Renato Fucini
NAPOLI A OCCHIO NUDO isbn 9788874211487 © Edizioni Intra Moenia 2014 Il Distico Srl Via Costantinopoli 94, 80138 – Napoli www.intramoenia.it – info@intramoenia.it A cura di Ursula Salwa Progetto grafico e impaginazione di Luca Mercogliano Archivi fotografici: Alinari, Storia Patria, Giorgio Sommer, Robert Rive In copertina: via Foria
Renato Fucini
NAPOLI A OCCHIO NUDO La cittĂ nel 1877 tra la miseria dei vicoli e le bellezze del golfo
introduzione
È un celebre reportage sulla Napoli del 1877 con lo sguardo di un fiorentino e cioè, per l’epoca, di un nordico straniero. È una descrizione d’ineguagliabile valore letterario sia sul panorama urbano, sia sulle bellezze paesaggistiche della città e dei suoi d’intorni. È soprattutto un testo tranchant e impietoso sulla condizione dei ceti popolari della città e sulla “natura” dei napoletani, con tanto di polemiche che l’accompagnarono. Basterebbe solo questo a giustificare la ripubblicazione di uno dei più celebri libri di Renato Fucini, questa “Napoli a occhio nudo” che ci restituisce anche oggi la visione della città ad un suo storico trapasso: da pochi anni non più capitale del regno dei Borbone, ma ancora non elevata al rango di città pienamente integrata nel nuovo regno d’Italia. Basterebbe, ma c’è dell’altro. La curiosità di capire le ragioni di quella Napoli e di paragonarle a quelle dell’oggi. Di confrontare insomma il presente col passato, per ragionare se davvero quella Napoli del 1877 così ben pennellata è solo preistoria o se contiene in sé contraddizioni ancora oggi esistenti seppur nella levigatura del tempo. 5
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Intanto i fatti. Che sono la storia di una vera e propria “committenza” giornalistica. A richiedere questo reportage è proprio un napoletano, lo storico e politico Pasquale Villari. Grande tempra di meridionalista, il Villari si era rifugiato a Firenze dopo i moti del 1848 contro i Borbone e, dopo l’unità d’Italia, aveva tristemente constatato che non andava granché meglio con i nuovi governanti: Napoli restava relegata ad un destino di abbandono sociale e di marginalità produttiva. Ritenendo che le sue denunce avessero il peccato originale di provenire da un napoletano, aveva pensato di chiedere testimonianze super partes. Prima si rivolse all’affermato scrittore Edmondo De Amicis, ma vista la sua indisponibilità, ripiegò su nomi meno noti ma in qualche modo emergenti: la giornalista inglese Jessie White Mario che a Napoli nel 1860 aveva prestato servizio come crocerossina con Garibaldi; e appunto il toscano Renato Fucini che aveva dato prova di grande sensibilità sociale nei suoi componimenti poetici. Entrambi accettarono l’invito del Villari, ma entrambe le loro opere lo lasciarono scettico. La White Mario fu a Napoli nel 1876 e raccolse i suoi articoli nel volume intitolato “La miseria in Napoli”: ricevette l’immeritata critica che una inglese non poteva comprendere fino in fondo i problemi di una città così complessa. Il Fucini fu invece ospitato a Napoli per un mese l’anno successivo, dal 3 al 30 maggio 1877, e dal suo fitto taccuino d’appunti nacque questa “Napoli a occhio nudo”: la cruda descrizione del degrado sociale fu accusata d’innalzare bandiera bianca perché non sfociava in speranze o proposte positive. Eppure il libro abbonda di esaltazioni delle bellezze naturali della città e soprattutto dei suoi dintorni. Persino un po’ troppo letterarie, persino troppo manieristiche. Come quan6
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do dall’alto del Vesuvio, Fucini resta ammaliato dalla veduta del golfo ed esclama: “Ah! Godi, godi, Napoli mia, perché davvero è grande la tua bellezza… Il tuo Vesuvio ti guarda e sospira; anche lui deve amarti, sei troppo bella”. O come quando sul battello che lo porta a Capri, resta estasiato dal panorama della costa: “Che prodigio della creazione è questo golfo stupendo, questo cielo, queste isole, questo mare dove non è lecito muovere un passo o guardarsi d’intorno, senza incontrare sempre nuove cause d’entusiasmo e di stupore”. O come quando passeggiando per Amalfi si lascia andare ad una frase che ora è incisa su di un marmo a Porta della Marina che segna l’ingresso della città: “Il giorno del giudizio, per gli amalfitani che andranno in paradiso, sarà un giorno come tutti gli altri”. In netto contrasto con la sua ammirazione della natura, con il senso estasiato con cui osserva panorami, cielo e mare, è invece lo sguardo che Fucini rivolge agli uomini. Anzi alla plebe. Perché tutta la città gli appare abitata da loro, conformata alla loro cultura, piegata alla loro condizione sociale. Napoli non è solo “una delle città più sudice d’Italia”, ma è “moralmente prostrata”. Un giudizio senza appello, senza distinguo perché “questo non senso del proprio decoro non appartiene solo agli ultimi straccioni, ma l’ho trovato anche più in su”. Fin qui siamo all’opinabile, ma il Fucini purtroppo va oltre, arrivando a frasi che denotano qualcosa di più del distacco, qualcosa di più netto della condanna. Frasi che rivelano che “l’occhio nudo” con cui l’Italia del nuovo Regno guardava Napoli era velato d’insofferenza e di razzismo. I lazzari che incontra nei vicoli diventano “misere scimmie a due mani”, una frase che non scivola inaspettata e infelice nel testo, ma che viene confermata più volte. Quando per esempio dice: 7
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“Nulla che mi facesse intendere che erano uomini anch’essi. È tale l’abbattimento fisico e morale di questi infelici, che non sanno comprendere, nonché aspirare ad un miglioramento qualunque delle loro misere condizioni”. Sono affermazioni che possono scandalizzare. Infatti scandalizzarono. Tra i tanti, anche il poeta Salvatore Di Giacomo si espresse contro il libro di Fucini che ciononostante ebbe un buon successo editoriale. Del resto sarebbe sbagliato un giudizio su quest’opera che non tenesse conto del contesto storico in cui maturò. Nel 1877 Renato Fucini, nei suoi 34 anni, era un apprezzato intellettuale che frequentava i salotti della Firenze letteraria dell’epoca che coincidevano con gli ambienti di punta dei moderati toscani. Lasciati alle spalle gli affanni del Risorgimento, il clima era quello di una società toscana passata attraverso la breve esperienza di Firenze capitale e poi sottomessasi all’ala protettrice della Roma italiana, con tanto di occasioni di carriera, di amicizie che contano, di potere politico che aveva già scelto di concentrare nel Centro Nord lo sviluppo della giovane nazione. Napoli cos’era in quel passaggio epocale se non un coacervo di contraddizioni economiche e sociali che nessuno voleva e poteva affrontare? Dunque, l’occhio nudo di Fucini non aveva modo di distinguersi e differenziarsi da quella visuale che appariva come quella dominante. Di più. In molti passaggi del libro, Fucini riesce ad agguantare il nodo centrale del problema che attanaglia la città, sebbene non sappia come svilupparlo in un ragionamento completo o in una proposta. È il caso di quando analizza il ruolo della camorra, riconoscendo che la plebe si sottometteva a questo potere oppressivo perché non riusciva ad avere dallo Stato nessuna forma di protezione e di giustizia; ed arri8
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vando ad intuire che le cose sarebbero mutate solo quando “la plebaglia avrà appreso per esperienza e palpato con mano che i tempi sono cambiati in meglio anche per lei”. Ma l’assoluzione più completa del libro è in due confessioni a cui si abbandona l’autore. La prima consiste in una autocritica: qualche anno dopo la pubblicazione, il Fucini prese le distanze da quelle nette condanne del popolo napoletano, definendo senza mezzi termini il suo lavoro “un librettaccio”. La seconda e più completa confessione si legge proprio alla fine del suo reportage di viaggio, quando nell’ultimo saluto a Napoli, le si rivolge così: “Io non ti ho certo adulata come tutti gli altri tuoi amanti, ma tu non volermene male, perché forse più di tutti gli altri ti amo”. Assolto l’autore, come assolviamo la città? Sarebbe infatti ingiusto non sottolineare che la schiera dei declassatori della città è davvero lunga e anche in epoca recente si sono accodati a questi stereotipi illustri scrittori, come ad esempio Giorgio Bocca che ha definito Napoli “un cimiciaio” e “un’area urbana marcia e inguaribile”. Nulla da meravigliarsi, visto che ad aprire la stura siamo stati proprio noi napoletani, inventori non a caso dell’adagio “il presepe è bello, sono i pastori che fanno schifo”. In realtà sia il nostro giudizio sia quello di molti commentatori giornalistici tende a mettere tra parentesi la sostanza delle cose. Che è una sola: la responsabilità dei gruppi di potere che si sono alternati alla guida della città. Andiamo a vedere, ad esempio, ciò che accadde appena sette anni dopo il reportage di Fucini: nel 1877 aveva visto giusto sul pericoloso sudiciume di Napoli e infatti nel 1884 scoppiò una delle più gravi epidemie di colera della storia della città. Il potere politico come reagì? Con quella colossale opera di “risanamento” 9
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che sventrò molti quartieri malsani della città, ma non a beneficio delle classi più umili bensì a vantaggio della speculazione edilizia. Insomma, il famoso “paravento” denunciato da Matilde Serao, dietro il quale continuarono a nascondersi le antiche contraddizioni sociali. Come del resto “paravento” furono le successive grandi opere che investirono la città nei decenni successivi: “sua maestà il piccone demolitore” di epoca fascista; poi il sacco della città da parte dei costruttori laurini nella seconda metà del ‘900; infine gli oscuri sperperi della “ricostruzione” dopo il terremoto del 1980 che ridiedero linfa alla camorra. E tanto per venire all’oggi, la sequela di grandi e vuote progettualità urbanistiche che sono ormai da decenni solo disegni sulla carta e prebende per enti inattivi. Insomma, nel corso dei secoli la città è stata questo: assenza di una visione d’insieme al fine di favorire episodiche e decantate mega progettualità legate a precisi interessi economici e di potere. Perciò andiamo piano con il calcare la mano sulla plebe e sui lazzari; e andiamo piano sull’autoflaggellarsi per le nostre responsabilità come cittadini. Se Renato Fucini avesse potuto continuare il suo reportage, avrebbe visto più volte quella plebe, improvvisamente e inaspettatamente, sulle barricate: nelle giornate della rivolta antipoliziesca e antistituzionale del 1893; in quelle del 1898 contro la repressione delle nascenti organizzazioni sindacali; nel 1914 durante i tragici giorni della “settimana rossa” capitanati da Arturo Labriola; nelle eroiche “quattro giornate” in cui il popolo guadagnò alla città la medaglia d’oro nella lotta al nazifascismo; le lotte popolari per la casa negli anni ‘70 e via di questo passo… Chi ha raccolto questa crescita della coscienza degli strati più umili, elevandola a nuova responsabilità civile anziché rigettarla nel recinto di piccole fiammate? Nessuno. A tal punto che persi10
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no oggi siamo sempre lì. Cioè a ragionare su come è possibile che la società civile si esprima periodicamente in vampate di vari “rinascimenti” per poi essere relegata nell’angolo senza nessun peso politico e senza nessun peso decisionale. Perciò la vera discussione attuale è tutta qui: nella natura del potere economico e politico che non ha interesse ad incidere sulle contraddizioni sociali della città, ma che invece perpetua un sostanziale modello di dirigismo, peraltro vuoto e solitario. C’è davanti a noi il grande tema di un nuovo schema di rapporti tra governanti e cittadini, un nuovo meccanismo di partecipazione decisionale alle fondamentali scelte della città. Proviamo a parlare di questo e forse persino la storia della plebe e dei lazzari andrà rivisitata e riscritta. Attilio Wanderlingh
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indice
introduzione
pag. 5
prima lettera dove si parla della cittĂ
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seconda letttera dove si parla della popolazione
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terza lettera dove si parla di Sorrento, d’Amalfi e di Pompei
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quarta lettera dove si parla dei quartieri dei poveri
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quinta lettera dove si parla della festa di Montevergine
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sesta lettera dove si parla del Camposanto vecchio
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settima lettera dove si parla d’una gita a Capri
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ottava lettera dove si parla di una gita notturna al Vesuvio
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nona lettera spigolature
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finito di stampare nel febbraio 2014
per conto delle edizioni Intra Moenia presso TipolitoGiglio Srl