Ostellino tra il dire e il fare

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dire, fare, amministrare

I Territori UNESCO MaB e l’esperienza delle Aree protette nel quadro delle strategie locali e nazionali

I confini della gestione del territorio sono tracciati secondo criteri fissati intorno a questi tre principi che troviamo nell’esperienza territoriale: quello amministrativo o delle forme istituzionali in cui è articolato il goverment dello spazio subnazionale, quello pianificatorio o della gestione delle regole per l’uso del suolo e dei piani e di infine quello progettuale o della finalizzazione di un territorio omogeneo (o quasi) alla realizzazione di un set di obiettivi dati. Tra questi tre vertici dell’istituzione, del piano e del progetto, si sono affastellati una moltitudine di esperienze di organizzazione, tali da creare una vasta biblioteca nella quale tanti sono i trattati e i dibattiti intorno alle teorie, nel tentativo di rifondare in continuo le regole, mentre rari sono i manuali di buone pratiche, spesso rintracciabili solo nella terza categoria, quella che tratta la dimensione del progetto. Le prime due sono afflitte da crisi profonde da tempo: quella della pianificazione da tempo sconta l’inefficacia o la scarsa applicazione dei piani, in particolare quelli di tipo sovraordinato; la dimensione istituzionale è invece di recente colpita da un periodo di crisi (forse anche di identità) in seguito alle modificazioni (come il caso delle comunità montane e delle province) alle quali però non è seguito un nuovo modello, ma una situazione di vera confusione e incompleta riforma. Oggi il dibattito ruota sui temi di natura costituzionalista e di riorganizzazione delle forme in cui si articola lo Stato, per ragioni diverse, da quelle politiche a quelle di strategie europee ai problemi di natura economica che hanno a che fare con la cosiddetta spending review. In questo contributo la lente è puntata invece, in controtendenza, sul terzo ordine di criteri, quello del progetto, tralasciando i primi due.

di Ippolito Ostellino

È sulla categoria progettuale o se vogliamo strategica, che preme soffermarsi, perché è in questa che possiamo rintracciare elementi di ragionamento sui contenuti, rispetto agli aspetti di forma che dominano nei primi due. In questi, infatti, la spasmodica necessità di organizzare la sovrastruttura amministrativa e tecnica, ha fatto perdere spesso di vista l’obiettivo finale del significato concreto e reale che lo strumento di gestione del territorio deve avere: dare soluzioni a problemi e non creare sistemi che in se costituiscono un nuovo problema da risolvere (vedasi a tal proposito la questione Città metropolitane), lasciando le domande originarie inevase e irrisolte. È sui contenuti che oggi occorre recuperare terreno, stante i grandi temi che i problemi della gestione territoriale oggi pongono, dal consumo di suolo alla gestione delle aree interne passando per i temi del recupero delle aree industriali dismesse, o quelli degli effetti del climat change con conseguenze di forte intensità ed impatto, anche economico.. Sono problemi di dimensione considerevole e di scala e profondità complessa, spesso legati non solo alle dinamiche economiche e di espansione connessa ai bisogni del sistema economico, ma a quelle territoriali-ambientali, come l’assetto idrogeologico del suolo, i temi del rischio sismico, i problemi connessi al cambiamento climatico, quelli connessi alla perdita di biodiversità strettamente legati all’eccessivo consumo di suolo ed ai temi della regolazione delle aree agricole. In una parola sono i temi ambientali che oggi pongono domande, vere, alle quali occorre dare risposte, che possono essere impostate solo con un approccio di area vasta, e pluriscalare. È dando una risposta a questi temi che possono anche essere in qualche modo invertite le scale di priorità, facendo passare in secondo piano le progettualità “edilizie” collegate alla espansione

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del commercio di grande scala (gestite dal piano locale), che continua a erodere ettari ed ettari per dare spazio a centri di grandi firme, a corridoi interminabili di negozi, tutti rigorosamente delle stesse catene di vendita di abbigliamento, arredamento o elettronica. Ma quali sono le modalità ovvero gli schemi di governance, con le quali darsi una agenda per poter progettare contenuti? Fra queste è da sottolineare l’esperienza delle Aree protette e la recente spinta in avanti che altre forme organizzative, di natura “a finalità progettuale” si stanno affacciando sulla scena del territorio mentre molte altre si estingono o sublimano (dalle comunità montane alle province) oppure tentano di evolvere in nuovi ibridi (le Unioni comunali): si tratta dei siti UNESCO del programma Man and Biosphere, cosiddette “Riserve della Biosfera”. Questi casi evidenziano come la componente ambientale dei problemi territoriali sia spesso la punta di compasso efficace intorno alla quale far ruotare il resto delle questioni, e forse recuperare, per quanto a ritroso, un significato più convincente e quindi anche una maggiore ricaduta, per la pianificazione di area vasta, forse portando anche quale beneficio alle questioni di carattere istituzionale (compresi i temi della ricerca di una nuova logica nella definizione di aree omogenee alle scale subprovinciali (per usare un termine desueto ma comprensibile ai più) Ma per valutare il significato di questa piattaforma UNESCO che si sta affacciando alla realtà nazionale giova ed è necessario percorrere alcune riflessioni che intrecciano i problemi delle progettualità territoriali di area vasta. La scala intermedia progettuale/territoriale: prospettive strategiche anche se “con il singhiozzo”. Gli esempi di Corona verde e del Piano Strategico dell’area metropolitana di Torino. Un primo tema sul quale riflettere è quello della moltitudine delle forme di alleanze e convenzioni che hanno rappresentato la condizione sine qua non di partenariato tra vari soggetti del territorio, in primis i Comuni, per poter accedere a risorse europee di varia origine e fondo. Questa variopinta famiglia di sigle (PIT, PISL,PTI, GAL,... etc..) ha spesso costituito

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l’occasione con la quale gli attori del territorio hanno dovuto cimentarsi con la costruzione di abachi di interventi e progetti, nell’estremo tentativo, non sempre riuscito a dire il vero, di renderli al loro interno omogenei, coerenti e coesi. La costruzione di tali programmi, nati tuttavia in modalità strettamente dipendente dal tempo di validità delle stagioni di distribuzione dei fondi europei, ha spesso pagato lo scotto di vedere concluse le loro vite in coincidenza del termine del periodo di validità, per chiudersi con le carte delle famose – oltre che complesse - rendicontazioni. Quasi assorbiti dalle intricate procedure rendicontative, gli stessi soggetti e attori coinvolti, che hanno anche costruito a volte progetti di riconoscimento identitario intorno all’idea progettuale percorsa e condivisa per almeno 5 anni, non hanno fatto il successivo passo, a volte anche facile, di utilizzare quella architettura gestionale per dargli continuità in forma autonoma e per garantirle una vita legata ad una adesione volontaria a quel metodo, avviato per ragioni europee e magari proseguibile per ragioni di patto locale. È così che centinaia di esperienze, con le centinaia di collegati siti web che sono proliferati, sono abortite e terminate, con problemi a volte gestionali legati ai processi o alle opere avviate e realizzate, che hanno dovuto fare i conti successivamente con la gestione ordinaria e la loro continuità temporale sotto il profilo della sostenibilità economica. Anche le istituzioni locali degli Enti gestori delle Aree protette, regionali o nazionali, sono state coinvolte in questi processi e progetti, spesso portando un contributo importante, strategico, ed a volte discriminante: la loro capacità ed abitudine infatti a interpretare un approccio al territorio ispirato ad una finalità e secondo una visione intercomunale ha permesso di orientare con coerenza le singole domande locali, conferendo ai programmi uno stile che spesso ha anche visto risultati eccellenti nell’acceso ai fondi, grazie alla loro particolare coerenza interna. Le positive esperienze condotte, con obiettivi che hanno spaziato nei temi più diversi, si sono dovute così fermare creando una sorta di costruzione di strategie “a singhiozzo”, che hanno impedito il radicamento delle esperienze


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positive costruite, se non nei casi nei quali , grazie a stagioni di fondo reimpostate nella nuova fase europea, hanno potuto giovare di una seconda vita, per poi però di nuovo fermarsi al termine, mediamente, del lustro successivo. È un destino che ha anche interessato altre “forme di approccio meta-progettuale al territorio, come i Piani strategici. Questi, sia pur costituiti da processi ad adesione volontaria, hanno rappresentato, ad esempio nella realtà torinese, un percorso interessante partito con la fase inaugurale di Valentino Castellani nel 2000 ed al quale sono poi seguite due stagioni di aggiornamento, con l’ultima chiusasi nel 2015. Anche qui con il cambio di amministrazione avvenuta nel 2016, le acquisizioni non hanno avuto un prosieguo, con lo scioglimento dell’Associazione Torino Internazionale che ne ha curato la stesura e la formazione: lo strumento costruito ha creato un ponte tra istituzione, piano e progetto strategico, impostato su precise finalità, non ha visto una sua continuità, depotenziando quelle fasi dedicate alla parte contenutistico-operativa che costituirebbe la vera qualità di una azione per lo sviluppo locale di una area vasta. Un caso interessante da citare, tra la moltitudine di esempi legati invece alle progettualità europee, è quello del programma Corona Verde varato dalla Regione Piemonte nel 2000 in corrispondenza della stagione dei fondi 20002006. La progettualità, nata dalla proposta dell’area protetta regionale del Parco del Po torinese, con l’obiettivo di costruire un progetto in rete tra le aree protette regionali intorno a Torino e nella conurbazione metropolitana circostante, ha avuto una prima fase di avvio, nella quale si sono realizzate le prime attività soprattutto di carattere materiale, con cantieri ed opere connesse alla riqualificazione ambientale e naturalistica del territorio con un impegno comunitario di 12,5 milioni di euro. Esito di questa prima fase è stato anche un lavoro di natura strategica con la produzione di uno schema direttore, collocato a cavallo tra pianificazione territoriale e progetto, redatto dal Politecnico di Torino con il coordinamento di Roberto Gambino e di Paolo Castelnovi. Uno strumento di studio e di orientamento

territoriale che ha per la prima volta fornito un quadro di approfondimento del territorio metropolitano, dando contenuti a quegli stessi obiettivi del Piano Territoriale Regionale per l’area metropolitana di Torino ed anche a quelli del Piano Territoriale di Coordinamento provinciale che erano rimasti ad una scala più generalista in merito alla tematica urbana e periurbana. Terminata la prima stagione tuttavia, il processo non è stato convertito in una scelta permanente e di governance metropolitana, attendendo l’arrivo di una eventuale seconda “corsa”. Questa di li a poco è arrivata (nei fondi europei 2007-2013), dando qualche risultato nuovo sul fronte delle azioni di carattere immateriale e di governance nonché su quelli della sensibilizzazione, con la produzione di seminari e materiali di comunicazione che hanno reso più percepibile il progetto metropolitano. Soprattutto in questa seconda fase si è raggiunta anche la sottoscrizione di un protocollo d’intesa che ha sancito una prima forma di cooperazione istituzionalizzata tra gli oltre 90 comuni coinvolti, con la contestuale istituzione di due organismi di coordinamento (la cabina di regia e la segreteria tecnica). Quella che doveva essere la terza stagione, con la quale proseguire le attività di riqualificazione e soprattutto la sua integrazione orizzontale con le altre politiche collegate (come quelli dei temi dell’agricoltura periurbana e quelli del turismo e della fruizione), purtroppo però non vede la luce nella stagione 2014-20, testimoniando un ennesimo caso di azione a interruttore. Una scelta che, per certi versi incredibilmente, avrebbe dovuto essere facilitata dal parallelo lavoro condotto dal Piano Strategico III edizione che a differenza dei precedenti era riuscito a lavorare in simbiosi con il progetto regionale, assumendo un ruolo centrale nei progetti pilota del piano metropolitano, che si è mosso secondo una modalità bottom-up rispetto al progetto Corona Verde primigenio. È vero che un recupero è stato varato proprio nel 2017 con l’inserimento nei bandi periferie, di una azione consistente sulla governance ed altre attività di facilitazione della rete che è stata ammessa a finanziamento, ma senza

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alcuna misura sulla partita cantieri ed inoltre avendo rischiato di essere penalizzata dalle fasi valutative di accesso ai fondi, invece di entrare di diritto e strutturalmente nelle politiche regionali. Le aree protette: esempi di progettualità finalizzate con continuità. A fronte di questo stato di scarsa attuazione e continuità di applicazione di strumenti capaci di mobilitare “il fare” sul territorio, è utile rimarcare come invece esistano casi molteplici sul territorio italiano che, pur nelle loro difficoltà strutturali dei sistemi di secondo grado italiani, hanno dato prova di capacità di interpretare un progetto finalizzato garantito da continuità. Si tratta degli Enti gestori delle Aree protette, sia regionali che nazionali, che nelle loro azioni indirizzate alla conservazione della natura ed alla valorizzazione del territorio, hanno costruito veri piani strategici di lavoro innescando

progetti, cantieri, azioni di sensibilizzazione sino a mobilitare programmi di incentivazione dello sviluppo locale, in particolare nel campo del turismo verde e non solo lanciando marchi di territorio e iniziative di sostegno alle identità dei luoghi e delle comunità che vi vivono. Tutto il territorio nazionale, isole comprese, grazie all’esperienza regionalista partita negli anni ‘70, e poi all’attuazione della legge nazionale quadro sulle aree protette che arriva nel 1991, viene interessato dall’istituzione di organismi di gestione dei parchi, dotati di un bilancio e di una struttura tecnica e di orientamento politico amministrativo: con questa architettura gli enti divengono attori e attivatori di progetti che non si occupano solo di pianificazione naturalistica ma operano direttamente sul territorio, promuovendo azioni e progetti contenuti in piani di intervento specifici con un approccio intercomunale e spesso multidisciplinare. Una realtà che interessa il 26,11 % dei Comuni italiani, con una incidenza quindi sull’apparato

* Nell’elenco per aree naturali protette sono considerate tutte le porzioni dei territori comunali italiani ricadenti in parchi, riserve naturali, aree marine, biotopi, monumenti naturali (etc..) di competenza nazionale, regionale, provinciale e locale. Fonte: elaborazione Ancitel su dati del Ministero Ambiente e Tutela del Territorio e del Mare (2017)

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istituzionale di ben 1/4: un peso e una diffusione che, a differenza degli anni ‘80, si estende a tutti i grandi sistemi territoriali, comprese le aree urbane e le aree fluviali, ultime conquiste delle politiche di protezione della natura in origine sviluppatesi soprattutto negli ambienti alpini ed appenninici. Sotto il profilo dei contenuti, le aree interessate dai parchi rispondono ad obiettivi di carattere finalizzato che sono riassunti nell’art. 3 della legge nazionale 394/91, che ben esplicita l’orientamento alla sostenibilità di un territorio, puntando alla integrazione tra sviluppo e conservazione nonché fornendo strumenti atti alla cooperazione e concertazione territoriale: 3. I territori nei quali siano presenti i valori di cui al comma 2, specie se vulnerabili, sono sottoposti ad uno speciale regime di tutela e di gestione, allo scopo di perseguire, in particolare, le seguenti finalità:

a) conservazione di specie animali o vegetali, di associazioni vegetali o forestali, di singolarità geologiche, di formazioni paleontologiche, di comunità biologiche, di biotopi, di valori scenici e panoramici, di processi naturali, di equilibri idraulici e idrogeologici, di equilibri ecologici;

b) applicazione di metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a realizzare una integrazione tra uomo e ambiente naturale, anche mediante la salvaguardia dei valori antropologici, archeologici, storici e architettonici e delle attività agrosilvopastorali e tradizionali;

c) promozione di attività di educazione, di formazione e di ricerca scientifica, anche interdisciplinare, nonché di attività ricreative compatibili;

d) difesa e ricostruzione degli equilibri idraulici e idrogeologici.

4. I territori sottoposti al regime di tutela e di gestione di cui al comma 3 costituiscono le aree naturali protette. In dette aree possono essere promosse la valorizzazione e la sperimentazione di attività produttive compatibili. 5. Nella tutela e nella gestione delle aree naturali protette, lo Stato, le regioni e gli enti locali attuano forme di cooperazione e di intesa ai sensi dell’articolo 81 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, e dell’articolo

27 della legge 8 giugno 1990, n. 142. Per le medesime finalità lo Stato, le regioni, gli enti locali, altri soggetti pubblici e privati e le Comunità del parco possono altresì promuovere i patti territoriali di cui all’articolo 2, comma 203, della legge 23 dicembre 1996, n. 662. Come si può leggere nel comma 5 dell’art 3 appena riportato della legge nazionale, queste istituzioni - finalizzate non solo alla conservazione della natura ma sempre di più a forme di compatibilizzazione tra natura e sviluppo locale - possono anche accedere a modalità di lavoro che si spingono sui terreni della governance e della cooperazione, come sono i Patti territoriali assumendo un ruolo nella scacchiera istituzionale di un dato sistema territoriale. Questa finalità d’attuazione di obiettivi strategici locali, che hanno trovato anche forme di rendicontazione negli strumenti dei Bilanci sociali o di sostenibilità redatti per molte aree protette, ha negli anni avvertito la forte necessità di estendere le loro sfere di influenza all’esterno degli stretti confini amministrativi, i famosi limiti dei parchi, debitamente segnalati anche al suolo dalle tabellazioni. Ecco che le modalità di collaborazione hanno spesso quindi creato momenti di dialogo esterni: esempi eclatanti sono il progetto Appennino Parco d’Europa, Corona Verde nel torinese o le politiche di rete dei parchi metropolitani di Milano e tante altre ancora. Tuttavia i tentativi delle aree protette non sempre si sono trasformati in modalità permanenti di lavoro con i contesti esterni all’area protetta, limitando quella operatività più concreta al loro interno e promuovendo, sia pur lodevolmente, ma solo a spot iniziative esterne. Si è quindi palesata la necessità di individuare forme organizzate e permanenti di progettualità “di area vasta” che potessero garantire con maggiore continuità questa necessità di uscire dai confini, una necessità e politica che ormai anche dai consessi internazionali è stata riconosciuta. Come ricorda Marco Valle in Politiche Piemonte (11/2013): “Questa necessità di “rivisitazione” del concetto di area protetta è stata esplicitata in numerosi incontri e documenti di settore; tra questi, si ritiene interessante citare il convegno promosso dall’Unione Mondiale per

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la Conservazione della Natura (IUCN) nel 2003 “Benefits Beyond Boundaries - A New Paradigm for Protected Areas”, al cui termine sono stati definiti una serie di punti chiave che corrispondono ad altrettante linee di azione. In particolare, tali elementi riguardano principalmente la presa di coscienza circa il ruolo fondamentale che le aree protette rivestono nelle politiche di conservazione e tutela delle risorse ambientali e della biodiversità e la necessità di mettere in atto procedure di gestione innovative, capaci di mettere in rete le esigenze dei diversi stakeholder coinvolti (popolazioni indigene, comunità locali, investitori, nuove generazioni). È lungo questa direttrice di pensiero che si colloca l’interessante esperienza di istituzionalizzazione di un processo gestionale che coinvolge aree territoriali più vasta e composte da tipologie gestionali miste ed allargate, come sono le aree delle Riserve della Biosfera del programma Man and Biosphere di UNESCO. Il pensiero di Valerio Giacomini e il programma UNESCO Man and Biosphere. La necessità di esportare ed estendere le politiche ad un più vasto territorio costituiscono schemi di lavoro che vedono la nascita in Italia con una originale elaborazione che ha il suo padre in Valerio Giacomini, che ricopre un ruolo culturale non solo a scala nazionale ma anche internazionale con il suo contributo originale in UNESCO. Una figura che seppe sviluppare una riflessione nuova negli anni ‘70 in corrispondenza agli stimoli del Club di Roma (figlio di un altro importante italiano come Aurelio Peccei) che porta alla ribalta la categoria concettuale dei “limiti dello sviluppo”. È nelle sue parole che leggiamo i prodromi di una rivoluzione: “Entrano in crisi pertanto l’etica stessa della nostra civiltà, il significato di progresso e benessere, la filosofia e la prassi di collocazione della specie umana nei confronti dell’ecosfera” (p. 23). È nel saggio Uomini e Parchi, redatto con Paolo Romani nel 1982, che i principi di una nuova visione dell’area protetta vengono messi a punto, proponendone una visione aperta al territorio vasto, mentre lo stato delle aree protette in Italia si presenta arretrato, con la presenza di solo

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qualche parco nazionale ed primi passi delle Regioni in materia. Le sue interpretazioni della situazione mantiene a distanza di 35 anni una particolare attualità: “Attualmente gli orientamenti in materia di parchi, e in generale delle zone di tutela, non sono certamente il frutto di una visione chiara ed unitaria, come simile argomento esigerebbe... sono al contrario il risultato di un disordinato sovrapporsi di interpretazioni, spesso controverse ed approssimative che, non appena se ne tenta la trasposizione sul piano pratico, divengono facilmente e puntualmente oggetto di incomprensioni fra promotori, amministratori e fruitori” (p. 27). Come non ritrovare in queste parole atteggiamenti e modi di interpretare il tema ancora oggi purtroppo diffusi. Come ci ricorda Valter Giuliano in un saggio sulla sua figura da cui traiamo le seguenti considerazioni, alcuni passi del saggio di Giacomini testimoniano una grande capacità di intuire le potenzialità e il ruolo dei parchi: “... i parchi cessano di costituire un interesse esclusivamente naturalistico ed ecologico in senso stretto per divenire problema di respiro territoriale, sociale, economico e politico” (p. 29). La specificità del suo contributo scientifico sta nella convinta adesione ad un’indagine che cerca di comprendere il complesso e la complessità attraverso un approccio sistemico. “Le barriere tra discipline devono dunque cadere... per lasciare in evidenza la fertilità delle zone di interfaccia e l’interesse per quegli ambiti che prima erano considerati ‘di confine’ e che oggi rivelano grande fecondità scientifica” (p. 33). Giacomini è conscio che la sistemica è un approccio difficile, che non va confuso con il pur utile incontro di diverse discipline, che tuttavia non riescono a portare a sintesi né la conoscenza né l’intervento pratico. Così come è consapevole che un rapporto equilibrato, armonico tra l’uomo e la natura non è “mai definitivamente conquistato, ma evolve in continui assestamenti di equilibrio dinamico” (p. 38), suggerendo una visione olistica del problema ambientale quando afferma che natura e uomini stanno in rapporto inscindibile sostenendo che: “non si dà politica dell’ambiente senza soluzione dei problemi sociali”. È un insegnamento che costituisce una rivoluzione rispetto al classico modo di leggere le aree protette come scrigni per la difesa della natura. “...dobbiamo lasciare alla nostra progenie una


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civiltà, non solo un capitale”. Soltanto se una politica dei parchi saprà alimentarsi delle sue dimensioni culturali “allora il discorso sulla natura abbandonerà i territori, le leggi, le pianificazioni, la fauna e la flora. E tornerà ad essere un dialogo degli uomini e sugli uomini, un discorso fra uomini e parchi”. Sul significato dell’afflato culturale di questa idea di area protetta sempre Valter Giuliano fornisce una chiara sintesi del pensiero di Giacomini: “Uso consapevole del territorio, costruzione di una morale collettiva, ecologia non come moda ma foriera di comportamenti coerenti, la pianificazione diventata nei fatti strumento di potere e non metodo di convivenza di interessi diversi, scarso contributo critico alle politiche di salvaguardia che generano incensazioni dei parchi o stereotipate denunce sugli eccessi vincolistici, visione sistemica dei problemi come scambio interdisciplinare e non semplice giustapposizione di concezioni multidisciplinari che non giungono a sintesi. Una “moralità” che stenta a farsi strada tra amministrati e amministratori nei confronti dell’ambiente, parchi che evolvono da difesa esclusiva di interessi scientifico naturalistici verso la soddisfazione di istanze più complesse di ordine culturale, sociale ed economico.” È sulla scorta di queste visioni che proprio Giacomini porta la sua teoria all’interno dei programmi UNESCO in materia di sviluppo sostenibile, partecipando alla creazione del programma internazionale sull’educazione ambientale, lanciato nella conferenza internazionale di Tbilisi del 1977, e reso operativo dall’UNESCO e dal Programma delle Nazioni Unite sull’Ambiente con sede a Nairobi. Una sintesi dell’ecologia come scienza della natura e dell’uomo che porta l’attenzione su problemi generali, ignorati dai più, con un riferimento alla storia del pensiero comune alle “due culture” (umanistica e scientifica ovvero tra scienze naturali e sociali). Una nuova visione rinascimentale - antropocentrica responsabile e non onnipotente, una sorte di “controrivoluzione tolemaica” (espressa nel 1976), cioè una visione di alleanza fra il mondo della cultura (e dell’educazione) e della scienza con quello delle istituzioni nazionali e locali: questi sono i presupposti che stanno alla base di quel grande innovamento che si prefiggeva il Programma MAB (Man and the Biosphere Programme) dell’UNESCO, che nasce nel 1970-71, per pro-

muovere ricerche interdisciplinari, gestione ed educazione per la conservazione degli ecosistemi ed uso sostenibile delle risorse naturali che considerano anche il loro valore culturale e che si giova del contributo intellettuale del giovane direttore generale del programma MAB a Parigi, Francesco di Castri. Oggi le Riserve della Biosfera, come si legge nelle recenti linee guida nazionali: “....rappresentano un modello di convivenza armonica uomoambiente offrendo, attraverso l’integrazione della biodiversità e della conservazione dei servizi ecosistemici nelle strategie economiche locali, soluzioni per le sfide future dell’umanità, con l’obiettivo di tramandare alle generazioni future modus operandi, comportamenti e conoscenze per una società sostenibile. “ Un concetto che è efficacemente sintetizzato nelle parole di Irina Bokova, Direttore Generale UNESCO: “While World Heritage helps to preserve values, Biosphere Reserves create it”. Si tratta di una strategia che poggia le basi sui documenti rappresentati dalla Strategia di Siviglia (1995) che fissa obiettivi specifici, raccomandazioni a livello nazionale, internazionale e per ciascuna RB, ed indicatori di attuazione, oltre a impegnare gli stati a garantire processi di pianificazione, gestione e di monitoraggio continuo delle RB, anche attraverso la creazione di organi consultivi. Segue il Quadro Statutario della Rete Mondiale delle Riserve della Biosfera (1995) che stabilisce criteri, funzioni e procedure di designazione delle RB e detta i principi per la loro revisione periodica a cui è seguito il Piano di Azione di Madrid (2008), d’attuazione della Strategia MaB 2008-2013, che ribadisce le tre grandi sfide del 21° secolo: il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità e l’urbanizzazione, e sottolinea l’importanza strategica del coinvolgimento di tutti i soggetti interessati al fine di assicurare il benessere delle popolazioni umane e del loro sviluppo. Infine il Piano di Azione di Lima (2016), d’attuazione della Strategia MaB 2015-2025, che stabilisce obiettivi, azioni e risultati attesi; individua i principali soggetti responsabili di tale attuazione (Stati, Comitati Nazionali MaB, Segretariato UNESCO, RB, ecc.) e pone attenzione particolare alla realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile e all’attuazione dell’Agenda 2030.

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Sulla base di questi principi generali si sta sviluppando una modalità di gestione sistemica ed integrata che permette ad aree territoriali omogenee non solo di fregiarsi di un riconoscimento, che è nel contempo un impegno di responsabilità, ma anche di darsi una agenda di lavoro su tematiche ambientali integrate. L’impostazione stessa dello schema costitutivo territoriale di una area MaB contribuisce a comprendere il suo valore di area estesa, come illustrato più avanti. Le prime iscrizioni al programma MAB di riserve italiane risalgono agli anni ’70 e riguardano aree la cui conservazione è mirata alla salvaguardia della loro biodiversità. Le prime ad essere iscritte, nel 1977, sono le Riserve Naturali Statali di “Collemeluccio-Montedimezzo” e della “Foresta del Circeo”, gestite dal Corpo Forestale dello Stato, seguite, nel 1979, da Miramare, istituita come Riserva Naturale Marina con Decreto Interministeriale del 12.11.1986, ed affidata in gestione al WWF Italia. A seguito dell’adozione della strategia di Siviglia e dell’aggiornamento del concetto di Riserva della Biosfera, che ribadisce come la finalità fondamentale da raggiungere con l’istituzione di una Riserva MAB-UNESCO è quella di trovare un equilibrio che duri nel tempo tra conservazione della biodiversità, promozione di uno sviluppo sostenibile e salvaguardia dei valori culturali connessi, cambia la tipologia di area protetta, oggetto del riconoscimento MAB. A Siviglia si conviene, dunque, che tale obiettivo possa essere perseguito attribuendo ai territori compresi nelle Riserve le seguenti funzioni complementari in tre diverse zonazioni identificate in aree core, buffer e transition: • Area core finalizzata alla conservazione della diversità biologica, delle risorse genetiche, delle specie, degli ecosistemi e dei paesaggi, e della diversità culturale; • Area buffer indirizzata allo sviluppo, centrato principalmente sulle popolazioni locali, secondo modelli di gestione “sostenibile” del territorio; • Area transition destinata alla logistica, per supportare progetti di dimostrazione, informazione, educazione ambientale, ricerca e monitoraggio collegati ai bisogni di conservazione e sviluppo sostenibile locale, nazionale e globale.

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Aree protette 2.0 o Parchi open: le Riserve di Biosfera in Italia. A partire dal 1977 le aree a Riserve della Biosfera istituite in Italia sono, al 2016, 14, mentre nel 2017 si è aggiunta la prima Riserva Insulare della Sardegna denominata Riserva della Biosfera Tepilora, portando a 15 i siti UNESCO riconosciuti. Occorre infatti ricordare che, a differenza di quanto sostenuto dalla vulgata in materia UNESCO, i siti riconosciuti come patrimonio mondiale non sono solo quelli della più nota World Herytage List ma anche, appunto, i MaB e i Geoparchi, che oggi sono rappresentati in Italia con 10 riconoscimenti. In particolare nelle ultime esperienze nate, come ad esempio quelle del Delta del Po e di CollinaPo nel torinese, il principio di un coinvolgimento completo delle realtà territoriali che concorrono alla gestione sostenibile, mirando a minimizzare i loro impatti negativi, è stata tradotta nella candidatura di spazi a forte presenza di attività antropica, nei quali però la compresenza di situazioni morfologiche e fisiche particolari ha garantirto la contemporanea presenza di habitat e specie che costituiscono un bacino di biodiversità, integrate con le attività economiche. L’esperienza di CollinaPo, primo Urban Mab Italiano e con originalità anche a scala europea, presenta un elemento di novità se integrato con le politiche strategiche di area vasta come il Piano strategico nella sua terza edizione. In molti casi cuore della candidatura e del conseguente riconoscimento, con un ruolo centrale, sono stati gli enti gestori delle aree protette, sia nazionali che regionali, che hanno saputo interpretare il significato culturale a questa operazione di progettazione territoriale di aree vaste che Giacomini aveva infuso nelle linee UNESCO ngli anni ‘70. È sulle modalità operative di gestione che queste realtà stanno oggi sperimentando interessanti modelli di governance, sia a livello degli organismi istituiti per la gestione a ponte tra ente parco e restante territorio, sia per la traduzione operativa dei Piani di Azione che dopo Lima sono divenuti gli strumenti guida per il raggiungimento degli obiettivi generali così identificati in 11 obiettivi.


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Le aree MaB rappresentano quindi un esempio di nuova articolazione di gestione di aree vaste, ma guidate dall’attenzione all’obiettivo principe dello sviluppo sostenibile e del mantenimento di adeguate condizioni di assetto equilibrato del territorio. L’idea individuata da Giacomini negli anni ‘70 si configura come l’articolazione che oggi le stesse aree protette dovrebbero assumere, senza confondersi con i cosiddetti piani di sviluppo locale, ma come strumenti per il vero perseguimento dello sviluppo sostenibile, dove la conservazione della natura diviene un tutt’uno, in una visione olistica contemporanea e rinnovata, con le politiche territoriali: un ponte con i tanti aspetti che intercettano il benessere della natura e insieme il benessere, inteso non in termini materiali, della comunità umana.

Una piattaforma innovativa di cooperazione, che dovrebbe essere oggetto di una nuova stagione di strategie nazionali per le stesse Aree protette, financo di una revisione a scala legislativa, soprattutto per il suo forte valore innovativo che risiede nell’unione delle politiche per la natura con quelle della cultura, sociali ed educative: parole chiave che stanno proprio alla base della stessa istituzione UNESCO e che dovrebbero nuovamente portare linfa agli stanchi dibattiti sulla pianificazione dei territori, rifacendoci non a speciali innovazioni ma a maestri del passato, come è stato Valerio Giacomini, o Aurelio Peccei, che già 35 anni fa seppero vedere i lineamenti dei “parchi 2.0”, mentre oggi il nostro legislatore ancora rincorre misure solo amministrative e non di strategia e visione per il futuro.

Le Riserve della Biosfera italiane al 23 agosto 2017 1

Collemeluccio-Montedimezzo Alto Molise

Riserva Naturale di Collemeluccio-Montedimezzo, in Molise, in Provincia di Isernia, nei Comuni di Vastogirardi e Pescolanciano www.riservamabaltomolise.it/

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Circeo

Parco Nazionale del Circeo, nel Lazio, in Provincia di Latina, a 100 km a sud di Roma, sulla costa tirrenica www.parcocirceo.it

1977

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Miramare

Area marina protettsRiserva Naturale Marina, situata a 7 km dalla città di Trieste, nel Golfo di Trieste. www.riservamarinamiramare.it

1979

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Cilento e Vallo di Diano

Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, in Campania, Provincia di Salerno, dalla costa tirrenica fino ai piedi dell’appennino campano-lucano. www.cilentoediano.it

1997

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Somma Vesuvio e Miglio D’Oro

Parco Nazionale del Vesuvio, situato nel Golfo di Napoli, in Campania. www.vesuviopark.it

1997

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Valle del Ticino

Parco del Ticino, lungo il fiume Ticino, in Italia settentrionale, tra le regioni Lombardia e Piemonte. www.parcoticinolagomaggiore.it

2002

7

Isole di Toscana

Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, nel Mar Tirreno, con sette isole maggiori situate tra la costa toscana e la Corsica. www.islepark.it.

2003

8

Selve Costiere di Toscana

Parco di Migliarino, San Rossore e Massaciuccoli, nella zona costiera toscana tra Pisa e Viareggio. www.parcosanrossore.org

2004

9

Monviso Biosphere Reserve Interessa il Parco del Po Cuneese e si estende dai due versanti del Monviso fino a raggiungere le colline 2013 del Roero, in Piemonte. Nel 2014 è stato riconosciuto, insieme al territorio francese del Queyras, prima Riserva transfrontaliera. www.parcodelpocn.it

10

Sila

Interessa il territorio del Parco Nazionale della Sila e di 68 Comuni delle Province calabresi di Cosenza, Catanzaro e Crotone per quasi 400.000 ettari. www.parcosila.it.

11

Appennino Tosco-Emiliano

Situato in Emilia Romagna, interessa una parte rilevante dell’Appennino settentrionale, comprendendo 2015 il Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano. www.parcoappennino.it.

12

Delta del Po

Comprende i Parchi Regionali del Delta del Po del Veneto e dell’Emilia-Romagna. www.parcodeltapo.org, www.parcodeltapo.it

13

Alpi Ledrensi e Judicaria

Si estende tra il Lago di Garda e le Dolomiti di Brenta, comprendendo le riserve del Trentino Alto Adige 2015 www.areeprotette.provincia.tn.it

14

Collina Po

Interessa il territorio piemontese del fiume Po e della collina che borda la città di Torino, conivolgendo 85 Comuni e le Aree Protette del Po e della Collina Torinese. www.parchipocollina.to.it/page.php?id=82

2016

15

Tepilora, Rio Posada e Montalbo

Identificata dal bacino idrografico del Rio Posada e dai massicci che lo circondano (dal Montalbo ai monti di Ala, al Monte Nieddu), copre una superficie di 165.173 ettari, passando in pochi chilometri dalla montagna al mare. Coinvolge il territorio di 17 Comuni del nord-est della Sardegna ricadenti nelle due provincie di Olbia-Tempio e Nuoro, il Parco Regionale di Tepilora, il SIC del Montalbo, il SIC Berchida-Bidderosa, il Parco Geominerario storico e ambientale della Sardegna e diverse altre aree di interesse naturalistico. www.parcotepilora.it

2017

2014

2015

87


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