n° 7/2014
€ 5 Periodico di cultura, cooperazione e sostenibilità www.inognidovepiemonte.it
Sostenibilità
• COME USCIRE DALLA CRISI:
INTERVISTA A GIOVANNI CORTESE
• PIERRE RABHI: IL CONTADINO POETA • SCIE CHIMICHE: INDAGINE
2014 ANNO INTERNAZIONALE DELL’AGRICOLTURA FAMILIARE
Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale -70% - NO/VERCELLI - Anno 2014 - N. 7
AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO
Mondo cooperativo
• FONDAZIONE DI COMUNITÀ,
IL NUOVO PROGETTO SOSTENUTO DALLA COOPERATIVA AEG DI IVREA
Cinema d’autore
• THE REPAIRMAN, IL FILM
DI PAOLO MITTON SEGNALATO AL TORINO FILM FESTIVAL
Nel 1901 abbiamo iniziato a distribuire energia e oggi, dopo più di un secolo di storia, continuiamo a farlo ogni giorno con rinnovato entusiasmo. Perché l’energia di AEG Coop non è solo Luce e Gas, ma è anche cooperazione, socialità, sostegno, e solidarietà. AEG Coop destina una parte considerevole degli utili ai Soci e una parte importante al Territorio, sostenendo enti e associazioni, e sponsorizzando eventi culturali e musicali.
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EDITORIALE di Alessandra Luciano
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Crisi economica e sostenibilità
I
l percorso che la rivista offre in questo nuovo numero è articolato e complesso, ma ha una sua intima coerenza. Iniziamo con un approfondimento inchiesta sulla crisi economica in Piemonte, e lo facciamo con un’intervista a Giovanni Cortese, Segretario generale del sindacato UIL Piemonte, che ci ha fornito un quadro preciso della situazione nella nostra regione, dei problemi e delle possibili soluzioni. Certo è che se la ricetta per uscire dalla crisi appare concordemente per tutti quella di riuscire a rilanciare i consumi, non si può non considerare che proprio il consumo per il consumo, come motore per l’economia, è una delle cause della situazione attuale di crisi. E sicuramente se un vantaggio da questa crisi può essere colto è inerente al fatto che, come dice Giovanni Cortese, questa crisi modificherà sostanzialmente molte abitudini di noi tutti. Ecco perché abbiamo voluto conoscere più da vicino la storia di Pierre Rabhi, il fondatore del Movimento per la terra e l’umanesimo, nonché pioniere dell’agricoltura biologica negli anni Ottanta. Oggi la sua esperienza, e la sua voce, risuonano di particolare senso che illumina possibili percorsi per vivere secondo modelli di sviluppo sostenibili e sobriamente felici, in grado però di poter soddisfare i bisogni di tutta la popolazione mondiale e non solo quelli di un terzo del pianeta. Questo il senso anche della proclamazione dell’Anno internazionale dell’Agricoltura familiare, indetto dalla FAO per il 2014. Se ne parla poco, eppure proprio la strada indicata dalla FAO per sostenere il ritorno alla terra delle famiglie, nonché il rilancio delle piccole imprese agricole a coltivazione diretta, è una delle principali possibili soluzioni per realizzare forme di economie sostenibili, non orientate al profitto per il profitto, ma al sostegno di comunità di individui. Ecco perché nello speciale dedicato al Mondo cooperativo siamo andati alla ricerca di esperienze di cooperazione rivolte verso i Paesi in Via di Sviluppo, attuate da cooperative piemontesi e in grado di fornire strumenti efficaci per sostenere forme di agricoltura in terreni spesso aridi: in questo numero proponiamo l’esperienza della cooperativa TEA di Torino, e il suo progetto Mycos, orientato a rendere più fertili i terreni agricoli del Mozambico. La cooperazione è riconosciuta
sempre più concordemente come una delle forme di impresa in grado di reggere meglio la crisi, proprio in virtù della filosofia e dei valori che animano l’attività di cooperative piccole e grandi. Nella nostra regione AEG, la più grande cooperativa italiana di servizi energetici, con la sua storia centenaria ormai consolidata nel Canavese, non manca mai ad essere di aiuto a progetti del territorio e rivolti al territorio, sia per quanto concerne il sostegno a cultura e servizi, sia per quanto concerne l’aiuto diretto a iniziative di immediata utilità sociale, come nel caso del progetto Borsa amica, della Fondazione di Comunità del Canavese, che distribuisce oltre 350 borse di alimenti a famiglie che si rivolgono regolarmente alla Caritas e al Consorzio in Rete per “fare la spesa” settimanale. Un dato che parla da solo su quanto questa crisi stia drammaticamente pesando sui tutti noi. Nelle nostre pagine parliamo anche di cinema e di cultura, proponiamo ai nostri lettori l’intervista a Paolo Mitton regista del film Repairman che ha ricevuto riconoscimenti lusinghieri al Torino Film Festival. È un film “piemontese” girato nelle Langhe e con la colonna sonora composta da due musicisti doc. Insomma potremmo definirlo un prodotto culturale a filiera corta, di livello e che ben valorizza le risorse offerte dal territorio piemontese sia dal punto di vista paesaggistico sia dal punto di vista delle risorse artistico-culturali. E anche questa, in qualche modo, è una forma di impresa culturale che risponde a requisiti di sostenibilità da valorizzare nel panorama delle produzioni cinematografiche d’autore. Come sempre proponiamo ai nostri lettori una guida weekend con iniziative sostenibili nel territorio canavesano: la passeggiata da Andrate a Magnano lungo i sentieri tracciati sulla Serra offre a tutti la possibilità di una piacevole e inusuale giornata attraverso sentieri che attraversano boschi e prati, particolarmente affascinanti nella stagione che da fine inverno si addentra nelle giornate tiepide di primavera. Colgo ancora l’occasione per ringraziare qui la Cooperativa AEG di Ivrea che sta sostenendo la pubblicazione di questa rivista, e le edizioni GS di Santhià, che hanno accettato di pubblicarla pur in questo difficile momento di crisi. Per me, per noi redattori della ex rivista OLTRE, è stato un po’ come un ritorno a casa, che restituisce quel piccolo ma fondamentale conforto di non sentirsi mai soli... Buona lettura a tutti!
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SOMMARIO
EDITORIALE 1
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Crisi economica e sostenibilità di Alessandra Luciano
SOCIETÀ E CRISI 4 Come uscire dalla crisi. Intervista a Giovanni Cortese
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Segretario generale UIL Piemonte di Alessandra Luciano
SOSTENIBILITA’ pag.
10 Pierre Rabhi: il contadino poeta di Giulia Ricca
pag.
16 2014 Anno internazionale dell’agricoltura familiare di Giulia Ricca
pag.
20 Scie chimiche: cosa sta succedendo al nostro cielo? di Letizia Gariglio
MONDO COOPERATIVO 28 Cooperare con i Paesi in Via di Sviluppo pag. 32 Viaggio nel cuore della Torino multietnica pag. 36 Fare comunità: Fondazione di Comunità, pag.
il nuovo progetto sostenuto dalla Cooperativa AEG di Ivrea
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SOMMARIO
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CULTURA E CINEMA pag.
40 The Repairman: fare cinema in Italia. Intervista al regista Paolo Mitton e ai musicisti Alan Brunetta e Ricky Mantoan di Gloria Berloso
CULTURA INCONTRI pag.
50 Rivedo mio padre. Dedicato allo psicoanalista Ludovico Luigi Avalle di Ugo Avalle
InOgniDovePiemonte n. 7 - 2014 Euro 5 Trimestrale di Cultura, Cooperazione e Sostenibilità Registrato presso il Tribunale di Ivrea n. 3 del 4/7/2012 del Registro periodici
GUIDA WEEKEND pag.
54 Lungo i sentieri dell’Anfiteatro Morenico di Ivrea ( 58 ) di Stefano Biava
pag.
58 Da Andrate a Magnano di Stefano Biava
Direttore Responsabile Alessandra Luciano alessandra.lcn@gmail.com Redazione e collaboratori: Ugo Avalle, Gloria Berloso, Stefano Biava, Francesco Comotto, Silvia Coppo, Letizia Gariglio, Giulia Maringoni, Giulia Ricca, Arianna Zucco.
Progetto grafico Graphic design - Galliano Gallo Layout e impaginazione Alessandra Luciano. Fotocomposizione e stampa GS Editrice di Grafica Santhiatese Corso Nuova Italia, 15 b 13048 Santhià ( Vc) tel. 0161 94287 - fax 0161 990136 direzione@graficasanthiatese.it Direzione e redazione redazione@inognidovepiemonte.it Foto di copertina Foto di Giulia Ricca
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SOCIETÀ E CRISI
COME USCIRE DALLA CRISI Testi di Alessandra Luciano
INTERVISTA A GIOVANNI CORTESE
INTERVISTA A GIOVANNI CORTESE SEGRETARIO GENERALE UIL PIEMONTE
Nella pagina accanto e successiva: Giovanni Cortese, Segretario generale del sindacato confederale UIL Piemonte.
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È
un uomo determinato e con le idee molto chiare, un vero leader in grado di osservare il presente con sguardo concreto. La crisi che coinvolge il nostro Paese si misura con un suo specifico impatto nelle realtà locali e regionali e il Piemonte è una delle regioni che risente maggiormente degli effetti di una recessione senza precedenti. Abbiamo intervistato Giovanni Cortese, Segretario generale del sindacato UIL Piemonte, per capire un po’ meglio i tanti aspetti non sempre chiari ai più che condizionano la difficile ripresa economica. Occupazione e crisi in Piemonte: quali sono i dati relativi a possibilità di lavoro, disoccupazione e cassa integrazione? «La situazione è ancora molto complessa: la condizione rispetto allo scorso anno è peggiorata, anche perché siamo entrati nel sesto anno di crisi con una percentuale elevata di disoccupazione che è, a livello nazionale, del 12,4%. Un altro dato molto preoccupante è relativo alla disoccupazione giovanile che in Italia ha superato la soglia del 41%. Per quanto concerne l’Europa la situazione è peggiore solo in Grecia e Spagna (la media europea è del 24%). Occorre considerare che, nel nostro Sud, la disoccupazione giovanile supera il 50%. Si è verificato, inoltre, un ampio ricorso agli ammortizzati sociali, in particolare alle tre forme di cassa integrazione. In Italia le ore richieste da gennaio a novembre sono state 989.000.000, solo il Piemonte ne ha accumulate 122.000.000, ovvero il 12,3% del totale italiano, a fronte di una popolazione pari al 7%. Torino dall’inizio della crisi è la provincia italiana che richiede più ore di cassa integrazione, un primato che mantiene dal 2008, sia per la presenza sul territorio di molte imprese manifatturiere, settore colpito pesantemente dalla crisi, sia per la diffusione a tutti gli altri settori, compresi i servizi. Tra le regioni il Piemonte, dall’inizio della crisi, è la seconda per richieste di cassa integrazione, subito dopo la Lombardia». Dunque non siamo ancora vicini a superare questa drammatica crisi? «Un altro elemento che fa dire che non siamo fuori dalla crisi è la continua contrazione dei consumi, ci sono ampi strati di popolazione che rinunciano ad acquistare beni di prima necessità, a visite mediche,
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che non riescono a pagare le rette per le mense scolastiche, sino ad arrivare agli sfratti per morosità incolpevole, che coinvolgono le persone che non possono più pagare l’affitto perché hanno perso il lavoro. Un fenomeno che si è verificato in questi anni è relativo alla vendita della nuda proprietà, tanti vendono la propria abitazione mantenendo il diritto di poter vivere al suo interno sino alla morte. Ciò consente di ottenere liquidità nell’immediato. Questa soluzione rivela fino a che livello ha colpito la crisi; si tratta di scelte che riguardano soprattutto persone anziane che vendono la propria casa in cambio di un corrispettivo in denaro. Stiamo parlando di un mercato che si è sviluppato molto, fino a triplicare i volumi rispetto agli anni precedenti. Altro dato che incide nella caduta dei consumi riguarda la mancanza di fiducia per investire in beni durevoli (immobili, automobili, elettrodomestici ecc.), acquisti che sono rimandati, anche da parte di chi potrebbe permetterseli, nella speranza di un ulteriore abbassamento dei prezzi. Ciò contribuisce, ovviamente, a far cadere i consumi». Qual è il problema prioritario da affrontare per superare questo momento? «Il problema vero della crisi italiana è legato al fatto che circa il 70% delle nostre imprese produce per il mercato interno, mentre il 30% per il mercato estero. Il Piemonte, nel 2013, ha esportato più di tutte le
regioni italiane, però questo fenomeno non basta ad invertite la tendenza, perché la questione sostanziale è far ripartire i consumi interni e per far questo occorre che le persone abbiano in tasca più risorse. Per questo noi come sindacato, unitariamente, abbiamo fatto tutto il possibile perché la Legge di Stabilità recentemente approvata non fosse l’ennesima occasione mancata per cercare di dare una scossa al Paese, riducendo il livello di pressione fiscale per lavoratori dipendenti, pensionati ed imprese. Purtroppo, come sappiamo, è andata diversamente». Oltre ai lavoratori dipendenti e ai pensionati, anche artigiani e piccole imprese soffrono la crisi e lamentano l’eccessivo livello della pressione fiscale… «Vero, esiste una differenza tra imprenditori e lavoratori autonomi da una parte, dipendenti e pensionati dall’altra, ed è quella per cui i primi pagano a valle su quello che dichiarano di aver guadagnato, gli altri, alla fonte, tramite il sostituto d’imposta (datore di lavoro o ente previdenziale). In ogni caso, la pressione fiscale in Italia per tutti coloro che, a monte o a valle, pagano correttamente le imposte, è a un livello insostenibile. Consideriamo che un’impresa che paga tutte le tasse, comprese quelle su eventuali utili, ha una pressione fiscale di circa il 66%, mentre chi investe nella finanza, cioè ha redditi da capitale, gode di un assoggettamento fiscale solo del 20%, (per i guadagni
INTERVISTA A GIOVANNI CORTESE
in borsa, i dividendi, le cedole, ecc.). Noi dovremmo, proprio sui redditi da capitale e da finanza, mettere un’aliquota che sia più vicina al 25-26%, come del resto avviene in Europa, il che vuol dire cinque punti almeno in più sulle transazioni finanziarie». La soluzione alla crisi dipende anche da un aumento dei consumi? «Se si riprende a consumare le imprese possono produrre ad un livello maggiore, tenendo presente che oggi gli impianti funzionano solo al 60%, quando prima della crisi funzionavano al 75% circa. Questo si riverbera sul dato occupazionale e sui conti delle aziende, traducendosi anche in licenziamenti e cassa integrazione. Se continuano a mancare le commesse per beni e servizi non se ne esce!». Dunque aumento dei consumi o consumismo? La crisi a quanto pare non colpisce in modo uguale... «Alla fine della crisi scopriremo che molti comportamenti degli italiani saranno cambiati, non per scelta ma per necessità. Occorre fare un’altra considerazione: i settori che non subiscono crisi sono quelli del lusso, perché la crisi acuisce le differenze, chi è ricco lo diventa sempre di più e viceversa per i poveri, il vero tartassato è il famoso ceto medio, quello che trascinava i consumi in Italia... ». Quanto l’introduzione della moneta unica ha pesato e pesa ancora sulle possibili soluzioni per superare questa crisi? «In passato quando l’Italia viveva le tempeste monetarie e le crisi congiunturali, decideva di svalutare la lira in modo che i nostri prodotti fossero competitivi all’estero. Dietro l’ombrello protettivo dell’Euro, noi abbiamo, però, regalato il mercato europeo alla Germania, con un cambio ad essa favorevole. Oggi
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tutta una serie di poteri sono stati delegati alla Banca europea che, condizionata dalla Germania, non ha immesso liquidità come invece è avvenuto negli Stati Uniti, dove la Banca centrale ha affrontato la crisi riversando sul mercato liquidità. La Banca centrale europea, da quando c’è presidente Mario Draghi, ha dato soldi alle banche ad interessi molto bassi, ma queste, in Italia, hanno acquistato i titoli del nostro debito pubblico, non finanziando imprese e famiglie. In sintesi il denaro dato dall’Europa è stato utilizzato per tenere sotto controllo il “famoso spread”. L’Italia paga il fatto di avere un debito pubblico alto, il terzo al mondo, che continua a crescere. Con le politiche del governo Monti e dell’attuale governo, il debito è cresciuto, dalla fine del 2011, ancora di oltre 100 miliardi. La cura ha debilitato gli italiani, la gente non ha soldi, la ricchezza nazionale decresce e il debito pubblico continua ad aumentare. Noi oggi, rispetto al 2007, ultimo anno prima della crisi abbiamo perso il 9,1% del prodotto interno lordo, cioè della ricchezza nazionale. Quest’anno in Europa solo Italia e Germania riusciranno a contenere il deficit annuale al di sotto del 3%, poi, però dobbiamo pagare gli interessi sull’enorme massa di debito accumulato e non abbiamo le risorse per investire in politiche per la ripresa». Quale è la strada dunque? «La strada non può essere che quella di allentare alcuni parametri finché siamo nel mezzo della crisi. Siccome la Germania fa da cane da guardia del sistema, occorre sviluppare alleanze con altri Paesi come Francia, Spagna, Grecia, che vivono condizioni simili alla nostra. Bisogna far modificare temporaneamente i criteri, non è possibile rispettare tassativamente le percentuali stabilite da Maastricht, perché siamo in una situazione straordinaria. Diversamente, l’effetto delle politiche europee continuerebbe ad essere simi-
Gianni Cortese Adriano Olivetti e il progetto di Comunità Relazioni e ruolo del sindacato comunitario Il volume di Giovanni Cortese propone in una interessante prospettiva i rapporti di un imprenditore “atipico”, colto e lungimirante come Adriano Olvetti, con un sindacato di partecipazione. La tesi del volume è che se gli insegnamenti derivanti dalla crisi daranno l’opportunità di favorire nuove modalità di gestire l’economia, l’opera di Adriano Olivetti acquisterà quel significato profetico che troppi, frettolosamente, avevano liquidato come “utopia”.
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SOCIETÀ E CRISI
le a quello della famosa “bomba H”, ovvero si eliminano le persone e si lasciano intatti gli edifici, si salvano gli Stati ma non ci si preoccupa di salvare gli abitanti degli stessi». Come avrebbe affrontato questa crisi Adriano Olivetti? «Adriano Olivetti durante la crisi del 1929, memore delle convinzioni di suo padre sulla disoccupazione involontaria, non aveva licenziato nessuno, aveva diminuito il costo dei prodotti ed aumentato la produzione. La strada seguita finora, di un sistematico aumento della pressione fiscale e di una riduzione della liquidità nel sistema economico è sbagliata. Negli Stati Uniti hanno affrontato la crisi immettendo molto più denaro in circolazione, a favore di imprese e famiglie, perché ripartissero investimenti e consumi. Bisogna poi ricordare che in un’economia sana, entro cui comporre un cocktail che possa valere per il futuro, è importante sostenere il settore manifatturiero, che rappresenta ancora la vera forza dell’Italia, essendo il secondo, per importanza, in Europa, dopo la Germania. È ovvio che la nostra manifattura non può competere con i prodotti cinesi, dunque si deve indirizzare verso prodotti di qualità con forte valore aggiunto, come ha ben capito la Fiat. Noi siamo grandi esportatori del made in Italy con le produzioni legate alle cosiddette 4 A: alimentare, arredamento, abbigliamento e automazione in ambito metalmeccanico, ovvero prodotti di livello. Abbiamo l’obbligo di mantenere la manifattura e per potenziarla servono politiche industriali e scelte strategiche. Dopo aver rinunciato in passato a settori importanti quali l’informatica, stiamo rischiando di perdere la siderurgia, e le stesse telecomunicazioni. Nello scenario complessivo vale la pena di ricordare anche che il nostro Paese non mette a frutto gli importanti giacimenti storici, culturali e paesaggisti che potrebbero attrarre molti milioni di visitatori e, sfruttando anche le condizioni climatiche, tanti pensionati benestanti che potrebbero fare dell’Italia la Florida dell’Europa». E per quanto concerne l’edilizia? «È un altro elemento da considerare, l’edilizia viene vista storicamente come il volano della ripresa e dello sviluppo, perché se si muove trascina con sé altri settori. Noi abbiamo un assurdo in questo Paese: molti Comuni dispongono di risorse che non possono spendere per effetto del Patto di stabilità. Il denaro
INTERVISTA A GIOVANNI CORTESE
che potrebbe essere investito per mettere in sicurezza le scuole e per la sistemazione idrogeologica dei territori, è bloccato. Si tratta di soldi che sono inutilizzati, quasi 9 miliardi di euro, che si potrebbero spendere anche per realizzare quelle piccole opere pubbliche necessarie a rendere le città più vivibili, offrendo possibilità di occupazione. Ribadisco che bisogna modificare le politiche e le regole europee, dando maggiore flessibilità nell’utilizzo delle risorse per favorire la ripresa, con un allentamento della pressione fiscale, e con l’erogazione di finanziamenti alle imprese per investimenti in innovazione e ricerca, per processi atti a favorire l’internazionalizzazione delle stesse, compito non solo dello Stato ma anche delle Regioni. In proposito, potrebbero contribuire le ingenti risorse derivanti dall’utilizzo dei fondi europei, che andrebbero spesi con intelligenza, non distribuiti a pioggia ma assegnati a settori che possano offrire posti di lavoro duraturi nel tempo, favorendo uno sviluppo intelligente, sostenibile, inclusivo per le persone, con un’adeguata protezione sociale». La crisi ha drasticamente agito sul Welfare, ci sono altre strade diverse da quella di erodere questo sistema di stato sociale a fatica conquistato nella recente storia del Novecento? «Nel dopoguerra il Welfare in Europa è stato un baratto intelligente tra politica e capitalismo, oggi lo stato sociale ha un problema di sostenibilità; vale comunque la pena di ricordare che l’Italia spende meno di altri Paesi. Si era scelto di privilegiare soprattutto il sistema previdenziale, ora dopo la Riforma Fornero si è verifi-
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cato un blocco del mercato del lavoro, derivante dai molti anni in più richiesti per il pensionamento, che si traduce in una più lunga permanenza in servizio, che impedisce, di fatto, il rinnovo generazionale. Quando i giovani trovano un lavoro, per i 4/5 si tratta di contratti a termine o atipici. Per questo occorre rendere il sistema previdenziale più flessibile, permettendo, a partire dai 62 anni di poter uscire anticipatamente, al fine di creare occasioni per i giovani, per esempio attraverso la possibilità per i lavoratori più anziani di passare a part-time, con versamento figurativo dei contributi previdenziali a tempo pieno. Si tratta della cosiddetta staffetta generazionale. Per il finanziamento dell’operazione bisogna considerare che la Riforma Fornero, da qui al 2018, realizzerà quasi 90 miliardi di euro di risparmio per lo Stato, che spenderà, nel periodo, solo 10 miliardi per gli esodati, persone che si sono trovate, grazie alla Riforma, senza lavoro e senza pensione. Le risorse, quindi, potrebbero essere trovate. Ci vuole più coraggio!».
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SOSTENIBILITÀ
PIERRE RABHI ILLuciano CONTADINO Testi di Alessandra POETA Testi e foto di Giulia Ricca
Testi di Giulia Riccabbb
PIERRE RABHI FONDATORE DEL MOVIMENTO PER LA TERRA E L’UMANESIMO
In alto : Pierre Rabhi fondatore e pionere dell’agricoltura biologica. Francese di origine algerina il suo impegno è rivolto alla realizzazione di una socità fondata su valori ecologici e ambientali.
A
gricoltore e pensatore francese di origine algerina, Pierre Rabhi è uno dei pionieri dell’agricoltura biologica. Il suo impegno è tuttora quello di diffondere la pratica di un’agricoltura accessibile a tutti, rispettosa dell’uomo e della terra: questo il fine dei suoi libri (Manifesto per la terra e per l’uomo, La sobrietà felice) ma anche della sua attività “politica” concreta. Rabhi è infatti il fondatore del Mouvement pour la Terre et l’Humanisme, che ha ispirato in seguito il movimento Colibrì, volto alla fondazione di una società che si regge su diversi valori e nuovi paradigmi economici e ambientali. Rabhi è nato in Algeria nel 1938 e ha ricevuto una educazione francese (dopo aver perso la madre all’età di 5 anni è stato infatti affidato a una famiglia francese) innestata sull’eredità della sua cultura di origine: fatto che gli ha permesso, una volta trasferitosi a Parigi con la moglie, di inserirsi nel contesto europeo pur sentendosi profondamente incompatibile con i valori della modernità e della competizione capitalista. Per questo motivo lascia quasi subito il suo lavoro di operaio per trasferirsi in Ardèche, dove inizia a lavorare come agricoltore. Lì si accorge che la logica mercantile finalizzata soltanto alla crescita investe l’agricoltura non meno dell’industria: si sente così assoggettato a un sistema che lo obbliga a “lavorare” la terra irrorando di sostanze tossiche il suolo e l’aria. Solo dopo due anni, grazie al prestito di un amico che gli consente di comperare un terreno da coltivare per autoconsumo, Rabhi inizia a sperimentare le tecniche dell’agricoltura biologica, ideando nuovi metodi di fertilizzazione naturale rispettosi del terreno e della salute umana. Negli anni Ottanta decide di trasmettere il sapere acquisito e fonda il primo Centro africano di formazione agro ecologica, rivolto ai contadini del Burkina Faso. É il suo primo atto “politico”, a cui seguono a catena altri interventi, fondazioni, presentazioni di programmi di sensibilizzazione e formazione. Partecipa anche alla elaborazione della convenzione dell’ONU per la lotta contro la desertifi-
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cazione (1998) e nel 2000 crea l’associazione Terre & Humanisme, per la trasmissione dell’etica e della pratica agroecologica, preoccupandosi di lanciare nuove azioni di sviluppo in Niger, Mali, Marocco e di agire così per superare la contraddizione del continente africano: ad un tempo il più ricco di risorse e il più sottosviluppato, a causa dell’imposizione di modi di produzione non adatti ai territori e alle società locali. Attualmente è attivo il movimento Colibrì, con sede in Francia e che ha collaborato con Slow Food per incoraggiare nuovi modelli di società fondati sull’autonomia, l’ecologia e la centralità dell’uomo nel sistema socio-economico. Il movimento nasce per incentivare l’agroecologia e l’agricoltura biodinamica, ma anche per proporre nuovi modelli educativi per l’individuo, promuovere una economia locale, sobrietà energetica… L’estensione utopica dei propositi è stemperata e giustificata dall’insistenza di Rabhi sul valore dell’azione individuale:«La società sono io e io sono la so-
SOSTENIBILITÀ
cietà - scrive - è il mio cambiamento che determina il cambiamento del mondo». Il movimento poggia innanzitutto sulla convinzione che sia indispensabile cambiare il paradigma della società attuale partendo dall’individuo, allo stesso tempo autonomo e parte di un ecosistema. Pierre Rabhi ha tratto il nome del movimento da una leggenda amerinda: «Un giorno – dice la leggenda – ci fu un grande incendio nella foresta. Tutti gli animali terrorizzati osservavano la devastazione impotenti. Solo il piccolo colibrì iniziò a darsi da fare, andando a prendere qualche goccia d’acqua con il suo becco per gettarla sul fuoco. Vedendolo, gli altri animali gli dissero: sei pazzo? Non è certo con queste poche gocce d’acqua che riuscirai ad estinguere l’incendio! E il colibrì rispose: lo so, ma io faccio la mia parte».
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PIERRE RABHI
PER UNA SOBRIETÀ FELICE ECCO I PASSAGGI ESSENZIALI DELL’ULTIMO VOLUME DI PIERRE RABHI
In alto e nella pagina a fianco: Pierre Rabhi nella sua fattoria durante un’ intervista della tv France 24.
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a felicità è una condizione esistenziale che scaturisce dall’equilibrio e dal rispetto delle piccole cose. Una questione di atteggiamento segnato da sobrietà e pacatezza. Il volume di Pierre Rabhi propone in pochi punti essenziali un nuovo paradigma per riscoprire e vivere in armonia con se stessi e ciò che ci circonda.
Esilio L’esilio – fisico ed esistenziale – è una condizione della modernità, secondo Rabhi, che pure nella sua infanzia sahariana, come racconta, ha visto molti uomini prepararsi a viaggi molto lunghi o addirittura senza ritorno: chini sulla sabbia del deserto, quegli uomini raccoglievano una manciata di terra presa dal luogo in cui erano nati, o in cui erano nati i loro avi, e la chiudevano in un sacchetto di pelle. Quel sacchetto, fissato alla cintura al contatto con il corpo, diventava all’istante un talismano destinato ad accompagnare il lungo cammino, facendo sentire gli uomini legati alla loro patria ovunque si trovassero. Così il “luogo” trascendeva il suo limite geografico, caricandosi di umanità. Lo scrittore greco Nikos Kazantzakis descriveva in un modo simile l’esilio dei cretesi in fuga dalla violenza dei turchi: un vecchio costretto alla fuga senza la certezza del ritorno affrontò il lungo esodo sotto il peso di un solo grosso fardello, che conteneva le ossa dei suoi antenati: aveva riesumato quelle reliquie per poterne cospargere la terra che avesse accettato di ac-
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SOSTENIBILITÀ
coglierlo. Quell’atto aveva l’obiettivo di ristabilire il legame spezzato con gli antenati, e, anche, di alleviare il dramma dell’esilio in sé… La condizione dell’esiliato è del tutto innaturale e la modernità, scrive Rabhi, ha inventato mille forme di esilio, a partire dalla Grande Guerra di trincea nella quale per la prima volta alcuni soldati, non sopportando lo sradicamento, furono afflitti da una nostalgia del loro Paese così acuta che ne morirono. L’uomo moderno ha sperimentato l’esilio non soltanto in situazioni così estreme: spostando l’attenzione alla realtà in cui si muove tutti i giorni, cioè il mondo rurale, Rabhi parla di alienazione. Alienazione dell’agricoltura dal suo scopo semplice e primario, quello del sostentamento dell’uomo, in nome del guadagno fine a se stesso; alienazione del contadino, la cui cura della terra viene sostituita con l’introduzione massiccia di adiuvanti chimici e di mezzi agricoli. Fino al paradosso già in atto del fatto che la logica del profitto sta affamando i contadini in attesa di eliminarli dalla faccia della terra. Denunciando questa alienazione Rabhi non fa altro che sognare quello che lui stesso ha già messo in atto nella sua fattoria dell’Ardèche: l’avvento di un nuovo contadino che governi la sua piccola fattoria come un sovrano libero nel suo piccolo regno. Appartenere a una terra è un imperativo di vita per tutti i popoli.
In alto: L’L’ultimo volume di Pierre Rabhi. La sobrietà felice, Torino, add editore, 2013. To Ri Riferimenti www.lesamains.com w http://www.colibris-lemouvement.org ht http://www.la-ferme-des-enfants.com ht http://www.appel-consciences.info ht http://oasisentouslieux.org ht
Tempo Gli uomini della sabbia di cui parla Rabhi inscrivevano nel mondo una realtà a loro misura, in uno spazio concepito come sacro e in un tempo di natura cosmica. Al contrario, per l’uomo moderno, Rabhi parla senza mezzi termini di sconvolgimento dei riferimenti universali: la modernità, con il tempo-denaro in cui tutti siamo immersi, ha rotto i ritmi millenari che gli esseri umani avevano impresso al tempo. La frenesia come stile di vita collettivo è ciò che noi tutti conosciamo e, in un modo o nell’altro, sperimentiamo nella nostra vita quotidiana. Rabhi fa un passo oltre dichiarando che questa frenesia ha prodotto una torsione nell’aspetto “metafisico” della vita: le grandi domande sulla morte, l’amore, la sofferenza sono “frenetiche” e generano paura se ci allontanano dalla semplice bellezza che il nostro pianeta ci offre. La verità può trovarci solo nell’immobilità e nel silenzio. È un peccato, scrive Rabhi, che il tempo trascorso a cercare di sapere se esista una vita dopo la morte non sia
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PIERRE RABHI
stato dedicato a capire che cos’è la vita; sarebbe un peccato, giunti al termine della propria esistenza, chiedersi non tanto se esista una vita dopo la morte, ma se ne esista davvero una prima della morte. Intelligenza C’è infatti un’intelligenza della vita in sé, secondo Rabhi, da cui l’integralismo della pura ragione si è distaccato, edificando e strutturando un mondo parallelo, che oggi è in gran dissesto. Per questo Rabhi parla di “pensiero inorganico” per definire quello prodotto dal Positivismo radicale, che esclude ogni riferimento alla soggettività, alla sensibilità, all’intuizione. La razionalità senz’anima ingabbia l’uomo moderno in una realtà delimitata dall’assenza di orizzonte, dove la sorte del vero sfuma in una nebulosa in cui coabitano tutto e il contrario di tutto. Rabhi propone (e mette in atto, nelle diverse strutture da lui fondate) una diversa “pedagogia dell’essere” che non si basi sull’angoscia del fallimento ma sull’entusiasmo di apprendere; che riequilibri il maschile e il femminile; che bilanci l’apertura della mente alle conoscenze astratte con l’intelligenza delle mani e la creatività concreta; che riavvicini il bambino alla natura, perché la sua coscienza si elevi… Bellezza Rabhi non difende affatto austerità e sacrificio (che sono anzi, attualmente, le grigie e dolorose conseguenze delle “truffe” della modernità): la sua sobrietà è bellezza. Trovare un modo giusto di abitare il pianeta è realizzare un reincanto del mondo. Per quanto riguarda l’individuo essere bella o bello, secondo i criteri delle diverse culture, è innegabilmente un bisogno universale, e Rabhi vuole assecondare questo bisogno: eleganza, fascino e bellezza non sono incompatibili con la sobrietà e non sono subordinati al livello di spesa che possiamo dedicarvi. La sobrietà felice Rabhi narra la risposta che un doyen, l’anziano di un villaggio nel cuore della regione africana del Sahel, dette ai suoi uomini quando gli annunciarono di aver ottenuto il doppio del raccolto grazie all’utilizzo della “polvere dei bianchi”:«Ragazzi miei
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– disse il doyen – io non so di cosa è fatta quella polvere. Ma sembra gradita a Dio, se ha un potere così benefico sulla terra e di conseguenza sulla nostra vita. Ne trarremo vantaggio, perché permette abbondanti raccolti, stando a quello che avete constatato potremo ormai accontentarci di coltivare solo la metà dei nostri appezzamenti, e forse anche meno, se Dio vorrà. Le nostre fatiche saranno così alleggerite. In ogni caso, dobbiamo mantenere la misura delle cose, affinché la soddisfazione possa abitare sempre le nostre anime. E se il raccolto supera i nostri bisogni, non dimentichiamo coloro che non riescono a soddisfare i propri, perché Dio dà affinché noi a nostra volta doniamo». Per definire la sua idea di sobrietà Rabhi ricorda la sua vita insieme ai contadini delle Cevenne: gli occhi azzurri interdetti del vecchio Froment, quando, per essersi chinato a raccogliere dei chicchi d’uva caduti a terra, si attirò il malumore del nuovo imprenditore agricolo, che gli ingiungeva di fare più in fretta perché raccogliere quei chicchi era tempo perso, non redditizio… Il signore e la signora Dubois e la loro piccola fattoria sperduta ad alta quota, nei luoghi dirupati dei castagni dove il tempo era infinito e ci si riscaldava, si cucinava grazie al fuoco del camino e si dormiva tra un materasso di lana ben riempito e un grosso piumino, in cui opulenza e leggerezza si coniugavano per offrire un comfort ineguagliabile. «Quale sentimento – scrive Rabhi – scaturito dal profondo di una saggezza millenaria trasmette uno spirito di temperanza che esprime la sua bellezza con un questo è abbastanza? E allo stesso tempo fa nascere in noi quella gratitudine che, sbocciando nel più profondo del nostro essere, conferisce a tutti i regali della vita la pienezza del loro valore e alla nostra presenza nel mondo una leggerezza singolare, quella della sobrietà tranquilla e felice?».
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2014 ANNO INTERNAZIONALE DELL’AGRICOLTURA FAMILIARE Testi e foto di Giulia Ricca
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L’ L’ANNO DEGLI AGRICOLTORI, A DEI PASTORI D E DEGLI ALLEVATORI
In alto: Delegati a Terra Madre 2012. Nella pagina a fianco: Agricoltura in Canavese.
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opo l’anno internazionale della quinoa, appena concluso, la FAO ha indetto per il 2014 il nuovo anno internazionale dell’agricoltura familiare (IYFF). Il nuovo progetto estende con continuità i propositi dell’anno dedicato al cereale andino: il 2013 è stato un riconoscimento per i popoli indigeni andini, che hanno mantenuto, controllato, protetto e conservato la quinoa come cibo per le generazioni presenti e future attraverso la conoscenza e le pratiche del vivere in armonia con la natura. L’obiettivo è stato quello di focalizzare l’attenzione del mondo sul ruolo che la quinoa gioca a sostegno della biodiversità, sul suo valore nutritivo, sull’eliminazione della povertà. Il nuovo anno è all’insegna dell’agricoltura familiare, che si oppone al paradosso dell’agricoltura industriale, alla povertà e allo sfruttamento delle risorse e dei lavoratori, protegge la biodiversità e l’ambiente, rilancia le economie locali. Lo scopo del IYFF è quello di ricollocare l’agricoltura familiare al centro delle politiche agricole, ambientali e sociali dei vari Paesi, promuovendo discussioni e collaborazioni a livello internazionale che definiscano l’importanza dei piccoli proprietari. Le aziende a conduzione familiare costituiscono la forma predominante di agricoltura sia nei paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo: ci sono più di 500 milioni di aziende nel mondo le cui attività sono gestite dalla famiglia e che si basano prevalentemente sul lavoro familiare. In molte regioni gli agricoltori familiari sono la risorsa principale, ma allo stesso tempo patiscono la mancanza di politiche e tecnologie adeguate e vivono in condizioni di povertà. L’idea che muove l’IYFF è che i piccoli contadini possano sviluppare facilmente il loro potenziale produttivo nel momento in cui vengano messe in atto le politiche adeguate: un accesso facilitato alla terra, all’acqua e alle altre risorse naturali, un aumento dei finanziamenti, dell’assistenza, l’accesso al mercato e alle innovazioni tecnologiche per questi produttori
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L’anno internazionale dell’agricoltura familiare si oppone al paradosso dell’agricoltura industriale, alla povertà e allo sfruttamento delle risorse e dei lavoratori. Intende promuovere la protezione della biodiversità, dell’ambiente, e rilanciare le economie locali. Lo scopo del IYFF è quello di ricollocare l’agricoltura familiare al centro delle politiche agricole, ambientali e sociali dei vari Paesi, promuovendo discussioni e collaborazioni a livello internazionale che riconoscano l’importanza dei piccoli proprietari.
Pa Pagina a fianco: Coltivazioni agricole in Africa SubSahariana dove la Co percentuale di africani che soffrono la fame pe è ddi 1 individuo su 4 ovvero del 28,4%. (Foto archivio FAO) (F
sono la chiave per aumentare la produttività agricola, sradicare la povertà e raggiungere la sicurezza del cibo per tutto il mondo. Le aziende agricole familiari garantiscono lo sviluppo sostenibile: preservano i prodotti tradizionali, contribuiscono sia a una dieta bilanciata sia alla salvaguardia dell’agro-biodiversità. Sono legate al territorio in cui lavorano, alla cultura locale, e spendono le loro entrate prevalentemente nel mercato locale e regionale, sviluppando le economie locali e combattendo la fame. Per questo costituiscono l’unico potenziale in grado di dirigersi verso un “sistema del cibo” mondiale più produttivo e sostenibile, e per questo devono essere supportate dai governi, soprattutto nelle aree meno sviluppate. Lo scopo finale dell’IYFF è quello di stabilire piattaforme di dialogo politico con le aziende familiari per generare consenso e costruire e incoraggiare le politiche favorevoli. Alla cerimonia del lancio dell’IYFF hanno partecipato responsabili delle Nazioni Unite, ambasciatori presso l’ONU, ministri e rappresentanti della società civile che ricopriranno il ruolo di ambasciatori speciali (Ibrahim Coulibaly, presidente della Coordinazione Nazionale delle Organizzazioni dei lavoratori agricoli del Mali; Mirna Cunningham, del Nicaragua, ex presidente del Forum permanente delle Nazioni Unite sulle questioni indigene; il tedesco Gerd Sonnleitner, presidente dell’Associazione degli Agricoltori Europei). Il Direttore generale della FAO José Graziano da Silva ha dichiarato che l’agricoltura familiare ha un ruolo centrale nel far fronte alla doppia emergenza che il mondo si trova oggi ad affrontare: migliorare la sicurezza alimentare e preservare le risorse naturali, in linea con gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, il dibattito sull’agenda post-2015 e la Sfida Fame Zero. Graziano Da Silva ha sottolineato che: «l’agricoltura a conduzione familiare, a differenza dell’agricoltura intensiva su vasta scala, sfrutta attività agricole diversificate che aiutano a preservare la naturalità del territorio. Gli agricoltori hanno, negli anni, conservato e perfezionato molte tecnologie che oggi possono servire per un modello agricolo sostenibile. Negli anni precedenti gli agricoltori erano l’obiettivo delle politiche sociali, non erano visti come soggetti produttivi. Erano considerati parte del problema della fame. Questa è una visione che dob-
ANNO INTERNAZIONALE DELLA FAO
biamo modificare nell’ottica dell’anno internazionale dell’agricoltura familiare». Graziano Da Silva è stato eletto Direttore generale della FAO nel 2011 e durante il suo mandato ha aperto la collaborazione con l’organizzazione italiana Slow Food fondata da Carlo Petrini: nel 2012 Graziano Da Silva ha partecipato a Torino alla cerimonia di apertura di Terra Madre. Il 2014 apre ora nuove prospettive nella collaborazione tra FAO e Slow Food. Carlo Petrini ha affermato alla conferenza Family Farming a Bruxelles che entrambe le organizzazioni condividono la visione di «un mondo sostenibile, libero dalla fame e ricco di biodiversità per le generazioni future. Slow Food darà un grande contributo all’agricoltura familiare. Continueremo con rinnovato impulso nel 2014 il nostro lavoro a supporto delle comunità del cibo di Terra Madre, organizzando mercati locali, orti scolastici e di comunità, favorendo l’accesso al mercato per i piccoli produttori e catalogando la biodiversità agroalimentare a rischio di scomparsa». Graziano Da Silva ha inoltre firmato nell’ottobre 2013 un accordo di collaborazione con l’amministratore delegato di Eataly, Nicola Farinetti. L’accordo getta le basi per una serie di iniziative congiunte volte a migliorare la produttività e l’accesso ai mercati dei piccoli produttori in Africa e in America Latina, all’interno del quadro dell’IYFF.
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Per saperne di più www.fao.org http://www.fao.org/tc/faoitaly/faoitalia-pagina-principale/it/
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Testi di Alessandra Luciano
Testi di Giulia Riccabbb
SCIE CHIMICHE: COSA STA SUCCEDENDO AL NOSTRO CIELO Testi di Letizia Gariglio
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SCIA ASCIA DI GUERRA
Nella pagina accanto : Il cielo del Canavese in un mattino invernale. Foto di Alessandra Luciano. In alto: Scie di condensazione riprese dal satellite sul cielo italiano.
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on lo sapete che i ragni si muovono copiosi nei cieli, secernendo le loro tele appese alle stelle? Che idea romantica: quasi quasi adesso ci credo anch’io. Ce lo raccontano i cosiddetti scienziati, quando a piene mani si raccolgono, indifferentemente in campagna o in città, strani filamenti simili a fili appiccicosi di ragnatela, a terra o a mezz’aria, Ci raccontano che sono stati secreti da ragni, talvolta ne indicano persino la famiglia (quella dei Linyphiidae, conosciuti come ragni tessitori), mentre aggruppati in insiemi solcano i cieli per migrare. Spider ballooning è il nome del fenomeno. Le tele funzionerebbero per i ragni come specie di tappeti volanti: dopo aver sparato la sua tela il ragno ci si accomoda sopra e si fa trasportare comodamente nell’aria, come nella fiaba. Mah! Sarà, ma pochi ci credono. Ormai siamo diventati tutti così sospettosi che temiamo di essere ancora una volta gabbati. Siamo sicuri che i filamenti non rientrino tra le copiose manifestazioni delle scie chimiche? Le scie vengono rilevate da alcuni anni e sono per così dire prodotte da aerei che solcano i cieli; non sono aerei di linea, ma aerei non meglio identificati; sono ben diverse dalle note linee di condensazione, perché queste sono formate da sostante gelatinose che vengono rilasciate a bassa quota, mentre le linee di condensazione si manifestano di solito a oltre ottomila metri di altezza. Inoltre gli aerei che rilasciano le scie chimiche sono dotati di apparati di irrorazione visibili con semplici cannocchiali: anche in Italia l’avvistamento è provato. Prima di depositarsi le scie permangono nei cieli per molte ore, poi si espandono pian piano, con un comportamento quindi molto diverso dalle strisce di condensazione. Gruppi diversi di osservatori hanno volontariamente analizzato i residui lasciati a terra dalle scie chimiche ed essi hanno constatato che contengono sostanze nocive alla salu-
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te: silicio, alluminio, bario, quarzo, ma anche parassiti, muffe, agenti batterici e virali. Altre forme di prova dei depositi delle scie chimiche provengono dall’analisi dell’acqua piovana, che contiene anch’essa le stesse sostanze velenose. Le scie chimiche vengono tra l’altro considerate come uno dei più importanti fattori di moria delle api. Molte ipotesi si sono fatte attorno alle scie chimiche: alcune potrebbero persino sembrare surreali. Nessuna contempla, ahimè, scopi umanitari. Francamente credo valga la pena di non scartarne nessuna. Del resto non è da escludere che più di una motivazione al loro esistere possano sommarsi una all’altra: gli scopi militari potrebbero non escludere quelli strettamente economici, lasciando spazio a quelli politici e sociali. Certo le operazioni di cospicuo rilascio nei cieli devono avere costi economici molto pesanti: si suppone che qualunque gruppo, pubblico o privato, qualunque lobby, qualunque società o istituzione lo affronti, debba riceverne proporzionati guadagni. Una delle ipotesi maggiormente accreditate riconosce nel deposito di scie chimiche un tentativo (che evidentemente riesce bene!) di incidere drasticamente sul clima. Era il 1956 quando lo scienziato e matematico statunitense John Von Neumann dichiarava che in capo a una ventina d’anni sarebbe stato possibile scatenare un gelido inverno artico degno di un’era glaciale su qualunque nazione nemica con cui si fossero trovati in conflitto. Da allora la guerra per il controllo del mondo attraverso il potere meteorologico non si è mai assopita. Si conosce l’esistenza di centinaia di brevetti, depositati in tempi diversi negli Stati Uniti, che palesano il loro scopo a partire dal titolo con il quale sono stati presentati. Qualche esempio in traduzione: Metodi e apparati per alterare il clima di una regione della terra; Metodo per modificare il tempo atmosferico; Metodo per rilasciare neve artificiale; Metodo per sconvolgere elettroni e protoni nell’atmosfera; Metodo e apparecchiatura per creare vasti banchi di nebbia; Sistema per creare la pioggia; Metodo per creare nubi cumuliformi; Procedura per la modificazione artificiale delle precipitazioni atmosferiche nonché composti a base di dimetilsolfossido per l’uso nella realizzazione di detto procedimento; Composizioni di combustibili per la generazione degli aerosol, par-
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ticolarmente adatto per la modifica del sistema delle nubi e il controllo del tempo. Si potrebbe continuare per pagine e pagine. Si potrebbero anche affiancare ai nomi i numeri corrispondenti del brevetto, ma volendo ognuno di noi lo può fare da sé, per mezzo di una ricerca in Internet, magari digitando in inglese le parole “controllo climatico” o qualcosa di simile, oppure andando su “Google Patents” o “US Patents”: vi assicuro che la caccia non avrà risultati deludenti. Nessuno di noi dubita sull’incidenza che le condizioni climatiche possono esercitare sull’esito di una guerra di tipo tradizionale: il ricordo della campagna di Russia che i nostri Alpini furono costretti ad affrontare nella II Guerra Mondiale è rimasto vivo nel ricordo di molte famiglie che vi perdettero i loro cari; ne aveva fatta esperienza Napoleone. Sappiamo che la data dello sbarco in Normandia fu scelta sulla scorta delle previsioni meteorologiche degli esperti inglesi e americani. Sappiamo con certezza che durante la guerra del Vietnam (1967-1972) furono precipitate piogge torrenziali sul Vietnam del Nord per peggiorare i disagi del nemico, causando la distruzione di strade e raccolti. In quella guerra per anticipare e prolungare il periodo dei monsoni, al fine di ostacolare l’avanzata dei Viet Cong, furono eseguite 2500 missioni aeree di cloud-seeding, di inseminazione di nuvole. L’operazione in codice si denominava Popeye. Ma non si tratta solo di questo. Nel 1996, durante l’amministrazione Clinton, l’Air Force americana lanciò un programma per assicurare agli Stati Uniti il controllo del clima entro il 2025. S’intitolava “Il clima come forza moltiplicatrice: possedere il clima entro il 2025”, il progetto prevedeva l’uso e l’implicazione di nuove tecnologie per mettere gli USA in condizioni di primeggiare. Vi si legge: «Nel 2025 gli Usa e le forze aereo spaziali USA potranno avere il controllo del clima se sapranno capitalizzare le nuove tecnologie e svilupparle come applicazioni di guerra...». Vi si parla di scenari climatici creati su misura, della totale e completa dominazione globale delle comunicazioni e dello spazio, ottenuta grazie alla modificazione climatica adoperata per sconfiggere e sottomettere l’avversario. Il documento entra nel dettaglio della creazione e pilotamento di tempeste, di formazione di nubi e nebbia, di controllo completo delle precipitazioni e della siccità, create a piacimento, di fulmini scatenati ad hoc. Ma c’è dell’altro.
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H MONDO A RISCHIO INSOSTENIBILITÀ IL
Il 14 gennaio 1999, il Parlamento Europeo intervenne, dimostrandosi preoccupato per l’utilizzo delle risorse militari (in particolare del sistema HAARP) che arrecano danni irreparabili all’ambiente. Ma che cos’è il sistema H.A.A.R.P.? Ecco come viene descritto nel documento: «La commissione per la protezione dell’ambiente, la sanità pubblica e la tutela dei consumatori: considera il sistema militare USA di manipolazione ionosferica, H.A.A.R.P., con base in Alaska, un esempio della più grave minaccia militare emergente per l’ambiente globale e la salute umana, dato che esso cerca di manipolare a scopi militari la sezione della biosfera altamente sensibile ed energetica, mentre tutte le sue conseguenze non sono chiare». Nel documento viene poi spiegato come gli USA stiano operando in modo da creare armi integrali di tipo geofisico, in grado di agire sugli elementi e sui fenomeni naturali, normalmente considerati come espressioni della volontà della natura, per mezzo di onde ad alta frequenza. Perché dunque qualcuno ritiene, o quantomeno afferma tenacemente di ritenere, fantasiosa l’idea che sostanze chimiche vengano irrorate da aerei nell’aria per scopi analoghi? Non la riteneva tale un ex capo dell’FBI, Ted Gun-
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derson, morto nel luglio 2011, il quale non lesinava attraverso interviste, che permangono in rete, di dirsi molto preoccupato per l’azione nefasta delle scie chimiche: ad esse, della cui esistenza affermava di essere stato a conoscenza diretta nella sua esperienza, attribuiva la moria di uccelli e di pesci. Affermava che il loro uso era un omicidio degli Stati Uniti nei confronti non solo del mondo naturale ma anche di quello umano. Rivelò dove erano dislocati gli aerei che rilasciavano scie in mezzo mondo, e ne dette una precisa descrizione; si domandava disperato: «Che cosa c’è che non funziona nel nostro Congresso?».
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In alto Porzione di cielo del Canavese. Scatto del 6 gennaio 2014. Foto di Alessandra Luciano.
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IPOTESI SCIAGURATE
Pa Pagina a fianco: Porzione di cielo canavesano in un mattino di Po dicembre 2013. di Foto di Alessandra Luciano. Fo
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’è una tendenza nel mondo di oggi a considerare veritiero solo ciò che è supportato dal definitivo placet della scienza. La scienza fonda su dimostrazioni empiriche le proprie affermazioni o negazioni, si dice; ma la scienza, si sa, sta volentieri dalla parte di istituzioni governative che tacciano di ignoranza, inconsistenza e incoerenza ogni affermazione che posi su un tipo di sensibilità e di giudizio diversi da quelli tracciati dalla comunità scientifica stessa. Ci ci trova così di fronte a un serpente che si morde la coda: un serpente che sta volentieri dalla parte del potere. Così, nell’ambito del discorso sulle scie chimiche, tutti coloro (semplici cittadini, politici, medici e naturalmente anche scienziati desiderosi di arrivare alla verità) che vedono, osservano, fotografano, compiono analisi, documentano, pongono domande, preparano relazioni, presentano interpellanze e attuano interventi sul tema, avanzando tutti i loro dubbi, vengono immediatamente tacciati dalla comunità scientifica come complottisti. Maniaci, insomma, che riescono a vedere persino nella pura aria dei nostri cieli i segni che qualcosa non funziona proprio come ci viene detto. Così gli zuzzerelloni che vedono uscire sostanze sospette da parti diverse (non già dal motore) dagli aerei che emettono scie hanno meritato fin da subito un posto privilegiato nel vasto mondo dei complottisti: le loro fantasie ipotizzano una serie di teorie, tutte ugualmente improbabili (sostiene la comunità scientifica) in cui si vorrebbe che gli interessi di alcuni andassero contro l’interesse di tutti: cose da pazzi, no? Riferiamo qualcuna di queste teorie. Abbiamo già trattato la più diffusa, quella del tentativo di operare modificazioni climatiche, soprattutto a scopi bellici, all’interno delle quali si può intravedere la felice opportunità di accecare l’eventuale nemico e dei suoi radar. Anche la mappatura elettronica del territorio si pone tra questi obiettivi, come la creazione di un’antenna elettromagnetica oltre l’orizzonte, col fine di facilitare nell’atmosfera la trasmissione e la ricezione dei segnali militari strategici. Ma si intravedono più vaste motivazioni, per così dire sociali: l’opportunità di inquinare drasticamente gli ecosistemi. Ciò determinerebbe un incremen-
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to esponenziale del costo delle risorse dell’acqua e di quelle agricole. A tal proposito si suppone altresì che vi si giochino grandi interessi di multinazionali, che avrebbero come scopo quello di danneggiare drasticamente le culture agricole basate su piante naturali, non modificate geneticamente, e dunque seminabili in modo naturale. La moria di piante naturali, o la loro eccessiva sensibilità a nuove malattie, rapidamente diffuse, favorirebbe la richiesta e la vendita di piante geneticamente modificate, di cui le multinazionali detengono i brevetti. Ma vi sarebbero scopi sociali persino a più ampio raggio: l’eliminazione veloce, attraverso lo spargimento dei veleni, di categorie sociali considerate inutili pesi per la società: soprattutto gli anziani, colpevoli – è un’opinione sempre più diffusa soprattutto nella nostra Italia sempre più povera – di percepire pensioni. La loro fragilità verrebbe dunque in tal senso guardata con occhio più che interessato. Ma tutte la fasce e le categorie più deboli verrebbero guardate benevolmente in questo progetto: obiettivi idonei per la diffusione diretta ed indiretta di malattie, causate ad hoc da agenti patogeni, con gli scopi di favorire paura e dolore. Sono queste emozioni negative che ci spingono ad affidare i nostri corpi e i destini della nostra salute nelle mani dei medici e, indirettamente, nelle mani delle multinazionali farmaceutiche. Quanto al resto della popolazione, tra gli obiettivi vi sarebbe quello di controllare il pensiero e il comportamento, attraverso l’irradiazione di onde elettromagnetiche a bassa o bassissima frequenza oppure at-
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traverso l’inconsapevole assunzione del litio e dei suoi composti (presenti nelle scie). Quanto al controllo del pensiero, le scie servirebbero ad applicare le nanotecnologie al corpo umano, col fine di monitorare prima, e poi controllare, e manipolare mentalmente, per mezzo dell’emissione di impulsi elettromagnetici, interi gruppi umani. Qualcuno pensa che le nanomacchine potrebbero poi essere attivate quando le persone saranno convinte (o obbligate, che è la stessa cosa, se il risultato non cambia) a portare microchips sottocutanei; altri pensano che le nanotecnologie possano comunque servire da microchips. Qualcuno infine pensa che lo scopo delle sostanze rilasciate sia quello di creare un ambiente idoneo alla proiezione di immagini olografiche, forse in occasione di invasione aliena, falsa o veritiera. Tutte idee fantascientifiche?
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Per saperne di più www.sciechimiche.org www.altrainformazione.it/wp/le-sciechimiche-un-altro-enigma-del-cielo/ http://nonciclopedia.wikia.com/wiki/
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NANI DA GIARDINO
In alto: Il romanzo di Michael Crichton Preda, é stato pubblicato nel 2002. In italia è tradotto da Garzanti.
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el best seller di Michael Crichton, intitolato Preda, un esperimento scientifico che si sta svolgendo nel Nevada sfugge al controllo dei tecnologi: sciami di nanoparticelle, microscopici robot in forma di videocamere, vale a dire nanomacchine intelligenti, con qualità simili a quelle degli esseri viventi, capaci di autoriprodursi e di evolversi, fuggono dal laboratorio. Un grosso guaio, dal momento che le nanoparticelle sono state programmate per essere dei predatori e sono pericolosissime. Nel romanzo segue un mare di avventure per riprendere il controllo, sebbene ogni tentativo sembri destinato a fallire. L’autore è riuscito ad anticipare (il libro è del 2002) alcuni temi che oggi sembrano destare preoccupazione nell’opinione pubblica. Nel frattempo le nanoscienze e nanotecnologie hanno fatto grandi passi, sono definitivamente entrate a far parte della realtà consolidata ed esse vengono attualmente impiegate in svariati campi. Ma che cosa sono le nanoscienze e le nanotecnologie? Sono studi e manipolazioni della materia considerata su scala piccolissima, nanometrica, appunto. Un nanometro corrisponde a un miliardesimo di metro, o un milionesimo di millimetro, se serve meglio a crearci un’idea; ed equivale (grosso modo, tanto per usare qui un’espressione quanto mai impropria) alla lunghezza di una molecola. Dunque le nanoscienze studiano la materia su scala atomica e molecolare; servono a creare, attraverso la nanotecnologia, materiali, sistemi e dispositivi su scala nanometrica. Molti prodotti alla cui produzione si è giunti grazie agli studi nanometrici sono attualmente già sul mercato, riguardano settori disparati, ma la ricerca continua e ottiene risultati esponenziali. Il dubbio nasce quando si considera che in verità non si sa quasi nulla delle conseguenze che il dilagare dei nanomateriali può eventualmente causare. Infatti non si tratta solo di “lavorare” a livello molto più piccolo, ma occorre considerare che il comportamento della materia a un livello tanto più piccolo cambia completamente, assumendo caratteristiche e comportamenti imprevedibili; non si conoscono neppure i rischi cui si potrebbe andare incontro in corso di ricerca e di sperimentazione. In parole po-
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vere nei laboratori si potrebbero, ad esempio, creare delle nanoparticelle inaspettate, ottenute in modo collaterale a quelle volontariamente ricercate e conseguite. Alcuni pericoli potrebbero derivare dalla animata reattività delle nanoparticelle ottenute artificialmente. Teste calde, disubbidienti e scarsamente biodegradabili: così si potrebbero definire. È indubitabile che abbiano apportato importanti miglioramenti in vasti settori, come quelli medici, informatici, energetici e... non ultimo, quello militare. Gli ottimisti spingono la ricerca perché pensano che le nanomacchine siano, e possano divenire sempre più, strumenti indispensabili per debellare malattie e gravi problemi dell’umanità, compresi la siccità, le carestie, gli avvelenamenti da inquinamento, ma non si può nemmeno negare che alcune caratteristiche le mettano fra le tecnologie pericolose, sia perché l’uomo, essere tutt’altro che perfetto, può essere ancora una volta tentato di farne un uso improprio, in poche parole volto al male anziché al bene, oppure perché non è così fantascientifico pensare che esse possano sfuggire al controllo dell’uomo, alla sua imperfezione, al margine d’errore, che nel caso dei robot di un milardesimo di millimetro potrebbero scatenare disastri difficilmente immaginabili per l’umanità. Insomma, di nani si tratta, ma non da giardino.
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In alto: Foto di cielo mattutino in Canavese. Fo Scatto del dicembre 2013. Sc Foto di Alessandra Luciano Fo
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MONDO COOPERATIVO
Spazio redazionale di AEG Società Cooperativa
COOPERARE CON I PAESI IN VIA DI SVILUPPO
TEA è una cooperativa torinese che da oltre un decennio allestisce validi progetti per il miglioramento delle condizioni di vita del Paesi in Via di Sviluppo.
PROGETTI COOPERATIVI PER L’AMBIENTE E LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE
Nella pagina accanto: Senegal: coltivatore nel suo campo di riso. In alto: Mario Lovaglio e Paolo Ricci amministratori della Cooperativa TEA.
È
una cooperativa torinese nata nel 1997, si chiama TEA promuove e realizza progetti innovativi in campo ambientale rivolti alla tutela del territorio, alla valorizzazione delle risorse, con particolare riguardo al settore energetico, risorse idriche, gestione rifiuti, agricoltura e foreste. Ma soprattutto TEA opera nel contesto della cooperazione internazionale per il miglioramento delle condizioni di vita dei Paesi in Via di Sviluppo. Con sede presso presso l’Environment Park di Torino svolge attività di progettazione di bonifiche e valutazioni di impatto ambientale, promozione di interventi volti al risparmio energetico, consulenze idrogeologiche e geotecniche. Ma la sua mission principale è collaborare con aziende pubbliche e private nei paesi di economia in transizione per lo sviluppo di progetti di energia, ambiente e di formazione. Partecipa infatti, come partner tecnico, ad attività di cooperazione internazionale, affiancando le Organizzazioni non Governative (OnG) e gli Enti Locali nell’ideazione, progettazione e realizzazione d’interventi di cooperazione. In collaborazione con l’Environment Park e l’Agenzia per l’Energia di Torino, TEA ha promosso il Programma AfriKyoTo per sollecitare le imprese italiane a realizzare progetti rientranti nei Meccanismi Flessibili di Sviluppo (CDM) nei Paesi in Via di Sviluppo previsti dal Protocollo di Kyoto. I progetti sono basati sull’interazione tra mondo imprenditoriale, parchi scientifici e ricerca ed hanno lo scopo di valorizzare le risorse in campo ambientale presenti nel territorio
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italiano e nei Paesi in Via di Sviluppo, ampliando la presenza delle imprese italiane all’estero, trasferendo tecnologie innovative, atte a contribuire alla riduzione della povertà. La cooperativa ha già prodotto significativi progetti, è sua la paternità di Mycor, progetto atto a incentivare l’agricoltura biologica nelle aree aride del Senegal, attraverso l’intervento delle Micorrizie. Si tratta di sfruttare un particolare tipo di associazione simbiotica tra un fungo ed una pianta superiore, in modo che la simbiosi possa essere in grado di migliorare la capacità delle piante di assimilare risorse dal terreno. La tecnica applicata nelle aree più aride, come in Africa, consente di potenziare la resa dei terreni senza per questo utilizzare fertilizzanti chimici. Il progetto attuato da TEA è stato sperimentato in Senegal in collaborazione con le OnG RE.TE., APECS (Sénégal) e la società CCS AOSTA S.r.l. ed è stato coofinanziato dalla Regione Piemonte. E proprio per Mycor TEA ha ricevuto la menzione speciale al Premio Impresa Ambiente 2005, come miglior progetto di cooperazione internazionale per lo sviluppo sostenibile. Il progetto Mycor si fonda sul principio di trasferire tecniche dell’agricoltura biologica-integrata, al fine di migliorare la produzione delle colture agrarie. Il principale protagonista dell’iniziativa è il Micorrizie, che sviluppa l’apparato radicale dei vegetali, migliorando di conseguenza la fertilità dei suoli e riducendone l’e-
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rodibilità. Il metodo dunque costituisce una valida alternativa ai concimi chimici e può essere utilizzato nell’agricoltura biologica-integrata. Il suo utilizzo può contribuire significativamente al miglioramento della sicurezza alimentare ed allo sviluppo sostenibile, perché oltre ad aumentare la resa delle colture, determina una riduzione dei fertilizzanti chimici e l’attenuazione dell’ impatto del settore agricolo sull’ambiente. In una prima fase di sperimentazione il metodo era stato impiantato nella Regione di Louga in Senegal, ma negli anni i progetti ovviamente non si sono fermati qui. Ne parliamo con Mario Lovaglio Amministratore di TEA. Come sta proseguendo il progetto Mycor? «Mycor era stato pensato come l’ inizio di un progetto molto più articolato e complesso, in un quadro di cooperazione internazionale. La Regione Piemonte ci aveva aperto la possibilità di proporre il trasferimento di prodotti di biotecnologia nei Paesi in Via di Sviluppo. Ciò che abbiamo via via sperimentato ci ha dimostrato che per l’utilizzo del Micorrizie occorre migliorare aspetti inerenti problemi di stress idrico e ciò impegnerà ancora per un certo tempo la ricerca verso soluzioni sempre più adatte ad ottimizzare la pratica».
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Avete altri progetti per i Paesi in Via di Sviluppo? «Grazie alla sperimentazione siamo andati avanti e oggi TEA sta entrando in un progetto di cooperazione intergovernativa e universitaria tra Mozambico e Italia. I soggetti attori di questa nuova avventura sono la maggiore azienda UEM del Mozambico e la facoltà di Biologia vegetale dell’Università di Torino. Si vuole verificare l’applicazione del Micorrizie sulle coltivazioni di cotone, che rappresenta una delle materie prime più commercializzata dalle grandi lobby internazionali, e costituisce il terzo commodoty del mondo». In che cosa consiste il nuovo progetto? «La tradizione del cotone è stata sempre nella mani di grandi monopoli capitalistici. La nostra idea è di attivare la coltivazione di filiere di cotone a basso impatto ambientale, utilizzando appunto il Micorrizie. Sarà questa una sperimentazione che effettueremo in Mozambico e se individueremo dei prodotti di Miccorizie adatti ad essere utilizzati per il cotone, potremmo dire di aver trovato una importante soluzione per non fare impoverire i terreni ed avere impatti ambientali minori degli attuali. Stiamo avviando inoltre possibili sinergie anche con COSPE la maggiore ONG italiana, che si avvale della collaborazione di agronomi e tropicalisti, con loro si sta procedendo ad un accordo per una collaborazione su questi temi, in particolare per sperimentare la coltivazione della gomma arabica in Niger dove proprio una cooperativa italiana, PIK, aveva impiantato qui molti alberi».
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Nella pagina accanto e in alto: Louga in Senegal dove è stata allestita la sperimentazione agricola con il Micorrizie.
Per saperne di più TEA Territorio Energia Ambiente Società Cooperativa. www.teasc.eu Sede legale e operativa: Environment Park Via Livorno, 60 - 10144 Torino Tel/Fax - 011/2257252/1 E-mail: info@teasc.eu
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MONDO COOPERATIVO
Spazio redazionale di AEG SocietĂ Cooperativa
VIAGGIO NEL CUORE DELLA TORINO MULTIETNICA
Cooperazione, immigrazione e turismo sostenibile. Ecco la scommessa vincente della cooperativa torinese Viaggi Solidali, che propone percorsi multietnici nel cuore delle metropoli europee.
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GUIDE MIGRANTI IL GIRO DEL MONDO IN UN SOLO GIORNO
Nella pagina accanto: Il mercato ortofrutticolo di Porta Palazzo a Torino.
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un progetto nato a Torino e lo ha ideato la cooperativa Viaggi solidali, si chiama Guide Migranti e offre viaggi a km 0 … nei quartieri multietnici di cinque città italiane: Torino, Milano, Genova, Roma e Firenze. Il viaggio è accompagnato da mediatori culturali, che conducono il “turista” nei luoghi più caratteristici della propria comunità natia: negozi, ristoranti, scuole, chiese e luoghi di preghiera. Il progetto ha la finalità di favorire forme di turismo responsabile, responsabilizzando e rendendo protagonisti gli immigrati, che investono sulla loro capacità di fare da ponte tra culture diverse e territori. I mediatori culturali, rumeni, magrebini, peruviani, africani, cinesi ecc, affiancano le tradizionali guide professioniste della città, con il compito di introdurre i viaggiatori alla scoperta della propria cultura e tradizioni. A Torino, dove da anni opera la cooperativa Viaggi solidali, le guide migranti accompagnano i visitatori nel cuore dei due quartieri multietnici di Porta Palazzo e San Salvario, aree che solo sino a dieci anni fa erano considerate dai torinesi pericolose. Oggi invece sono diventati luoghi caratteristici nei quali il volto di Torino come metropoli europea si è definito in un variegato dipinto di colori, lingue, usi e tradizioni. A Porta Palazzo, quartiere che sorge intorno al mercato più antico della città, si parlano oltre sessanta lingue, e San Salvario è un reticolo di strade dove si affacciano negozi e attività che dimostrano come l’intercultura possa essere una grande occasione di conoscenza “sostenibile”. La cooperativa ha deciso di estendere l’ iniziativa anche ad altre città italiane: Milano, Genova, Roma e Firenze, dove sono stati realizzati studi di fattibilità che porteranno all’avvio di pacchetti turistici, inseriti nella rete delle “Città Migrande”, e sta lavorando per costruire una rete europea di Città Migrande uniteda, un unico MygranTour, che permetterà a cittadini italiani ed europei di vecchia e nuova generazione, turisti, curiosi, studenti e scolari di scoprire con le parole dei migranti i tanti piccoli e grandi segreti che spesso nemmeno i residenti “doc” delle diverse città europee conoscono.
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Viaggio nella Torino Migranda Se Torino fosse una delle città invisibili di Calvino, potrebbe chiamarsi Migranda. Oggi Torino ha un cuore multietnico che pulsa nel corpo austero ed antico delle sue barocche architetture. E per ogni torinese, più o meno doc, conoscere l’altro, che abita accanto alla propria casa e frequenta le vie e i luoghi storici della città, è fondamentale per imparare a vivere insieme, arricchendo la propria esperienza e cultura di nuovi stimoli e occasioni di crescita. Ecco dunque le tappe di un tipico viaggio migrante proposto dalla Cooperativa Viaggi Solidali, nel cuore più antico di Torino: Porta Palazzo. Porta Palazzo come una volta La prima tappa del viaggio fa sosta a Porta Pila dove una volta si parlava solo piemontese, o ci s’incontrava nell’elegante Galleria Umberto I. È questo il punto di partenza di una passeggiata nella Torino di fine ottocento. La Galleria collega il mercato all’esedra juvarriana, la parte più antica e prestigiosa di piazza della Repubblica, rappresenta la memoria della Torino ottocentesca dove sono custodite ancora le antiche ghiacciaie nascoste all’interno del moderno PalaFuksas. Sempre qui si può ammirare il monumento a
MONDO COOPERATIVO
Francesco Cirio, il “Re di Porta Palazzo”. Per ascoltare ancora l’autentico dialetto piemontese basta passeggiare sotto la tettoia dei contadini, il mercato dove come cent’anni fa i coltivatori diretti della provincia vendono i prodotti tipici del territorio, per una spesa biologica a “chilometri zero”. L’atmosfera della belle époque torinese si respira nelle storiche drogherie e bottiglierie che ormai da quattro generazioni aprono le loro porte sulle piazza, così come nelle antiche trattorie piemontesi dell’area del Balôn, il pittoresco mercato delle pulci di Borgo Dora. Pesce e sapore di mare Nel padiglione ottocentesco del mercato ittico si respira invece l’aria di un porto del meridione d’Italia. Grida di pescivendoli che offrono prodotti ittici tra marmi, mosaici di fondali marittimi, grandi dipinti di barche e reti colme di pesci colorati. Poco più in là si apre il grande mercato ortofrutticolo dove si spandono profumi e colori delle mille varietà di frutta e verdura, che richiamano le atmosfere esotiche di un mercato africano o latinoamericano, qui si possono trovare frutti e prelibatezze dell’Africa subsahariana o delle Ande, tra manioca, platano verde, yucca, mais morado e camote.
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GUIDE MIGRANTI
La kasba Tra piazza della Repubblica e corso Giulio Cesare si estende la kasba torinese, un angolo di nord Africa dove si può respirare l’affascinante atmosfera delle città mediterranee. Le macellerie islamiche concentrate nel primo tratto di corso Giulio Cesare propongono carne halal, macellata secondo la tradizione religiosa, datteri freschi, spezie e couscous. Il vicino negozio di tessuti orientali, così come la bottega di artigianato marocchino in via Borgo Dora e la pasticceria maghrebina di piazza della Repubblica, con la sua golosa varietà di pasticcini al cocco, alle mandorle, al miele e al fiore d’arancio, potrebbero tranquillamente trovarsi in un bazar mediorientale, così come i numerosi venditori di menta che si incontrano in ogni angolo di piazza della Repubblica. Chi desidera vivere appieno le sensazioni di un viaggio nel mondo arabo, può visitare il Centro culturale italo-arabo Dar Al Hikma di via Fiochetto, dove è possibile anche provare l’esperienza dell’hammam.
Nella pagina accanto : Piazza della Repubblica dove si svolge il mercato. In alto: Area del mercato dove i contadini vendono i propri prodotti a Km 0.
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Porta Palazzo Orient-Express Il viaggio nella Torino multietnica prosegue metaforicamente verso Oriente. Prima tappa la Romania, che abita nel cuore di piazza della Repubblica sotto l’Antica tettoia dell’Orologio, padiglione dal gusto liberty del 1916 che nell’aspetto ricorda in effetti un’antica stazione. Al suo interno numerose macellerie romene propongono salumi e formaggi tipici dell’est europeo. In via Cottolengo 26 merita invece una visita la chiesa ortodossa romena di Santa Parascheva, con la sua atmosfera raccolta e le bellissime icone. E il tour prosegue sino all’estremo Oriente che, annunciato da decine di lanterne rosse, raggiunge i minimarket cinesi all’angolo tra piazza della Repubblica e corso Regina Margherita tra mille varietà di salse di soia e spaghetti cinesi. Basta attraversare il corso e dirigersi verso il centro città per ritrovarsi nelle austere architetture barocche della Torino risorgimentale, ma questo è un altro viaggio e racconta un’altra storia...
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Per saperne di più www.viaggisolidali.it www.cittamigrande.it P.zza della Repubblica, 14 Torino E-mail: info@viaggisolidali.it 011 4379468
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Spazio redazionale di AEG Società Cooperativa
L’impegno di AEG Società Cooperativa da sempre in prima linea nei progetti a sostegno del territorio e delle comunità locali.
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Il primo impegno della Fondazione di Comunità è stato erogare diecimila euro a Borsa amica. Si tratta di un progetto trasversale che coinvolge il Consorzio In rete, la Caritas diocesana, le cooperative sociali, organizzazioni di volantariato, il Banco delle Opere di Carità, il Consorzio Copernico, la Società Canavesana Servizi e gli operatori della Grande Distribuzione. Distribuisce settimanalmente borse con generi alimentari a 350 famiglie del Canavese.
FO FONDAZIONE D DI COMUNITÀ IL NUOVO PROGETTO SO SOSTENUTO DALLA CO COOPERATIVA AEG
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e Fondazioni di Comunità sono un’esperienza consolidata in molti Paesi, non solo europei, e si stanno diffondendo anche in Italia complici la crisi economica e il progressivo deterioramento del Welfare. Raccolgono la tradizione delle Società di Mutuo Soccorso che in Canavese sono state molte diffuse a partire dagli inizi del Novecento, a testimonianza della cultura improntata sui valori della solidarietà, e del reciproco aiuto, che hanno sempre contraddistinto questa “regione” del Piemonte. In questo contesto ideale ed etico si inserisce anche la nuova iniziativa della Fondazione di Comunità, promossa dal Comune di Ivrea, Cooperativa AEG, Confindustria Canavese e Compagnia San Paolo di Torino, con il contributo di moltissime realtà associative e di cooperazione sociale del territorio. I fini della Fondazione sono indirizzati a promuovere la solidarietà in una terra come il Canavese che è identificata non solo come area geografica, ma soprattutto come “comunità di persone”. La Fondazione ha l’obiettivo di contribuire a ridurre la povertà, malessere e disagi economici e sociali, e nel suo Statuto prevede quale realtà di riferimento l’Assemblea dei cittadini sostenitori, che possono aderire alla Fondazione versando un contributo annuale di soli E. 30. AEG, Società Cooperativa di Ivrea, è impegnata in prima persona nella costituzione della Fondazione, forte della sua cultura ispirata ai valori sociali e solidaristici dell’etica cooperativa. Ne parliamo con le Consigliere Simona Di Bernardo e Manuela Semenzin, impegnate nel C.d.A. di AEG.
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Simona in che cosa consisterà l’operato della Fondazione? «La Fondazione si occuperà di sostenere progetti di welfare locale, poiché si rivolge alla comunità territoriale questa attività rientra negli scopi statutari di AEG, in quanto risponde ai bisogni di sostegno da fornire ai nostri Soci. La Fondazione ha infatti già erogato 10.000 euro a Borsa Amica, progetto che consiste nel fornire settimanalmente borse della spesa a persone bisognose. Attualmente beneficiano di Borsa Amica oltre 350 famiglie, che ricevono settimanalmente un pacco alimentare. È un’iniziativa sostenuta dal Consorzio InReTe, dalla Caritas, dal Banco Alimentare e anche da supermercati che devolvono a questo progetto il non venduto, vi partecipano ovviamente molte cooperative sociali. Le richieste di sostegno alimentare da parte delle famiglie sono in crescita e il fenomeno dei nuovi poveri sta crescendo in maniera drammatica. Questo progetto attua un’importante sinergia tra istituzioni pubbliche e mondo della solidarietà, cattolico e non solo, come la Caritas, le cooperative sociali ed organizzazioni come il Banco delle Opere di Carità, oltre a imprese come il Consorzio Copernico, la Società Canavesana Servizi e gli operatori della Grande Distribuzione. È un esempio di collaborazione tra diverse organizzazioni che costituisce una modalità di lavoro che la Fondazione intende sostenere in tutti i campi di intervento e evidenzia quel valore di “fare comunità” a cui si richiama eticamente».
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Ma Borsa Amica non è il solo progetto in cantiere, il secondo progetto della Fondazione, Dopo di noi, è rivolto alla disabilità. Manuela tu hai esperienza nella cooperazione sociale, perchè un progetto di questo tipo? «Dopo di noi è un progetto importantissimo. Si tratta di lavorare con alcune associazioni di famiglie che hanno congiunti disabili per progettare e sostenere la gestione di strutture e servizi atti a supportare le famiglie nella difficile assistenza verso le persone con vari handicap. L’iniziativa è finalizzata a consentire continuità di assistenza anche quando la famiglia non riesce più a farsi carico del suo congiunto. Infatti quando ciò accade il passaggio ad altre forme di assistenza in strutture per il disabile può essere vissuto in modo sereno e senza traumi. In definitiva il progetto intende fornire appoggio per garantire assistenza ai disabili anche quando i loro familiari non ci saranno più». In pratica che iniziative prevede? «Si tratta di progetti mirati a un graduale distacco del disabile dal contesto familiare in modo che qualora venga meno la possibilità di restare in famiglia, la persona possa vivere il trasferimento in una struttura in modo non traumatico. Per costruire questa condizione occorre un percorso di affiancamento all’assistenza dei disabili da parte di operatori e il suo coinvolgimento in iniziative anche al di fuori del contesto familiare».
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Nella pagina a fianco e a lato: Manuela Semenzin nella foto a sinistra e Simona Di Bernardo, foto a destra, Consigliere di AEG Società Cooperativa.
È un progetto che coinvolge ovviamente una sfera delicata del vissuto delle famiglie... « Si, ma è un progetto necessario, che presenta aspetti di realizzazione da predisporre con molta attenzione e sensibilità. Il processo di rendere meno dipendente dalla famiglia il disabile va attuato gradatamente, non solo per lui ma anche per i familiari, che vivono con molta difficoltà il distacco: per un verso devono accettare di affidare il loro congiunto ad altri, per l’altro verso devono anche riabituarsi all’idea di potersi dedicare a se stessi. Ci sono dinamiche molto complesse in gioco in queste relazioni di assistenza e cura verso un familiare disabile». In che senso? «Decidere di lasciare che tuo figlio, marito o moglie, possa essere assistito da altri, può essere vissuto con sensi di colpa, paura del giudizio, anche con forme di autogiudizio, invece inserire nella cura e assistenza al disabile anche altre figure è un processo sano. Bisogna anche pensare a creare per il disabile condizioni di serenità per quando non si potrà più essere presenti. Io ho visto persone vivere con profondo disorientamento il fatto che all’improvviso devono essere trasferite in strutture perché viene a mancare la mamma o il parente che si occupava di lui. Fornendo un “accompagnamento graduale al distacco” si offre al disabile la possibilità di misurarsi con contesti diversi da quello familiare. C’è da dire che anche la famiglia impara a misurarsi, anche i familiari devono imparare ad avere fiducia verso gli operatori che lo assisteranno. Proprio per accompagnare questo percorso si sono creati negli anni gruppo di auto mutuo aiuto ed ora con l’aiuto della Fondazione sarà possibile dare corpo a progetti che sosterranno con efficacia queste situazioni, le quali sono molto più estese di quanto si pensi. Il progetto è coordinato con cooperative sociali, le associazioni GR.A.M.A e Angeli distratti, che
stanno lavorando per presentare un piano articolato, di cui la Fondazione sosterrà parte dei costi. Sono progetti che prevedono l’organizzazione di iniziative per i weekend o di ospitalità in strutture per poter misurare i livelli di autonomia dei singolo. Sino ad oggi queste esperienze sono state sostenute dal Consorzio InRete». Perché la Fondazione ha scelto di partire proprio con questi due progetti? «Perché si sono evidenziati come bisogni urgenti del territorio. Il Consorzio InRete aveva già mappato i bisogni del territorio, e ha via via evidenziato che le risorse offerte si stanno riducendo per i tagli di spesa, ma se si riducono le risorse si riducono anche le risposte! Non sono gli unici due progetti in cantiere, ma in questo momento la Fondazione sta sostenendo progetti utili che non sono più realizzabili con le risorse sino ad oggi messe a disposizione». E per quanto concerne l’impegno di AEG verso questa iniziativa… «Fa parte degli intenti del Consiglio di amministrazione consolidare i rapporti di collegamento e sostegno con la comunità locale e il territorio. AEG ritiene che la Fondazione di Comunità sia un progetto importante perché potrà fornire forme di solidarietà e sostegno sociale indispensabili in questo periodo di crisi, di cui potranno beneficiare anche i suoi Soci».
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CINEMA D’AUTORE
THE REPAIRMAN Testi di Gloria Berloso
Ambientato nelle Langhe e realizzato con pochi mezzi, The Repairman ha subito conquistato i favori del grande pubblico di Londra e Torino. Gloria Berloso ha intervistato il regista Paolo Mitton e gli autori della colonna sonora: Alan Brunetta e Ricky Mantoan.
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The Repairman, è stato nominato come miglior opera prima al festival londinese Raindance ed è entrato nel cartellone della 31 edizione del Torino Film Festival.
I FILM IL D DI PAOLO MITTON N NARRA UNA STORIA Q QUOTIDIANA D DI UN GIOVANE C COME TANTI
Ne pagina accanto: Nella Momenti delle riprese del film. M In alto: Il regista Paolo Mitton.
«Scanio Libertetti, ingegnere mancato che si guadagna da vivere riparando macchine da caffè, segue un corso di recupero punti in un’autoscuola di provincia. Tra amici ormai realizzati che non perdono occasione per criticarlo, lo squillo insistente di un vecchio telefono e lo zio panettiere che lo incoraggia a valorizzare le sue doti, Scanio si muove in equilibrio precario fra le contraddizioni del mondo moderno. Solo Helena, giovane inglese trasferitasi in Italia per lavorare come esperta di risorse umane, sembra in grado di capirlo e rassicurarlo. Ma … ». Una commedia moderna di un regista italiano che vive a Londra e che si rifà alle leggende nordiche e che ha capito bene Pirandello. Un’atmosfera tra il comico e il drammatico, semplicemente perché la vita è così, che ti riporta, per chi conosce e ha visto i vecchi film da bambino, nella raffigurazione di Scanio (uomo che si rifugia nella fantasia per paura della vita come risulta chiaro dallo struggente dialogo con l’insegnante di scuola guida e la sociologa inglese Helena) con Elwood, simbolo della sua umanità. Scanio (Daniele Savoca) non può paragonarsi a Elwood (James Stewart), ma nei suoi occhi si legge benissimo la disperazione di chi è incompreso dagli altri e quasi convince lo spettatore che la scelta di rifugiarsi nella fantasia sia ottima. La scena gioca e diverte con espedienti normali e conformi alla realtà: il rapporto con la padrona di casa, il colloquio di lavoro, la spesa al supermercato di provincia, la casa di Helena vuota di bellezza ma colma di speranze. È proprio Scanio che pone degli interrogativi, rinchiuso nelle sue motivazioni personali e nelle problematiche della società in cui vive. Intelligentemente è forse qui il punto cruciale del film che trasmette divertimento e allegria, ma anche incertezza e dubbio, perché sublima la figura del “fool” in una diatriba sul diritto alla felicità e all’anticonformismo. L’opera prima The Repairman di Paolo Mitton è fresca e diversa da tutti i film italiani. Il regista non è arri-
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vato t per caso alla ll cinematografi i t fia ma d dopo una llunga esperienza su strade diverse e una gavetta straordinaria: ha lavorato a film come Charlie e la fabbrica di cioccolato, Alien vs. Predator o Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, Bludimary (cm, 2001), Vita da pendolare (cm, 2005), Mezze note (cm, 2005). La scelta dell’ambientazione, tra le Langhe e la provincia piemontese, ha regalato una fotografia unica al nuovo cinema italiano perché non è scontata, le case sono realmente così. Gli attori, quasi tutti piemontesi ad eccezione di Helena (Hannah Croft), inglese anche nella realtà, hanno fatto capire che il fascino del cinema si rivela nella naturalezza delle espressioni e del vivere quotidiano senza tanti pizzi e merletti, linguaggio accattivante e abiti d’alta moda. Tutto è tremendamente normale in questo lungometraggio, anche il finale! La scelta della musica per la colonna sonora è caduta su due compositori piemontesi: Alan Brunetta e Ricky Mantoan. Gli strumenti usati e inusuali per il cinema d’ambientazione italiana sono la marimba, il dobro e la pedal steel guitar, oltre la chitarra e il basso, naturalmente.
CINEMA D’AUTORE
Gli attori: Daniele Savoca (Scanio), l’attore prediletto di Louis Nero; Hannah Croft (Helena), attrice inglese; Paolo Giangrasso (Fabrizio), Fabio Marchisio (Gianni), Irene Ivaldi (Zoe), Elena Griseri (l’insegnante), Alessandro Federico (Pitu), Anna Bonasso (La padrona di casa), Barbara Mazzi (Katia), Francesca Porrini (Carmen), Beppe Rosso (Lo zio), Marco Bifulco (Ninetto), Lorenzo Bartoli (l’idraulico). Gli autori: Paolo Mitton e Francesco Scarrone. The Repairman è una produzione Aidia Production e Seven Still Pictures, è vero. In collaborazione con Acting Out Creative Studio e Fip - Film Investimenti Piemonte, e con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte, altrettanto vero. Ma il film lo hanno costruito, con i loro gesti e la loro passione, molte persone, artigiani di un mestiere bellissimo che si chiama cinema.
THE REPAIRMAN
F FARE CINEMA IN ITALIA N NE PARLIAMO C CON IL REGISTA P PAOLO MITTON
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are film in Italia è difficile? Se non sei un regista affermato o particolarmente amico di qualcuno?
«Difficile, é difficile, ma é giusto che sia così. Se non ci fosse da soffrire per produrre un film, verrebbe girato qualsiasi progetto, senza la cura necessaria, senza una naturale selezione che porta solo le persone veramente motivate sul set. E poi immagino sia difficile per chiunque, anche per i registi affermati, e che non sia un problema solo italiano. Spesso si usa l’Italia come emblema delle difficoltà del mondo del lavoro, ma non é che all’estero siano tutte rose e fiori. C’é una tale competizione in tutti i settori, in Inghilterra poi la competizione é globale, c’é gente di tutto il mondo che va a Londra per crearsi un futuro. In campo artistico per certi aspetti é ancora più difficile che in Italia». Puoi dirmi qualcosa del tuo lavoro sul set? «Per un film come il nostro, così indipendente, girato con un budget più basso di quelli che si usano di solito ma cercando di non sacrificare la qualità, la chiave del set è stata scegliere le persone giuste, che hanno remato tutte nella stessa direzione per amore del progetto e il piacere di lavorare in gruppo. Abbiamo preparato molti dettagli prima di girare proprio perché il tempo sul set sarebbe stato ridotto. Poi é chiaro che ci sono state molte cose da improvvisare ma sono anche quelle che rendono divertente questo lavoro».
Nella pagina accanto: momenti delle riprese del film. In alto: il regista Paolo Mitton.
Avevi già in mente Daniele Savoca come protagonista mentre scrivevi la sceneggiatura insieme a Scarrone? E come sei giunto alla scelta di “Scanio”? «Si e no. Abbiamo scritto una prima versione senza aver visualizzato il personaggio. Poi per caso ho visto un video di Daniele su Youtube, una sorta di autointervista in cui parlava come Scanio, il nostro protagonista. E con Scarrone ci siamo detti: “è lui!”. L’abbiamo contattato, è rimasto entusiasta e da lì in poi la sceneggiatura è cambiata ancora molto. Avere in mente l’attore ha sicuramente aiutato, sopratutto un attore come Daniele che entrando nel personaggio ci aiutava a capire come si sarebbe comportato in determinate situazioni».
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Sempre a proposito di attori, come è stato trovarsi sul set con attori come Hannah Croft, nella vita tua moglie? «Sul set ci siamo comportati come se tra di noi non ci fosse nulla. Ma senza imporcelo, credo sia normale essere tutti sullo stesso piano quando sei in un gruppo di lavoro. Poi è chiaro che fuori dal set è diverso, ed è stato un grande vantaggio poter avere l’appoggio di Hannah. E inoltre ha aiutato molto il fatto di avere maturato un lavoro comune durante gli anni, e poter essere sicuri che sul set ci sarebbe stato poco da suggerire». Quanto intervieni sul lavoro del direttore della fotografia? «Nulla. Non me ne intendo di luci e David Rom é un fenomeno. Abbiamo parlato tanto prima, si é creata una vera collaborazione. Abbiamo discusso del tipo di film, del sentimento. Quando ho visto che l’aveva centrato, gli ho lasciato carta bianca per farlo venire fuori nelle immagini. Così come con gli attori e con altri capi di dipartimento, é stato molto facile lavorare insieme perché quando vedi che tutti stanno facendo lo stesso film, la tua responsabilità come regista tende anche a diminuire». Come sei arrivato alla scelta di Alan Brunetta e Ricky Mantoan per la musica del film? «A film montato, ho iniziato a pensare alle musiche. Mi sono concentrato sul tipo di sonorità più che sul tipo di melodia, di ritmo, di atmosfere. Mi interessava il timbro degli strumenti, che si impastasse bene con le immagini, con la fotografia. E ho provato ad ascoltare
CULTURA E CINEMA
pezzi fatti con i più svariati strumenti, sovrapponendoli al film. Sono giunto alla scelta di due strumenti particolari, la marimba e la pedal steel guitar. Nel nostro giro di conoscenze c’era un bravo compositore e suonatore (correggi se mi esprimo male) di marimba, Alan Brunetta. Gli ho fatto vedere il film e gli ho detto: componimi un pezzo di prova, poi vediamo. Ha azzeccato al primo tentativo, mi sono innamorato del tema e da lì non ci siamo più mossi. Abbiamo cercato di capire dove ci fosse la necessità di accompagnarla con la pedal steel e ci siamo detti: “eh ma qui ci vuole uno bravo!”. E guarda caso in Piemonte, a un’ora di macchina dallo studio di Alan, vive Ricky Mantoan, che ha una storia pazzesca, ha suonato con i Byrds e i Flying Burrito Brothers. Come pensare che fosse solo una coincidenza? Ci siamo incontrati a casa sua, con lo strumento di fronte, e come spesso é accaduto durante questo film, mi sono accorto che avevo davanti una persona che aveva capito al volo cosa fare». The Repairman è stato presentato a Londra e fuori concorso al Film Festival di Torino, ci sarà una presentazione ufficiale a livello internazionale del film e come sarà distribuito? «Stiamo lavorando per fare una presentazione in qualche festival al di fuori dei due paesi d’origine del film, che sono l’Italia e il Regno Unito. Vedremo. Sicuramente la distribuzione partirà dall’Italia, ne stiamo discutendo con i distributori e credo che in primavera il film arriverà nelle sale».
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Grazie Paolo !
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DALLA CANZONE ITALIANA ALLA MUSICA DA FILM INTERVISTA AD ALAN BRUNETTA
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crivere musica è, in genere, un’attività solitaria ma alle volte può essere necessario un team di supporto. C’è qualcuno che ti aiuta o ispira? È troppo retorico e accondiscendente definirti un «grande musicista»? «Spesso scrivo musica nel mio studio, nei momenti in cui sono isolato da tutto e tutti, registrandomi da solo le idee; talvolta l’ispirazione arriva quando meno te lo aspetti e soprattutto in luoghi in cui diviene impossibile provare l’idea musicale su uno strumento. Sostengo che la propria musica diventi ancora più completa se suonata da musicisti con cui condividi tutti i giorni l’amicizia, il palcoscenico e le emozioni. Nel mio caso sono Lastanzadigreta (Leonardo Laviano, Jacopo Tomatis, Flavio Rubatto, Umberto Poli) e Euthymia (Dario Mecca Aleina, Angelo Ieva). Siamo un team veramente unico che oltre alla questione lavorativa condivide l’amore per la musica. Non posso e non potrò mai definirmi un “grande musicista” ma posso dire che il mio intento negli anni è stato quello di trasformare una passione in un lavoro che mi permetta di esprimere le mie emozioni e i miei stati d’animo».
Da quando hai iniziato a comporre musica per film? «Ho iniziato qualche anno fa sonorizzando alcuni corti di inizio 900 come divertimento senza pubblicare nulla; partecipai con gli euthymia ad un concorso specifico su questo tema, sonorizzando il corto di Alice in wonderland (UK 1903 di Cecil M. Hepworth); io scrissi la musica e Dario Mecca Aleina mi aiutò negli arrangiamenti. Non molto tempo dopo iniziai a lavorare alla colonna sonora del film The Repairman di Paolo Mitton. Il film attualmente sta avendo riscontri positivi: è stato nominato come miglior opera prima al festival londinese Raindance ed è entrato nel cartellone della 31 edizione del Torino Film Festival facendo SOLD OUT ad entrambe le proiezioni». Ne pagina accanto: Nella Paolo Mitton dietro la macchina da presa sul set di The Pa Rapairman. Ra In alto: il musicista m Alan Brunetta.
Durante la tua carriera ti sei cimentato in vari generi musicali? Quali sono state le principali collaborazioni che hanno determinato soddisfazioni? «Durante la mia breve carriera ho avuto la fortuna di lavorare in diversissime realtà musicali e teatrali: attualmente la principale attività live sono Lastanza-
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digreta gruppo in cui la canzone italiana viene sviluppata sulla ricerca sonora utilizzando strumenti come mandolino elettrico, marimba, didjeridoo, djembè, chitarra classica e elettrica; collaboro con il gruppo indie rock torinese Supershock divenuto importante per la sonorizzazione rock di film espressionisti tedeschi (Nosferatu di Murnau, Der Golem di Wegener e Metropolis di Lang); assieme a loro ho avuto modo di collaborare con realtà teatrali torinesi importanti come Tangram Teatro, Assemblea Teatro, Fondazione TPE e con il TNG di Lyon collaborando con il grande Nino D’Introna; sono compositore e batterista del gruppo progressive rock torinese Euthymia, gruppo prodotto da Beppe Crovella per Electromantic Music; la finalità degli Euthymia è quello di dare libero sfogo alla composizione mescolando sonorità vintage alla letteratura e al teatro realizzando suite strumentali e opere rock. Negli anni mi è capitato di collaborare con importanti ensemble di musica contemporanea e orchestre suonando in grandi festival come MITO, ecc...». Da quando hai iniziato a scrivere musica come sono cambiati il mondo della musica e il suo pubblico? «Da quando ho iniziato a scrivere musica ho notato un cambiamento, soprattutto negli ultimi anni, nel pubblico; secondo me, lentamente, sta tornando la voglia nelle persone di ricercare sonorità nuove, di scoprire gruppi nuovi e soprattutto scoprire musica che susciti nelle persone nuove emozioni». Andiamo ai tuoi esordi. Quale è stata la prima composizione per cui hai ricevuto un compenso? «È stato un paio di anni fa quando scrissi ed eseguii le musiche per uno spettacolo teatrale dal titolo Leggenda Rock prodotto dalla compagnia di Aosta Nuovababette Teatro e portato in tournèe nelle principali città valdostane.Lo spettacolo e quindi le musiche si ispiravano ad un racconto di Flaubert La Légende de Saint Julien l’Hospitalier tratto da i Trois Contes. Le sonorità sono molto scure, come il racconto, e si ispirano al progressive rock degli anni ‘70; gli strumenti utilizzato sono Mini Moog, Hammond, pianoforte e percussioni.Negli ultimi mesi, assieme a Dario Mecca Aleina, l’abbiamo trasformata in una suite strumentale divisa in tre tempi per trio rock (tastiere, basso e batteria) affiancato da un’orchestra di fiati.Sarà incisa
CINEMA D’AUTORE
e pubblicata nel 2014». Cosa pensi del primo lavoro da regista di Paolo Mitton, The Repairman. Hai ancora voglia di comporre musica e colonne sonore per il nuovo cinema italiano? «Trovo che The Repairman sia una boccata d’aria fresca nel mondo della commedia italiana: mi piacque fin da subito il personaggio, Scanio, su cui costruii il tema principale della colonna sonora che nacque quasi istintivamente al termine della prima visione; mi piacquero le ambientazioni provinciali e soprattutto la semplicità e il realismo della storia.Trovai emozionante poter lavorare sulle musiche, capire quale atmosfera dare alle immagini e trovare la giusta direzione compositiva. Alla fine uscirono due soli temi che variano nel corso del film sottolineando gli stati d’animo dei protagonisti, Scanio e Helena. Questo lavoro mi ha aperto la strada verso il futuro che vorrei intraprendere: compositore ed esecutore di musica e colonne sonore». Quanta stima nutri per Ricky Mantoan? Insieme avete collaborato per la colonna sonora di The Repaiman! «Nutro una fortissima stima e ammirazione per Ricky: l’ho conosciuto durante la lavorazione della colonna sonora di The Repairman e fin da subito mi sono trovato benissimo con lui oltre che a livello umano anche a livello musicale. I primi provini insieme, che conservo ancora, sono delle improvvisazioni sul tema principale utilizzando marimba e pedal steel guitar e fin da subito siamo riusciti ad improvvisare insieme senza aver bisogno di guardarci. Ci siamo resi conto che l’unione dei due strumenti è veramente particolare e il suono che ne esce è perfetto per alcune scene del film. Trovo stupendi anche i brani della colonna sonora scritti interamente da Ricky sia per il sound sia perché suonati egregiamente con un forte livello espressivo che si lega con le immagini del film. È veramente un musicista incredibile e cosa ancora più importante molto umile nonostante il fatto sia il primo chitarrista Pedal Steel in Italia e che abbia suonato con i Byrds. Non vedo l’ora di poter lavorare ancora con lui».
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Grazie Alan !
THE REPAIRMAN
P ME LA MUSICA È PER C COME UN PAESAGGIO D DA COLORARE IINTERVISTA A RICKY MANTOAN
In alto: il musicista Ricky Mantoan.
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crivere musica è, in genere, un’attività solitaria ma alle volte può essere necessario un team di supporto. C’è qualcuno che ti aiuta o ispira? È troppo retorico e accondiscendente definirti un «grande musicista»? «Scrivere musica, per come la vedo io, dovrebbe essere una cosa semplice e istintiva che dovrebbe nascere da un impulso interiore che preme per esprimersi. La mia musica nasce quando un “click” interiore scatta e il cervello diventa come una caldaia dove, senza apparente logica, una melodia comincia a formarsi e girare vorticosamente, dapprima in modo confuso, poi in un modo sempre più definito. Alla fine ho l’impressione di ascoltare il brano finito e già registrato con tutti i principali arrangiamenti. Considero questo una fortuna perché a me basta poi “copiare” quel che ho in testa e il brano è pronto e registrato… Per quanto riguarda la definizione di “grande musicista” mi viene da sorridere, infatti, se chiedete a dieci persone quale sia per loro il grande musicista, vi sentirete rispondere con dieci nomi diversi.Questa definizione, infatti, è soggettiva perché ognuno ama la musica che più lo rappresenta, che più interpreta il suo livello di sensibilità. Personalmente non mi considero per niente “grande”, penso solo di essere una persona che cerca di esprimere le proprie emozioni che spesso non riesce ad esprimere in altro modo. A volte mi capita di “voler” costruire un brano con un indirizzo mirato ma poi quel “click” misterioso (e implacabile) mi fa scrivere qualcosa che non immaginavo prima…Tutto questo avviene nella solitudine più assoluta, quando entro in contatto con il vero Ricky. Le etichette di grande o piccolo dovrebbero far parte del giudizio di chi ascolta e non di chi suona, io credo…». Da quando hai iniziato a comporre musica per film? «Ufficialmente ho iniziato l’anno scorso, quando il regista Paolo Mitton mi ha contattato per scrivere e suonare qualcosa per il suo film The Repairman. Ho accettato con entusiasmo perché l’ambientazione e tutto il film mi sono piaciuti “a pelle”. In realtà penso di aver inconsciamente scritto musica da film da sempre perché ho sempre immaginato la musica come a “quadri sonori”, ovvero brani che dovrebbero suggerire immagini di una storia e di un paesaggio da colorare. Personalmente non amo molto esibirmi in pubblico perché non amo molto stare sul palco e
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CULTURA E CINEMA
preferisco la musica “sentita” a quella “vista”. La mia timidezza mi fa sentire buffo e preferirei suonare con un paravento davanti che mi aiuti ad essere più spontaneo. La mia situazione ottimale è quella che mi vede nel mio studiolo, da solo con i miei strumenti con cui parlo e che suonando sembrano rispondermi…». Durante la tua carriera ti sei cimentato in vari generi musicali. Spesso ancora oggi, però, il tuo nome è associato alla collaborazione con musicisti americani e band di fama mondiale. Secondo te è un pregio o vorresti essere riconosciuto per l’intera opera da te creata? «Beh, in realtà nella vita non ho suonato troppi generi musicali perché, agendo sempre a istinto, ho sempre suonato ciò che al momento mi emozionava di più. Sai, essendo un accanito autodidatta e avendo imparato a suonare tutti i miei strumenti da solo, ho sempre dato solo retta a quel che sentivo dentro. Nella scelta dei generi ho suonato sempre cose che, al momento, erano controcorrente, minoritarie nel gradimento dei più, e questo continua anche oggi…Ho sempre amato il Folk americano e quello inglese. Poi, alla fine, negli anni Ottanta, il destino mi ha fatto incontrare i miei ispiratori californiani, ed è stato come un ritrovarsi in famiglia tra fratelli e cugini idealmente da sempre in contatto. Per me è stato certamente un vantaggio perché accanto a loro sono molto maturato, sia musicalmente che umanamente. È stato buffo constatare che qualcuno mi conoscesse all’estero mentre nel mio paese quasi nessuno sapeva che suonassi una chitarra e molti intuissero qualcosa solo perché porto i capelli lunghi. Certo che amerei avere qualche concreto attestato di stima in Italia, ma solo perché sarebbe giusto che un musicista potesse ottenere il suo sostentamento dalla musica ma, la realtà del nostro Paese è un’altra. Secondo un detto abusato si dice che i riconoscimenti spesso arrivino dopo la morte. Se così dovesse essere auguro ai miei eredi tanta fortuna…». Da quando, negli anni ’60, tu hai iniziato a scrivere musica, come sono cambiati il mondo della musica e il suo pubblico? «Dagli anni ’60 ad oggi sono cambiati i modi in cui si ascolta la musica; allora c’era il Juke Box e la sua magia, oggi i giovani ascoltano (anche svogliatamente) degli aggeggi con le sigle più strane, l’indispensabile è che siano dell’ultima generazione, ma questo non è
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dovuto solo ai giovani, da sempre insaziabili di novità, lo sono sempre stati, ma al sistema che li ha resi, giorno dopo giorno, consumatori passivi di prodotti di avidi personaggi che hanno deciso di decelebralizzare le nuove generazioni. Lo scopo finale, socialmente parlando, è quello di ottenere uomini docili ai voleri dei potenti di turno. In questo i giovani d’oggi si differenziano da quelli degli anni ’60. Allora il “nuovo” si respirava nell’aria… c’era voglia di sapere, in tutti i campi, voglia di impegnarsi di persona nella vita sociale, in quella politica, e la musica era la colonna sonora di questa speranza… Oggi, purtroppo, manca tanto la voglia ma non è colpa solo loro. Le super pappette ai lattanti, gli iPod e il “tunz tunz” elettronico arrivano da “sopra” le testoline dei ragazzi disorientati e inermi.Vedere le immagini di Che Guevara o di Ghandi nelle pubblicità o i grandi poeti e musicisti venduti nei supermercati con le patatine alla moda fa stringere il cuore…». Andiamo ai tuoi esordi. Quale è stata la prima composizione per cui hai ricevuto un compenso? «La mia prima composizione che abbia ricevuto un qualche compenso è stata Sad Country Lady, dal mio Album d’esordio Ricky, del 1980, che ha avuto qualche lira dalla SIAE per i diritti d’autore, mentre, per la vendita del 33 giri non ho mai avuto un soldo. Io comunque accettai la situazione perché ero felice di aver dato la mia musica ad altri che, forse, l’avrebbero apprezzata. Purtroppo questa triste consuetudine si è protratta negli anni ma questa è un’altra storia…Un mio grande rammarico è quello che, scrivendo io i brani in lingua inglese, molto spesso sia apprezzato in Italia solo per l’aspetto estetico dei brani e non per i contenuti, spesso autobiografici… Mi sembra che sia come mangiare la buccia di un buon frutto senza gustarne la totalità…».
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Cosa pensi del primo lavoro da regista di Paolo Mitton, The Repairman. Hai ancora voglia di comporre musica e colonne sonore per il nuovo cinema italiano? «Sono particolarmente fiero di aver avuto l’occasione di partecipare a questa “avventura” di The Repairman, del regista Paolo Mitton. Questo film mi ha conquistato subito; il ritmo delle scene, la loro pacatezza, mi hanno fatto sentire immerso in una atmosfera un poco surreale, d’altri tempi… Niente violenza gratuita, niente sesso esplicito e “ginecologico”, senza voler apparire un bacchettone o fustigatore di costumi (non è il caso). Se in futuro Paolo avesse ancora bisogno del mio contributo in qualche nuova colonna sonora sappia fin d’ora che sarà un onore per me lavorare con lui. Paolo ha grande talento e una visione originale della cinematografia per cui vedo un bel futuro per lui come per quello di Hannah e Daniele come attori…». Quanta stima nutri per Alan Brunetta, giovane compositore e musicista. Insieme avete collaborato per la colonna sonora del film… «Non conoscevo Alan Brunetta, prima del lavoro che ci ha visti lavorare insieme, ma ho subito percepito la sua enorme preparazione musicale. Il suo modo di suonare, senza tensioni e assolutamente spontaneo ne ha fatto per me un compagno eccezionale. Suonare con lui è stato per me come suonare con i miei amici californiani più blasonati. Alan ha avuto il pregio di farmi sentire subito a mio agio con la sua tranquillità e semplicità. È il caso tipico in cui ti senti come se avessi sempre suonato con lui. E ora penso con un po’ di tristezza a quanti musicisti veri, con una preparazione incredibile e gusto da vendere, rimangano in una specie di semi-anonimato in Italia. Noi però non disperiamo: anche se i capelli s’imbiancano continuiamo a spargere i semi del cuore. Prima a dopo forse qualcuno attecchirà…» Grazie Ricky!
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CULTURA INCONTRI
RIVEDO MIO PADRE Testi di Ugo Avalle
Uomo straordinario e intellettuale finissimo, Ludovico Luigi Avalle ha svolto ad Ivrea per oltre quarant’anni l’attività di psicologo clinico, pubblicando moltissimi volumi di ricerca psicanalitica. Ci piace ricordarlo attraverso le parole di chi lo ha amato.
RIVEDO MIO PADRE
«Rivedo mio padre, chino sulla lunga falce nel campo di stoppia…»
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osì Giacomo Ottello in una fra le liriche più belle ricorda suo padre. Io non posso certo ricordare papà con la falce (anche se non la disdegnava certo), ma sicuramente con la penna, una fra le mille penne che sempre, giorno e notte, teneva a portata di mano per scarabocchiare pensieri, intuizioni, riflessioni da fissare sulla carta: sempre presente e rigorosamente di riciclo. Una immagine immancabile per chi l’ha conosciuto. Lodovico Luigi Avalle, classe 1924, nasce a Torre Pellice nelle stanze attigue alla piccola “boita” di famiglia, già penalizzata dalla lunga guerra, nel tragico contesto della morte del padre. Il padre Carlo, appena ventiquattro anni, aviatore dell’esercito, medaglia d’oro al valore, scompare in seguito a spaventose ferite di guerra senza aver mai incontrato il suo unico figlio. Poi le prime scuole a Susa, parte del liceo a Torino e poi… la guerra: tanto confusa, controversa e inconcepibile da indurlo a cercare presto risposta nella Resistenza. Pochissimo ha raccontato di quegli anni, certamente da dimenticare, ad eccezione forse di un “imprinting” militare che si portò dietro per la vita oltre a qualche istante positivo. Fra questi sicuramente il primo incontro con Adriano Olivetti che, proprio durante la guerra, non andò affatto in Svizzera a “svernare” tranquillo come alcuni raccontano, ma rimase sempre in continuo movimento (fin troppo) per non farsi trovare, e, al tempo stesso, continuare a gestire l’azienda di famiglia. Viaggi attraverso le montagne, in moto, su carri bestiame, ecc. sempre grazie all’aiuto di molti partigiani tra cui proprio papà. Questo suggellò fra loro, nonostante la differenza d’età, un’amicizia molto intensa, una stima reciproca profonda che traspare dai numerosi scritti e, soprattutto, dai contenuti dei loro dialoghi: questioni filosofiche, riflessioni a sfondo religioso, sentimentale nonché politico, morale. Insomma un dialogo (fra gli altri) che portò alla maturazione di “movimento di Comunità”, all’intuizione dell’IRUR (pochi sanno che l’idea nacque proprio in una baita di Champorcher) e molto altro ancora.
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Un’amicizia che aveva una sola potenziale criticità: l’impari rapporto economico. Lo sapevano entrambi così mio padre non lavorò un solo giorno per Olivetti in tutta la sua vita, neppure negli ultimi anni. Tantissime serate, riunioni, tantissime consulenze in amicizia e nulla più. Nel luglio del ’57 il matrimonio, quasi in segreto, con Ileana, una donna speciale, insostituibile in quanto complementare alle sue carenze, alle sue debolezze. Tre lauree conseguite con il massimo dei voti, sempre lavorando, e tre lavori (un tempo era possibile ed incoraggiato) denotano una notevole caparbietà e, indiscutibilmente, una continua ricerca del sapere, della essenza della conoscenza, del bisogno di approfondire, sapere, conoscere, studiare senza sosta. Contemporaneamente però un “bisogno” costante e insanabile di lavorare (indipendentemente dalla necessità economica) a qualche cosa: libri, lezioni, consulenze cliniche, manutenzione, pulizie, spalare la neve, e così via. Qualsiasi attività, ma mai rimanere inattivo. Il lavoro era per lui ragione di vita, motivo dell’esistenza stessa, terrorizzato dagli effetti sociali devastanti legati alla progressiva carenza di occupazione. Appassionato di tutto ciò che era storia, letteratura, saggi classici, psicologia, filosofia, ecc. tutta la sfera della storia del pensiero dell’uomo che insegnò dalle scuole elementari (per alcuni anni proprio alla scuola Nigra di Ivrea) fino all’università, da Torino a Losanna senza farsi mancare corsi professionali come, ad esempio, la scuola di avviamento professionale Fiat di cui andava sempre fierissimo:«la miglior esperienza didattica» amava definirla. Raramente si fermava a guardare la televisione perché aveva sempre da scrivere, da rivedere, correggere l’ultimo lavoro, l’ultimo capitolo, l’ultimo appunto che ancora non aveva trovato giusta collocazione. Così si rintanava nello studio, con l’immancabile tisana di mamma, per qualche ora di lavoro. Fra i suoi libri, le sue carte, i suoi appunti, c’era tutto il suo mondo “scientifico”. Al primo sole, estate o inverno, usciva sempre: solo o in compagnia del fedele Bot e poi Lilly (il primo, un simpatico meticcio, era certo più incline alla filosofia) andava alla ricerca di un luogo solitario trascinandosi dietro un pesante borsone nero (ovviamente recuperato) contenente libri, fogli, appunti. La ricerca di
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CULTURA INCONTRI
una giusta concentrazione, il silenzio, ma soprattutto godere del primo raggio di sole erano i suoi obiettivi. La ricerca della luce sempre e comunque: qualsiasi tavolo, scrittoio o piano andava sempre posizionato in fronte ad una finestra. Questi i due scenari nei quali sono nati quarantasette volumi, oltre a molti manoscritti mai pubblicati, un numero indefinibile di tesi e tanti, tantissimi lavori che spesso consegnava “anonimi” ai molti fortunati. Una volta chiesi:«Ma perché non metti neppure il nome sul lavoro che hai fatto interamente tu». La risposta fu semplice e immediata:«Lui ne ha bisogno più di me». Il suo cruccio era che il pensiero, il contributo arrivasse a più persone possibile, era davvero poco importante chi l’avesse scritto. Così uscirono fortunati libri di psichiatria come La nevrosi strisciante, infiniti saggi sulla rivista di psicologia di cui era curatore, E poi dicon che son matti, La filosofia dei pastori, Tutto per una mela, Cercatori d’infinito, Il segno infantile, Memorie di un parroco di montagna, I nostri vecchi leggevano poco, ma pensavano molto, L’ombrello di seta verde, Il nostro Adriano, La saga degli Olivetti, solo per citane alcuni fra i tantissimi. Tutti i libri, nessuno escluso, sono dedicati sempre e soltanto ad Ileana perché questo era il suo modo per dire ‘Grazie!’. I temi trattati nei numerosi libri sono sostanzialmente legati alla sua professione di psicologo, insegnante, pedagogo, poi alla sua grande passione per la filosofia, ma una filosofia semplice, comprensibile a chiunque. In questo stava la sua sfida:«Non esistono cose difficili, semmai mal spiegate!» mi ripeteva sempre! La religione, la storia delle religioni a cui ha dedicato una intera collana soffermandosi sul significato della sofferenza, della fede, della malattia. Poi la montagna, le sue amatissime origini fra Torre Pellice e Champorcher. A Champorcher si recava ogni istante possibile perché quell’aria, quell’acqua, quel fresco erano vitali, erano il suo modo di riprendere “ossigeno”, energia. Intorno alle 6, alle prime luci del mattino, partiva per lunghe passeggiate nei boschi della valle per tornare all’ora di colazione di noi mortali, giusto in tempo per pianificare il lavoro della giornata. Molto legato alle tradizioni, al suo quarto di sangue valdese, alla storia del suo popolo, ad ogni sasso o
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pianta che rappresentava un pezzetto di storia spesso intriso di magia, leggenda o velati ricordi. Alla storia della montagna, della “sua” montagna dedicò molti libri nel tentativo di rendere tributo ai suoi avi, alle numerose persone che, con infinita fatica e sofferenza, avevano garantito la vita a quelle altitudini. La fatica fisica dell’uomo è certamente un aspetto che lo turbava molto, come anche la sofferenza, l’abbandono, la disabilità, come la malattia mentale a cui dedicò tutte le sue forze e risorse disponibili. Le sue “invenzioni” per lasciare alle macchine (il motore era per lui motivo di continuo stupore) molte fatiche dei campi sono note, il profondo rispetto verso tutti gli esseri viventi (ad esclusione delle zanzare che proprio non tollerava), quarant’anni di consulenza gratuita per un istituto per la disabilità mentale e fisica oltre a mille altre azioni simili, sono testimonianza di questo suo impegno. Fra tutti però, complice sicuramente la sua difficile “partenza” di “orfano di guerra” (seppur coccolato e cresciuto da una mamma meravigliosa e tre amorevoli zie), lo portò ad una “cura” speciale della famiglia, la sua come tutte le altre perché la famiglia è la sola risposta ad ogni difficoltà. Al tempo stesso però un modello aperto, dinamico che gli permise di costruire un rapporto molto intenso, di sconfinato affetto con ciascuno dei sei nipoti che adorava. Età diverse, esigenze differenti che trovavano però sempre in lui l’interlocutore autorevole per il loro crucci e la risposta giusta alle loro domande. Fra i suoi pensieri fissi sicuramente il primo posto spetta alla necessità (una continua sfida personale) di trovare un valido utilizzo a qualsiasi oggetto “recuperato”. Quante volte è capitato di vederlo lavorare ore ed ore per riparare un vecchio elettrodomestico ormai inutilizzabile, ma doveva vincere lui sulla tecnologia ribelle. D’estate andavamo spesso in alta montagna con la tenda: meravigliosi scenari, animali incuriositi delle nostra presenza, flora di cui ci raccontava ogni dettaglio, ma la sua vera soddisfazione era attendere nel punto più alto l’ultimo raggio di sole accompagnato sempre da un debole soffio di aria fresca. Al mattino, allo stesso modo, riprendere il primo raggio che scalda la terra.
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La sua profonda e inesauribile cultura aveva bisogno di quella tenera carezza perché tutto nasce dal saluto del sole. E a noi piace ricordarlo così: camicia a scacchi, berretto di lana e il bastone in mano intento a riempire uno, cento, mille pagine bianche (riciclate, of course).
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Ludovico Luigi Avalle ha svolto ad Ivrea l’attività di psicologo clinico per oltre quarant’anni, ed ha pubblicato importanti saggi di pedagogia e psicoanalisi. Adriano Olivetti gli aveva affidato l’Istituto di Psicologia Applicata e la direzione della relativa rivista. Sotto la sua direzione l’Istituto ha intrapreso negli anni Sessanta, ricerche scientifiche sulle forme del disegno infantile. Attraverso collaborazioni internazionali l’Istituto aveva raccolto e catalogato decine di migliaia di disegni di bambini in età prescolare e scolare, al fine di individuare una sorta di “grammatica” del segno infantile. La ricerca condotta sul segno infantile è stata applicata anche alla genesi dei disturbi mentali, poiché si era riscontrato che le alterazioni dei disegni di psicotici, spesso erano affini a forme riscontrate nei disegni infantili.
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GUIDA WEEKEND SOSTENIBILI
LUNGO I SENTIERI DELL’ANFITEATRO MORENICO Testi di Stefano Biava Foto di Matteo Antonicelli
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La stagione del freddo cede il passo alle giornate pi첫 tiepide di fine inverno. Niente di pi첫 salutare e affascinante che percorrere a piedi i sentieri lungo il crinale della Serra, attraverso boschi e prati che in questa stagione si tingono di un verde intenso e luminoso.
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GUIDA WEEKEND SOSTENIBILI
L
’Anfiteatro Morenico di Ivrea è il più significativo raggruppamento di rilievi collinari di origine glaciale presente in Europa e il suo perfetto stato di conservazione ne fa una delle aree di maggiore interesse naturalistico presente nel Nord Italia. Le sue origini risalgono al periodo Quaternario quando si formò a seguito del trasporto verso l’imbocco della pianura Padana di sedimenti da parte dell’immenso ghiacciaio che percorreva la vallata della Dora Baltea. Quello che si presenta oggi è proprio il risultato di tale ciclopica azione. Il termine anfiteatro che accomuna tutte le strutture geomorfologiche di questo tipo è dovuto alla caratteristica forma semicircolare, particolarmente evidente se osservata dall’alto e che consente di coglierne in modo chiaro le tracce lasciate da questo processo. L’AMI occupa un’area di circa 500 kmq, interessando il territorio di tre province: Torino, Biella, Vercelli e oltre 80 comuni. I Comuni di Andrate (820 m), sulle pendici del Monbarone e Brosso (797 m), a ridosso del Monte Gregorio, rappresentano gli estremi dell’Alta Via dell’Anfiteatro Morenico di Ivrea, un percorso lungo più di 100 chilometri che, seguendo per intero la sommità delle morene dell’AMI, permette di percorrere e scoprire l’intero territorio. Un territorio che, data la sua morfologia, ha caratteristiche uniche al mondo e che permette di entrare in contatto con una vasta gamma di ambienti e paesaggi di notevole interesse. Tra questi i Laghi di Viverone e Candia Canavese oppure l’area archeologica della Riserva Naturale Speciale della Bessa, la Riserva naturale dei Monti Pelati, ambienti che sono stati riconosciuti come siti di interesse comunitario in quanto custodi di importantissimi esempi di biodiversità. La presenza di tanti ecomusei - coordinati dalla rete ecomuseale AMI - rende il percorso interessante anche sotto il profilo storicoculturale, in quanto testimonianza eccezionale della cultura materiale di questo angolo di Piemonte. Una passeggiata lungo i sentieri dell’AMI è particolarmente indicata nelle prime giornate meno fredde dell’inverno, quando ormai il gelo sta per cedere il passo alla primavera. È bene avere con sé la guida Anfiteatro morenico di Ivrea. Guida all’alta via e alla via Francigena Canavesana, di Matteo Antonicelli, istruttore ed accompagnatore del CAI di Ivrea, e iniziare a scoprire il primo tratto dell’Alta Via dell’AMI, quello che, con partenza da Andrate conduce sino al carat-
SCIALPINISMO
Nella pagina precedente: tra Roc Basariund e Tagliafuoco Broglina. Nella pagina a fianco: Torre della Bastia In alto: tra Croce Serra e Torre della Bastia.
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teristico borgo di Magnano, attraverso il selvaggio ed affascinante ambiente della Serra Morenica di Ivrea. Il percorso è di circa 10 km, con un tempo di percorrenza di circa 3 ore. Entrambe le località, Andrate e Magnano, sono raggiungibili anche attraverso i mezzi pubblici delle compagnie GTT e ATAP. L’intero percorso dell’Alta Via è dotato di un sistema di segnaletica comune costituito da alcuni elementi essenziali quali le paline segnaletiche e i portali (pannelli informativi posti all’inizio dei percorsi). Oltre al tracciato dell’Alta Via sono presenti numerosissimi sentieri di collegamento che connettono i centri abitati della pianura con il tracciato principale. L’Alta Via attraversa inoltre i centri abitati di alcuni caratteristici borghi come Magnano, Zimone, Roppolo, Masino, Maglione, Moncrivello, Mazzè, Candia Canavese, Vialfrè, Torre Canavese, Silva. Dato il notevole sviluppo dell’Alta Via, è consigliabile percorrerla in più tappe, a seconda della preparazione fisica e del tempo a disposizione. L’intero percorso non presenta particolari difficoltà di carattere tecnico ed è classificato come escursionistico e a tratti come turistico secondo la classificazione delle difficoltà stilata dal CAI. È inoltre possibile percorrere l’Alta Via, così come i sentieri di collegamento, per mezzo della mountain bike.
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GUIDA GU UIDA W WEEKEND EKEND SOST SOSTENI SOSTENIBILI TENIIBI BIL B ILI LI
DA ANDRATE A MAGNANO Testi di Stefano Biava Foto di Matteo Antonicelli Fot
IL MONDO A RISCHIO INSOSTENIBILITĂ€
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Magnano è un delizioso borgo medievale posto lungo il versante est della Serra di Ivrea. Qui nel mese di agosto presso le chiese di San Secondo e di San Giovanni Battista si svolgono i concerti del Festival Musica Antica.
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GUIDA WEEKEND SOSTENIBILI
SCIALPINISMO
DA ANDRATE A MAGNANO LUNGO I SENTIERI DELL’AMI
Nella pagina a fianco: via verso Tagliafuoco Broglina. In alto: panorama di Andrate.
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Il percorso L’escursione ha inizio ad Andrate Piazza Flavio Ilvo Fraschetto, dove sono presenti la sede della scuola di Nordic Walking Andrate, il Centro di Accoglienza turistica e l’Ecomuseo della Civiltà Contadina di Andrate. L’Ecomuseo dispone di una collezione di oltre settecento oggetti e attrezzi che testimoniano la vita e il lavoro di una comunità montana. Gli oggetti sono presentati sotto forma di laboratori, così che il visitatore possa immedesimarsi meglio nel contesto delle attività del passato. Una raccolta fotografica documenta la vita contadina andratese attraverso immagini d’epoca. All’esterno della struttura sono esposti mezzi agricoli dell’Ottocento e del primo Novecento, un torchio a barra e alcune parti di una vecchia fucina attiva in paese. Seguendo l’apposita segnaletica AMI, attraversiamo il centro abitato di Andrate e, percorrendo in salita Via delle Alpi, ci dirigiamo in direzione del passo di Croce Serra. Questo primo tratto si svolge per buona parte su strada asfaltata che presto abbandoneremo per seguire un più comodo sentiero.
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GUIDA WEEKEND
Verso Donato Giungiamo così all’incrocio con la SP73 AndrateDonato dove costeggiamo il muro di cinta del castello Rubino. Al termine del muro una palina AMI ci indica la direzione da seguire per raggiungere Torre della Bastia. L’ambiente è ora quello del bosco e ci accompagnerà fino al centro abitato di Magnano. Il sentiero adesso si sviluppa prevalentemente sul culmine della Serra Morenica, con leggeri scostamenti sui due versanti, quello canavesano e quello biellese La torre della Bastia In poco tempo raggiungiamo la particolare costruzione della Torre della Bastia, ottimo punto panoramico. Percorrendo in discesa il lungo spartiacque morenico si arriva all’incrocio con l’Itinerario di Collegamento di Casale Riva e, dopo aver percorso uno sterrato, il Passo dell’Oca. Seguendo un ripido sentierino torniamo sullo spartiacque dove una iniziale stretta traccia di sentiero più avanti si trasforma in una stradina sempre più larga che ci conduce sino all’importante crocevia di Roc Basariund, che prende il nome da un grande macigno che affiora dal terreno. Qui convergono gli itinerari di collegamento che partono da Donato, Sala Biellese, Torrazzo Ovest, Chiaverano e Burolo. Da questo crocevia ha inizio un tratto rettilineo in leggera discesa su strada sterrata lungo oltre 5 km che ci condurrà a Tagliafuoco Broglina. In questo tratto incroceremo gli innesti degli itinerari di collegamento di Torrazzo Sud e di Bollengo. Seguendo le indicazioni proseguiamo sulla destra su di un breve ma ripido sentiero dal fondo irregolare. Un breve tratto di stradina delimitata da bassi muretti a secco ci conduce ad una biforcazione con una stradina di servizio che porta al traliccio del ripetitore di Broglina poco più a monte. Il Roch del Basu A questo punto è necessario abbandonare per un momento il sentiero per attraversare la Strada Statale 338 che collega Bollengo con Biella. Qui è necessario prestare particolare attenzione poiché il punto di attraversamento è posto in curva e la strada, piuttosto trafficata, in particolare dalle moto. Sul lato opposto una palina dell’AMI indica il sentiero che ci condurrà fino
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a Magnano. Per un buon tratto la traccia si sviluppa in modo lineare e costante e in breve raggiungiamo l’affascinante e possente masso erratico denominato “Roch dal Basu”, dove un pannello informativo ne descrive la storia. Magnano In breve ci si trova a ridosso delle primi tetti delle abitazioni di Magnano, posto in ottima posizione panoramica. Qui si innesta il sentiero di collegamento che parte da Palazzo Canavese. La chiesa romanica di San Secondo e la parrocchiale di San Giovanni Battista ospitano i concerti del Festival Musica Antica a Magnano che si tiene ogni anno ad agosto. Nella parte alta del caratteristico borgo sono conservate tracce importanti dell’antico ricetto medievale, edificato nel 1204 come borgo franco e dal tipico impianto architettonico di natura difensiva e popolare. Posto sul crinale di una collina, il Ricetto è caratterizzato da cellule edilizie a due piani e da strade lunghe e strette dalle quali si accedeva per mezzo di due ingressi, uno dei quali ancora ben evidente in quanto dominato dalla torre-porta ottimamente conservata. Nella pagina a fianco: il Ricetto di Magnano. In alto: il masso erratico conosciuto come “Roch dal Basu”.
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GUIDA WEEKEND
Anfiteatro Morenico di Ivrea. Guida all’Alta Via e alla Via Francigena Canavesana. Autori Matteo Antonicelli e Stefano Biava ISBN 978 88 97867 17 3 Lineadaria Editore, Biella Una dettagliatissima guida per scoprire, a piedi oppure in bicicletta, l’Anfiteatro Morenico di Ivrea e gli oltre 450 chilometri di sentieri e di antiche strade attraverso le province di Torino, Biella e Vercelli. L’Alta Via e gli oltre 70 itinerari di collegamento descritti nelle pagine del libro consentono a escursionisti e ciclisti un tuffo in un emozionante paesaggio ricco di suggestioni naturalistiche e storiche. Da Andrate a Brosso, attraverso i laghi di Viverone e Candia Canavese, attorniati da splendidi castelli, tanti sono gli spunti per mettersi in cammino e scoprire a fondo questo affascinante territorio che custodisce importanti tracce archeologiche e naturalistiche. La guida inoltre descrive i tracciati completi dell’Alta Via dei cinque laghi di Ivrea in un’area che rappresenta un vero scrigno naturalistico. Completa l’opera la descrizione del percorso canavesano della Via Francigena che da Pont St Martin conduce a Viverone. L’opera è arricchita da una serie di testi di approfondimento curati da alcuni tra i maggiori esperti nel loro campo: Franco Gianotti per la geologia, Enrico Gallo per l’archeologia e Diego Marra per gli aspetti naturalistici. Emozionanti fotografie a colori e testi curatissimi completano un’opera fondamentale per chiunque voglia conoscere a fondo un territorio che, grazie alla sua eccezionale conformazione geologica e alla straordinaria ricchezza a livello naturalistico, è unico al mondo. SCHEDA TECNICA: 224 pagine interamente a colori, oltre 200 fotografie, formato 152x210 mm E9
SETTORE 2 LA MORENA SUD ORIENTALE
IC DI CARAVINO Caravino m 261 Innesto AV Frontale Est, Masino m 392 170 m E
40 m
CARAVINO
La Via Francigena era il percorso che a partire dall’Alto Medioevo, collegava Canterbury in Inghilterra a Roma, da sempre cuore della cristianità. Un suggestivo itinerario, lungo 1900 chilometri, che i pellegrini provenienti dall’Europa del nord percorrevano per raggiungere Roma, sede del Papato. L’itinerario francigeno non costituiva però solo un tracciato devozionale ma anche una via utilizzata da mercanti, eserciti, uomini politici e artisti rappresen-
tando in tal senso un canale di scambio di merci e di idee che ha permesso il consolidamento delle basi dell’unità culturale europea avvenuta tra il X e il XIII secolo. Nel 990 d.C. l’Arcivescovo Sigerico, di ritorno da Roma a Canterbury — dopo aver ricevuto l’importante investitura da parte di Papa Giovanni XV— la percorse per intero e annotò tutte le 79 tappe, una per giorno, che lo riportarono in Gran Bretagna attraverso l’Europa.
presenta alcuna segnalazione. Un riferimento è rappresentato da un grosso albero proprio sul ciglio della via a pochi metri dal bivio. L’albero è molto più grande della media degli altri della zona ed è semiavvolto dall’edera. Superato l’albero si gira a destra e si inizia l’ascesa lungo un sentiero che a volte presenta il fondo scavato dallo scorrere irruento e rovinoso dell’acqua piovana che si raccoglie dai limitati ma ripidi versanti laterali. Oltre il tratto ripido si prosegue lungo un falsopiano seguendo una stretta traccia dal fondo inerbito che porta ad incrociare la strada provinciale SP80 che collega Caravino a Cossano Canavese. Attraversata la strada, sulla parte opposta si segue la pista forestale che entra in un folto bosco. Con ascesa moderata e uniforme si percorre un lungo trat-
Nel progetto iniziale della ATL l’IC di Caravino raggiungeva l’Alta Via AMI al castello di Masino dopo aver percorso la via conosciuta come “Strada delle 22 curve”, un lungo sterrato che risale l’appendice morenico centrale di Masino. Nel frattempo questa via, diventata privata, non è più percorribile. Il percorso descritto è dunque un’alternativa ed è stato pianificato con l’intento di mantenere gli obiettivi iniziali. Da Piazza Marconi, al centro di Caravino, si percorre Via Casale (attenzione ai sensi unici) e al primo bivio si svolta a sinistra per proseguire su Via Cavour. Dopo le strettoie nel centro del paese, in coincidenza di uno slargo con piccolo parcheggio, si lascia la strada principale che porta a Settimo Rottaro e si piega a destra su Via Roiera. Sullo sfondo si osservano le colline e il profilo del castello di Masino, meta di questo itinerario. Con le ultime abitazioni termina il tratto in asfalto e si inizia a percorrere uno sterrato nel bosco. In leggera discesa si giunge ad una biforcazione ove si prosegue diritto. Dopo un tratto pianeggiante si inizia progressivamente a salire restando costantemente in un 201 DA CAREMA A IVREAtratto di bosco con riferimenti irrilevanti. Ad un bivio118 con una marcata via che si sviluppa sulla SETTORE 3 LA MORENA SUD OCCIDENTALE sinistra, si prosegue diritto fino ad un’altra bifor- questo percorso esistevano Lungo Il Consiglio d’Europa nel 2004 ha diSTRAMBINELLO cazione. Qui si abbandona la traccia più marcata il ristoro delnumerose tappe Chper chiarato il tracciato della Via Franiusell a Ancor oggi è e si segue una pista forestale che prosegue in e del corpo. PONTE lo Spirito cigena Grande Itinerario Culturale PRETI leggera salita verso O1 destra. Subito dopo ed un incontrare una serie di A5 possibile Europeo al pari del famoso CamIl Castello di Masino. centinaio di metri più avanti si presentano testimonianze altre dell’architettura mino di Santiago de Compostela ® Foto diramazioni. In entrambi i casi si trascurano le di di Stefano Biava che ci consentono romanica in Spagna. Tra le tappe annotate PEROSA CANAVESE rivivere le suggestioni del tempo. sul diario di Sigerico, dove Ivrea inizia in Valle d’Aosta Il nostro percorso O21 risulta la quarantacinquesima tappa da O2 O20 nello splendido borgo di Pont St Martin Roma, grande importanza assume il perche custodisce numerosi gioielli architetO20 corso della Via Francigena Canavesana SAN MARTINO Casello O19 ponte romadal maestosoCANAVESE tonici, a partire TORRE La Via Fran“custodita” dall’Associazione di Scarmagno O14 CANAVESE O1 nel I secolo a.C. in onore di no edificato SILVA cigena di Sigerico, nel contesto geografico O13 San Martino di Tours, il castello Barain-O2 dell’Anfiteatro Morenico, che congiunge O18 del Castello di Pont-SaintO1 ge e le rovine VIALFRÈ il tratto valdostano a quello vercellese con SCARMAGNO BAIRO Martin detto Castellaccio, sito su di un uno sviluppo di circa 50 chilometri. O1
DA MAZZÈ A PONTE PRETI
IL TERRITORIO NOME ITINERARIO
SETTORE 6 LA VIA FRANCIGENA
La Via Francigena
20’ andata
pista forestale, sterrato
NOME ITINERARIO
ESCURSIONISMO 200
4,1 km
1h andata
TC (tratto MC)
IL TERRITORIO
Matteo Antonicelli nato a Gioia del Colle, si è formato alpinisticamente nel Canavese ove risiede. È stato coordinatore dell’attività escursionistica della sezione di Ivrea del CAI e tra i primi in Italia a conseguire la qualifica CAI di “Accompagnatore di Escursionismo”. Per conto della Regione Piemonte è “Rilevatore di Sentieri” della Rete regionale dei Percorsi Escursionistici per la costituzione del Catasto regionale. È autore di altre guide escursionistiche.
111
DA VIVERONE A MAZZÈ
vie laterali e si prosegue diritto con la vegetazione che è costantemente compatta, ad eccezione di un’area, dopo un tratto di salita più marcato, dalla quale si possono osservare le montagne del Biellese, il gruppo della Colma di Mombarone, La Serra e le montagne della Valchiusella. Ripreso il cammino si raggiunge un bivio poco marcato ove si cambia direzione. Fino a questo punto la progressione di massima è stata verso est, sud-est e con un profilo altimetrico ondulato, ma poco significativo. Ora cambia sia la direzione (ci si dirige dapprima verso sud e poi verso ovest) sia l’ascesa, che diviene molto marcata, con alcuni tratti non ciclabili a causa della pendenza e del relativo fondo non omogeneo. Il bivio ove si lascia il fondovalle e si inizia la risalita del versante morenico è poco evidente e non
to fino ai ruderi della chiesa di Sant’Eusebio. Da segnalare a metà circa di questa ascesa, un varco nella vegetazione verso valle, che consente di osservare da buona posizione uno spicchio della piana all’interno dell’Anfiteatro con il paese di Azeglio e il profilo de La Serra. Superato l’edificio si costeggia per alcune decine di metri il muro di sostegno di una strada asfaltata fino al punto in cui il sentiero va ad esaurirsi sull’asfalto. Qui si gira a destra e si rientra nel bosco, costeggiando stabilmente un muro a secco, fino ad un prato presso il cimitero di Masino. Proseguendo ancora diritto si raggiunge la chiesa di San Rocco ad un incrocio. Di fronte una palina AMI, con la targhetta LGS di Masino, segnala l’Alta Via che sulla destra, costeggia le case di Masino e conduce al castello.
CARAVINO NOME ITINERARIO
46
119
Dora Baltea
A4/5
Chiusella
Casello di Albiano d’Ivrea
ROMANO CANAVESE
CARAVINO
O21 MASINO VESTIGNÈ
O21 STRAMBINO
Dora Bal
tea
AGLIÈ O17
VILLATE
O15
O10
O11
CUCEGLIO
NOME ITINERARIO NOME ITINERARIO
110
L’autore
O8 MERCENASCO
SAN GIORGIO O16 CANAVESE
MONTALENGHE O12 A
CANDIA CANAVESE
O9 Casello o di San Giorgio G Canavese e
ORIO CANAVESE
VISCHE
Parco Naturale del Lago di Candia
O4
O6 Lago di Candia
O7 BARONE CANAVESE
SAN GIUSTO CANAVESE PONTE SULLA DORA BALTEA
CALUSO O5
O1 MAZZÈ O3 A5
® Foto di Stefano Biava
Dora Baltea
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