello che possiamo definire “stile K.I.T.E.”. Uno spettacolo che, dietro l’atmosfera di giallo e suspance, racchiude un messaggio divulgativo. Sul palcoscenico avrà luogo una storia che – sebbene parta dal presupposto fantastico – porta con sé tutti i caratteri della vita reale. In scena ci saranno personaggi che con il mondo del teatro hanno forse poco a che fare, ma che si possono incontrare tutti i giorni in laboratorio o in una grande impresa farmacologica. Perché “Il Clone africano” vuole essere una forma di teatro “didattico”, un teatro in grado sì di intrattenere piacevolmente il pubblico, ma capace anche di introdurlo ad un mondo apparentemente lontano. Un mondo nel quale le ambizioni personali si intrecciano con quelle dell’umanità intera, una realtà dove la verità scientifica può essere mortificata dall’opinione pubblica, un ambiente spietato dove le scelte del buon senso di scontrano con quelle degli interessi economici, un universo di personaggi che non hanno nulla di speciale se non la peculiarità di essere drammaticamente veri e realistici. Lo spettacolo, patrocinato dal Comune della Città di Ivrea, sarà aperto a tutta la cittadinanza e sarà ad ingresso libero fino ad esaurimento posti.
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Teatro Giacosa di Ivrea Piazza Teatro 1, Ivrea Sabato 18 maggio 2013 ore 21.00
Il Clone Africano. La carta a rischio di S. Fumero Adattamento teatrale e regia di A. Fumero Con Omar Ramero, Giuseppe Cigno, Giulia Brenna e Marco Panzanaro E la partecipazione straordinaria di Roberto Ricci Una produzione dell’Associazione K.I.T.E. Ingresso libero (consigliata la prenotazione) Info: 334 3191631 - 347 4424025 info@iniziativakite.org www.iniziativakite.org
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NATURA E PAESAGGIO
MARE D’INVERNO Testi e foto di Martina Federico
I luoghi di mare in inverno sono come isole perdute che scompaiono nella nebbia... nessuno le ricorda e gli abitanti attendono, come sospesi in una dimensione senza tempo, che giunga l’estate. Ma cosa succede in questi luoghi dimenticati dai piÚ? Questo è un reportage che svela il fascino primordiale di una delle mete incantate dei nostri mari: l’isola di Capri.
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NATURA E PAESAGGIO
V Nella foto della pagina precedente e in alto: Scatti dall’isola di Capri, situata nel golfo di Napoli conta circa tredicimila abitanti che triplicano durante il periodo estivo
iste dalla terra ferma le isole d’inverno sprofondano, non esistono più, si dissolvono, diventano stagionali come il loro turismo: riemergono dagli abissi nel mese di aprile. E invece, al di là di ogni più fervida aspettativa, le isole d’inverno sembrano invece esistere con i loro abitanti che d’inverno escono allo scoperto nella loro identità culturale e territoriale. Prendiamo per esempio l’isola di Capri. Uno psichiatra isolano, Gianluigi Esposito, mi ricordo che una volta aveva sostenuto che l’isola soffre di manie bipolari. L’invasione dei turisti d’estate e l’improvvisa, totale sparizione degli stessi d’inverno getta l’isola in una situazione di euforia e disforia alternata. Ma, lasciando da parte la questione diagnostico-clinica, veniamo alla questione documentaristica: Capri d’inverno. I capresi impovvisamente si contano. Si contano perché si vedono. Figure finalmente distinte, ripulite da un contorno di massa, confuso e magmatico. Ferme.
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Perché d’inverno Capri è immobile come un presepe, e immobili sono i suoi personaggi. Nella piazza (la “Piazzetta”), grupetti di tre o quattro persone, in piedi come pali, si fermano a chiacchierare per ore e ore, in un cerchio strettissimo, ogni tanto lanciano occhiate al di fuori del loro cerchio verso i passanti. A fare da sfondo, e scena e teatro, una piazza con quasi tutti i bar chiusi. L’edicola al lato, espone un gatto violaceo dal pelo lungo a fare da fermacarte ai giornali, che altrimenti volerebbero. All’interno l’edicolante con piumino impermeabile e cappello dà uno sguardo alla cronaca locale. Un solo bar aperto, dei cinque, l’unico dove batte il sole, ospita i vip dell’isola che bevono un Martini per aperitivo, con noccioline. Qualche caprese timido sfreccia da un lato a un altro della piazza attraversandola, preparandosi ad affrontare il corridoio di vento di via Roma. Le campane, con un volume di gran lunga superiore alla normativa legale, impazzano. Il silenzio che regna ne aumenta il rimbombo. Qualsiasi eventuale tentativo di conversazione sarebbe ora stroncato sul nascere. Il mare estivo è lontano parecchi mesi, sia guardando indietro che guardando avanti. Il mare di ora è solo quello che divide Capri dalla terrra ferma, che si agita e fa sospendere i collegamenti, riducendo l’isola finalmente al suo etimo. I capresi si riconoscono, si guardano in faccia, si avvicinano. Forse neppure si conoscono veramente l’un l’altro. È irrilevante: ora formano una cordata contro la desolazione dell’isolamento. Quest’anno per la sera di capodanno i locali sono stati chiusi; si vocifera a causa di un litigio tra i soci delle maggior parte delle discoteche dell’isola. Tra i due litiganti il terzo non gode e i capresi sono costretti a divertirsi naturalmente, e non artificialmente. Le vetrine dei negozi sono spoglie per sospensione dell’attività. Si salta una stagione, adeguandosi all’andamento dell’isola, anche questa scompare nel nulla. Le attività cercano personale in prospettiva: il qui e ora non fa testo. Gli abitanti dell’isola vanno a fare, durante i pomeriggi, lunghe passeggiate in cima ai belvederi. Vanno a prendersi avidamente un tesoro, quello che gli altri, gli abitanti dell’estate neanche conoscono. Quattro cani per strada, come la canzone di De Gregori, corrono e annusano gli angoli, deserti anch’essi. Soffia la tramontana; da lontano il mare ha delle macchioline bianche, le onde della tramontana. I proprietari e gestori degli stabilimenti, sottratti ai ritmi frenetici che l’estate impone loro, sembrano persone normali, vestite normali, con bastoni. Van-
no a prendersi quello che spetta loro. Ad allietare il dicembre dell’isola, la mano arruffona del turismo. Un sedicente festival cinematografico internazionale (“il festival dell’anno”) pare abbia luogo dal 26 al 2 di gennaio (approfittando, appunto, solo dell’eventuale turismo, che sloggerebbe definitivamente con il primo giorno lavorativo dell’anno). È un festival prevelentemente invisibile, dal momento che non è un festival. Un festival cinematografico di solito prevede l’affluenza di spettatori interessati alla proposta inedita dell’evento. O, se non inedita, quanto meno selezionata, ricercata, criteriata. Non c’è una competizione, non una premiazione che badi alla qualità (o una delle qualità di un prodotto cinematografico tipico). Ma solo riconoscimenti alla carriera di personaggi dello spettacolo che, ospitati dal festival, non vedono l’ora di approfittare, a loro volta, per soggiornare gratuitamente nell’isola più chic. E non ce la teniamo tutta questa desolazione? Il mare d’inverno, quello senza barche dentro, è molto più pulito.
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NATURA E PAESAGGIO
Into The Wild
Diario fotografico
Testi di Arianna Zucco Foto di Lorenzo Perotti
Un viaggio fotografico tra lupi, linci, orsi e cinghiali nel cuore incontaminato del parco “Bayerischer Wald”, il più antico della Germania. Qui vivono in un habitat naturale animali selvaggi che con un pizzico di coraggio è possibile fotografare a pochi metri di distanza...
Q Intervista a LORENZO PEROTTI
Nella pagina precedente: Lupi in amore nel Parco di Bayerischer Wald Nella pagina accanto: Lince guardinga... In alto: Mamma cinghiale con i suoi piccoli
uattordici gradi sottozero, nove ore di appostamenti al giorno, fra conifere alte anche 30 metri: questo lo scotto da pagare per ammirare uno dei più interessanti spettacoli della natura nel cuore d’Europa. A circa 200 km da Monaco di Baviera, al confine con la Repubblica Ceca, si trova infatti il Parco di BAYERISCHER WALD, il più antico della Germania, aperto nel 1970 con l’obiettivo di tutelare un ambiente naturale – autenticamente selvaggio – arrivato, grazie all’impegno di tante persone e delle istituzioni, intatto fino ad oggi. Racconta a InOgniDove, la sua esperienza di viaggio, Lorenzo Perotti – fotografo professionista canavesano e nostro reporter – grande appassionato di soggetti naturalistici. Lorenzo, che cosa ti ha spinto nel cuore della foresta Boema? «L’idea di questo viaggio è nata quasi per caso, grazie all’incontro con il grande fotografo Milko Marchetti, ad un workshop fotografico a Chiaverano. In quell’occasione mi ha raccontato del suo progetto: un viaggio breve, ma denso di emozioni, alla ricerca dello scatto perfetto di tanti animali selvaggi, tra i quali i lupi. Alle sue parole, in un istante il cuore ha iniziato a battermi forte: vedevo finalmente concretizzarsi la possibilità, tanto sognata fino ad allora, di vedere dal vivo e nel loro ambiente naturale i lupi, animali che ammiro e rispetto molto».
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NATURA E PAESAGGIO
Un viaggio in solitaria o in compagnia? «Un viaggio in compagnia, eravamo un gruppetto di 12 persone, ma, una volta nel parco, ognuno era libero di seguire gli altri o girare in solitaria, come ho scelto in certi momenti, per riuscire davvero a cogliere la magia di quei posti». Come vi siete mossi per i due giorni all’interno del Parco? «Dal nostro alloggiamento, raggiungevamo l’ingresso del parco con i due pulmini che avevamo affittato in Italia e poi da lì si proseguiva a piedi. Otto, nove ore con i piedi nella neve ogni giorno. Ma nel periodo caldo il parco è percorribile anche in bicicletta!» Bisonti americani, linci, lupi, orsi, cinghiali. Fra la neve e gli alberi, si nascondevano molti animali, alcuni dei quali potenzialmente pericolosi per l’uomo. Che sensazione ti dava esse-
re immerso in un ambiente nel quale l’uomo è l’intruso? «Questa è una bella domanda. Appena ho iniziato a camminare in questa foresta ho avuto un tuffo al cuore, mi sono sentito piccolo di fronte a quegli alberi giganti, coperti di neve e ghiaccio. Ogni volta che ci avvicinavamo ad una delle aree di avvistamento degli animali che vivono nel parco, saliva la tensione. Spesso bisognava stare in silenzio per parecchio tempo, anche per un paio d’ore, nella speranza di vedere spuntare il nostro soggetto tra gli alberi e la neve». L’emozione più intensa che ti sei portato a casa? «Sicuramente l’emozione più forte, quella che mi fa venire i brividi ancora oggi, è l’ululato dei lupi. Il secondo giorno di viaggio, all’imbrunire, abbiamo sentito e poi visto una quindicina di esemplari che si riuniscono e all’unisono, iniziano il loro canto, sgraziato se vogliamo, ma allo stesso tempo melodico, che ci ha immediatamente trasmesso il senso di quanto il branco fosse unito e ci ha portati a domandarci, chi tra noi e loro, fosse davvero l’animale».
INTO THE WILD
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A sinistra: Incontro ravvicinato con una lontra A destra: Orsa con il piccolo In basso: Gufo reale
Un’esperienza di turismo fotografico sostenibile: la presenza di voi fotografi e altri visitatori è trasparente per gli animali? Come avete limitato il vostro impatto sul territorio? «Gli animali nel parco possono intercettare il passaggio degli uomini che però avviene soltanto nelle aree autorizzate. Non è possibile avvicinare i vari esemplari, che in ogni caso, per diffidenza, si allontanerebbero spontaneamente. Nelle occasioni in cui ci è capitato di catturare lo sguardo delle orse con i loro cuccioli, non sembravano infastiditi, anzi hanno continuato a comportarsi in modo del tutto naturale. Insomma, fondamentale è comportarsi come ospiti in casa d’altri. Il nostro impatto sul territorio è stato limitato dal fatto che il tour è stato effettuato rigorosamente a piedi nonostante il peso degli zaini fotografici, che possono raggiungere anche 20-25 kg, considerando l’attrezzatura tecnica e soprattutto le bevande calde, fondamentali per poter sopravvivere per così tante ore a temperature tra –12° e –14°». Insomma un’esperienza da ripetere «Assolutamente si, la consiglio a tutti gli appassionati di fotografia naturalistica. E nel frattempo mi dedico a scegliere la prossima meta!».
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Per saperne di più Parco BAYERISCHER WALD: www.nationalpark-bayerischer-wald.de/ Lorenzo Perotti: www.lorenzoperotti.com Milko Marchetti: www.milkomarchetti.com
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BORGHI STORICI
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Testi di Silvia Coppo Foto di Lorenzo Perotti
Con oltre ventun secoli di storia ed una buona posizione geografica, Ivrea è considerata il capoluogo del Canavese. Il borgo medievale rappresenta ancora il cuore pulsante della città. Il suo fascino antico evoca atmosfere d’altri tempi, che ancora sembrano rivivere come d’incanto nelle silenziose notti eporediesi.
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BORGHI STORICI
LA CITTà ANTICA UN Po’ DI STORIA
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vrea è situata in un’area formata da un grande ghiacciaio del Pleistocene, il quale trasportò nel tempo numerosi detriti che andarono a formare una serie di rilievi, tra cui la Serra Morenica di Ivrea lunga 25 chilometri, che separa il Canavese dal Biellese. La peculiare disposizione dei rilievi morenici tende a formare un vero e proprio anfiteatro, nel quale Ivrea è collocata al centro. In seguito al ritiro del ghiacciaio, la zona si arricchì di numerosi laghi che ancora oggi circondano la città, ovvero il Lago Sirio, il Lago San Michele, il Lago Pistono, il Lago Nero e il Lago di Campagna. Poco più lontano si trovano anche il Lago di Viverone e il Lago di Candia. L’antica Eporedia fu colonia romana della Gallia Transpadana, fondata nel territorio dei Salassi, sulla via che da Vercelli per la valle della Dora Baltea metteva in comunicazione con i paesi transalpini. Il nome, derivato dal dialetto gallico, viene ancora interpretato come “stazione di carri equestri”. Dopo lunghe lotte sostenute dai Romani contro i Salassi, fu decisa la deduzione della colonia nel 100 a.C.. Tuttavia al suo sviluppo furono sempre deleterie le incursioni dei Salassi, finché essi furono sterminati da Terenzio Varrone e nel 24 a.C. venne fondata Augusta Praetoria, l’attuale Aosta.
Nella pagina precedente: Il castello di Ivrea in notturna A sinistra: Il romanico campanile di Santo Stefano Nella pagina accanto: Vista sulla città dal cammino di ronda del castello
IVREA LA BELLA
Il Cristianesimo vi fu introdotto abbastanza tardi: la più antica testimonianza è del 356 e il primo vescovo di Eporedia noto è Eulogio che partecipò al Concilio di Milano del 451. Rimangono resti dell’anfiteatro romano del II sec. d.C. e dell’acquedotto, mentre un ponte sulla Dora andò distrutto nel XVI secolo. Altri resti romani sono stati rinvenuti nella parte sudorientale della città romana e poi medievale, in occasione della costruzione di edifici olivettiani negli anni Settanta del secolo scorso. Altro materiale di età romana fu ritrovato nella parte alta della città, nel centro storico dove sorgono il duomo e il castello, e venne reimpiegato intorno al Mille proprio per la ricostruzione del luogo di culto. Successivamente alla caduta dell’Impero romano d’Occidente, iniziarono le invasioni e dominazioni barbariche e la città venne inclusa in uno dei ducati longobardi della regione pedemontana che comprendeva anche la diocesi di Vercelli. Subentrato il dominio dei Franchi, Ivrea fu sede di contea. Verso la fine del sec. IX, tramontata l’età carolingia, la Marca di Ivrea fu assegnata ad Anscario I che diede inizio alla propria dinastia nel corso del X secolo. La configurazione marchionale del territorio raggiunse così la sua definitiva espressione per poi interrompersi con l’ascesa di Arduino, marchese d’Ivrea e poi re d’Italia nel 1002. Accanto alla figura di Arduino venne a stagliarsi quel-
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la altrettanto rappresentativa del vescovo Warmondo (969-1005 circa), suo grande antagonista e uomo di raffinata cultura, ricostruttore del duomo e propulsore dello scrittorio locale con la produzione di notevoli codici miniati tuttora esistenti. All’inizio dell’anno Mille con la scomparsa di Arduino si perde ogni traccia della Marca d’Ivrea che viene ridimensionata tra i suoi eredi, i quali praticarono una politica di aperta opposizione verso le grandi casate imperiali straniere. Nel corso dell’XI secolo si consolida il potere episcopale, mentre dal Duecento si rafforza l’autonomia del Comune e la promulgazione delle Leggi Statutarie. Nel 1266 Guglielmo VII di Monferrato riesce ad ottenere la dedizione della città. Nel 1313 la Città giurò fedeltà ai Savoia e nel 135758 Amedeo di Savoia, unico incontrastato signore di Ivrea, dava inizio alla costruzione del nuovo castello affiancato ai precedenti centri di potere: la cattedrale, il Palazzo vescovile e quello comunale. Nel XIV secolo i Savoia, dopo le estenuanti lotte per il consolidamento del potere dovettero affrontare la grande sommossa popolare del Tuchinaggio che insanguinò le terre canavesane e che si concluse proprio a Ivrea nel 1391 con la convenzione voluta dal Conte Amedeo VII di Savoia, conosciuto anche come “Conte Verde”. Con questa vicenda si chiudeva per Ivrea l’età aurea della sua storia, nei secoli successivi si fece sempre più evidente la sua dimensione provinciale.
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BORGHI STORICI
IVREA LA BELLA
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Nella pagina accanto: Le luci del Lungo Dora si riflettono nel fiume A destra: Le torri romaniche della cattedrale Nelle due pagine seguenti: Due suggestive immagini della passeggiata sul Lungo Dora e del fiume visto dal Borghetto
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ella parte alta della città, in posizione strategica, sorge il castello. Sede di avvenimenti politici e di sontuose feste medievali dei Savoia, conserva tuttora il carattere di fortezza difensiva con i camminamenti di ronda, il grande cortile e la posizione che caratterizza il paesaggio cittadino. La costruzione del ”castello dalle rosse torri” fu terminata tra il 1393 e il 1395. Durante il sec. XVI, in Canavese, divamparono le guerre tra Francesi e Spagnoli e prese inizio una lenta trasformazione del castello che da ricca dimora man mano fu trasformato in presidio militare e ricovero per profughi. Inoltre, nel 1676 un fulmine colpì la torre mastra, adibita a polveriera, e lo scoppio lesionò gravemente l’edificio. Dal 1700 al 1970 fu poi utilizzato come carcere subendo perciò profonde trasformazioni fino a rendere l’interno assai dimesso rispetto alla costruzione originale. Dal 1994 il castello eporediese, di proprietà dello Stato, è stato dato in concessione al Comune che ha predisposto un percorso di visita al cortile e ad alcuni locali. Lasciando il castello ci si può avviare verso il Vescovado di cui non si conosce con esattezza il periodo di costruzione. E’ opinione degli studiosi che fosse già dimora del vescovo Warmondo nel X secolo, se non addirittura dei vescovi precedenti. Il palazzo è oggi un insieme di edifici di diverse epoche e forme creatosi nel tempo con aggiunte e modifiche. Sono comunque ancora presenti caratteristiche architettoniche che si possono attribuire al Medioevo, innanzi tutto la torre detta “Torre del Vescovo” che si erge di alcuni metri oltre il tetto, un tempo certamente merlata conserva particolari decorazioni in cotto. Nella piazza selciata, accanto al Vescovado, troviamo la cattedrale che è l’edificio di culto più importante della città e della diocesi di Ivrea. La tradizione vuole che sorga sul sito di un tempio dedicato a Giove, successivamente convertito in chiesa cristiana. La chiesa paleocristiana si ritiene fondata al principio
del V secolo, a seguito della creazione della diocesi eporediese per smembramento da Vercelli, quando il nuovo gruppo episcopale avrebbe occupato questo luogo sostituendosi al tempio. L’edificio rimase inalterato e continuamente in uso fino agli anni intorno al Mille, all’epoca del vescovo Warmondo. Personaggio aggiornato alle innovative architetture adottate in altri centri episcopali d’Europa, Warmondo modificò l’originaria struttura con l’aggiunta della controabside sopravvissuta nell’estremità occidentale, inquadrata dai due campanili e comprendente due deambulatori sovrapposti. I lavori risparmiarono la chiesa precedente, abbattuta e ricostruita in un secondo tempo. Nella prima metà del XII secolo la chiesa venne riedificata mantenendo l’impostazione a tre navate e, al termine dello stesso cantiere, la cripta e il presbiterio soprastante furono ampliati verso oriente capovolgendo l’orientamento della cattedrale, trasferendo di conseguenza l’altare maggiore da est a ovest. La lettura della complessa trasformazione dalla fase di Warmondo a quella romanica dell’intero corpo della chiesa è implicata dalle trasformazioni che nel corso dei secoli ne hanno modificato l’antico aspetto. Restano comunque tracce consistenti di quella chiesa di età romanica che, stando all’ipotesi di molti studiosi, rispetta l’impianto ad absidi contrapposte della cultura architettonica di età ottoniana e quindi di respiro europeo, che giustificherebbe la presenza dell’abside rivolta ad occidente. La parte più antica della cattedrale oggi visibile è la cripta semicircolare di età warmondiana, che accolse per secoli le spoglie di san Besso. Ad essa si collega direttamente il secondo settore della cripta, con volte a crociera sorrette da colonne sormontate da una notevole serie di capitelli appositamente realizzati. Definita la struttura architettonica, dal XIII al XV secolo le opere eseguite in cattedrale furono soprattutto di abbellimento pittorico. Le immagini della cripta e del deambulatorio testimoniano
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BORGHI STORICI
tuttora la devozione alla Vergine e a vari santi, un tempo espressa anche dai rispettivi altari ora scomparsi. Il duomo per diversi secoli resistette a qualsiasi intervento dell’autorità ecclesiastica, finché a metà Settecento, con l’episcopato di Michele De Villa, iniziò a mutare aspetto insieme alla rivisitazione della memoria dei santi patroni. Preso possesso della diocesi eporediese nel 1741, questo prelato si preoccupò di intraprendere una serie di lavori per rendere la cattedrale più decorosa e degna al culto, a cominciare dal rinnovamento del presbiterio. Successivamente intese perpetuare in modo maestoso la memoria di san Savino vescovo, compatrono della città eporediese, con l’erezione di una nuova cappella in sostituzione di un’altra più antica, ampliando l’edificio oltre il muro della
navata meridionale e modificandone visibilmente l’aspetto originario. Tale intervento è il primo dei molti rinnovamenti apportati nella seconda metà del XVIII secolo. I seguenti interventi alla cattedrale si devono al successore monsignor Pochettini, che ordinò all’architetto Giuseppe Martinez di rinnovare l’interno in modo da conferirle un’omogeneità stilistica, modificando l’aspetto della struttura romanica senza però alterarla. Alla fine dei lavori il duomo acquisì l’aspetto di un edificio tardo barocco, com’era nell’intenzione dell’architetto. Le ultime trasformazioni, compiute nel corso dell’Ottocento, comportarono invece l’ampliamento della sacrestia e l’allungamento delle tre navate verso est. Il progetto di ingrandimento della cattedrale si deve all’architetto torinese Gaetano Bertolotti, che ripresentò all’interno una continuità con l’impostazione barocca, mentre per l’esterno propose la chiesa veneta di San Giorgio Maggiore. La monumentale facciata, consacrata nel 1854, è decorata da
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sculture e bassorilievi dello scultore novarese Giosuè Argenti e s’impone per il messaggio pastorale di riaffermazione del culto mariano e dei principali santi della diocesi eporediese. Attraverso una stretta scalinata si lascia la città alta e si scende in Piazza di Città, a ridosso della quale si incontrano Via Palestro e Via Arduino, che un tempo erano l’unica Via Magna Burgi che collegava Porta Vercelli e Porta Aosta. Dalla piazza si osserva la facciata della chiesa di Sant’Ulderico eretta nel sec. XI e legata a una leggenda relativa al passaggio del Vescovo Ulderico di Magonza nella città d’Ivrea. Della parte antica rimane evidente il campanile romanico, mentre il resto dell’edificio è stato sontuosamente rimodellato nel Settecento. Via Palestro conduce invece in Piazza Ottinetti, che è considerata “il salotto di Ivrea”, creata nel 1843 in seguito alla demolizione di parte del monastero di Santa Chiara con un intervento di ricucitura tra vecchio e nuovo tessuto edilizio. Dalla piazza si può proseguire fino a raggiungere i giardini pubblici dominati dall’antico campanile romanico di Santo Stefano, che oggi si presenta come una torre, unica testimonianza superstite di un complesso abbaziale dell’XI secolo. Il monastero rimase efficiente fino al 1489, infine nel 1554-1558 il Generale francese Brissac, Governatore d’Ivrea, fece demolire la chiesa e parte del monastero
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per ingrandire le fortificazioni dalla città. Percorrendo ancora la città verso sud, nella zona industriale voluta da Camillo Olivetti, presso il luogo detto Monte Navale, troviamo un autentico gioiello dell’arte gotica al termine del medioevo: la chiesa di San Bernardino. Si tratta, più precisamente, della cappella di un convento francescano costruito nel 1456, poco tempo dopo la canonizzazione di Bernardino da Siena, che gli storici locali ritenevano fosse passato anche a Ivrea durante il suo apostolato. La sede di culto vanta una della più belle pareti piemontesi di fine Quattrocento, eseguita dal casalese Martino Spanzotti (1455 circa-1526/28). Personalità di spicco di un nuovo umanesimo, egli realizza proprio in San Bernardino a Ivrea il più maestoso dei suoi capolavori tra il 1480 e il 1485 rappresentando il ciclo sulla Vita di Cristo. Dopo essere stato più volte teatro di vicende belliche tra Seicento e Settecento, dal 1805, in seguito alla soppressione degli istituti religiosi, il convento fu ceduto a privati ed utilizzato principalmente come cascinale agricolo, mentre la chiesa venne in parte manomessa e adibita a magazzino e fienile. Fortunatamente nel 1907 l’ingegner Camillo Olivetti si assunse il compito di tutelare il monumento da qualsiasi trascuratezza, acquistando tutta la zona conventuale adiacente all’area industriale da lui stesso creata.
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CANAVESE IN BICICLETTA Testi e foto di Alice Fumero
Campi arati, filari di pioppi e antiche cascine che conservano il rurale fascino di un mondo andato perduto. Il miglior modo per fare un suggestivo viaggio nel passato è quello di inforcare una bicicletta e pedalare tra le strade di campagna del Canavese...
CANAVESE IN BICICLETTA
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Nella pagina accanto: In bicicletta per la campagna di Cascinette In alto: Antica cascina sulla strada Pobbia
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gni terra custodisce una storia: una storia fatta di luoghi e di persone, di fatica e lunghe attese, di amore e di solitudine. Un tipo di storia che oggi sembra provenire da un lontano passato, ma che mantiene immutato il suo fascino. È la storia del tempo che scorre, trascinando con sé la vita… Anche gli inconfondibili lineamenti dei campi e delle montagne del Canavese raccontano una storia. Ci sono ancora luoghi infatti che, lontani dal traffico, custodiscono racconti da narrare, vite da ascoltare. Basta imboccare strette strade battute principalmente dalle cingolate ruote dei trattori per fare un piccolo viaggio nel tempo. Esplorando alcuni di questi angoli dimenticati dall’urbanizzazione, possiamo incontrare le cascine dalla caratteristica struttura canavesana, luoghi che sembrano conservare i segreti del passato. Le cascine erano costruite come abitazione del contadino e della sua famiglia, ma anche come ambienti di lavoro: la stalla, la cantina, il fienile, il porcile, il pollaio. Davanti il cortile, grande e in terra battuta, assolato d’estate, imbiancato di neve in inverno, battuto dalla pioggia primaverile e autunnale: vero crocevia della vita della cascina. Se chiudiamo gli occhi
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A sinistra: Strada rurale a Cascinette d’Ivrea
possiamo ancora sentire le armonie delle galline e dei cani mentre girovagano liberi e si dissetano all’abbeveratoio di pietra; possiamo vedere le donne stendere il bucato o continuare il perenne lavoro di maglia e cucito, mentre gli uomini trovano lungo i muri meglio esposti lo spazio per essiccare i prodotti della terra. Per ritrovare il sapore antico dei nostri paesi dobbiamo abbandonare l’automobile a casa, inforcare una bicicletta e farci condurre dal vento. Il nostro giro incomincia ad Ivrea, zona piazza del Mercato. Ci allontaniamo subito dalla città per seguire Via Lago Sirio e Via Cantone Gabriel sulla destra che ci porta al lago San Michele. Lasciato il lago alla nostra destra, imbocchiamo Strada Vicinale Montodo che ci conduce sulla via Francigena (Via Tinasse). La strada – priva quasi completamente di traffico – ci conduce a Cascinette d’Ivrea –. Imboccando Via Perra veniamo finalmente condotti tra i campi coltivati, che non ci lasceranno più. Passando prima in Burolo e in Bollengo poi, si incontrano le prime antiche cascine: alcune di esse oggi sono ristrutturate in abitazioni eleganti ma pur sempre funzionali al lavoro della terra. Seguendo le indicazioni della via Francigena, che incontriamo uscendo da Bollengo (vicino ai campi da tennis), ci inoltriamo in Strada Palazzo, poco trafficata che ci consente – nei giorni più limpidi – di godere di tutto l’arco alpino che incornicia il Canavese. Arrivati a Palazzo Canavese curviamo sulla destra in Via Garibaldi e giunti alla rotonda sulla Statale 228 seguiamo le indicazioni per Pobbia. Arrivati al centro del piccolo centro rurale giriamo a destra e andiamo verso Albiano. Giunti alla strada provinciale (Sp 80), di nuovo a destra: unico tratto del nostro giro in cui porre un po’ di attenzione
CANAVESE IN BICICLETTA
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In alto: Il lago S. Michele che in primavera ospita scolaresche per laboratori di sostenibilità ambientale. Nella foto la barca ad energia solare realizzata con il contributo di Aeg Reti di ivrea
per il traffico. Dopo poco sulla sinistra seguiamo le indicazioni per Cascine Tivolera e Carlina. Tenendo sempre la destra, la strada ci conduce all’incrocio con Corso Vercelli, all’altezza del Carcere. A questo punto il nostro giro si conclude e si ritorna ad Ivrea da Corso Vercelli o dalla parallela Via Burolo. La strada per Cascine Tivolera e Carlina fino al Carcere è sicuramente la più suggestiva. Tra i campi di granoturco e le zolle di terra abbandonate dalla trebbiatrice, possiamo incontrare un’antica fornace ormai diroccata all’ombra di pioppi e alberi da frutto. All’orizzonte non ci abbandona mai la bellissima sagoma del Monte Quinzeina, che per i locali rimarrà sempre “La bella addormentata” per i suoi lineamenti che rimandano ad una fanciulla sdraiata. E a noi piace pensare che sia lei, la fanciulla supina, colei che ci guarda dall’alto e che porta nei suoi sogni tutti noi, che – come il tempo – passiamo e lasciamo le nostre piccole impronte… a due ruote!.
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Informazioni Periodo consigliato: tutte le stagioni Lunghezza: circa 20 Km Tempo di percorrenza: 2 ore Livello difficoltà: per tutti Mappa consigliata: Il Canavese IGC n.21 Scala 1:50.000
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NORDIC WALKING UNO SPORT PER TUTTI Testi di Arianna Zucco Foto di Claudio Baldi
Con oltre 10 milioni di praticanti in 40 paesi nel mondo, il Nordic Walking, cioè la camminata nordica, è uno degli sport di fitness che ha fatto registrare il maggior tasso di crescita degli ultimi anni. I motivi? Tanti, ma possono essere sintetizzati in facilità di pratica, benefici fisici per tutte le età e sostenibilità ambientale
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C Nella pagina precedente e in alto: Escursioni guidate dalla Scuola di Nordic Walking di Andrate
on oltre 10 milioni di praticanti in 40 paesi nel mondo, il Nordic Walking – cioè la camminata nordica – è uno degli sport di fitness che ha fatto registrare il maggior tasso di crescita degli ultimi anni. I motivi? Tanti, ma possono essere sintetizzati in facilità di pratica, benefici fisici per tutte le età e sostenibilità ambientale. Nato in Finlandia negli anni ’30 come tecnica di allenamento estivo per gli sciatori di fondo, viene proposto nelle scuole come attività di educazione fisica soltanto trent’anni più tardi, ma per il suo lancio ufficiale come sport è stato necessario attendere fino al 1997. Oggi anche in Italia si stanno diffondendo sempre di più le scuole dedicate che consentono in una manciata di lezioni di apprendere i fondamenti di questa tecnica di camminata e massimizzare fin da subito i risultati. L’attività motoria del Nordic Walking coinvolge il 90% dei muscoli, senza gravare sulle articolazioni. L’uso
A destra: Escursione con neve primaverile In basso: Capre camosciate al pascolo in Regione Rionca (Andrate)
dei bastoncini non serve infatti come appoggio per il movimento, ma per attivare anche gli arti superiori nell’ottenere la spinta per potenziare l’avanzamento, proprio come avviene nello sci di fondo. Semplice da apprendere, può essere praticato da persone di tutte le età, indipendentemente dalla preparazione fisica, ma soprattutto può essere praticato ovunque: in campagna, nei boschi, in spiaggia, lungo gli itinerari alpini e addirittura in città. In base al proprio allenamento e agli obiettivi che ci si prefigge, il Nordic Walking può essere praticato a tre livelli ad intensità crescente: benessere, fitness e sport, generando in tutti i casi maggiori benefici psicofisici quanto più l’attività viene svolta a diretto contatto con la natura. Estremamente economico, in quanto l’attrezzatura necessaria prevede, oltre ai bastoni, semplicemente delle calzature con suola antisdrucciolo adatte all’escursionismo, sta ottenendo in questi anni una fortuna crescente anche in Italia grazie al suo impatto ambientale quasi nullo. Privilegiando infatti la scelta di percorsi già esistenti e spesso sconosciuti o poco praticati, contribuisce al mantenimento dei sentieri e alla riscoperta del territorio. Nonostante sia nato come tecnica sportiva, il Nordic Walking si rivela anche un’ottima occasione di svago e di scoperta di luoghi sconosciuti a pochi passi da casa, nonché un motivo di aggregazione. A fare da filo conduttore alle escursioni dei walkers, sicuramente c’è l’attenzione e il rispetto per l’ambiente. La pratica del Nordic infatti ha tutte le caratteristiche per rispondere al crescente bisogno di turismo sostenibile, inteso a valorizzare le peculiarità del territorio e delle tradizioni locali, minimizzando l’impatto della presenza dell’uomo. In questo filone si inserisce anche la crescente atten-
zione verso le green ways, cioè i percorsi verdi dedicati alla mobilità non motorizzata ricavati dal recupero di infrastrutture esistenti, come ad esempio i tratti ferroviari dismessi o le alzaie dei canali. Il tipo di tracciato che caratterizza le vie verdi, con la loro pendenza leggera, il fondo abbastanza omogeneo e la larghezza sufficiente a consentire il transito contemporaneo di diverse categorie di utenti non motorizzati, si sposa bene infatti con le esigenze del Nordic Walking. Diverse sono le associazioni dedite all’insegnamento di questa disciplina in tutta Italia e negli anni gli enti locali si stanno organizzando per la realizzazione di parchi territoriali dedicati. Il Canavese ospita una delle più importanti realtà per la pratica del Nordic a livello nazionale – l’Andrate Nordic Walking Park – ma anche aree metropolitane possono riservare piacevoli soprese, come nel caso dell’Anello Verde sulla collina Torinese, che, a pochi passi dal centro, consente di immergersi nella natura e dimenticare per qualche ora gli affanni quotidiani.
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ANDRATE NORDIC WALKING PARK. SUL SENTIERO DEI FORMAGGI
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cavallo fra Canavese e Biellese, abbarbicato sulla Serra d’Ivrea fra i 660 metri delle quote inferiori e i 2.227 metri del Monte Cavalgrosso, si trova il piccolo centro montano di Andrate. Qui, qualche anno fa, ha preso vita la prima esperienza italiana significativa per appassionati di Nordic Walking, al di fuori del Trentino Alto Adige. Il Comune ha infatti istituito l’Andrate Nordic Walking Park ed è stata fondata la Scuola di Nordic Walking di Andrate, prima scuola nata in Italia certificata dall’INWA (International Nordic Walking Association - Helsinki). Il Parco fa parte del territorio dell’Anfiteatro Morenico di Ivrea ed offre percorsi in grado
In alto: veduta di Andrate e dei laghi Sirio, Montalto e Cascinette
di rispondere alle esigenze dei walker alle prime armi così come di quelli più esperti. Diverse sono le possibilità di escursione, dai tracciati brevi e per lo più pianeggianti, a quelli con dislivelli e durata maggiormente impegnativi. Particolarmente interessante, non solo dal punto di vista naturalistico, ma anche storico e antropologico, è il Sentiero dei Formaggi, recentemente recuperato. Il percorso collega il centro di Andrate con la località di San Giacomo, immergendosi in un ecosistema ancora integro, fatto di un susseguirsi armonioso di boschi e radure. Fra antichi sentieri, mulattiere, carrarecce e tratti di strade pubbliche, si riconoscono i segni di un ambiente rimasto immutato fino agli anni ’60, quando nella zona era attivo un sistema foraggero ben organizzato che vedeva da metà maggio a ottobre la permanenza di un centinaio di persone e altrettante vacche al pascolo. Latte, riso, pasta, polenta e formaggio erano gli elementi alla base di un’economia autarchica. La farina di mais prodotta in pianura veniva scambiata con le castagne e il burro e la maggiore fonte di reddito era costituita dal vitello ingrassato, mentre i latticini erano destinati all’autoconsumo, a causa della ridotta produzione dovuta all’esiguo numero di vacche allevate da ogni famiglia. Le vie utilizzate ogni giorno dai margari e dai loro animali costituiscono oggi il tracciato del Sentiero dei Formaggi e, con un po’ di attenzione, i nordic walker possono riuscire a cogliere i segni della loro presenza.
Dall’antico Casale della Meridiana, splendidamente ristrutturato, ai primi insediamenti risalenti al Settecento – le cosiddette Cà veje – dalle cappelle votive erette da ciascuna famiglia e decorate da pittori locali alla Malga del Balarin, il cui nome deriva dal fatto che il sentiero era attraversato da un ruscello che doveva essere superato, saltellando da una pietra all’altra, proprio come dei ballerini, tutto riporta a un mondo che ormai non c’è più. Fra i vari insediamenti abitativi, merita una sosta la Baita degli archi, che presenta un’insolita conformazione rispetto alla baita tipica con un solo arco, suddivisa in cucina, stalla, fienile e crutin per la conservazione dei formaggi. Nei mesi estivi, si può approfittare lungo il cammino dei punti di sosta presso le fontane un tempo utilizzate sia per il consumo delle famiglie che per l’irrigazione dei campi e l’abbeveraggio del bestiame. Il sentiero giunge poi al Piano Giulietta che prede il nome da un amore infelice di un margaro e alla Conca delle Felci, pascolo tradizionalmente riservato alle pecore. Più avanti si arriva alla Grotta delle Masche, raggiungibile salendo alcuni gradini scavati nella roccia, dove secondo la leggenda si riunivano le streghe per i loro sabba, consumando un piatto di polenta fumante. Nei pressi, gli appassionati di arrampicata possono cimentarsi con la Falesia Caslej che offre una parte di roccia attrezzata. Dal punto panoramico della Peila, si può ammirare la pianura canavesana sottostante per poi riprendere il cammino dall’area attrezzata di
San Giacomo, proseguendo in quota fra i fitti boschi, risalendo il vallone del torrente Viona. Dopo aver costeggiato il laghetto alpino dei Pasci (2.119 m.) si raggiunge finalmente la vetta: la Colma di Mombarone a più di 2mila metri. Sulla via del ritorno si ha l’occasione di osservare lo storico Ponte Raisach – che costituiva nei secoli scorsi l’unica via di accesso al Biellese – e il Santuario di Santa Maria dallo splendido campanile romanico, eretto nel 1714 sui ruderi di un’antica chiesa. Percorrere il Sentiero dei Formaggi in modo completo richiede 4 ore di tempo e un certo grado di preparazione per affrontare i 10 chilometri di tracciato, ma può essere comodamente scomposto in itinerari più brevi e adatti anche ai principianti, seguendo la segnaletica e le mappe messe a disposizione del Parco.
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Per saperne di più Scuola di Nordic Walking dell’Anfiteatro Morenico di Ivrea Salone Pluriuso - Regione Salamia Andrate (TO) Tel. 334 6604498 - Fax. 0125 790371 www.viviandrate.it scuolanordicwalking@viviandrate.it nordicwalkingpark@viviandrate.it
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L’ANELLO VERDE DELLA COLLINA TORINESE
Testi e foto di Arianna Zucco
A pochi passi dal centro di Torino, gli appassionati di nordic walking e in generale di camminate in montagna possono cimentarsi con il circuito pedonale Anello Verde, un percorso lungo i 33 km che collega zone di alto valore paesaggistico, fra parchi, ville, chiesette, vigne storiche e corsi d’acqua.
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A
pochi passi dal centro di Torino, gli appassionati di nordic walking e in generale di camminate in montagna possono cimentarsi con il circuito pedonale Anello Verde, un percorso lungo i 33 km che collega zone di alto valore paesaggistico, fra parchi, ville, chiesette, vigne storiche e corsi d’acqua. A partire dalle sponde del Po, presso il Parco del Valentino, il tracciato, segnalato da appositi pannelli, si arrampica sulla collina, seguendo l’antica sentieristica ancora conservata per portarsi – attraverso i parchi Leopardi e San Vito – al Parco della Maddalena, il parco cittadino collinare maggiormente esteso, grazie ai suoi 900mila metri quadri di superficie. Molto interessante dal punto di vista botanico, grazie alle 400 specie di alberi provenienti da tutto il mondo, ospita al suo interno il parco della Rimembranza, nel quale ogni albero è dedicato alla memoria dei cinquemila caduti torinesi della prima guerra mondiale. Da qui prosegue poi verso la Basilica di Superga – sagoma inconfondibile nel panorama torinese, realizzata a seguito del voto fatto da re Vittorio Amedeo II durante l’assedio francese del 1706 - passando per Reaglie, sito di uno dei primi insediamenti umani nella valle omonima, oggi caratterizzato dalla Chiesa edificata su un precedente edificio religioso di proprietà dell’Ordine di Malta e quindi per Mongreno, su una dorsale a cavallo fra due valli dominate della Chiesa di San Grato. Da lì, il percorso tocca l’Istituto Ottolenghi, immerso in una parco verde di 70.000 mq. Realizzato all’interno di una grande villa d’epoca, l’istituto – in funzione fino al 1998 – in passato aveva la funzione di ospitare i figli sani dei tubercolotici per evitarne il contagio e provvedere alla loro istruzione. La tappa seguente è invece presso la villa settecentesca Beria Grande; l’ampio terrazzo panoramico sui cui sorge era stato scelto dal primo progetto di Antonio Bertola come sito per la costruzione della Basilica poi realizzata a Superga da Filippo Juvarra. Dopo avere raggiunto i 500 metri di altitudine, l’anello comincia la discesa verso il Po, passando per Pian Giambino e il Parco Millerose. Termina infine presso la Riserva Naturale del Meisino e dell’Isolone di
NORDIC WALKING
Bertolla. La zona – che prende il nome dal dialetto piemontese con il significato appunto di terra di mezzo o isola – è una delle più interessanti aree naturalistiche urbane d’Europa. Compresa tra l’ansa del Po, la Stura e la Dora Riparia, si estende in una zona un tempo interamente occupata dai boschi. Oggi fa parte del Parco Fluviale del Po ed offre interessanti punti di osservazione delle numerose specie di uccelli che qui trovano un comodo rifugio. Sull’isolone di Bertolla si trova inoltre l’unico caso italiano di insediamento urbano di una colonia di aironi cinerini. Completare l’intero Anello Verde richiede una buona preparazione fisica e due giorni di tempo a disposizione. Per chi viene da lontano c’è anche la possibilità di pernottamento presso la foresteria di Superga. Per
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chi preferisce invece una camminata meno impegnativa, è possibile scegliere uno degli anelli ridotti della lunghezza di 19 km con partenza o arrivo dalla Chiesa della Madonna del Pilone oppure percorrere alcuni tratti di tracciato con i mezzi pubblici. L’Anello– quasi interamente sul territorio del Comune di Torino – offre un’integrazione al già conosciuto sentiero di cresta, segnalato come Grande Traversata della Collina e risponde a pieno all’appellativo dei tempi andati che definiva la collina come “la montagna di Torino”. A pochi passi dalla vasta area metropolitana è infatti in grado di stupire l’escursionista con i profumi e i suoni ovattati dei fitti boschi, dove il cinguettìo degli uccelli, lo squittìo degli scoiattoli e lo sciabordio delle acque dei torrenti, fanno dimenticare la congestione delle strade cittadine.
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Per saperne di più Nella pagina precedente e a fianco: Il Parco del Valentino a Torino In alto: Il fiume Po e il monte dei Cappuccini
Associazione Pro Natura Torino: Via Pastrengo 13 - 10128 Torino Tel. 011 5096618 Fax 011 503155 torino@pro-natura.it www.anelloverde.org Orario: lunedì-venerdì 14.00 - 19.00 e sabato 9.00 - 12.00
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CIASPOLATE DI FINE INVERNO Testi e foto di Giulia Marangoni
Sempre pi첫 popolari, le ciaspole (ciaspe o graspe a seconda del dialetto) sono state rispolverate e stanno tornando alla ribalta, proponendosi come il mezzo ideale per camminare, in modo leggero, pratico ed economico su sentieri innevati. Un accessorio perfetto per esplorare vallate, boschi e pianori in veste invernale e vivere la montagna in modo sostenibile, senza intaccarne i fragili equilibri ecologici
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Nella pagina precedente: Timidi raggi di sole dietro le Levanne al Rifugio Jervis (Valle Orco) In questa pagina: Ciaspolata notturna a Cima Mares (Valle Orco) Nella pagina accanto: Tracce di ciaspole a Santa Elisabetta Baita Cantun in Valle Sacra
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iaspola è un termine ladino, la lingua parlata in zone del Trentino Alto Adige come la Val di Non, ed è un sinonimo della più conosciuta “racchetta da neve”. Quelle dei pionieri, di legno e corda intrecciata, hanno lasciato il posto a modelli più leggeri e funzionali in materiali come plastica, nylon e alluminio, con forme più strette e allungate (a goccia, a fagiolo, a zampa d’orso) e struttura con suola più ampia, che, allargando la superficie d’appoggio, permette al piede di non scivolare né sprofondare nel manto nevoso, assicurando l’effetto di “galleggiamento”. Gli attacchi, anch’essi più tecnologici, possono essere automatici o avere semplici fibbie di chiusura e si possono applicare a qualsiasi scarponcino. Per muoversi meglio è poi consigliabile utilizzare bastoncini telescopici, per adeguare la lunghezza ai diversi terreni e aiutarsi nella spinta. Per usare le ciaspole non è necessario fare un corso o uno specifico allenamento per diventare esperti esploratori nordici. L’importante è avere fiato a sufficienza per camminare in quota e la capacità di do-
sare forze ed energie per assicurarsi il ritorno agevole a valle. Anche chi non ha tanta dimestichezza con la neve, può intraprendere questo avventuroso sport che farà scoprire una dimensione diversa della montagna, creando l’atmosfera di tempi andati. Gironzolare per boschi e vallate con le ciaspole ai piedi, anziché con efficienti sci, significa andare piano, prediligere un turismo attento e consapevole, dove si ha ancora il tempo di fermarsi ad osservare ed ascoltare la natura intorno a noi. Perché la montagna è di tutti e per tutti, non solo dei grandi scalatori e alpinisti, ma sopratutto dei comuni escursionisti impegnati sui sentieri di difficoltà medio basse alla ricerca e scoperta di ambienti incontaminati. Le ciaspole sono il mezzo ideale per vivere in modo discreto l’emozione di un contatto profondo con la natura ad alta quota anche in inverno. Accanto allo scialpinismo e allo sci di fondo, rappresentano il turismo sostenibile per eccellenza, permettendo di esplorare a basso impatto ambienti naturali selvaggi senza aver bisogno di utilizzare impianti di risalita dal consumo energetico spropositato. Ciaspolare è, dunque, un’attività virtuosa, tale da permettere il ripristino ambientale, il recupero idrogeologico, la riduzione del traffico e del cemento, controbilanciando gli effetti negativi delle consuete pratiche che alterano il delicato ecosistema montano, come l’innevamento artificiale e la costruzione di nuovi impianti sciistici a quote sempre più elevate.
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RACCHETTANDO IN CANAVESE... CIASPOLATE PER TUTTI
Anche in Canavese, così come nella vicina Valle d’Aosta, negli ultimi anni si è cominciato a sponsorizzare questa attività invernale: sono stati tracciati suggestivi percorsi cultural-naturalistici ad hoc, con segnaletica dedicata, e ora esiste un ampia scelta di itinerari in ambienti incontaminati, oltre che materiale informativo con apposite cartine, da richiedere agli uffici turistici e ai centri visita del Parco Gran Paradiso. Da quelli facili, con discreto dislivello, a quelli più impegnativi della durata anche di 5/6 ore. Molto gettonate le uscite in compagnia delle Guide Naturalistiche, di giorno sulle tracce delle specie selvatiche, come camosci, stambecchi e caprioli; di notte, al chiar di luna, in cerca di pace e magia, cullati da letture a tema sulla regina della notte e da mitologie legate alle costellazioni. Gradito, in particolare, il pacchetto che contempla la tappa culinaria presso trattorie o agriturismi, a gustare succulenti merende sinoire o cene a base di prodotti tipici locali. Tra i percorsi più suggestivi suggeriamo quattro itinerari adatti a tutti, anche alle famiglie con bambini: autentici paradisi sia per andare sui pendii di neve fresca fuori dai sentieri, sia sul percorso appositamente battuto, dove la neve non manca mai. Si consiglia di verificare sempre, prima di partire per un’escursione i bollettini nivo-meteorologici regionali (molto utile il Bollettino Aineva Neve e valanghe), poiché le zone potrebbero essere soggette a fenomeni valanghivi. Per ulteriori informazioni sulla sicurezza è possibile visitare il sito della Fondazione Montagna Sicura.
CIASPOLATE COI FIOCCHI
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A sinistra: Lupi in amore A destra: Orsa con il piccolo In basso: Gufo reale
CERESOLE – CA’ BIANCA (Valle Orco, Parco Gran Paradiso)
CASTELNUOVO NIGRA – BARACCHE DEI MINATORI (Valle Sacra)
Dislivello: 500 m ca Durata: 4h a/r La passeggiata si snoda sul versante sinistro della valle, dalla borgata Moies di Ceresole Reale, 1530 m, fino a giungere alla prateria innevata dominata dalla Cà Bianca, 2005 m, attraverso un bosco cristallino di conifere miste a latifoglie, con prevalenza di larici e abeti rossi. Cime, valloni e ghiacciai tutt’intorno regalano uno dei più spettacolari colpi d’occhio di ambiente alpino nel territorio del Parco Gran Paradiso. Durante il percorso è facile imbattersi in qualche curioso esemplare di avifauna alpina e di camoscio che, spinti dal rigore invernale, scendono fino a valle alla ricerca di cibo. Il panorama di fronte dello spartiacque con le Valli di Lanzo e Tre Levanne accompagna l’escursionista durante la sua sosta prima di riprendere il sentiero di discesa.
Dislivello: 400 m ca Durata: 4h a/r Ciaspolata dal Pian delle Nere, 1340 m, alle Baracche dei Minatori, 1750 m, che servivano all’estrazione dalle cave di quarzo delle Rocce Bianche, punto strategico che mette in comunicazione la Valle Sacra con la Val Savenca e la Valchiusella. Una giornata in cui riscoprire i legami tra le preziose risorse della montagna e le fatiche di un tempo. Panorama mozzafiato sulle cime della Quinzeina, del Verzel e sulla pianura canavesana. Si ritorna per la stessa strada al Pian delle Nere.
Il grande silenzio
Un tuffo nella storia
ANELLO CAMPIGLIA SOANA – PIAN D’AZARIA (Valle Soana, Parco Gran Paradiso)
Strade reali tra ‘grange’ e piloni votivi
Nella pagina accanto: Chiacchiere in natura (Valle Soana) In alto: Tracce di ciaspolatori sui morbidi pendii della Valle Sacra
Dislivello: 350 m ca Durata: 4h a/r Piacevole percorso circolare nel selvaggio vallone contornato da diversi “tremila” sulla strada reale di caccia che sale da Campiglia Soana, 1350 m, fino ad arrivare ad alcune piccole grange in pietra usate per l’alpeggio estivo, 1700 m. Il sentiero offre ottimi scorci sullo spumeggiante torrente Campiglia. Scopo della passeggiata gli splendidi panorami e i probabili incontri con branchi di camosci.
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ANELLO FONDO – ALPE PASQUERE (Valchiusella)
GTA che passione!
Dislivello: 400 m ca Durata: 4h a/r Ciaspolata ad anello dall’abitato di Fondo, 1074 m (partenza Ponte Romanico) lungo un’agevole mulattiera che conduce all’alpeggio Pasquere, 1486 m, tra capricci e magie della natura addormentata, sulle orme degli animali selvatici, tra cui gli schivi mufloni. Il sentiero si snoda all’andata su un tratto della Grande Traversata delle Alpi (GTA), molto conosciuta tra gli appassionati di escursionismo, con uno degli ultimi boschi di abete bianco sopravvissuto in tutto il Piemonte. È possibile effettuare delle tappe lungo il torrente Chiusella per osservare vecchie borgate alpine, tra cui Tallorno, con il tipico assetto ad archi, affreschi e meridiane. Frontalmente il Monte Marzo veglierà sui vostri passi.
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In alto: In ciaspole tra le magie della natura addormentata (Valchiusella)
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La TERMOSANITAR EPOREDIESE s.r.l. è un’azienda che opera nel settore idro-termo-sanitario dal 1967. Negli ultimi anni si è specializzata nella fornitura di articoli per il risparmio energetico quali: stufe e caldaie a pellet e a legna, caldaie a condensazione, pompe di calore ad alta efficienza, pannelli solari e fotovoltaici. All’inizo dell’ anno 2012 è stata realizzata la nuova struttura che ospita la nuova esposizione di circa 2000 mq, gli uffici e un nuovo magazzino ipertecnologico. La struttura è un edificio a impatto zero in quanto l’energia necessaria per l’intera gestione dell’edificio (illuminazione, riscaldamento e condizionamento) è fornita da due impianti fotovoltaici che alimentano moderne ed efficientissime pompe di calore ad alto rendimento. La struttura è di fatto un esempio funzionante dei prodotti e sistemi energetici che l’azienda stessa commercializza:
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Solare Termico Solare Fotovoltaico Pompe di calore Prodotti Legna pellet mais Caldaie a condensazione Riscaldamento a pavimento Impianti di climatizzazione
Termosanitar Eporediese srl - Via A. Casale, 130/132 - 10010 LESSOLO (TO) Tel. 0125 58296 - 0125 58391 Fax 0125 562004 - www.termosanitar.it
Il futuro del costruire ed abitare sostenibile
Nata il 14 giugno 2012 dalla spinta di migliaia di persone già sostenitrici del progetto molto prima della sua costituzione, ClimAbita è stata ispirata e fortemente voluta da Norbert Lantschner (già ideatore e direttore del progetto e dell’Agenzia CasaClima), con l’aggregazione di alcune delle più autorevoli personalità del mondo universitario, della ricerca, delle istituzioni e del campo scientifico, nazionale ed internazionale.
ClimAbita non ha fini di lucro e la sua missione è sviluppare e promuovere insieme una nuova cultura del vivere e costruire sostenibile. Il lavoro della Fondazione non è indirizzato ad un solo territorio, ma si rivolge a tutta la Nazione, coinvolgendo anche Paesi europei ed extra europei. La Fondazione è una vera e propria piattaforma condivisa, aperta a tutti per poter costruire un sistema più sostenibile ed equo.
Il 15 dicembre scorso a Sant’Agostino, nel cuore dell’Emilia colpita dal sisma è stata consegnata la prima certificazione energetica ClimAbita alla nuova Scuola media.
Nuovo edificio della ditta Rubner a Chienes a cui è stato assegnato il primo ENERGYPASS di categoria Superior da parte della Fondazione ClimAbita.
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