Piazza Garibaldi

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PIAZZA GARIBALDI DIRITTI E ROVESCI DI VITE COMPLICATE ISBN 9788874211364 Š Edizioni Intra Moenia 2013 Il Distico Srl Piazza Cavour 19, 80137 - Napoli www.intramoenia.it info@intramoenia.it Progetto grafico e impaginazione: Luca Mercogliano I diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo (compresi microfilm e copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.


QUADERNI DEDALUS / 2

PIAZZA GARIBALDI DIRITTI E ROVESCI DI VITE COMPLICATE

A CURA DI ANDREA MORNIROLI E LUCA OLIVIERO FOTO SERGIO SIANO

edizioni Intra Moenia



PIAZZA GARIBALDI

PRESENTAZIONE

La nostra è una società sempre più incattivita e competitiva, dove la cosiddetta normalità sembra quasi infastidita da ogni forma di ospitalità o attenzione verso chi è più fragile e differente. La tentazione è quella di voltare lo sguardo dall’altra parte e quando non basta di richiedere a gran forza interventi di allontanamento o repressivi. Così succede che in molti casi, quando si parla di rigenerazione urbana, di riqualificazione di una strada o di una piazza, dentro a tale percorso, quasi naturalmente, si dia per scontato l’allontanamento di tutte quelle persone “non allineate” che in quello spazio, se pur in modo precario, vivono e sopravvivono. Insomma succede che nell’immaginario collettivo e nelle azioni della politica, il problema non sia più la povertà ma i poveri, specie quando sono “brutti, sporchi e cattivi”. Questo è ciò che sembra caratterizzare anche il processo di recupero di piazza Garibaldi a Napoli, soprattutto in relazione alle spinte che provengono dal progetto di “grandi stazioni” che sta rimodellando il volto della piazza e delle zone ad essa limitrofe. I curatori di questa pubblicazione provano, invece, a rimettere al centro le persone, proponendo un’idea che ribalta la prospettiva: non è possibile pensare alla sicurezza e al benessere

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collettivo basandosi solo sull’espulsione e l’abbandono di chi è ultimo e fragile. Non solo perchè eticamente inaccettabile ma perchè tale approccio non può che generare conflitto permanente o la necessità di territori sempre più “blindati” e controllati. Per questo nella pubblicazione si dà centralità alle storie di alcune delle persone differenti e marginali che abitano piazza Garibaldi, a partire dal racconto delle loro vite, tracciandone bisogni, desideri e speranze, mettendone in luce risorse e criticità. Provando, insomma, a restituire umanità a chi spesso vede negato anche il semplice diritto di apartenere all’umanità.


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Dinge. Cioè “cose”, in tedesco: parola propria della poetica di Rainer Maria Rilke, con cui il poeta della solitudine aveva iniziato un celebre discorso su Auguste Rodin - il grande artista francese di fine Ottocento - e sulle sue sculture. Quell’incipit mi era venuto alla mente qualche anno fa, quando avevo collaborato a un’impresa teatrale di Beppe Rosso e Filippo Taricco dedicata alla Città fragile: barboni, prostitute, nomadi; le stesse figure che ricompaiono in questo prezioso viaggio nelle “vite complicate” di Piazza Garibaldi. Per questo mi è ritornato presente ora, con la forza di una rivelazione - una sorta di dèja vu, o di una colpa mai rimossa - leggendo (ma forse è un “risentire”) queste storie. Rilke, con quell’espressione solo apparentemente neutra, in realtà spietata, si riferiva alla incollocabilità delle opere mature del grande scultore francese nel pieno della metamorfosi della città in “universo totale di macchine e di merci”. Lo ricorda Guenther Anders, nel primo dei suoi Saggi dell’esilio americano, intitolato significativamente Homeless Sculpture - “sculture senza casa” -, commentando il “grandioso fallimento” di Rodin, costretto a collocare le proprie creazioni (potremmo dire “creature”) “fuori dal mondo”, in un museo, in una sorta di terra

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di nessuno sottratta alla vita quotidiana, perché nella città di tutti non avevano più un posto. Anders pensava al drammatico Torso di Adele, per il quale riteneva davvero difficile, quasi impensabile, “immaginare un posto socialmente accettabile… Una chiesa? Un edificio del Governo? Una casa borghese? Una piazza pubblica? Tutti egualmente impossibili. Un giardino? A stento. La natura? Forse”1. O, a maggior ragione, a Les citoyens de Calais, così come erano stati concepiti nel progetto originario: figure sparse su un suolo negato, private della loro monumentalità dall’assenza di ogni supporto. “Intrusi” di pietra, abbandonati in uno spazio che si nega all’ospitalità. Ora, le persone di Piazza Garibaldi - come d’altra parte quelle della città fragile - ricordano quelle “opere”, ridotte anch’esse a “cose”: spogliate della loro “aura” di cittadinanza e di diritti. Spinte al margine - schiacciate sullo sfondo, quasi a confondersene - da un mercato selettivo, che non perdona. E nello stesso tempo ridotte a merci: costrette a scambiarsi, come “cose”, appunto, su quel medesimo mercato che dopo averle espulse come persone le risucchia come merci (che si possono appunto “comprare” ma non considerare come propri simili. Allo stesso modo delle homeless sculptures di fine Ottocento, anche queste figure del nuovo secolo non hanno un posto dove “stare” ma solo “non luoghi” (nel senso che dà al termine Marc Augè): spazi di flusso, marciapiedi, aree di attraversamento come sono appunto i dintorni delle stazioni o le aree dismesse, zone off limits dove domina la provvisorietà del paesaggio e dell’esistenza. Stanno in mezzo a noi, ma è come se non ci fossero: il traffico scorre al loro fianco, la folla dei passanti li sfiora, gli stessi sguardi possono incrociarsi, ma la vita della “città forte” muo1  Günther Anders, Homeless Sculpture, in “Philosophy and Phenomenological Research”, 2, dec. 1944; tr.it. Scultura senza casa, in G. Anders, Saggi dall’esilio americano, Palomar, Bari 2003.


ve su un piano diverso dal loro, in un altrove che non conosce “riconoscimento”, che non prevede comunicazione con quella città che vive al margine. Fanno parte del paesaggio urbano con la materialità dei loro corpi, “con una presenza ‘pesante’, come appunto quella della pietra o del bronzo, fisicamente percepibili, fin troppo percepibili, forse gli unici corpi percepibili per differenza con l’indifferenza di tutti gli altri” - così scrivevo allora -, ma non ci “parlano”. Restano al di là di un margine che si erge come un muro e chiude la comunicazione tra le due città. Alcune di quelle figure sono arrivate nella “città delle ombre” direttamente, attraverso i circuiti sommersi della tratta clandestina, le vie tortuose della migrazione occulta, reclutate nei paesi di origine per finire qui, su questo “mercato nero” con un destino già scritto. Altre sono passate per la “città della luce”, hanno avuto una “prima vita” come badanti, o lavoratori precari, stagionali, a termine, si sono scambiate su un mercato del lavoro legale, prima di essere sospinte oltre il margine - in questa “seconda vita” - dalla crisi, dall’assottigliarsi delle opportunità e dalla nuova avarizia di un’economia estenuata. Altre ancora vi avevano abitato stabilmente, prima di cadere di sotto, travolte da una delle tante dipendenze della città “politossica”, dall’alcolismo, dal disagio psichico, o più semplicemente dalla solitudine, dalla rottura di un legame famigliare o lavorativo, dall’estendersi maligno dell’area infetta delle povertà - le molteplici povertà, che in una città come Napoli si sovrappongono l’una sull’altra, da quelle ataviche e multigenerazionali a quelle nuove e impreviste generate dalla crisi - come i tanti homeless che popolano i dintorni di Piazza Garibaldi. Alcune di quelle figure posseggono ancora le chiavi d’accesso ai canali di comunicazione tra le due città, come le tante badanti che alternano casa e strada, per mettere insieme un reddito plurimo, quanto serve per vivere qui e mantenere un

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figlio là. Altre, come Nadina, stanno in qualche modo “di là” come se stessero ancora “di qua”, vivendo la strada come una condizione normale, emendata dallo stato di servitù che il lavoro di cura comportava. Altre ancora, come Irina, avevano attraversato quel confine una prima volta, salendo dall’ombra alla luce, per poi ripiombarvi, per la perdita del lavoro “in chiaro”, vivendo l’una e l’altra condizione come stati di precarietà. Tutte, comunque, avrebbero una storia da raccontare se solo l’altra città avesse il modo, il tempo e lo spazio per ascoltare. Ma la “città forte” ha perso i codici di accesso a quelle voci e a quel linguaggio. Universo delle merci e del mercato, manca della capacità di riconoscere le vite “nude”: le vite private della protesi del ruolo sociale e dello status di cittadinanza. È in grado di decrittare solo il lessico formalizzato della “vita vestita”, leggibile in automatico secondo la logica lineare delle funzioni di utilità e degli abiti professionali, e così rimane muta, e cieca, di fronte al popolo delle ombre che pure potrebbero raccontarle le radici della vita, le leggi non scritte della sopravvivenza, le vere dimensioni del vuoto che stiamo creando intorno a noi. Basterebbero poche righe del racconto di Irina - quasi una conclusione provvisoria -, per capire quanta Storia passi attraverso quelle storie: “Mio marito adesso non lavora, teneva un bar, che ha chiuso io avevo smesso di prostituirmi da quando stavo con lui, lui non voleva. Lui adesso sta male, è dimagrito perché non riesce a fare l’uomo, non riesce a mantenere la famiglia, però io gli ho detto: non andare a rubare, non andare a vendere droga, a vendere schifezze o a venderti per strada, tu questa cosa non l’hai mai fatta! Io sì, questo lavoro sì! Sempre straniera rimango io, se tu fai qualcosa, io non ho i documenti, l’assistenza sociale mi toglie mia figlia, chissà a chi la danno, quindi è meglio stare tutti insieme!’. Così dopo tre anni e mezzo, in cui ho fatto di tutto dalla lavapiatti alla lavacessi, la baby sitter e le pulizie in casa sempre sfruttata con


paghe misere, ho ricominciato a lavorare in strada. Lui ha provato in tutti i modi a trovare un lavoro, tutte le porte chiuse, siamo stati maledetti”. Ma quel racconto, più vero di mille statistiche Istat, più ricco di informazione di cento ricerche accademiche, rimane sigillato nel circuito chiuso della “città dell’ombra”. Unico punto di contatto, l’unità mobile della cooperativa Dedalus, capace di evocare la magia del “riconoscimento”: della restituzione dello status di persona alle ombre, staccandole dallo “sfondo” in cui erano state confinate, e ridando loro il dono della parola. È una risorsa preziosa, non solo per chi è stato spinto al di là di quel confine invisibile, ma anche per chi se ne sta al di qua: non c’è discorso sullo “stato del Paese”, sul welfare e sulle sue trasformazioni, sulla povertà vecchia e nuova e sulle sue “politiche di contrasto”, non c’è manuale sul tema del buongoverno e sulle tecniche dell’Amministrazione, non c’è dibattito di Giunta o delibera consigliare che possa prescindere da quella narrazione sommersa, in assenza della quale ogni giudizio sarebbe soltanto chiacchiera.

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INDICE

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PRESENTAZIONE DINGE MARCO REVELLI PERSONE: DIRITTI E ROVESCI DI VITE COMPLICATE ANDREA MORNIROLI / LUCA OLIVIERO

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PSICOMETROPOLIS STEFANO VECCHIO / LUIGI DE MATTEIS

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L’IMPOVERIMENTO DEL PAESE IL POPOLO DEI SENZA DIMORA ROSA FRANCO

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UNA LETTURA DELLA PROSTITUZIONE DI STRADA UN EQUILIBRIO INSTABILE TRA CAMBIAMENTI, NUOVI SOGGETTI E POVERTÀ DIFFUSE ENRICA DI NANNI / ANDREA MORNIROLI / LUCA OLIVIERO

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RESTITUIRE IDENTITÀ PER COSTRUIRE DIRITTI LE VOCI E LE STORIE DELLA PIAZZA LUCIANA DE PASCALE

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ALCUNE NOTE CONCLUSIVE




FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI OTTOBRE 2013 PER CONTO DELLE EDIZIONI INTRA MOENIA PRESSO CANGIANO GRAFICA SRL


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