Johann Wol f g ang Goe t h e
Viaggio a Roma novembre 1786 - febbraio 1787 giugno 1787 - aprile 1788 traduzione di Eugenio Zaniboni
introduzione
“Acquedotti, terme, teatri, anfiteatri, circhi, templi! E poi i palazzi imperiali, i sepolcri dei Grandi! Con queste immagini ho nutrito e rinfrancato il mio spirito!” J. W. Goethe
Il 3 settembre del 1786, Johann Wolfgang Goethe lascia il Granducato di Weimar in Germania e si mette in cammino per l’Italia. Ha inizio quella che sarà un’ esperienza fondamentale, una cesura netta nella vita dello scrittore, allora trentasettenne. La consuetudine del grand tour, come venivano chiamati i viaggi di studio e formazione attraverso l’Europa e in particolare l’Italia, la Francia e la Grecia, si era diffusa sin dal ‘600, radicandosi per i successivi due secoli tra i giovani intellettuali aristocratici del vecchio continente. Un’ esigenza prettamente culturale e spirituale muove gli studiosi a intraprendere il viaggio, che solitamente perdura mesi o anche anni, nelle città maggiormente ricche di storia e di arte. Goethe, uno dei maggiori poeti che l’Europa annoveri, già molto conosciuto per il suo I dolori del giovane Werther, si appresta a partire spinto da un intimo e fortissimo desiderio di visitare il paese dell’arte per 5
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eccellenza: l’Italia, un luogo mitico, intriso di storia, sognato fin dall’infanzia, quando da ragazzino, nella biblioteca paterna, sfogliava i numerosi volumi degli autori classici e di arte antica. Quelle prime letture, l’osservazione delle riproduzioni delle opere d’arte greca e romana, le testimonianze del grand tour paterno, che, a sua volta, era stato in Italia rimanendone fortemente impressionato, tutto questo agirà maturando in lui una spinta irresistibile ad avvicinarsi e toccare con mano quanto fino allora aveva con grande passione studiato. D'altra parte per Goethe partire alla volta dell’Italia diventa un bisogno diremmo quasi esistenziale, dal quale si aspetta grandi benefici dato il suo umore depresso e la sua stanchezza spirituale. E sarà questo che più volte, nelle lettere, ricorderà a sua discolpa agli amici lasciati all’improvviso e senza rivelar nulla della meta del suo viaggio. Il soggiorno in Italia e a Roma in particolare è atteso dallo scrittore come la cosa che sola può ridargli quella serenità e quella calma necessarie per continuare a produrre e a vivere in pace. “In questi ultimi anni - scrive in una lettera indirizzata al duca di Weimar - quell’aspirazione (di vedere l’Italia) era diventata come una malattia, dalla quale non mi potevano guarire se non la vista e la presenza delle cose reali. Ora lo posso confessare: ero arrivato al punto da non poter nemmeno vedere un libro latino né un disegno di qualsiasi regione d'Italia”. Lascia, dunque, il paese natio quasi in segreto, non vuole che ostacoli si frappongano al suo fermo intento e parte da solo, sotto un falso nome: Filippo Möller. Dopo aver attraversato la Germania fino al passo del Brennero, arriva al confine con l’Italia carico d'emozione e di speranza. Visita con grande curiosità le città che attraversa: Verona, Vicenza, Venezia, Padova, Bologna e infine Roma, la tanto agognata Città Eterna, 6
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luogo ricco di storia e di monumenti, nel quale Goethe vuole darsi “anima e corpo alle cose grandi; istruirmi ed educarmi, prima che il quarantesimo anno mi raggiunga”. La permanenza nell’antica Capitale, quasi due anni, porterà nell’animo del poeta proprio quanto da tempo egli fortemente desidera: “Sto sempre bene e sono soddisfatto di me”, dirà più volte nelle sue lettere. Roma con i suoi tesori d’arte, gli affascinanti resti dell’età imperiale e repubblicana, le innumerevoli testimonianze della grandezza dello spirito umano espressasi nei secoli, serve a placare la smania di conoscenza del poeta tedesco, studioso instancabile e curioso: “Io non voglio aver pace – confessa agli amici - finché nulla non sia più per me vuota parola e tradizione, ma tutto intuizione viva. Fin dalla giovinezza, questo è stato il mio sospiro e il mio tormento.” Roma è la grande occasione di Goethe, “una scuola troppo grande per poterla lasciare così presto”, si giustifica ripetutamente nelle lettere; implora i suoi di avere pazienza per il prolungarsi della permanenza nella “Capitale del mondo”, di capire le sue pressanti esigenze: “I miei studi d'arte, i miei modesti talenti devono essere coltivati qui fino a diventare maturi, altrimenti vi riporterò soltanto un amico per metà, e le mie aspirazioni, i miei sforzi (...), cominceranno da capo”. Con tale fervore conoscitivo, il poeta si tuffa nella città, divorandone con scrupolosa attenzione i monumenti antichi e moderni e i capolavori della pittura e della scultura, di cui studia ogni minimo particolare, sempre con l’edificante compagnia di qualche artista e studioso straniero in soggiorno a Roma. Ogni angolo monumentale della città è passato in rassegna, i luoghi e le opere vengono visitati anche più volte, offrendo al lettore il privilegio di conoscere e scoprire la città di fine Settecento con gli occhi di un artista raffinato e sensibile quale era Goethe. 7
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Quest’ultimo è sempre più estasiato e intimamente arricchito dallo studio e dall’accorta osservazione di lavori mirabili, come la michelangiolesca Cappella Sistina, i capolavori dell’amato Raffaello, il Castel Sant’Angelo, San Pietro, tutta l’architettura antica e le numerose chiese seicentesche. Roma, come osserva il letterato, è un luogo così ricco che non si può “scender di casa senza imbattersi in oggetti d'un qualche interesse” ed egli si sente come “una bottiglia aperta immersa sott'acqua (che) si riempie subito, così qui è facile riempire se stessi (...), l’elemento artistico ci inonda da tutte le parti”. Belle e interessanti le pagine in cui descrive le feste sacre, i monumenti illuminati per le solennità religiose, l’imponenza del Colosseo, la magia della città notturna rischiarata dalla luna piena. Non manca, ovviamente, la frequentazione del bel mondo; Roma è un centro culturale importantissimo in Europa e vi convergono numerosi artisti e intellettuali, e nutrito è il gruppo di letterati e studiosi tedeschi con i quali il Goethe viene a contatto. Ma i suoi rapporti con l’alta società, la sua partecipazione ai salotti e alle cene cui spesso è invitato, è sempre molto misurata. Goethe è un uomo riservato, schivo, preferisce lo studio e la buona compagnia di qualche amico alle feste: “Vorrebbero cacciarmi in mezzo al gran mondo, ma io sfuggo”. A Roma si approfondisce nello studio dell’arte, abbiamo detto, iniziando seriamente ad impegnarsi anche nell’esercizio del disegno, della scultura, e poi studia musica, va spesso a teatro, riprende e termina alcuni importanti lavori letterari. È prolifico, felice, e lo ripete spesso: Roma e la bellezza dei capolavori che custodisce e che egli osserva con la massima serietà, lo hanno ringiovanito. “Io sono veramente rinato e rinnovellato e rieducato. Sento che la somma delle mie forze ha raggiunto il colmo”. Interessantissima è poi la parte del libro dedicata al Carnevale di 8
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Roma dove lo scrittore racconta con dovizia di particolari questa enorme e bizzarra festa che sconvolge la città, lasciandolo davvero stupefatto e spesso anche disgustato per gli eccessi cui si abbandona il popolo. Roma - ci racconta Goethe - diviene in quei giorni il teatro di ogni pazzia, la gente opportunamente mascherata dà sfogo alla propria voglia di divertimento e di sovvertimento dell’ordine consueto. Il poeta descrive le maschere, le corse dei cavalli sul Corso, la calca asfissiante di gente, gli scherzi e gli sberleffi a cui di continuo assiste per strada, gli spettacoli improvvisati, la civetteria delle donne in costume, il corteo delle carrozze. È un’ esplosione di colori e un ribaltamento delle regole che non riesce però a svagare e a coinvolgere lo scrittore, molto critico invece per un tipo di divertimento che a suoi occhi appare affettato, finto, che della vera allegria non ricorda nulla. Belle, inoltre, le considerazioni finali in cui Goethe fa del Carnevale romano una metafora della vita, “che non si può abbracciar tutta d'un colpo d'occhio, né goderla tutta, piena di pericoli com'è”. E ancora, che “della libertà e dell’eguaglianza (che in quei giorni si dà poiché ognuno abbandona i propri ruoli abituali) non si può godere se non nell’ebbrezza della follia”. Poste tra autobiografia, romanzo di formazione e diario di viaggio, queste preziose pagine del lungo soggiorno romano di Goethe, tratte dal suo celebre Viaggio in Italia, conducono il lettore a passeggio tra le bellezze capitoline, tratteggiate con grande sensibilità e acume, e al tempo stesso alla scoperta dell’animo di uno dei più grandi letterati di tutti i tempi, tra speranze, entusiasmi e riflessioni di un uomo che ha amato la Bellezza come fonte di ogni ricchezza spirituale. Concetta Celotto
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1 novembre Finalmente posso rompere il silenzio e mandare di buon animo un saluto agli amici! Possano essi perdonarmi il segreto di questo viaggio, direi, quasi sotterraneo. Io osavo appena dire a me stesso dove ero diretto, e perfino lungo la via, ancora temevo di non giungere alla meta; soltanto sotto la Porta del Popolo1 ho avuto la certezza di aver raggiunto Roma.2 E lasciatemi dire ancora che ho pensato mille volte, che penso continuamente a voi al cospetto di tante cose che non avrei mai creduto di poter vedere da solo. Soltanto quando mi sono accorto che tutti i miei amici erano come incatenati anima e corpo nel Settentrione, e che ogni aspirazione a visitare questa terra poco a poco svaniva, solo allora mi sono deciso ad intraprendere un lungo viaggio solitario e a cercare il centro, 1. La Porta del Popolo, eretta nel 1565 da Nanni di Baccio Bigio e completata dal Bernini che nel 1655 vi aggiunse la facciata interna, costituiva l’accesso alla città per i viaggiatori provenienti dal Settentrione. 2. Goethe arrivò a Roma la sera del 29 ottobre. La prima notte dormì nella locanda (oggi Hostaria) dell’Orso, dove, secondo la tradizione, aveva soggiornato anche Dante, e sicuramente Rabelais e Montaigne.
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al quale mi traeva un irresistibile bisogno. In questi ultimi anni, quell’aspirazione era diventata come una malattia, dalla quale non mi potevano sanare se non la vista e la presenza delle cose reali. Ora lo posso confessare. Ero arrivato al punto di non poter nemmeno vedere un libro latino né un disegno di qualsiasi regione d’ Italia. Il desiderio intenso di visitare questa terra era da troppo tempo maturo; ora che questo è soddisfatto nell’intimo del cuore, gli amici e la patria mi sono diventati ancor più cari e il ritorno più desiderabile; tanto più perché sento che tutti questi tesori non li porterò con me a vantaggio mio soltanto, e solo per mio uso privato, ma perché possano servire per tutta la vita, a me e ad altri, di guida e di sprone. 1 novembre Sì, sono arrivato finalmente in questa capitale del mondo! Se l’avessi visitata quindici anni or sono, in buona compagnia, sotto la scorta di un uomo davvero intelligente, mi stimerei di certo fortunato. Ma poiché devo visitarla da solo e vederla coi miei occhi soltanto, è bene che tanta gioia mi sia stata concessa così tardi. Attraverso le Alpi tirolesi sono passato quasi al volo. Ho visto bene Verona, Vicenza, Padova e Venezia; alla sfuggita Ferrara, Cento e Bologna; Firenze appena appena. L’ansia di arrivare a Roma era sì grande ed aumentava talmente ad ogni istante, che non potevo più star fermo e a Firenze non mi sono trattenuto che tre ore. Eccomi ora a Roma, tranquillo e, a quanto sembra, acquietato per tutta la vita. Poter contemplare coi propri occhi tutto un complesso, del quale già si conoscevano interiormente ed esteriormente i particolari, è direi quasi come incominciare 12
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una vita nuova. Tutti i sogni della mia giovinezza ora li vedo vivi; le prime incisioni di cui mi ricordo (mio padre aveva collocato in un’ anticamera le vedute di Roma), ora le vedo nella realtà e tutto ciò che da tempo conoscevo in fatto di quadri e disegni, di rami o di incisioni in legno, di gessi o di sugheri, tutto ora mi sta raccolto innanzi agli occhi e dovunque io vada, trovo un’ antica conoscenza in un mondo forestiero. Tutto è come lo immaginavo, e tutto è nuovo. Altrettanto posso dire delle mie osservazioni e delle mie idee. Non ho avuto nemmeno un pensiero del tutto nuovo, non ho trovato nulla di completamente estraneo a me, ma i pensieri antichi mi sono diventati così precisi, così vivi, così concatenati l’un l’altro, che veramente possono passare per nuovi. Quando l’Elisa di Pigmalione, che l’artefice si era plasmata conforme ai suoi desideri e in cui aveva infuso tutta la verità e tutta la vita che gli era stata possibile, venne finalmente a lui e gli disse: “Eccomi!”, come dovette apparire diversa la creatura viva dal marmo scolpito! E quanto è anche moralmente salutare per me, il vivere fra un popolo dotato di tanta sensibilità, sul quale si è tanto parlato e tanto scritto, e che ogni straniero giudica secondo il criterio ch’egli porta con sé! Io perdono tutti quelli che criticano o condannano questo popolo; esso è troppo lontano da noi e al forestiero costa troppa fatica e troppa spesa l’aver contatto con lui. 3 novembre Una delle ragioni principali per cui ritenevo di dover anticipare il mio arrivo, era la festa di tutti i Santi, il primo 13
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novembre; se a un santo solo, pensavo, si fa tanto onore, che cosa non si farà per tutti? Ma quanto mi ingannavo. La chiesa di Roma non ha mai voluto alcuna festa generale di grande imponenza; ogni ordine ha sempre potuto celebrare in particolare e tranquillamente la memoria del suo patrono. La festa dell’onomastico e del giorno solenne che gli è consacrato, è precisamente quella in cui ogni Santo appare in tutta la sua gloria. Ieri invece, giorno dei Morti, sono stato più fortunato, la commemorazione dei defunti viene celebrata dal Papa nella sua cappella privata al Quirinale.3 Tutti vi hanno libero accesso; anche io, col Tischbein,4 sono accorso a Monte Cavallo. La piazza davanti al palazzo ha qualche cosa di tutto proprio; è certo irregolare, ma grandiosa e fa una gradita impressione. Ho visto finalmente i due colossi5, ma né occhio né pensiero umano bastano per afferrarne tutta la bellezza. Ci siamo fatti largo tra la folla, spingendoci attraverso un cortile superbo e spazioso, su per la scala immensa. In questi vestiboli, dirimpetto alla cappella pontificia e al cospetto della fuga degli appartamenti, sotto lo stesso tetto del vicario di Cristo, si prova un sentimento singolare. La cerimonia era cominciata e il Papa6 e i cardinali erano già in chiesa. Il santo Padre mi è parso la figura più bella e più venerabile, i cardinali, di età e di aspetto diversi. Uno strano desiderio s’impadronì di me in quel momento: che cioè il Papa aprisse la sua bocca d’oro e che, par3. Il Palazzo del Quirinale fu la residenza estiva dei Papi.
4. Johann Heinrich Wilhelm Tischbein (1751-1829). Ritrattista e pittore di quadri a soggetto storico. Nel 1787 realizza il famosissimo dipinto “Goethe nella campagna romana”, attualmente conservato a Francoforte. Lo scrittore, avvolto in un mantello da viaggiatore, è ritratto sullo sfondo dell'Appia antica tra i resti di antiche rovine. 5. Si tratta delle due statue dei Dioscuri.
6. Pio VI, al secolo Giovanni Angelico, fu Pontefice dal 1775 al 1799.
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lando con entusiasmo dell’inesprimibile gaudio delle anime beate, riuscisse a sua volta ad entusiasmare anche noi. Ma come lo vidi muoversi semplicemente di qua e di là davanti all’altare e volgersi ora da una parte ora dall’altra, gesticolando e biascicando orazioni come il più umile prete, il peccato originario del protestante si risvegliò in me e il solito sacrificio della messa che già conoscevo, finì col disgustarmi. Cristo ha spiegato a viva voce fin da fanciullo la Sacra Scrittura e nella giovinezza non ha certo insegnato e operato a bocca chiusa; anzi egli conversava volentieri e bene e con finezza, come apprendiamo dagli evangeli. Ma che direbbe egli, pensavo, se entrasse qui e vedesse il suo rappresentante in terra borbottare e tentennare di qua e di là? Il Venio iterum crucifigi! mi ritornò alla memoria e feci un segno al mio compagno per passare nell’aria più libera delle sale a volta, adorne di dipinti. Vi trovammo una quantità di persone che osservavano con raccoglimento quei quadri preziosi; questa festa dei Morti, infatti, è nel tempo stesso la festa di tutti gli artisti di Roma. Come la cappella pontificia, così anche il palazzo con tutte le sue sale è accessibile a tutti, e per molte ore della giornata l’ingresso è libero; non occorre nemmeno dare una mancia, né si ha alcuna noia dal custode. Ho dedicato subito la mia attenzione agli affreschi ed ho imparato a conoscere parecchi eccellenti artisti a me noti appena per nome; fra gli altri, ho potuto apprezzare ed amare quel pittore tutta grazia che è Carlo Maratti. Ma soprattutto sono stato felice di imbattermi nei capolavori degli artisti, alla cui maniera e alla cui scuola il mio spirito s’era già educato. Ho veduto ed ammirato la Santa Petronilla del Guercino che prima si trovava in San Pietro, dove adesso in luogo dell’originale si vede una copia in mosaico. 15
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Il corpo della Santa viene sollevato dal sepolcro ed ella, richiamata in vita, è accolta nel regno dei cieli da un divino adolescente. Checché si possa obbiettare a proposito di questa duplice azione, il quadro è di inapprezzabile valore. Ancor più mi ha colpito un quadro del Tiziano.7 Questo sorpassa tutti i quadri che ho visto fino ad ora. Se il mio gusto sia ormai più raffinato o se questa tela sia in realtà la più perfetta di tutte, non saprei decidere. Un’abbondante pianeta, grave di ricami e di figure d’oro cesellato, avvolge la figura imponente di un vescovo, che regge il pastorale massiccio nella sinistra alzando gli occhi al cielo in atto di rapimento, mentre con la destra sostiene un libro, dalla lettura del quale sembra attingere in quel momento una divina commozione. Dietro a lui una bella vergine, con la palma in mano, guarda con amabile sollecitudine il libro aperto. Un grave vegliardo a destra, vicinissimo al libro, sembra invece che non vi presti alcuna attenzione; avendo le chiavi in mano, egli può ben lusingarsi di aprire l’entrata da sé. Dirimpetto a questo gruppo si trova un giovane nudo, dalle belle forme, legato, trafitto dalle frecce, che guarda innanzi a sé in atto di modestia e di rassegnazione. Nel frattempo, due monaci portanti la croce ed il giglio, si volgono devotamente verso quei celesti; perché, in alto, la sala a mezza volta che inquadra tutti i personaggi è aperta. Lassù, nella gloria dei cieli, si libra una madre che guarda verso il basso con pietosa sollecitudine. Il bimbo che ella tiene in grembo, tutto vivace e raggiante, offre con il gesto pieno di grazia una corona, che direste voglia gettare fra gli astanti. Ai due lati si librano angeli portanti altre corone, ma al di sopra di tutti e sopra una triplice corona radiosa volteggia la 7. La “Madonna di San Niccolò dei Frani” di Tiziano è conservata alla Pinacoteca Vaticana.
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colomba celeste, che rappresenta il centro e insieme la chiave di volta di tutto il quadro. Potremmo dire che nel fondo dell’opera vi sia senza dubbio una pia tradizione antica, che ha potuto raccogliere insieme con tanta arte e con tanta espressione personaggi così diversi e di così vario interesse. Ma non indagheremo il come e il perché, paghi di ammirare l’opera d’arte di pregio inestimabile. Meno incomprensibile, ma tuttavia pieno di mistero è un affresco di Guido8 nella cappella che porta il suo nome. La piissima Vergine, così infantilmente adorabile, è assisa tranquilla e assorta e cuce, mentre due angeli al suo fianco sono in attesa d’un cenno, per prestarle i loro servigi. L’innocenza giovanile e la laboriosità, protette ed onorate dal cielo: ecco quello che c’insegna questo grazioso quadro, il quale non ha bisogno né d’una leggenda né d’illustrazione. Ed ecco, tanto per addolcire un po’ la gravità di queste riflessioni artistiche, un’ avventura allegra. Io avevo notato che parecchi artisti tedeschi, dopo essersi avvicinati con l’aria di conoscenti al Tischbein, mi osservavano, girandomi intorno. L’ amico, che mi aveva lasciato per pochi istanti, ritornato a me, disse: “È amenissimo quello che succede. La voce che lei si trovi a Roma si è già diffusa e gli artisti hanno preso di mira l’unico forestiero che non conoscono. Ce n’è uno della nostra compagnia che afferma già da tempo d’essere stato in relazione con lei, anzi d’aver vissuto parecchio con lei in rapporti di amicizia, cosa alla quale non volevamo proprio credere. Costui è stato ora invitato a osservarla attentamente per fugare ogni dubbio, ma ha dichiarato senz’altro che lei non è Goethe, ma un forestiero, che alla figura e all’aspetto non le somiglia né 8. L’ “Annunciazione” di Guido Reni si trova nella Cappella dell’Annunziata al Quirinale.
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poco né punto. Così il suo incognito per il momento è salvo ed in seguito ci sarà da ridere”. Io mi confusi allora più liberamente nella schiera degli artisti, chiedendo notizia degli autori dei vari quadri, la cui scuola non mi era ancora nota. Alla fine un quadro sopra tutti mi colpì: un San Giorgio vittorioso del dragone e liberatore della Vergine. Nessuno mi sapeva dire il nome dell’autore, quando si fece innanzi un omino tutto modesto, che fino allora non aveva aperto bocca, il quale m’informò che il quadro era del Pordenone,9 un veneziano, che era anzi uno dei suoi migliori e in cui risaltava tutto il suo valore. Allora mi potei spiegare perfettamente la mia simpatia: il quadro mi aveva interessato perché, avendo già familiarità con la scuola veneziana, ero in grado di apprezzare meglio le qualità dei suoi maestri. L’artista che mi aveva dato queste spiegazioni è Enrico Meyer,10 svizzero che studia da parecchi anni con un amico di nome Cölla;11 è un valente riproduttore alla seppia di busti antichi ed egregiamente versato nella storia dell’arte. 5 novembre Mi trovo qui da sette giorni e poco a poco si va formando nel mio spirito l’idea generale della città. Andiamo continuamente da un luogo all’altro ed io imparo così a conoscere la 9. In realtà “San Giorgio e il drago” è un dipinto di Paris Bordon. Si trova attualmente alla Pinacoteca vaticana. 10. Johann Heinrich Meyer (1760-1832). Pittore e critico d’arte svizzero. Dal 1784 soggiorna a Roma dove conosce Goethe: nasce tra i due una profonda amicizia e grande collaborazione professionale. 11. Heinrich Koella (1757-1789). Pittore svizzero.
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pianta della Roma antica e di quella moderna, osservo le rovine e gli edifici, visito questa e quella villa, mentre ai monumenti più grandiosi non mi accosto che poco alla volta. Apro semplicemente gli occhi e vedo e vado e vengo, perché solo a Roma è possibile prepararsi a comprendere Roma. Confessiamo tuttavia che è un lavoro ingrato e triste questo voler dissotterrare Roma antica dalla moderna; eppure bisogna fare anche questo, se si vuol godere alla fine un’ incomparabile soddisfazione. Si trovano tracce d’una magnificenza e d’una distruzione che oltrepassano entrambe la nostra immaginazione. Quello che i barbari hanno lasciato in piedi, hanno devastato gli architetti della Roma moderna. A considerare un’ esistenza che risale a duemila anni e più, trasfigurata dalla vicenda dei tempi in modo così vario e talora così radicale, mentre è pur sempre quello stesso suolo, quegli stessi colli, spesso perfino le stesse colonne e le stesse mura, e perfino nella popolazione si vedono ancora le stimmate del carattere antico, si finisce col diventar contemporanei dei grandi disegni del destino: ed ecco perché in principio riesce difficile all’osservatore il discernere come Roma sia succeduta a Roma, e non soltanto la nuova sopra l’antica, ma le varie epoche dell’antica e della nuova, l’una sull’altra. Io mi accontento soprattutto di scoprire da me i punti mezzo nascosti; ché solo in tal modo si può trarre pieno profitto dei buoni lavori preparatori. Infatti dal secolo XV fino ai nostri giorni, artisti e dotti di gran valore non si sono occupati per tutta la loro vita che di queste indagini. Eppure, tutta questa meravigliosa massa di cose agisce su di noi del tutto tranquillamente, via via che si visita Roma anche solo per accostarci frettolosamente ai monumenti più insigni. Altrove, bisogna cercare ciò che ha importanza: qui 19
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ne siamo oppressi e schiacciati. Sia che si percorra la città o ci si fermi per via, ci vediamo innanzi paesaggi d’ogni specie, palazzi e rovine, giardini e luoghi incolti, sfondi e angiporti, casupole, stalle, archi trionfali e colonne, e tutto spesso così vicino che si potrebbe riprodurlo sopra un foglio solo. Bisognerebbe incidere con mille ceselli; che cosa può fare, qui, una sola penna? E la sera si è stanchi e spossati, per aver troppo visto e troppo ammirato. 7 novembre Mi perdonino gli amici se d’ora innanzi mi troveranno povero di parole; mentre si viaggia, si raccoglie lungo la via quello che si può; ogni giorno arreca qualche cosa di nuovo e si ha fretta anche di pensarvi sopra e di giudicare. Qui, invece, ci troviamo in una grande scuola in cui un giorno dice tante cose, che non si ha poi il coraggio di dir nulla. Si farebbe assai bene se, dimorando qui per alcuni anni, si mantenesse un silenzio pitagorico. Mi sento proprio bene, il tempo, come dicono i romani, è brutto. Soffia un vento di mezzogiorno, lo scirocco, che ogni giorno porta più o meno della pioggia; ma io non posso trovare brutto un tempo simile, perché fa caldo come da noi non fa nemmeno in estate, s’intende quando piove. Imparo a conoscere e ad apprezzare sempre più il talento di Tischbein, i suoi propositi e le sue vedute in materia d’arte. Mi ha fatto vedere i suoi disegni e i suoi schizzi che rappresentano e promettono molte cose buone. Grazie al suo 20
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soggiorno presso il Bodmer,12 i suoi pensieri sono risaliti ai primi tempi del genere umano, quando questo si è visto collocato sulla terra e ha dovuto risolvere il problema di diventare padrone del mondo. Come geniale introduzione a tutto un complesso, egli ha cercato di rappresentare sensibilmente l’epoca primitiva del mondo. Montagne rivestite d’imponenti foreste, voragini corrose dalle acque, vulcani spenti e appena leggermente fumanti. Nel primo piano il tronco possente di un’ annosa quercia nascosta per metà sotto terra e contro le cui radici in parte scoperte un cervo prova la forza delle sue corna: il tutto altrettanto bene ideato che felicemente eseguito. Egli ha quindi rappresentato sopra un cartone degno della più viva attenzione, un uomo nella duplice qualità di domatore di cavalli e di creatura superiore, se non per la forza, almeno per l’astuzia, a tutti gli animali della terra, dell’aria e dell’acqua. La composizione è d’una bellezza straordinaria e, riprodotta in un quadro a olio, produrrebbe una grande impressione. Dovremmo averne assolutamente un disegno a Weimar. Oltre a tutto questo, Tischbein sta studiando un convegno di sapienti antichi, in cui coglierà l’occasione di rappresentare delle figure reali. Ma ora sta abbozzando col più grande entusiasmo una battaglia in cui due corpi di cavalleria si attaccano con pari furore, e precisamente in un punto, in cui un enorme crepaccio li divide e oltre al quale il cavallo non potrebbe spingersi che col massimo sforzo. A difendersi non è nemmeno il caso di pensare. Un attacco audace, una risoluzione selvaggia, la vittoria oppure il precipizio nell’abisso. Questo quadro gli offrirà occasione di sviluppare in modo 12. Johann Jacob Bodmer (1698-1783). Letterato svizzero.
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notevolissimo la conoscenza che egli ha già del cavallo, della sua struttura e dei suoi atteggiamenti. Tutti questi quadri e tutta una serie di altri che vi si collegano, egli vorrebbe vedere riuniti in un poema, a illustrazione delle scene rappresentate, mentre il poema stesso guadagnerebbe a sua volta di vita e di attrattiva con l’aiuto delle illustrazioni. L’idea è felice, ma converrebbe vivere insieme parecchi anni per portare a termine un’ opera simile. Non ho visto finora che una sola volta le logge di Raffaello e i grandi quadri della scuola d’Atene;13 come se si dovesse studiare Omero in un manoscritto parzialmente cancellato e danneggiato. Il piacere della prima impressione è incompleto; solo dopo aver bene esaminato e studiato poco a poco l’assieme, il godimento raggiunge il colmo. Le cose meglio conservate sono i soffitti delle logge, che rappresentano storie bibliche di tanta freschezza come se fossero state dipinte ieri; veramente, solo in minor parte sono di mano di Raffaello, ma tutte dipinte con gran perfezione, conforme ai suoi disegni e sotto la sua direzione. Ho avuto qualche volta fantasia, ed ho nutrito anche il più ardente desiderio nei tempi andati, di essere accompagnato in un viaggio in Italia da un uomo di sicura dottrina, da un inglese, colto in materia d’arte e di storia; ebbene, tutto questo si è avverato nel frattempo, meglio che non avessi potuto immaginare. Tischbein viveva qui da tempo, col cuore dell’an13. “La Scuola di Atene” è un affresco di Raffaello Sanzio che si trova nella Stanza della Segnatura, una delle Stanze del Raffaello. Le quattro sale affrescate dal grande pittore e dai suoi allievi fanno parte dei Musei Vaticani.
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tico che anelava di farmi vedere Roma; la nostra relazione è vecchia rispetto alla corrispondenza epistolare, nuova rispetto alla conoscenza personale: dove avrei potuto imbattermi in una guida più degna? Per quanto il mio tempo sia limitato, io godrò e apprenderò tutto il possibile. E con tutto questo prevedo che il giorno in cui partirò, desidererò di ritornare. 8 novembre Il mio curioso semi-incognito, che forse non è se non un capriccio, mi procura vantaggi ai quali non potevo pensare. Credendosi ognuno obbligato ad ignorare ch’io sia e non potendo quindi nemmeno parlare a me di me, non rimane altro a coloro che io frequento, se non di parlare di se stessi o di cose che li interessano; in tal modo apprendo unicamente quello di cui ognuno si occupa, o quello che in generale può accadere di notevole. Il consigliere Reiffenstein14 mi ha aiutato anche in questo mio capriccio; ma non potendo egli soffrire per una ragione particolare il nome che ho adottato, mi ha subito dato del barone ed io adesso non sono che il “barone dirimpetto a Rondanini”:15 con ciò sono designato abbastanza esattamente, tanto più che gli italiani non chiamano le persone se non col prenome o con un soprannome. Basta, ho ottenuto quello che volevo e così mi sono liberato dalla noia infinita del dover rendere conto dei fatti miei. 14. Johann Friedrich von Reiffenstein (1719-1793). Pittore, archeologo e antiquario tedesco. Fu anche consigliere diplomatico delle corti di Russia e di Sassonia. Nel 1764 si stabilì a Roma dove faceva da Cicerone a turisti illustri.
15. Tischbein e Goethe abitavano in una casa di fronte a Palazzo Rondanini in via del Corso n. 18.
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finito di stampare nell’ ottobre 2015
per conto delle edizioni Intra Moenia
presso Vulcanica Print - Torre del Greco (Na)