ringraziamenti
Non è facile citare e ringraziare, in poche righe, tutte le persone che hanno contribuito alla nascita e alla messa a punto di questo volume. Sono veramente tante. In primo luogo il personale delle biblioteche e degli archivi, che si è mostrato sempre disponibile alle mie richieste, talvolta anche insolite e peregrine, e che con grande professionalità mi ha segnalato fonti e strumenti, che poi si sono rivelati fondamentali per la ricerca storica. Senza dubbio, però, le persone più interessanti ed indispensabili per questo lavoro sono state quelle incontrate durante le mie peregrinazioni quotidiane nei luoghi raccontati, luoghi non sempre aperti al pubblico o attualmente occupati da enti ed istituzioni ben lontani dalle antiche comunità religiose. Non solo mi hanno consentito di visitare chiese e monasteri, ma con le loro narrazioni e testimonianze mi hanno resa partecipe di avvenimenti e storie non raccontate né da fonti bibliografiche né registrate dalla documentazione che, spesso, come si sa, rimanda solo agli aspetti istituzionali e burocratici degli accadimenti. Nell’impossibilità di rivolgere a ciascuno di questi protagonisti, che rimarranno figure indelebili nella mia memoria ed indissolubilmente legate ai singoli siti, un ringraziamento specifico, esprimo a tutti la mia più profonda gratitudine. Non posso però non ringraziare Filomena Dell’Aversana, Raffaele Di Costanzo e Domenico Rosato che mi hanno incoraggiato e che hanno speso parte del loro tempo per leggere e discutere con me le bozze del lavoro. Il percorso, dunque, che ha portato alla realizzazione di questo volume non è stato sempre semplice ed è solo grazie ai tanti aiuti ricevuti che sono riuscita a compierlo, ma desidero precisare che ogni errore o inesattezza è imputabile soltanto a me.
Candida Carrino
ANDAR PER MONASTERI ISBN 9788874211548 © Edizioni Intra Moenia 2014 Il Distico Srl Via Costantinopoli 94, 80138 - Napoli www.intramoenia.it - info@intramoenia.it Impaginazione: Luca Mercogliano. In copertina: il chiostro maiolicato del convento di San Filippo Neri dei Girolamini. I diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo (compresi microfilm e copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
Candida Carrino
ANDAR PER MONASTERI
Itinerari alla scoperta di conventi, chiostri ed eremi di Napoli foto di Sergio Siano presentazione di Maria Rosaria de Divitiis
Presentazione È vero che la storia non si fa con i “se”, ma leggendo questa guida analitica che ci conduce alla storia e al destino dei monasteri e conventi di Napoli, costruita con puntigliosa capacità di ricerca da Candida Carrino, fatta anche di fonti orali, è naturale chiedersi quale sarebbe la rappresentazione urbana della città, se successive e ravvicinate soppressioni non avessero modificato tante aree di ogni parte della città stessa. Come è noto, dopo la conquista napoleonica del Regno borbonico, per la necessità di attuare le riforme sul modello francese, ma anche per “far cassa”, Giuseppe Bonaparte (Giuseppe Napoleone), primo Re francese di Napoli - dal febbraio 1806 al luglio 1808 - avviava la soppressione dei monasteri. Gennaro Aspreno Galante nel 1872 poteva già rilevare nella sua Guida Sacra quanto questa soppressione avesse stravolto la città, “ma siamo ancora prima del colera del 1884 e del successivo Risanamento”1. In realtà, requisire i beni della Chiesa non era una novità: l’espulsione dei Gesuiti e l’incameramento dei loro beni, il 20 novembre 1767, fu uno dei primi atti di Ferdinando IV dopo la Reggenza, di certo indotto dal primo ministro Tanucci, sulla scia del provvedimento adottato dal padre Carlo III di Spagna in un clima di grande avversione verso la Compagnia, potente e autorevole forza a sostegno del pontefice e capace di esercitare “un’indubbia influenza sulle élites del tempo”2, una forza che si calcolava avesse un patrimonio di oltre 2.600.000 ducati nella parte continentale del Regno e oltre 2.900.000 ducati in Sicilia3. Lo stesso Ferdinando aveva stabilito anche la soppressione di un gran numero di monasteri per far fronte al disastro causato dal terremoto del 1783 che aveva colpito la Calabria Ultra, una catastrofe che determinò l’istituzione della Cassa Sacra che provvide a stabilire l’abolizione di “tutti i conventi e conventini”4. E sempre Ferdinando nel 1798 imponeva la consegna dei tesori (argenti e gioielli) di chiese e conventi per le esigenze della guerra contro Napoleone. 1 L. Di Mauro, Cosa più dilettosa veder non si può in terra, in G. A. Galante, Guida sacra della città di Napoli, ed. a cura di N. Spinosa, Napoli, 1985. 2 G. Coniglio, I Borboni di Napoli, Milano, 1981.
3 F. Renda, L’espulsione dei Gesuiti dalle Due Sicilie, Palermo, 1993.
4 A. Placanica, L’archivio della regia giunta della cassa sacra in Catanzaro, in RAS, 1966, XXVI, pp. 63-100; 1967, XXVII, pp. 113-141. 5
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Altri monasteri furono soppressi durante la Repubblica napoletana del 1799, per cui tutti i beni ecclesiastici furono considerati a disposizione della nazione: un provvedimento di carattere ideologico, che mirava ad abolire tutti gli Ordini e le congregazioni religiose. Caduta la Repubblica napoletana e restaurata la monarchia borbonica, Ferdinando IV, con dispacci del 12 e del 20 luglio 1799, soppresse i monasteri di Monteoliveto, Ss. Severino e Sossio, S. Giovanni a Carbonara, S. Pietro a Maiella, S. Gaudioso e S. Martino, destinandone i beni così incamerati a coloro che erano stati danneggiati nel periodo repubblicano. Comunque, agli inizi dell’Ottocento si contavano oltre 17mila monaci e oltre 18mila suore5. Ritornando alla grande soppressione del Decennio, come prima ricognizione fu inviata dal Ministro del culto, Luigi Serra di Cassano, una circolare del 17 maggio 1806, rivolta ad ottenere dagli Ordinari l’elenco dei monasteri e dei conventi maschili e femminili del Regno con la loro ubicazione. Quindi, con il decreto del 2 luglio 1806, si attuava una nuova espulsione dei Gesuiti, che erano rientrati nel Regno di Napoli soltanto nel 1804 e così anche i loro beni venivano ancora una volta incamerati nelle casse dello Stato. Poi, in seguito alla legge del 31 luglio 1806, venivano soppressi numerosi monasteri, sia dei “mendicanti” che dei “possidenti”. La soppressione di molti Ordini religiosi riduceva il potere degli enti ecclesiastici nel Regno, garantiva consistenti introiti all’erario e permetteva la ridistribuzione di un’enorme quantità di beni immobili, essendo le proprietà degli enti religiosi assai consistenti. Il Villani afferma che, alla fine del ‘700, il patrimonio immobiliare religioso rappresentava un quarto del patrimonio generale del Regno e che nel periodo francese furono soppressi 1322 monasteri6. È il caso qui di ricordare che contemporaneamente il re Giuseppe affrontava “la più emblematica riforma del nuovo regime”, cioè sanciva l’eversione della feudalità, con la legge generale del 2 agosto 1806 che sopprimeva “il possesso, la giurisdizione, le privative, i privilegi, i redditi e i diritti feudali di ogni tipo” e sopprimeva anche “ tutte le prestazioni personali: angarie, perangarie, giornate, corveés dovute ai baroni”7 e stabiliva la cessione di parte delle terre feudali dietro indennizzo e la trasformazione dell’altra parte in proprietà di tipo borghese. 5 M. Rosa, Le istituzioni ecclesiastiche italiane tra Sei e Settecento, in Istituzioni. Cultura e Società in Italia e in Polonia (secc. XIII-XIX). Atti del Convegno italo-polacco di Studi Storici (Lecce-Napoli, 16-17 febbraio 1976), (a cura di) C. D. Fonseca, Galatina, 1979. 6 P. Villani, La vendita dei beni dello Stato nel Regno di Napoli (1808-1815), Milano, 1964 7 G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, Torino 2007, vol. IV 6
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Ma dopo pochi mesi il re Giuseppe affrontava ancora il problema dell’abolizione degli Ordini monastici delle Regole di S. Bernardo e di S. Benedetto, secolarizzando con il decreto del 13 febbraio 1807 oltre mille frati di quella Regola e incamerava così tutti i beni dei più ricchi conventi, perché, al di là della spinta ideologica, per cui i Francesi consideravano gli Ordini religiosi un’inutile “sovrastruttura” della Chiesa, era impellente come si è detto “le besoin d’argent”, secondo quanto scriveva Giuseppe a Napoleone il 15 febbraio 18078. Ancora Gioacchino Murat, re di Napoli, tra il 1808 e il 1815, come Gioacchino Napoleone, dopo l’assegnazione a Giuseppe del trono di Spagna, effettuava “la più ampia soppressione del Decennio”: con i due pesanti decreti, del 7 agosto 1809 e con il decreto del 21 dicembre 1809, escludeva dai benefici della pensione i religiosi degli Ordini soppressi. Con questo provvedimento si garantirono altri consistenti guadagni all’erario e la ridistribuzione di un’enorme quantità di beni immobili9. Con il ritorno dei Borboni restaurati, nel 1818, veniva sottoscritto tra la Santa Sede e il Regno delle Due Sicilie il Concordato di Terracina, che sanciva e garantiva di fatto la piena libertà religiosa per le comunità cattoliche, per cui sembrava che dovesse effettuarsi anche la restaurazione degli Ordini religiosi colpiti dalle leggi eversive, con il semplice richiamo nei chiostri dei religiosi e con la restituzione delle chiese ai legittimi prelati10. Ciò non avvenne, perché la cultura politica delle classi dirigenti era ormai “intrisa dell’ideologia illuminista … e del giurisdizionalismo, la dottrina dell’assolutismo illuminato che subordinava la religione agli interessi dello Stato”. Ma anche per motivi meramente concreti, perché molti beni erano già stati alienati alle famiglie della nuova borghesia, dunque, erano difficilmente recuperabili. Anche la ricostruzione di chiese e conventi, che le guerre, gli assedi e i terremoti avevano danneggiato o distrutto, avvenne in seguito solo a cura dei fedeli o delle Università. Subito dopo l’Unità d’Italia, una nuova soppressione di monasteri e conventi sembrava riflettere “in modo speculare” quella francese e si sostanziava delle stesse motivazioni ideologiche. Già il 17 febbraio 1861 Eugenio di Savoia, luogotenente del Re e viceré d’Italia, mentre ancora si combatteva contro i Borboni a Gaeta, dichiarava decaduto il Concordato di Terracina 8 Lettere inedite in J. Rambaud, Naples sous Joseph Bonaparte (1806-1808), Parigi, 1911; anche Archive de Joseph Bonaparte roi de Naples puis d’Espagne, Inventaire, 381 AP 5 dr. 2, in Archives Nationales, Parigi, 1982 9 A. Valente, Gioacchino Murat e l’Italia meridionale, Torino, 1976
10 W. Maturi, Il concordato del 1818 tra la Santa Sede e il Regno delle Due Sicilie, Firenze, 1929 7
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ed estendeva alle province napoletane la legislazione sabauda del 185511. I beni immobili e mobili dei monasteri che evidentemente si erano reinsediati ed erano ancora tanti, furono inventariati e passati al bilancio dello Stato. Le motivazioni riconducibili al desiderio di influire sull’assetto della Chiesa e sulla sua presenza nella società italiana furono solo alcune delle ragioni che portarono alle leggi eversive dell’asse ecclesiastico postunitarie. Non meno importanti furono i motivi d’ordine finanziario: attraverso la vendita del patrimonio degli enti religiosi si puntava a ridurre il disavanzo del bilancio statale, che si era notevolmente aggravato con la guerra del 1866. L’auspicio era anche che si potesse favorire una trasformazione economicosociale delle campagne con la formazione di una piccola proprietà contadina. Ma per le modalità con cui avvenne la messa all’asta delle terre incamerate, l’obiettivo non fu raggiunto. Infatti, questa operazione andò a beneficio di una ristretta cerchia di proprietari e latifondisti appartenenti alla nuova borghesia, che spesso ricoprivano cariche pubbliche e incarichi governativi, per cui si arricchivano con grave danno alle casse del nuovo Stato. “La vendita delle terre demaniali ed ecclesiastiche accelerò la trasformazione in senso borghese della proprietà fondiaria nel Mezzogiorno, ma i contadini restarono esclusi da questo processo di privatizzazione del possesso fondiario e videro peggiorare la loro condizione anche per la perdita degli antichi usi civici”12; a loro andarono piccoli lotti di terre scadenti, che non garantivano nemmeno una rendita utile a pagare le rate dell’acquisto concordato. Le due leggi di liquidazione dell’asse ecclesiastico furono approvate nel 1866 e nel 1867: con il regio decreto 3036 del 7 luglio 1866 era sancita la soppressione degli Ordini e delle corporazioni religiose. Veniva tolto il riconoscimento (e di conseguenza la capacità patrimoniale) a tutti gli Ordini, le corporazioni e le congregazioni religiose regolari, ai conservatori ed ai ritiri che comportassero vita in comune ed avessero carattere ecclesiastico. Per la gestione del patrimonio immobiliare fu creato il Fondo per il culto (oggi Fondo per gli Edifici di Culto). Tutti i beni degli enti non colpiti dal provvedimento dovevano essere comunque iscritti nel libro del debito pubblico e convertiti in rendita, al tasso del 5%, per essere gestiti dal Fondo per il Culto. Fu, inoltre, sancita l’incapacità per ogni ente morale ecclesiastico di possedere immobili. In questo modo, “una grande quantità di fondi rurali fu messa all’asta pubblica in tutt’Italia; moltissime chiese non parrocchiali furono chiuse al culto e convertite in usi civili: monasteri e conventi furono convertiti in scuole e carceri”. 11 Cfr. Leggi Rattazzi promulgate con Decreto Reale del 29 maggio 1855
12 F. Barbagallo, La modernità squilibrata del Mezzogiorno d’Italia, Torino, 1994 8
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Poi con la legge n. 3848 del 15 agosto 1867 vennero soppressi indistintamente tutti gli enti ecclesiastici, sia quelli morali sia quelli per scopo di culto. Un obiettivo delle leggi di liquidazione era quello di attuare una generale privatizzazione: ma il modo in cui fu attuata la confisca delle terre della Chiesa non poteva raggiungere l’obiettivo di risollevare le classi più povere e ancora si ottenne l’effetto di far finire le nuove proprietà nelle mani di pochi privilegiati: i vecchi nobili e la borghesia degli affari. Così un sistema ‘sostanzialmente feudale’ era soppresso solo sulla carta, persistendo sotto forma di latifondo borghese il vecchio feudo. Sembra in effetti che “le conseguenze sociali delle leggi eversive furono anche queste: in nome della libertà 57.492 persone (i religiosi) furono privati di tutto quello che possedevano: del letto, dei mobili, del tetto, degli oggetti di culto, degli archivi, delle biblioteche, dei terreni, di tutto. Così successe anche per 24.166 opere pie che non più serviranno al sollievo diretto della povertà”13. Con il ricavato dell’esproprio dei beni ecclesiastici lo Stato sabaudo prima, e il nuovo Stato italiano poi, speravano di ottenere il denaro sufficiente per risanare il bilancio che era arrivato a un disavanzo di oltre 721 milioni di lire. Il nuovo Stato pensava anche di poter finanziare nuove guerre contro il Papa e contro l’Austria. Più che puntare a un’indipendenza tra Stato e Chiesa, le leggi del 1866-67 rivelavano un carattere eminentemente “giurisdizionalistico”: lo Stato era il proprietario anche dei beni della Chiesa e poteva incamerarli, tanto più che agli occhi della classe dirigente liberale gli Ordini religiosi contemplativi, cioè non soggetti a cura d’anime, apparivano socialmente inutili. Dopo l’applicazione delle disposizioni delle leggi citate erano stati dunque soppressi 25.000 enti ecclesiastici che non avevano cura d’anime. In forza delle norme contenute, i fabbricati di proprietà degli enti soppressi passavano a Comuni e Province per essere adibiti ad uso pubblico (scuole, asili, ospedali, caserme ecc.): a fine Ottocento nove edifici pubblici su dieci erano costituiti da beni acquisiti grazie alle leggi del 1866-67. Nelle leggi del 1866 e 1867 non furono previste forme particolari di tutela dei beni artistici delle chiese e degli altri fabbricati monastici, anche se i direttori del demanio incaricati della vendita potevano porre tra le condizioni speciali quanto ritenessero necessario per la conservazione di beni di natura storico-architettonica-artistica e oggetti d’arte. Solo i più importanti beni artistici trovarono un riparo nei musei. Di fatto ebbe luogo una tremenda dispersione di opere artistiche, di cui fu spesso distrutto o dimenticato il contesto storico culturale originario. 13 A. Pellicciari, L’altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata, Milano, 2000 9
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Una procedura per evitare queste disastrose conseguenze almeno nel caso di complessi di eccezionale valore venne prevista all’art. 33 della legge 3096, che dichiarava “monumenti nazionali”: l’abbazia di Montecassino, quella di Cava dei Tirreni, il complesso dei Gerolamini. In base alla legge, la designazione doveva essere fatta dal Fondo per il culto e approvata dal Ministro di grazia e giustizia. Poi, con decreto 5 luglio 1882 n. 917, tale designazione doveva avvenire d’intesa con il Ministro dell’istruzione pubblica. Il governo si obbligava alla conservazione dei complessi e l’obbligo si estendeva anche a tutte le adiacenze (biblioteche, archivi, oggetti d’arte, strumenti scientifici e simili). Questo racconto, forse troppo ampio, vuol servire a valutare come si è arrivati a quella situazione così puntualmente descritta da Candida Carrino per la storia secolare e le vicende di trasformazione per ciascuno dei monasteri che incontriamo nel percorso di questo suo godibilissimo volume e per quanto riguarda le schede di descrizione dell’architettura e dell’arte, di quanto possiamo o non possiamo riscontrare nei luoghi, senza dimenticare le “curiosità” che le accompagnano e ne rendono ancor più vivo il percorso. A questo punto ritengo di fare una riflessione: la gratificante richiesta di Candida Carrino di scrivere qualche pagina di presentazione al suo corposo lavoro, già così compiuto nel godibilissimo racconto periegetico che ci porta da un capo all’altro della città ad “Andar per monasteri”, da una parte rappresenta il riconoscimento al mio impegno attuale per il FAI (Fondo Ambiente Italiano) e, quindi, al suo obiettivo di valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale, che mi fa apprezzare vivamente e vivamente raccomandare questa guida ai monasteri napoletani, perché non ci soffermiamo mai abbastanza a guardare (non a vedere) luoghi che attraversiamo magari più volte al giorno in questa città che diciamo di amare (ma come si può dire di amare senza davvero conoscere?). D’altra parte, spero che rappresenti anche il ricordo del mio impegno professionale di una vita tra gli archivi, di diversa natura, pubblici e privati, e, quindi, mi pare interessante ripercorrere brevemente la storia delle fonti, dell’enorme complesso documentario ben noto alla Carrino, come dimostra l’apparato di note e la bibliografia del suo lavoro, e descrivere per brevi accenni le vicende e le forme di accumulazione della documentazione archivistica per questa storia così importante e determinante della più ampia storia della nostra città e del suo sviluppo. Il grande e prezioso complesso documentario costituito dagli archivi delle corporazioni religiose soppresse tra il 1799 e il 1867 seguiva la sorte dei beni incamerati, quindi era trasferito al demanio. Speciali disposizioni 10
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erano invece riservate, come si è detto, alle badie di Montecassino, Cava e Montevergine. “Le biblioteche, gli archivi e tutti i depositi di libri e di manoscritti” sarebbero stati conservati a cura dei religiosi: “…si occuperanno a classificare e porre in ordine i libri e manoscritti loro affidati ed a far conoscere le opere che possono interessare le arti e le scienze e particolarmente la storia del Regno”. Nella certosa di Padula, invece, sarebbe stato stabilito un “ospizio di salute”. I Frati ospedialieri di S. Giovanni di Dio, avrebbero potuto ancora vivere nelle Case che abitavano, come gli Scolopi “fino all’organizzazione dell’istruzione pubblica”. Il primo nucleo degli archivi degli enti soppressi, fu acquisito nel 1813 dall’Archivio generale del Regno (questo era il nome dopo la sua istituzione, con la legge del 22 dicembre 1808, dell’attuale Archivio di Stato, allocato dal 1835 nel monastero benedettino soppresso dei Ss. Severino e Sossio). Il primo ordinamento, dato alle carte, ha rappresentato l’unica chiave di ricerca per il grande complesso documentario dei “monasteri soppressi”, che per diversi inserimenti fino al 1971 era costituito da 6621 pezzi. Nell’intraprendere successivamente la revisione completa del fondo, portata a termine nel 1972 anche per l’esigenza dei lavori di compilazione della Guida generale degli Archivi italiani, le unità documentarie del fondo ammontano oggi a 6.798. Numerazione autonoma hanno i 233 pezzi dei monasteri di Benevento14. Questo grande complesso di archivi era arricchito dal prezioso materiale pergamenaceo (anni 703-1792) che costituiva il Diplomatico dell’Archivio di Stato di Napoli. Trasportato per porlo in sicurezza durante la seconda guerra mondiale, fuori Napoli, in una villa a San Paolo Belsito, fu distrutto nell’incendio appiccato dalle truppe tedesche in ritirata insieme ai fondi più antichi e preziosi che si volevano tutelare. Delle pergamene resta, quindi, la descrizione fatta da Trinchera nella sua “Relazione” e l’edizione critica di quelle relative agli anni 703-1131 dei sei volumi dei “Regi neapolitani archivi monumenta edita ac illustrata”, pubblicati negli anni 1845-1861. Anche con questo “Andar per monasteri” nel patrimonio archivistico, che apparteneva proprio a queste istituzioni che trovano la descrizione del loro passato e presente in questo volume, spero di offrire un’indicazione sussidiaria per chi voglia approfondire aspetti curati da Candida Carrino. Con le “carte” dei loro archivi si può sopperire al fatto che le loro strutture non sono più visibili nelle dimensioni e nell’aspetto originari, si può raccontare 14 Cfr. Guida generale degli Archivi di Stato italiani, Roma 1986, vol. III; J. Mazzoleni, Le fonti documentarie e bibliografiche dal sec. XV al sec. XX conservate presso l’Archivio di Stato di Napoli, Napoli, 1974; F. De Mattia, Monasteri soppressi, in Fonti cartografiche nell’Archivio di Stato di Napoli, Napoli, 1987. 11
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ancora tanto della loro situazione passata e così fiorente, si può studiare la situazione del patrimonio architettonico, artistico, modi e forme di vita materiale e quotidiana, sistemi di gestione economica (i Gesuiti usavano già nel Settecento la “partita doppia”, sistema raro per quel tempo). Anche se, trasformati a volte in situazioni assurde, i monasteri divenuti condomini, negozi, garages, palestre, sono vivi nel racconto del volume della Carrino, fatto anche di fonti orali e così bello per veste editoriale, per vivaci immagini mai edulcorate dei luoghi stessi come appaiono oggi. Luoghi individuati con intelligenza attraverso lacerti di mappe, riportati sugli angoli che aiutano a percorrere ogni parte della città. Usando il volume come un baedeker, si può trovar traccia di quanto rendeva così ricchi e potenti quei religiosi che detenevano la cultura, sapevano di arte, di musica e di ogni scienza. Ma si possono anche valutare le criticità e il degrado di troppi luoghi in cui queste tracce sono offese, in un impegno attivo verso la tutela, che non riguarda solo le istituzioni, ma il nostro personale impegno verso il bene comune, la bellezza offesa della nostra città, per godere di quel senso di “felicità” che un ambiente rispettato, un paesaggio protetto possono regalarci. Maria Rosaria de Divitiis
Presidente regionale del FAI Campania
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Introduzione Nei secoli VI e VII la città di Napoli, dopo Roma, presentava un’altissima concentrazione di monasteri. Essi erano situati all’interno delle mura cittadine, sulle isole che la fronteggiavano: Megaride, (dove oggi vi è il Castel dell’Ovo), Nisida e S. Vincenzo (ora scomparsa e inglobata nel porto), ma anche nelle aree limitrofe. Da queste zone molto distanti dal centro i monaci, a seguito delle incursioni saracene agli inizi del X secolo si ritirarono e si unirono ai confratelli cittadini. La caratteristica precipua di queste comunità era la compresenza sia della matrice greca che latina, vi era un diffuso bilinguismo anche nelle pratiche liturgiche, l’utilizzo di calendari appartenenti alle due tradizioni e, in questo periodo, non riusciva a prevalere un modello sull’altro né per caratteristiche intrinseche né perché sostenuto da qualche potere religioso o politico. Di conseguenza nella città esistevano le più varie forme monastiche: quella eremitica e ascetica, presente soprattutto nelle zone alte; quella a carattere lavriotico (i monaci vivevano in celle sparse poco distanti l’una dall’altra) sull’isola di Megaride; quella prevalentemente cenobitica (dal termine greco coinobios, indicante vita in comune), che in poco tempo divenne il modello più diffuso1. Una grande varietà di ordinamenti caratterizzava queste comunità, che spesso seguivano regole dettate dai propri abati. Tra il IV e il VII secolo accanto a quelle maschili si erano andate formando anche comunità monastiche femminili di rito greco, il cui legame con quelle dei confratelli era quasi sempre determinato dal riferimento all’autorità spirituale del fondatore dell’Ordine, anche se le monache tendevano spesso a realizzare una forma di dipendenza autonoma e creativa. Dopo il 726 la diffusione a Napoli di comunità greche si fa più massiccia grazie alla fuga dei monaci da Costantinopoli a seguito della persecuzione iconoclasta dell’imperatore Leone III, detto l’Isaurico. Solo verso la fine del IX secolo molti cenobi napoletani, soprattutto di matrice greca, cominciano ad accogliere la Regola benedettina, in espansione ormai in tutta la cristianità occidentale, che, come sappiamo, dal X secolo in poi fu attraversata da un profondo rinnovamento spirituale ed istituzionale. Già da questi tempi 1 Per un’analisi puntuale del fenomeno del monachesimo dei primordi nel Regno e nella città di Napoli cfr. Giovanni Vitolo, Caratteri del monachesimo nel Mezzogiorno altomedievale (secc. VI-IX), Salerno, Pietro Laveglia editore, 1984. 13
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nella città si registra la presenza sia di una ragguardevole varietà di Ordini religiosi, sia il passaggio di alcuni monasteri da una Regola ad un’altra. In epoca angioina, però, saranno i Domenicani e i Francescani ad irradiarsi a Napoli con un impeto travolgente e grazie a questi due Ordini si ebbero le prime radicali trasformazioni edilizie nel cuore della vecchia Napoli ducale. Per i Domenicani, poi, Carlo II nutriva un’illimitata stima tanto che ampliò i poteri dell’Inquisizione contro gli eretici e, convinto che la missione dell’Ordine fosse soprattutto quella di estirpare l’eresia, fece in modo che il convento di San Domenico Maggiore diventasse il centro dell’azione antiereticale nel Regno. Oltre a San Domenico, ricordiamo che il re favorì anche la costruzione di San Pietro a Castello per le Domenicane e di San Pietro Martire. Ma a partire dalla fine del XIII secolo comincia ad essere evidente il favore costante della dinastia angioina, in particolar modo quello di Roberto e di Giovanna I, per gli Ordini mendicanti. Si assiste così ad un nuovo rinnovamento dello spirito religioso e della sensibilità morale e ad una forza plasmatrice di una nuova spiritualità: sorsero in pochi decenni Santa Maria la Nova, San Lorenzo, Santa Chiara, San Francesco delle Monache, Santa Maria Donnaregina ed altri monasteri. Nello stesso tempo Pietro del Morrone da Isernia, il futuro papa Celestino V, e i suoi seguaci, i Celestini, fonderanno a Napoli il monastero di San Pietro a Majella. Come si è detto, i Francescani e i Domenicani furono preminenti, ma non mancarono gli Agostiniani e i Carmelitani, con i loro bellissimi monasteri di Sant’Agostino alla Zecca, San Giovanni a Carbonara (molto amato, insieme alla chiesa, dai sovrani durazzeschi), Santa Maria Egiziaca e Santa Maria del Carmine Maggiore. Nel frattempo anche la presenza benedettina si andava rafforzando con la trasformazione, come si è detto in precedenza, degli antichi cenobi dei monaci bizantini, detti basiliani, tra i quali i monasteri dei Santi Pietro e Marcellino, San Festo, Santi Severino e Sossio, Sant’Arcangelo a Bajano, Santa Patrizia, San Gregorio Armeno, Santa Maria Donnaromita, Santa Maria Donnalbina. Né mancarono altri Ordini che promossero la costruzione di loro monasteri in città dai Silvestrini ai Trinitari, dai Serviti agli Olivetani, ai Certosini che riuscirono ad edificare la certosa grazie al fatto che Carlo III era stato conquistato dalla loro austerità; pare che il re abbia detto che a confronto della nuova costruzione, il complesso di Santa Chiara sarebbe apparso come una stalla. Dunque, la rete ecclesiastica regolare in pochi decenni dilagò in modo esponenziale, cosa che rispondeva ad una politica di prestigio e di presenza concorrenziale dei diversi Ordini religiosi. Le comunità monastiche maschili erano da sempre luoghi molto legati agli ambienti politici: nelle stanze dei monasteri e nei chiostri si prende14
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vano decisioni importanti per le sorti del regno. Infatti i diversi regnanti hanno testimoniato attraverso i secoli la loro affezione ora a questo ora a quel monastero. Inoltre, il popolo era molto legato ai frati che si ritaglieranno in maniera sempre più incisiva un ruolo specifico attraverso il legame organico con il quartiere in cui erano inseriti, tanto che la monarchia cercò di continuo il consenso dei sudditi anche attraverso il sostegno degli Ordini religiosi, che di volta in volta esercitavano su di questi una maggiore influenza. Per di più, la presenza di monasteri maschili a Napoli era nettamente superiore a quelli femminili: molto più legati al mondo ecclesiastico essi svolgevano preminentemente una funzione missionaria che si rafforzerà notevolmente nella fase matura della Controriforma attraverso un’opera di animazione religiosa multiforme e connotata da forti componenti etico-politiche. Insomma un ruolo che si svolgerà attraverso percorsi complessi, seguendo i quali si va al di là dell’ambito religioso e si penetra nella storia della città. La vita dei monasteri femminili è stata molto studiata in quanto essa è stata attraversata fino a tutto il XVI secolo da complesse dinamiche sociali, culturali e religiose. La nobiltà cittadina tende, con la monacazione forzata delle figlie femmine non destinate al matrimonio, a trasformare i monasteri femminili in propaggini delle casate stesse non solo utili a smaltire l’eccedenza demografica femminile, ma anche a gestire forme di potere sia politico che economico. La vita comunitaria in questi monasteri era una chimera: le monache occupavano appartamenti privati costruiti e tramandati dalle appartenenti alle famiglie nobili all’interno delle mura conventuali, servite dalle converse2, gestivano sia patrimoni privati, sia quelli dello stesso monastero3 qualora occupassero alte cariche (badessa, celleraria, governatrice, ebdomadaria, sagrestana, sovrintendente della fabbrica, ecc.). Tuttavia c’è da considerare che la vita della donna fin dal Medioevo era molto dura: essa non aveva potere economico e la sua esistenza sociale era dovuta esclusivamente alla funzione di madre e moglie completamente as2 È opportuno ricordare che nei monasteri le monache erano suddivise in due categorie: le coriste o signore e le converse. Le prime erano quelle che amministravano il monastero, guidate da una badessa, sempre scelta nel loro gruppo, dalla vicaria e da poche altre; esse infatti godevano dell’elettorato, la “voce in capitolo”, attivo e passivo; gestivano le risorse enormi del monastero ed erano anche coinvolte in esborsi personali per contribuire alle diverse spese che il monastero doveva sostenere. Le converse, di contro, svolgevano compiti molto umili, erano a tutti gli effetti le servitrici delle signore e non godevano degli stessi privilegi. 3 Per una descrizione della vita monastica femminile pre-tridentina a Napoli cfr. Candida Carrino (a cura di), Le monache ribelli raccontate da suor Fulvia Caracciolo, Napoli, Edizioni Intra Moenia, 2013. 15
introduzione
soggettata al volere del marito, generalmente impostole dal padre, e che era quasi sempre analfabeta. Con la monacazione, paradossalmente, la donna si sottrae al suo destino e, anche se la scelta le è imposta da ragioni economiche e dinastiche del genitore, una volta entrata nel monastero le si aprono spazi di libertà più ampi rispetto a quelli offerti ad una giovane sposa: la possibilità di un’alfabetizzazione non solo utile alla lettura delle opere religiose ma anche alla pratica della gestione del monastero, dove essa occupa spazi decisionali nell’amministrazione di una comunità che ha quasi sempre ampi rapporti economici e commerciali, e relazioni continue con le autorità religiose e politiche. Con la chiusura dei lavori del Concilio di Trento (1545-63) anche a Napoli si diede avvio all’attuazione della riforma degli Ordini monastici. Vari erano gli obiettivi posti dalla Chiesa cattolica riformata: in primis promuovere nuove strutture conventuali e rinnovare vecchi edifici secondo le direttive delle ultime norme: Napoli tra la fine del XVI secolo e gli inizi del XVIII fu attraversata da una frenetica attività edilizia che coinvolse tutti gli Ordini religiosi, impegnati nei lavori di ristrutturazione ed ampliamento sia delle chiese che dei complessi monastici. Furono innalzati muri per poter meglio isolare conventi e monasteri; quelli che mal si adattavano ad essere rifatti furono chiusi, come quelli di Santa Maria della Misericordia, San Benedetto, Sant’Agnello, Sant’Agata e Sant’Arcangelo a Bajano. Ma l’obiettivo precipuo della riforma tridentina era quello di indicare in maniera cogente la strada per un vero rinnovamento spirituale dei religiosi attraverso il rispetto di norme più severe e restrittive. Tuttavia sradicare comportamenti ed abitudini secolari in un contesto così variegato, non era facile: bisognava contemperare il potere dell’autorità episcopale, quella dei superiori degli Ordini monastici, il potere della nobiltà nonché l’autorità regia per i conventi da essa dipendenti. Ai monasteri femminili si tentava, poi, di imporre l’osservanza della clausura, evitando o riducendo al minimo i contatti con il mondo esterno, incoraggiando un’adesione maggiore alla castità, sfuggendo ad atteggiamenti di attaccamento alla vita mondana, astenendosi da pratiche sessuali, contenendo la difesa tenace dei privilegi, frenando un’ambizione smodata a posti e ruoli di prestigio. Ciò che stava avvenendo non era un rinnovamento spirituale frutto di una meditata opera di riforma spirituale, ma un’azione puramente disciplinare che tentava con un’imposizione mal compresa di scardinare un sistema molto ben radicato. Questa fu la sostanziale motivazione che determinò la moltitudine degli interventi autoritari e i conseguenti tempi lunghi di attuazione della riforma. 16
ANDAR PER MONASTERI
Con gradualità e pazienza, cose che aiuteranno a ridefinire e rideterminare equilibri tra forze di potere, si riuscirà ad attuare una riforma che sembrava «impossibile». I conventi, sempre più strumenti della politica ecclesiale centrale, diventarono con il tempo luoghi in cui si istituzionalizzò e professionalizzò nell’ambito femminile il perfezionamento personale della virtù; mentre la successiva clericalizzazione del monachesimo maschile con le conseguenti esigenze pastorali comportò una maggiore flessibilità rispetto alle uscite dei monaci dal convento ed ad altre condotte più aperte. In seguito, con l’inizio del decennio francese che vide la città governata da Giuseppe Bonaparte e poi da Gioacchino Murat, uno scossone senza precedenti alla tranquilla vita di assestamento post-tridentina dei religiosi e delle religiose fu dato dalla soppressione degli Ordini religiosi e dalla confisca dei loro beni. Il 3 luglio del 1806 furono espulsi dal Regno i Gesuiti, rientrati appena due anni prima; il 14 agosto furono cacciati i monaci stranieri e accorpati quelli dello stesso Ordine che non avevano più di 12 professi, cosa che comportò immediatamente la chiusura di molti monasteri. Il 13 febbraio del 1807 venivano soppressi tutti i conventi dell’Ordine religioso di San Benedetto, cioè Cassinesi, Verginiani, Olivetani, Certosini, Camaldolesi, Cistercensi e Celestini, le cui proprietà passarono al demanio dello Stato. Ancora, il 12 gennaio del 1808 in un solo colpo furono chiusi ben dodici ricchissimi conventi di monache e otto conventi appartenenti all’Ordine dei Mendicanti; il 20 maggio a questi si aggiunsero tutti i rimanenti monasteri delle monache di clausura. Questa vasta operazione comportò un introito per le casse dello Stato di oltre 1.850.000 ducati4. Nel 18665 il giovane Regno d’Italia aveva un grosso disavanzo pubblico e per far fronte alla grave crisi finanziaria il governo decise l’incameramento dei beni ecclesiastici, dopo aver tolto il riconoscimento a tutti gli Ordini, le corporazioni e le congregazioni religiose regolari, ai conservatori ed ai ritiri. I beni di proprietà degli enti soppressi furono incamerati dal demanio statale, sancita l’incapacità per ogni ente morale ecclesiastico di possedere immobili. Per la gestione del patrimonio immobiliare fu creato il Fondo per il culto (oggi Fondo Edifici di Culto). In questo modo, una grande quantità di beni immobili furono convertiti per usi civili: monasteri e conventi che non erano già stati adibiti ad altri usi durante il decennio francese, furono trasformati a Napoli come in gran parte d’Italia in scuole, caserme, ospedali, carceri. Un’al4 Per maggiori dettagli e precisazioni si veda Giuseppe Galasso, Storia del Regno di Napoli, Torino, UTET, 2007, vol. IV, pp. 1060 - 1063. 5 Cfr. il Regio Decreto n. 3036 del 7 luglio 1866 di Soppressione degli Ordini e delle Corporazioni religiose (in esecuzione della Legge del 28 giugno 1866, n. 2987). 17
introduzione
tra parte rilevante di edifici e di fondi rustici fu messa all’asta e venduta a privati cittadini, che generalmente trasformarono le strutture in appartamenti per civili abitazioni, abbattendo o trasformando in maniera irreparabile le antiche costruzioni. Nella legge non erano previste forme particolari di tutela dei beni artistici delle chiese e delle altre strutture monastiche, anche se i direttori del demanio incaricati della vendita potevano porre condizioni speciali per la conservazione di complessi che contenessero monumenti, opere d’arte, ecc. Di fatto ebbe luogo una terribile dispersione di opere d'arte, di cui fu spesso distrutto e dimenticato il contesto storico culturale originario; solo i più importanti beni artistici trovarono un riparo nei musei cittadini. Fu prevista una procedura per evitare queste disastrose conseguenze, ma solo nel caso di complessi di eccezionale valore artistico si obbligava alla conservazione degli immobili e di tutti gli elementi annessi quali adiacenze, biblioteche, archivi, oggetti d’arte, strumenti scientifici e simili. Ciò lo si ottenne attraverso la mobilitazione degli intellettuali che richiedevano la qualifica del bene come “Monumento nazionale”. Ma ciò avvenne solo per alcune istituzioni: quali la certosa di San Martino, il complesso dei Girolamini, ecc. Inoltre, a Napoli incisero sulla dispersione e l’abbattimento parziale o totale di tanti complessi monastici anche i lavori del Risanamento, un grande intervento urbanistico che tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo mutò radicalmente e definitivamente il volto della maggior parte dei quartieri storici della città. A poco valse l’attivismo polemico degli intellettuali della rivista “Napoli Nobilissima”, capeggiati da Benedetto Croce, tanto che gli insediamenti monastici della zona presso Caponapoli (San Gaudioso, Sant’Andrea delle Dame, Santa Maria della Sapienza e Santa Croce di Lucca) furono quasi del tutto demoliti preservando esclusivamente le chiese per far posto all’insediamento del Policlinico. Oggi, dunque, la situazione è molto variegata, come si vedrà nelle pagine successive. Napoli è stracolma di conventi e monasteri: non a caso, mercanti e naviganti individuavano la città per l’alto numero di guglie, campanili e cupole che si materializzavano ai loro occhi appena giunti in vista del porto. Napoli ha avuto e ha con il sacro un rapporto molto intenso che si perpetua nelle centinaia di chiostri spesso nascosti o adibiti ad usi “profani”. Molti di questi luoghi, proprio per la ricchezza e la rarità offerta dai loro tesori architettonici, non possono più essere misconosciuti perché la loro storia è stata ed è la storia stessa di Napoli. Candida Carrino 18
mappa dei monasteri, conventi ed eremi 1. Ascensione a Chiaia 2. Eremo dei Camaldoli 3. Gesù delle Monache 4. Gesù e Maria a Pontecorvo 5. Gesù Nuovo 6. Gesù Vecchio 7. Incurabili 8. San Carlo alle Mortelle 9. San Carlo all’Arena 10. San Diego dell’Ospedaletto 11. San Domenico Maggiore 12. San Domenico Soriano 13. San Filippo Neri dei Girolamini 14. San Francesco degli Scarioni 15. San Francesco delle Cappuccinelle 16. San Francesco delle Monache 17. San Gaudioso 18. San Gennaro Extra Moenia 19. San Giorgio Maggiore 20. San Giovanni a Carbonara 21. San Giovanni Battista delle Monache 22. San Girolamo delle Monache 23. San Giuseppe dei Ruffi 24. San Giuseppe dei Vecchi 25. San Giuseppe delle Scalze 26. San Gregorio Armeno 27. San Lorenzo Maggiore 28. San Martino 29. San Nicola alla Carità 30. San Nicola a Nilo 31. San Nicola da Tolentino 32. San Paolo Maggiore 33. San Pasquale a Chiaia 34. San Pietro a Maiella 35. San Pietro ad Aram 36. San Pietro Martire 37. San Potito 38. San Severo al Pendino 39. Santa Brigida 40. Santa Caterina a Chiaia 41. Santa Caterina a Formiello 42. Santa Caterina da Siena 43. Santa Chiara 44. Santa Croce di Lucca 45. Santa Lucia Vergine al Monte 46. Santa Maria a Cappella Vecchia 47. Santa Maria Annunziata a Pizzofalcone o Nunziatella 48. Santa Maria Apparente 49. Santa Maria degli Angeli alle Croci 50. Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone 51. Santa Maria dei Sette Dolori 52. Santa Maria del Carmine 53. Santa Maria del Divino Amore 54. Santa Maria della Concezione a Montecalvario
55. Santa Maria della Mercede a Montecalvario 56. Santa Maria della Provvidenza ai Miracoli 57. Santa Maria della Sanità 58. Santa Maria della Sapienza 59. Santa Maria della Stella 60. Santa Maria delle Grazie a Caponapoli 61. Santa Maria delle Periclitanti 62. Santa Maria dell’Incoronatella nella Pietà dei Turchini 63. Santa Maria del Parto 64. Santa Maria di Bethlem 65. Santa Maria di Caravaggio 66. Santa Maria di Gerusalemme detto delle Trentatrè 67. Santa Maria di Materdei 68. Santa Maria di Montesanto 69. Santa Maria di Montevergine detto di Monteverginella 70. Santa Maria di Piedigrotta 71. Santa Maria Donnalbina 72. Santa Maria Donnaregina Vecchia e Nuova 73. Santa Maria Donnaròmita 74. Santa Maria Egiziaca a Forcella 75. Santa Maria Egiziaca a Pizzofalcone 76. Santa Maria in Portico 77. Santa Maria la Nova 78. Santa Maria Maggiore detta della Pietrasanta 79. Santa Patrizia 80. Santa Maria Porta Coeli detta Crocelle ai Mannesi 81. Santa Maria Regina Coeli 82. Santa Monica 83. Santa Teresa a Chiaia 84. Santa Teresa degli Scalzi 85. Sant’Agnello Maggiore 86. Sant’Agostino alla Zecca 87. Sant’Agostino degli Scalzi 88. Sant’Andrea delle Dame 89. Sant’Anna dei Lombardi 90. Sant’Antonio Abate 91. Sant’Antonio a Posillipo 92. Sant’Antonio da Padova fuori Port’Alba 93. Sant’Arcangelo a Bajano 94. Sant’Efremo Nuovo 95. Sant’Efremo Vecchio 96. Santi Apostoli 97. Santi Bernardo e Margherita 98. Santi Demetrio e Bonifacio 99. Santi Giovanni e Teresa 100. Santi Marcellino e Festo 101. Santi Pietro e Sebastiano 102. Santi Severino e Sossio 103. Santissima Trinità degli Spagnoli 104. Santissima Trinità delle Monache 105. Sant’Orsola 106. San Vincenzo de Paoli 107. Suor Orsola Benincasa
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utilizzando le aree interne del palazzo e del giardino, realizzò un tempio con impianto planimetrico a croce greca, racchiuso nel perimetro del palazzo quattrocentesco, sfruttando i bellissimi paramenti murari già esistenti formati da bugne di piperno tagliate a forma di diamante. La chiesa, consacrata il 7 ottobre 1601, fu intitolata alla Madonna Immacolata, ma fin da subito fu comunemente detta del Gesù Nuovo per distinguerla dall’altra preesistente chiesa della Compagnia, detta di conseguenza Gesù Vecchio. Dopo la consacrazione della chiesa, i Gesuiti avviarono i lavori di decorazione interna, concedendo il patronato delle cappelle alle famiglie che fossero disposte ad assumersene gli oneri finanziari. Nel 1684 fu terminata anche la costruzione della Casa Professa, cosa diversa dal Collegio poiché era senza rendita fissa e con l’obbligo di mantenersi con le sole elemosine. Intanto la duchessa di Maddaloni, Roberta Carafa, aveva destinato un ricchissimo lascito e premeva perché anche i lavori del Collegio (una vera e propria università per i giovani) trovassero finalmente una conclusione; quando fu terminato il cortile del collegio, esso risultò magnifico con i suoi due ordini di arcate su pilastri di piperno su tutti i quattro lati del chiostro. Il collegio fu immediatamente dotato di rendite e poteva contare su diversi benefattori: specializzati nell’educazione dei giovani di nascita aristocratica e alto borghese, i Gesuiti diventarono definitivamente coloro che si occupavano soprattutto della formazione della classe dirigente. Nella seconda metà del Settecento (1767), si aprì, tuttavia, una fase assai critica: i Gesuiti furono espulsi dal Regno con decreto di Ferdinando IV, i beni della Compagnia furono confiscati e la chiesa fu affidata ai Francescani di Santa Croce e della Trinità di Palazzo, che la ribattezzarono Trinità Maggiore, finchè, dopo alterne vicende, il 30 luglio 1804 Pio VII ristabilì la Compagnia a Napoli e in Sicilia, ma vennero di nuovo espulsi durante il decennio francese. Rientrati in possesso dei loro beni nel 1821 furono di nuovo allontanati durante i moti del 1848 e di nuovo nel 1860. Dopo lunghe vicende nel 1900 i Gesuiti riuscirono ad ottenere la chiesa e una parte dell’antica Casa professa, dove ancora oggi vivono.
» L’ARCHITETTURA E L’ARTE Notevole la facciata della chiesa, in piperno tagliato a punta di diamante, che continua anche nelle pareti laterali, ormai osservabili sono all’interno degli edifici che fiancheggiano la chiesa. La struttura interna della chiesa, a croce greca e a tre navate, si presenta maestosa e vivace e, al di là degli arredi ed addobbi cambiati nel corso dei secoli, è rimasta invariata. Si configura 24
Gesù Nuovo
come una sorta di scrigno che custodisce un repertorio quanto mai vasto della produzione artistica napoletana, alla cui realizzazione concorsero non solo protagonisti affermati tra cui Giovanni Lanfranco, Cosimo Fanzago, Luca Giordano e Francesco Solimena, ma anche tanti artigiani, come intagliatori, scalpellini, ottonari e stuccatori, che con la loro maestria contribuirono ad accrescere la magnificenza della chiesa. È il caso, ad esempio, dei numerosi marmorari che dal Seicento in poi si sono avvicendati per completare il rivestimento marmoreo di tutte le superfici murarie e del pavimento. Una delle opere più celebri è senza dubbio l’affresco della controfacciata raffigurante la Cacciata di Eliodoro dal Tempio, di Francesco Solimena, firmato e datato 1725; nel transetto sinistro Geremia e Davide, statue di Cosimo Fanzago. Nella cappella destra dell’altare maggiore grandiosi reliquiari del sec. XVII. In sagrestia, affreschi di Aniello Falcone. Notevoli i cicli di affreschi che i Gesuiti commissionarono a Paolo De Matteis per le volte della navata centrale e del transetto con temi legati alla storia della Compagnia, dei loro santi e dell’Immacolata. Bisogna notare che l’imponente complesso decorativo della chiesa non si presenta sempre nella sua veste originaria, infatti ha subito nel corso degli anni danni gravissimi causati da terremoti, incendi, bombardamenti, infiltrazioni d’acqua nonché incauti restauri. L’ edificio sulla sinistra della chiesa, che attualmente ospita due istituti scolastici (liceo Genovesi e istituto Foscolo), anche se si presenta in forme tardo ottocentesche in realtà fu costruito contemporaneamente alla chiesa per ospitare le Congregazioni dei laici che praticavano, sotto la guida dei Padri, esercizi spirituali. Oggi rimangono gli Oratori delle Congregazioni dei Cavalieri o dei Nobili, con annessa sagrestia (oggi rispettivamente Aula magna e atrio dell’ingresso dell’istituto); Oratorio degli Artigiani (poi delle Dame) biblioteca del liceo; dei dottori (ora sala Valeriano). In questi locali è possibile ammirare gli affreschi di Giovan Battista Caracciolo, Giovanni Lanfranco e Belisario Corenzio. L’ edificio a destra della chiesa, oggi liceo psico-pedagogico “Pimentel Fonseca”, era la Casa Professa della Compagnia. Dell’antica struttura permangono le due corti porticate, la più piccola con pilastri di piperno e la più grande con archi decorati da semplici stucchi barocchi e con un pozzo seicentesco di marmo. Di indubbio interesse sono anche le scale monumentali che da piano terra conducono sino al piano secondo, i conci lapidei del bugnato dell’adiacente chiesa e il portale lapideo dell’ingresso principale. Da visitare anche la biblioteca monumentale, a cui si accede attraverso un imponente portale marmoreo. L’arredo ligneo venne realizzato nel 1730, forse ad opera di Cristoforo Schor. La scaffalatura, montata su due ordini, ricopre per intero 25
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le pareti: il primo ordine è scandito da lesene decorate e da grandi volute che si raccordano ad un cornicione su cui poggia il ballatoio del secondo ordine. Di grande effetto decorativo l’elegante balaustra, finemente traforata, dove tra un fitto fogliame si muovono fantastici uccelli, intervallati da medaglioni con profili di uomini illustri. Il pavimento, di marmo bianco, è decorato con tarsie di marmi policromi. Gli affreschi di Antonio Sarnelli, firmati e datati 1750, completano questo piccolo e prestigioso gioiello settecentesco.
» LE ATTIVITÀ La Casa Professa oggi in parte è sede del liceo psico-pedagogico “Eleonora Pimentel Fonseca”; il palazzo delle Congregazioni, ora è sede dell’istituto comprensivo “Foscolo - Oberdan” e del liceo classico “Antonio Genovesi”. Tutte le altre strutture prospicienti via San Sebastiano sono sede dei padri Gesuiti che hanno qui fissato l’abitazione, gli uffici, la biblioteca, il refettorio, l’infermeria, il magazzino comune ed altri servizi.
» curiosità La facciata della chiesa è stata rappresentata sulla terza serie della banconota da £ 10.000. Sul “recto” compare il “Ritratto d’uomo” del pittore rinascimentale Andrea del Castagno e il leone alato di San Marco, sovrastante gli stemmi di Genova, Pisa e Amalfi. Sul verso sono rappresentati le pietre bugnate a diamante e parte dell’entrata della chiesa del Gesù Nuovo. ••• Le pietre che costituiscono il caratteristico bugnato della facciata della chiesa presentano dei segni incisi, che a prima vista sembrano delle lettere di un alfabeto, delle cifre, dei simboli. Molti, nel corso dei secoli, si sono cimentati nell’interpretazione di tali caratteri cercando una connessione che desse un senso ed un significato al tutto. Alcuni hanno ritenuto che si trattasse di simboli indicanti le diverse cave di piperno dalle quali le pietre provenivano; altri che fossero contrassegni dei lapicidi, ossia sigle lasciate dagli scalpellini a mo’ di firma per consentire al capocantiere di verificare il numero delle pietre lavorate, in modo da poter attribuire ad ogni operaio il corrispondente pagamento; altri ancora dei simboli alchemici, quasi “canali di flusso” che sarebbero serviti a convogliare le energie positive dall’esterno all’interno dell’edificio, ma l’imperizia degli operai che lavorarono alla realizzazione delle bugne a punta di diamante avrebbe fatto collocare le pietre in modo scorretto. Per questo le energie positive si sarebbero trasformate in negative, 26
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attirando sul palazzo e di conseguenza sui Sanseverino prima e sui Gesuiti poi numerose sciagure: dalle confische dei beni ai Sanseverino, alla distruzione del palazzo, dall’incendio della chiesa, ai ripetuti crolli della cupola, alle varie cacciate dei Gesuiti. L’ultima interpretazione in ordine di tempo è quella che leggerebbe inciso sulle pietre un pentagramma a cielo aperto, con una musica scolpita: la partitura di un concerto per strumenti a plettro. Lette in sequenza da destra a sinistra, guardando la chiesa, e dal basso verso l’altro, le incisioni, tradotte in note, verrebbero a comporre una musica della durata di quasi tre quarti d’ora. ••• All’interno della chiesa vi è custodito il corpo di San Giuseppe Moscati e in alcuni ambienti adiacenti sono state ricostruite le sue stanze private. Medico e ricercatore vissuto tra la fine dell’‘800 e gli inizi del ‘900, dedicò la sua attività ed in generale la sua vita alla carità, all’assistenza dei sofferenti, anche nei quartieri più poveri e abbandonati della città, curandoli gratuitamente ed anche aiutandoli economicamente. Egli sosteneva che tra scienza e fede non doveva esserci contraddizione, ma entrambe dovevano concorrere al bene dell’uomo. ••• Il palazzo dei Sanseverino, prima della confisca da parte del vicerè don Pedro di Toledo, era molto celebre per la bellezza dei suoi interni, le sale affrescate e lo splendido giardino. Era, inoltre, un punto di riferimento per gli intellettuali napoletani, soprattutto quando Bernardo Tasso, il padre del poeta Torquato, era cortigiano di don Ferrante. Nelle cronache dell’epoca è rimasta celebre una festa sfarzosissima che nel 1536 don Ferrante diede in onore di Carlo V giunto a Napoli, reduce dalla conquista di Tunisi. ••• Giuridicamente e moralmente afferenti a questa chiesa sono, funzionanti dal 1922, le scuole medie e liceali dell’Istituto Pontano presso il palazzo Spinelli di Cariati al corso Vittorio Emanuele; lo Studentato gesuita di Posillipo; la Casa di formazione e Facoltà teologica di San Luigi presso l’antichissima chiesa domenicana di Santa Brigida; dal 1962 il grande complesso Sant’Ignazio a Cappella Cangiani e le più piccole e meno note chiese e Case di residenza gesuite al Rione Traiano, Pomigliano d’Arco, Marianella e Scampia, nella zona orientale della città.
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L'elegante scalone barocco a doppia rampa di San Nicola a Nilo, protettore degli orfani.
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Chiesa e complesso conventuale fondato nel XVII secolo80e dedicato a 101 45 San Nicola, protettore degli orfani. Successivamente il ritiro si trasformò P.zza Castel 47adolescenti di agiate 30 condizioni. Oggi88il complesso in monastero per le S.D. Acquisto 29 S. Elmo è affidato alla Comunità di Sant’Egidio. M P.zza Regola didiSan Filippo Neri60 Matteotti Sanfelice P.zza Certosa a Bovio Vi M 55 Via Diaz Martino viaS. San Biagio dei Librai, 10; vico SanMNicola a Nilo, 4 10 56
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1647, un droghiere, Sabato Anella,40incominciò ad accogliere i fanciulli F rimasti orfani dei genitori a seguito della sanguinosa di Masanielo Mascrivoluzione hio Teatro P.zza Trieste Via dei M An gio ino nei concittadini, conducendoli in processione illelo, trovando sostegno economico S.Carlo e Trento nelle strade della città. In unaiaprimo momento, questi fanciulli furono accolti in le Chi Via stesso una casa di proprietà dello Anella neizopressi Rea del ra n Sedile di Porto. Successir 118 48 52 e z S c t o vista di questi mesti cortei, ala a G. Oñate, impietosito idi V P A vamente, il viceré Conte dalla P.zza 42 Molo P.zza Via dei Martiri intercedette presso il marchese de’ Mari il quale donò un suo palazzo, Beverello accanto Plebiscito Via Carlo Po io 84 alerquale fu costruita una piccola chiesa, per accogliere solo le orfane. I fanciulli, munale invece, rimasero in alcune abitazioni messe a disposizione da Tomaso d’Aquino, 67 P.zza cia principe di Castiglione49e consigliere regio. Nel 1705, cresciuto il numero delle o l o Lu Vittoria ta . ospiti ed incrementate le donazioniS dei cittadini, si procedette alla ristrutturazione dell’edificio e si costruì l’attuale chiesa su progetto di Giuseppe Lucchesi. Via Nel 1749 l’orfanotrofio ed annesso oratorio di S. Nicola a Nilo, dedicato Pale Via C pol tamone i al santo patrono di Bari,hiaprotettore delle fanciulle traviate, fu riconosciuto di V ia P a rt e n omoglie regio patronato e curato dalla del d’Aquino, donna Costanza Siscara. pe Le giovani orfane erano educate da monache e seguivano la Regola di San 14 87 94 34 Filippo Neri, così nel volgere di pochi anni cambiò la vocazione dell’istituto, che invece di accogliere orfane povere e bisognose, cominciò, in cambio di Castel una retta, ad educare giovanette 103 Dell'Ovo di buona famiglia. Da qui la trasformazione del conservatorio in convento. 72 La41 struttura nel dopoguerra fu utilizzata per un periodo come casa per gli anziani e in seguito occupata abusivamente da alcune famiglie che l’abban58 donarono dopo il terremoto del 1980. tera
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» L’ARCHITETTURA E L’ARTE Alla chiesa si accede per mezzo di un elegante scalone barocco in piperno a doppia rampa. La localizzazione è particolarmente scenografica, sottolineata dalla presenza delle grandi finestre ai lati dell’ingresso della chiesa e dalle cui grate le monache di clausura potevano osservare la vita che si svolgeva nella strada senza essere a loro volta viste. Ai due lati della doppia rampa di scala curva, vi sono due “bassi” occupati da botteghe, che vendono mercanzia varia in quanto la giurisdizione religiosa inizia dalla sommità delle scale. La chiesa a pianta centrale circolare è delimitata da otto colonne corinzie e presenta la volta a botte. Sull’altare maggiore era posta una tela di Luca Giordano, datata 1658, oggi custodita nel Museo Civico di Castelnuovo, raffigurante l’estasi di San Nicola di Bari nell’atto di proteggere gli orfani.
» LE ATTIVITÀ Oggi il complesso è affidato alla Comunità di Sant’Egidio.
» curiosità Sui rispettivi ingressi delle botteghe ai lati delle scalinate vi sono due lapidi murate che recitano: “Nel primo di febbraio 1706 per decreto della corte arcivescovale di questa città è stato ordinato che quest’atrio scala e le due botteghe seu bassi laterali restino profani e non godano immunità ecclesiastica”.
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101 L’edificio sorge su palazzoVillani, P.zzala cui esponente della famiglia, 47 30 luogo di culto. La88chiesa è aperta Acquisto 29Beatrice decise di costruirvi il S.D. saltuariamente; il convento è in gran parte utilizzato da un Comando di Polizia. M P.zza P.zza tti 60 francescaneMatteoVi Certosa • diDomenicane, Concezioniste elice Bovio nf Sa a 55 Diaz M S. Martino M Via vico dei Librai, 84-85; Paparelle10al Pendino, 32 ri • via San Biagio 56
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La nascita di questo convento è dovuta caparbietà della nobildonna Mascalla hio Teatro Trieste An gio ino Beatrice Villani, deiP.zza marchesi di Polla, monaca con il nome di suor Maria nel S.Carlo e Trento convento di S. Giovanni alle Monache. Intorno al 1638 la suora, definita dalle aia le Chi a a e i consorelle “inquieta ed amica dizonovità”, decise di lasciare il convento per V R ra n 118 48 52 . Ser az cto Via G Pal fondarne maggiormente rispettoso della Regola. Con suor Maria A 42 P.zzauno nuovo Molo P.zza Via dei Martiri sarebbero andati viaPlebiscito anche i suoi beni per cui le monache di S. Giovanni miBeverello lo Poerio sero in atto tutte 84 le strategie in loro possesso, ricorrendo persino al papa, pur di evitare l’abbandono di suor Maria, ma l’ostinazione di quest’ultima ebbe la 67 ia P.zza meglio e riuscì49 a fondare unLucnuovo monastero insieme a quindici consorelle Vittoria ta . S fuori Porta Medina, intitolandolo al Divino Amore. La sede scelta risultò poco adatta per cui la Villani, acquistato il palazzo Via della principessa di Colobraro, sua nipote, per la somma di 18.000 scudi, Pale Via Ch pol iatamo i ne compagne, vi si trasferì con le sue tutte appartenenti a famiglie altolocate rt e n o p e quali quelleV ia deiP aMuscettola, Cardone, Montoya e Brancaccio. Con le doti delle monache, le donazioni e l’appoggio delle istituzioni, suor Maria comin14 87 94 34 ciò l’edificazione del complesso. La prima chiesa sorse nell’atrio del palazzo, mentre il grande convento era articolato intorno al grande chiostro rettangoCastel volte a crociera nell’ambulacro, opera insieme al convento 103 lare, con pilastri e Dell'Ovo dall’architetto Francesco Antonio Picchiatti. Nel 1670 la Villani si spense in 72 odore di santità. 41 Con la demolizione del monastero e la chiesa della SS. Concezione a Toledo, 58 nel 1825, le suore Francescane vennero trasferite nel Divino Amore, mentre le Domenicane, che lo occupavano, furono spostate nel monastero di Santa
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Maria della Sapienza. Nel 1866 le Francescane furono assegnate al monastero di Santa Chiara e il Divino Amore fu soppresso e la struttura trasformata per essere utilizzata per civili abitazioni; la chiesa, adoperata come deposito di legna e marmi, fu spogliata delle sue opere, trasferite altrove. Nel 1870 fu affidata ai padri delle Crocelle ai Mannesi, che avevano perduto la loro chiesa, demolita con i lavori fatti dal Risanamento. I padri trasferirono qui le opere contenute nella loro precedente chiesa e da allora il Divino Amore, essendo i padri Crociferi dei Camilliani, è anche detta S. Camillo.
» L’ARCHITETTURA E L’ARTE L’intero complesso sorge sul palazzo Villani, proprio per questo motivo la chiesa non ha una vera e propria facciata, essendo stata costruita nell’atrio del palazzo, con vista sia sul mare che sulla collina di San Martino. Nel 1709 fu ricostruita dall’architetto Giovan Battista Manni nel cortile del monastero e, nel 1788, fu rifatta la facciata. La pianta è un incrocio tra quella latina e quella greca. L’altare di Ferdinando Sanfelice fu collocato nella chiesa di Santa Teresa degli Scalzi e sostituito agli inizi del 1700 da un maestoso altare in marmi. Alcuni dipinti andarono persi, l’Adorazione dei pastori di Massimo Stanzione si trova al Museo di Capodimonte. I Crociferi vi portarono la Concezione di Maria di Francesco De Mura, e la Deposizione attribuita alla scuola di Mattia Preti. Il chiostro eretto da Francesco Antonio Picchiatti non fu mai considerato di grande valore artistico, sebbene i marmi di alcune parti fossero notevolmente preziosi; pertanto, nel restauro diretto in seguito da Ferdinando Sanfelice la struttura fu oggetto di notevoli cambiamenti. La trasformazione dell’impianto stradale attuata dal Risanamento distrusse il lato occidentale dell’edificio, stravolgendo il compatto complesso del Divino Amore.
» LE ATTIVITÀ La parte del convento rimasta è stata destinata ad uffici, oggi ospita un Comando di Polizia. La chiesa tenuta dai Camilliani è aperta saltuariamente al culto. Inoltre, alcuni locali ricavati dalla sacrestia e alcuni locali attigui alla chiesa con l’ingresso in vico Paparelle sono stati concessi nel 1992 in uso dai Padri alle Suore dell’Assunzione, che svolgono volontariato nel quartiere.
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Santa Maria del Divino Amore
» l'antica ricetta del monastero Uno dei dolci nobili dell’antica tradizione natalizia napoletana prende il nome da questo convento, proprio perché la preparazione era un’esclusiva delle monache. Mandorle, zucchero e canditi misti, adagiati su una base di ostia, rendono questi dolcetti morbidi e profumati. Sono tipicamente di forma ovale e coperti da una glassa di zucchero diluita (conosciuta come “naspro”) dai delicati colori pastello che vanno dal rosa al verde, al giallino. Ecco la ricetta del Divino Amore: Ingredienti: gr. 500 di mandorle dolci sgusciate; gr. 500 di zucchero; 3 uova; scorza grattugiata di 1 limone; 1 bustina di vaniglia; gr. 100 di canditi misti (cedro, cocozzata e scorzette d’arancia); ostie q.b.; 3 cucchiai di marmellata di albicocche; 2 cucchiai di zucchero; 2 cucchiai di acqua. Procedimento: macinate le mandorle, non pelate, con il mixer, unitevi lo zucchero e con un po’ di acqua fredda cercate di ottenere un impasto di giusta consistenza. Incorporatevi 2 uova intere ed un rosso, la scorza grattugiata del limone, la vaniglia ed i canditi tagliati minutamente. Lavorate l’impasto, formate degli ovetti, collocateli sulla placca del forno foderata di ostie e fateli cuocere a 180° per una ventina di minuti. Una volta raffreddati, eliminate i bordi d’ostia superflui, spennellate leggermente i dolci con marmellata di albicocche diluita con poca acqua e zucchero e ricopriteli con la glassa (ottenuta con zucchero a velo vanigliato, albume sbattuto a neve ferma) con l’aggiunta di coloranti per alimenti. I dolcetti possono essere decorati anche con perline e confettini.
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Gli antichii resti della basilica paleocristiana su cui è sorto il complesso di San Giorgio Maggiore: due alte colonne con capitelli corinzi reggono tre arcate disposte a semicatino.