Arte e Cibo: oggetti, dipinti, design dai Piceni ai giorni nostri.

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arte e cibo oggetti, dipinti, design dai Piceni ai giorni nostri

Giorgio De Chirico Vita silente, 1952 olio su tela, cm 40x50



arte e cibo oggetti, dipinti, design dai Piceni ai giorni nostri Luglio - Novembre 2014 Auditorium di Sant’Agostino Pinacoteca civica Marco Moretti Civitanova Marche Alta

OFFICINA DEL DOMANI LABORATORIO DELL’AVVENIRE


arte e cibo Con l’adesione del Presidente della Repubblica Con il patrocinio di Senato della Repubblica Ministero Beni e Attività Culturali MIUR Ufficio Scolastico Regionale Direzione Generale, Ancona Regione Marche Provincia di Macerata Tourin Club Italia MIBAC Regione Marche Provincia di Macerata Osservatorio Parlamentare Europeo Consiglio d’Europa Enti promotori Comune di Civitanova Marche Assessorato alla Cultura Pinacoteca civica “Marco Moretti” Azienda Speciale Teatri di Civitanova In collaborazione con: Ministero per i Beni e le attività Cultura e del Turismo Soprintendenza Patrimonio Storico Artistico Etnoantropologico Marche, Urbino Soprintendenza per i Beni Archeologici Marche di Ancona Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici delle Marche Musei civici Ascoli Piceno Università degli Studi di Camerino Facoltà Tecnologia Conservazioni Beni Culturali Fondazione Cavallini-Sgarbi Fondazione CARIFANO Fratelli Guzzini Spa Intesa San Paolo Futura Festival Civitanova Marche Mostra e catalogo a cura di Enrica Bruni Stronati Stefano Papetti Saggi Virginio Briatore Enrica Bruni Stronati Nicoletta Frapiccini Stefano Papetti Marcello Verdenelli Marisa Vescovo Trasporti e assicurazione Montenovi srl - Roma Ufficio stampa Chiara Levantesi, Comune di Civitanova Marche Futura Festival

oggetti, dipinti, design dai Piceni ai giorni nostri

Con l’adesione del Presidente della Repubblica

Fotografie Archivio fotografico Sopraintendenza dei Beni Archeologicidelle Marche-Ancona Roberto Buschi Stefano Cianfarini Andrea Samaritani

Enti promotori Comune di Civitanova Marche

Collaborazione tecnica Delegazione Comunale, Civitanova Marche Alta

Enti patrocinanti

Progetto grafico Federica Tarchi

MIUR Ufficio Scolastico Regionale Marche Direzione Generale

Un vivissimo ringraziamento a tutti gli Enti, i collezionisti i prestatori privati senza la cui disponibilità la mostra non sarebbe stata possibile Un ringraziamento particolare a Matteo Baldassarri Anna Maria Barbanera Gabriele Barucca Luciano Belardinelli Alessandro Bertazzini Luigi Colombo Nicoletta Colombo Modesto Corradi Pietro Di Natale Wenceslao e Rosanna Di Persio Luciano Dolcini Laura Feliciotti Antonio Frapiccini Nicoletta Frapiccini Francesco Fucili Stefania Ghergo Serenella Giangiacomi Sergio Grasso Nora Lucentini Emanuela Lucchetti Andrea M. Massari Giuseppe Enrico Matricardi Adele Meloni Marina e Michela Mengarelli Claudio Paci Catia Parabelli Sabinio Petruzzelli Pinuccia Sardi Anna Maria Savini Studio d’Arte Nicoletta Colombo, Milano Catia Tarabelli Fabio Tombari Gino Troli, Direttore Artistico Futura Festival Andrea Viozzi Per il sostegno dato al progetto si ringrazia Tommaso Claudio Corvatta, Sindaco di Civitanova Marche Giulio Silenzi, Assessore Cultura-Turismo Rosetta Martellini, Presidente C.di A. Az. Spec. Teatri di Civitanova e i signori componenti del C.di A. Az. Spec. Teatri di Civitanova, la Direzione dell’ Az. Spec. Teatri di Civitanova

REGIONE MARCHE

Provincia di Macerata

In collaborazione con

Hanno contribuito alla realizzazione dell’evento culturale

Main Sponsor

Montenovi Trasporti

Sponsor AUTOCLUB MARCHEsrl

Polci Edilizia COLDIRETTI MACERATA

olci edilizia

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arte e cibo oggetti, dipinti, design dai Piceni ai giorni nostri

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La stagione delle grandi mostre d’arte a Civitanova Marche continua con “Arte e cibo. Oggetti, dipinti, design dai Piceni ai giorni nostri”. L’Amministrazione comunale, con questo appuntamento di alto profilo e di grande impegno tecnico e scientifico, intende affermare quanto tenga alla promozione della cultura intesa quale mezzo privilegiato per esprimere l’identità più profonda del nostro territorio e dei beni storici e artistici italiani. L’arte è espressione di bellezza e fattore che rinvigorisce il benessere intellettuale, rafforza e caratterizza l’offerta turistica, promuove la valorizzazione della città e rende merito alla creativa competenza di chi ci permette di godere ed apprezzare eventi originali e di spessore. Questo appuntamento, che si inserisce e completa Futura Festival 2014, non mancherà di attrarre appassionati e sarà l’occasione per mostrare e far conoscere, anche ai civitanovesi, quel patrimonio che è così diffuso e presente nella nostra città, la raccolta della Pinacoteca civica Marco Moretti e tutte quelle testimonianze che dalla nostra regione e da tutta Italia, per questa occasione, raccontano l’ingegno e la maestria attraverso realizzazioni di ingegno, suggestione e originalità. La città alta, coniugando le eccellenze locali alla tradizione e ai fenomeni di largo respiro internazionale, si afferma sempre più come spazio idoneo per rendez-vous e incontri culturali eterogenei che hanno come legame il sapere, la crescita intellettuale, l’amore per tutto ciò che è artistico, corroborante e creativo, luogo esemplare per chi vuole conoscere e sapere, perchè è solo attraverso la conoscenza che si può recuperare, salvaguardare, valorizzare il nostro patrimonio e la nostra identità. Noi tutti ringraziamo i professionisti, gli esperti, gli enti, i collezionisti e i sostenitori che hanno permesso con slancio, competenza e generosità la realizzazione di quanto ci apprestiamo ad ammirare con gioia, entusiasmo e partecipazione. Il Sindaco Tommaso Claudio Corvatta L’Assessore alla Cultura e Turismo Giulio Silenzi

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La grande mostra d’arte civitanovese si apre a uno dei temi dell’Expò 2015 anticipato all’interno del Futura Festival, grande motore di idee per la nostra città: Arte e Cibo Gli spazi più prestigiosi della Città Alta accolgono un percorso espositivo che spazia nel tempo, da quello più remoto dei Piceni a quello contemporaneo del design più raffinato, passando per i grandi maestri dell’arte figurativa. L’Arte e il Cibo o anche il Bello e il Buono. Due delle più importanti peculiarità della cultura italiana. Due piaceri insieme. È un privilegio della nostra società avere un rapporto quotidiano e costante con il cibo e questo spesso ci fa dimenticare il legame con la natura, con la terra da cui proviene, il suo essere prezioso, non ci fa riconoscere la sua bellezza più autentica, ci fa ignorare quanto racconti di noi sia nell’abbondanza che nella mancanza. L’arte è stata ed è capace di sublimare questa quotidianità, restituendo ai nostri occhi colori, forme, composizioni, indugiando su particolari che stupiscono e insieme descrivono dei mondi. Mense parche dai colori ombrosi, nature morte con frutti succulenti, suppellettili simbolo di prestigio sociale, oggetti che dimostrano la capacità artigiana dell’essere umano di unire bellezza e funzionalità, ma anche forza provocatoria e innovativa. Un viaggio d’arte stuzzicante e appetitoso curato dalla Direttrice della Pinacoteca Civica “Marco Moretti” Enrica Bruni e dal Professor Stefano Papetti, che si confermano indomiti e infaticabili. A loro porto un ringraziamento particolare anche a nome di tutta l’Azienda Speciale dei Teatri di Civitanova. Un grazie sincero va a tutti coloro che hanno dato un contributo alla realizzazione del’esposizione, agli Enti e ai collezionisti che hanno concesso le loro opere, ai consulenti che ci accompagnano con competenza nei meandri della storia che lega l’arte nelle sue diverse espressioni al cibo, ai sostenitori che hanno reso possibile che quello che all’inizio era solo un progetto ambizioso sia diventato realtà. La Presidente dei Teatri di Civitanova Rosetta Martellini

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Un dialogo fitto e costante ha caratterizzato il rapporto tra il Festival nella sua programmazione e la scelta della grande mostra artistica che tradizionalmente la Pinacoteca realizza ogni estate nell’Auditorium Sant’Agostino. Quando ho illustrato uno dei temi portanti di molti incontri e spazi di Futura, quello di come le Marche si stanno preparando all’Expo 2015, che come tema ha scelto NUTRIRE IL PIANETA, ENERGIA PER LA VITA, è venuto naturale a tutti noi l’approdo all’idea di una mostra che avesse come tema il rapporto che arte e cibo hanno avuto nei secoli, dalle prime forme di elaborazione di una civiltà del cibo e della sua somministrazione che vengono dalla svolta preistorica che dal crudo passa al cotto e che segna una dimensione più evoluta in senso umano dell’essere animale, ai passaggi protostorici (la civiltà picena) a quelli antichi, medievali e moderni che ci hanno condotto oggi ad una vera e propria cibomania che ci vede colonizzati dalla pubblicità e dai suoi miti (da Warhol in poi l’arte si è nutrita delle esagerazioni comunicative sull’alimentazione!). Una lunga storia fatta di veri capolavori ma anche di un sistema diffuso di oggetti, attrezzi di cucina, arredi, produzioni artistiche minori, che hanno scandito l’evoluzione di costumi, tradizioni e riti della convivialità, muovendosi tra artigianato, arte e produzione di fabbrica di qualità. Non è, infatti, questo di Arte e Cibo un tema laterale in una gerarchia possibile tra gli argomenti artistici degni di una esposizione per una serie di evidenti ragioni: la presenza di tentativi più o meno importanti di tematizzare la questione nel tempo nella ricerca storico-artistica; il tentativo di realizzare mostre anche recentissime su questo argomento (alla Triennale di Milano “Gola.Arte e scienza del gusto); la centralità di questo settore nella ricerca contemporanea del design internazionale tutto indirizzato alle applicazioni in cucina di linee innovative. Per tutte queste ragioni e per molte altre, è davvero una coincidenza voluta la partecipazione al Futura Festival di alcuni protagonisti del dibattito sulle prospettive nutrizionali del pianeta come Claudia Sorlini, presidente del comitato scientifico dell’Expo, e la possibilità di ripercorrere nel tempo il rapporto tra uomo e cibo attraverso l’arte. Ringrazio per questo la presidente Martellini e il direttore Di Lupidio dell’Azienda Teatri che hanno reso possibile l’evento sul piano amministrativo, la direttrice della Pinacoteca Bruni che lo ha curato scientificamente insieme al professor Papetti, i vari collaboratori per la grafica e per l’allestimento che lo hanno realizzato. Civitanova Alta sempre di più si candida ad essere, nelle Marche e in Italia , polo culturale a tutto campo: arte, storia, cultura,scienza, filosofia e letteratura si danno convegno ogni estate a rinnovare i fasti di un umanesimo redivivo. E tutto ciò accade accanto alla “magione” del sempre attuale Annibal Caro. Il direttore artistico di Futura Festival Gino Troli

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Percorsi per la natura morta nelle Marche Stefano Papetti

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I musei marchigiani conservano notevoli testimonianze pittoriche legate alla natura morta, frutto in genere del collezionismo privato giunte poi alla fruizione pubblica per il tramite di generose donazioni effettuate dopo l’unità d’Italia; i nuclei più cospicui sono quelli conservati presso le raccolte civiche di Pesaro, di Montefortino e di Ascoli Piceno, ma presenze diffuse son ben individuabili anche in altre collezioni pubbliche o nelle prestigiose case-museo della regione adriatica. Nel palazzo dei marchesi Piersanti di Matelica spiccano le quattro opulente tele di Spadino, i bodegones di ambito iberico e due composizioni del Maltese, ma anche a Lanciano, negli appartamenti dove ha vissuto la principessa Maria Sofia Giustiniani Bandini, la sala da pranzo è decorata da vivaci composizioni floreali eseguite a Roma nel XVIII secolo. D’altro canto anche le testimonianze archivistiche ci trasmettono informazioni circa la presenza nelle raccolte del patriziato marchigiano di numerose tele raffiguranti fiori, frutta, cucine, strumenti musicali ed oggetti domestici. Uno fra i casi più singolari è legato al Palazzo della famiglia Vinci a Fermo, una delle casate storiche più influenti della città: nell’inventario redatto nel 1730 in occasione della morte del conte Antonio Asdrubale vengono elencate numerose nature morte fra le quali si segnalano quattordici tele raffiguranti vasi di fiori e dodici interni di cucine che decoravano le pareti non soltanto, come ci si potrebbe aspettare, delle sale di rappresentanza, ma anche delle numerose camere da letto. Purtroppo l’estensore del documento si limita ad indicare i soggetti dei dipinti e non il nome degli autori pertanto, nell’impossibilità di conoscere l’identità di chi le abbia eseguite, ci si dovrà limitare a sottolineare la quantità cospicua di nature morte conservate in quel palazzo e la predilezione del committente per le “cucine”. Nella stessa città di Fermo, del resto, si registra un altro importante evento legato alla diffusione della natura morta nell’arredo settecentesco: nel 1701, in occasione delle nozze di Giacomo Raccamadoro con Elisabetta Evangelista, vennero infatti commissionate a Roma ben diciotto tele di vario formato a Giovanni Paolo Castelli detto lo Spadino per decorare le pareti di una sala da pranzo, composizioni di vario formato che dovevano concorrere al decor di un ambiente molto sfarzoso al quale le opulenti imbandigioni del pittore romano, ma di lontane origini marchigiane, dovevano conferire un tono gaio ed elegante, in linea con il nuovo gusto affermatosi nel primo decennio del Settecento. Le presunte origine marchigiane della famiglia Castelli, che oltre a Giovanni Paolo conta altri due pittori (Bartolomeo senior e Bartolomeo junior) hanno certamente favorito la venuta da Roma di numerose tele eseguite dal primo: il nucleo radunato dal pittore Fortunato Duranti a Montefortino lo testimonia in modo adeguato e documenta l’insolita predilezione dell’artista neoclassico per questo genere pittorico, trascurato dai suoi contemporanei. Nelle sale di Palazzo Leopardi, nelle quali hanno trovato una suggestiva collocazione i dipinti che Duranti donò in vita alla sua città natale, possiamo individuare numerose testimonianze legate alla natura morta, soprattutto tele provenienti dal contesto romano che esprimono un gusto scenografico per la combinazione di fiori e frutti particolarmente caro agli specialisti attivi nell’Urbe, nella linea che da Abraham Brueghel si sviluppa nella produzione di Berentz, Navarra e Castelli. 15


Già nel corso del Seicento, quando più intense e continuative si fecero le relazioni artistiche tra Roma e il territorio piceno, si era segnalato il caso di Mario Nuzzi, nato a Comunanza nel 1603 e scomparso nel 1673, ribattezzato a Roma “Mario dei Fiori” per la sua straordinaria abilità nel dipingere le variopinte corolle di garofani, rose e tulipani. Pittore tra i più citati negli inventari relativi alle collezioni romane, solo negli ultimi anni gli studiosi sono riusciti a precisare convincentemente i suoi estremi biografici ed alcuni dei suoi orientamenti culturali: nipote di Tommaso Salini, del quale fu erede, egli abitava in Strada Paolina e fu in rapporti con autorevoli collezionisti, come il cardinale Flavio Chigi, per il quale eseguì le cinque tele oggi nel palazzo di Ariccia in collaborazione con i maggiori pittori di figura, opere che mostrano come il naturalismo degli anni giovanili avesse ceduto il passo ad un esuberanza barocca e sensuale. È documentata a Roma la presenza anche di un altro specialista nell’ambito della natura morta, l’emiliano Cristoforo Munari (16671720): il suo soggiorno nell’Urbe, collocabile tra il 1695 e il 1705, fu fondamentale per il definirsi della sua pittura, maturata in stretto contatto con Spadino, Berentz e Navarra. Il successivo soggiorno a Firenze presso al corte granducale arricchiva il repertorio del Munari alla luce delle passioni collezionistiche coltivate dal gran principe Ferdinando. A questa fase toscana dell’attività del Munari si riferiscono le due belle nature morte della Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno appartenute al collezionista ascolano Antonio Ceci (1852-1920), che le acquistò a Pisa, città dove trascorse gli ultimi anni di vita. Su un ripiano lapideo sono disposti con sapiente disordine gli oggetti più cari al pittore: i preziosi libri rilegati in marocchino, la frutta dalla buccia spessa e rugosa, le porcellane cinesi dipinte in azzurro, i fragili bicchieri in cristallo. Dalla stessa collezione Ceci provengono due nature morte con utensili domestici, rami ed altri oggetti disposti in un singolare disordine all’interno di buie cucine, appena rischiarate dalle braci che rilucono nel focolare o nella stufa. Attribuite da chi scrive al pittore imolese Giovanni Domenico Valentino, le due nature morte furono poi trasferite nel catalogo del pittore bolognese Antonio Crespi, sulla base della erronea interpretazione della sigla A.C. apposta sul cartiglio di un albarello dipinto in una natura morta del museo di Montepulciano. Sono occorsi vari anni e l’intervento qualificato di una autorevole studiosa di maioliche, Carmen Ravanelli Guidotti, per accertare che le lettere capitali del cartiglio non facessero riferimento al nome dell’artista, ma fossero l’abbreviazione del nome del medicinale contenuto nel vaso ceramico, trattandosi con piena evidenzia delle lettere iniziali della parola “acqua” ricorrente nel dizionario della farmacopea. Nel corso del Settecento le Marche non furono soltanto il punto di arrivo di rare nature morte dipinte a Roma o in Emilia, ma in alcuni centri della regione adriatica operarono degli specialisti fra i quali emerge, per la particolarità delle sue composizioni, il pittore fanese Carlo Magini (1720-1806), autore anche di alcuni ritratti nei quali ha il vezzo di firmare in francese, esibendo così un inaspettato cosmopolitismo. La sue nature morte replicano un modello destinato a riscuotere un grande successo presso i committenti locali e forestieri: non si tratta infatti delle sontuose composizioni di fiori e frutti dipinte a Roma, secondo un modello 16

caro a tutti i pittori attivi nell’Urbe. Magini dispone invece sul rustico piano di un tavolo da cucina oggetti e cibi comuni composti con semplicità, senza velleità scenografiche: in questi ambienti silenti, nei quali non si coglie l’eco di presenze umane, egli allinea spesso i medesimi elementi, variandone la disposizione e di volta in volta arricchendoli con la introduzione di qualche nuovo oggetto: prosciutto, salame, forme di pane, tegami di coccio con un paio di uova, un fiasco impagliato, una testa di vitello si accompagnano a semplice candelabri, a lanterne, umili stoviglie ed albarelli in terraglia, all’insegna di un tono dimesso, ma nel contempo ricercato. Magini appare così come l’interprete più elevato di un genere che, avendo rinunciato al compiacimento descrittivo e all’opulenza rococò, si avvia verso una rappresentazione più realistica ed oggettiva, venata forse di intenti “illuministici” per l’asciutta e concreta indagine del vero. Un rigore neoquattrocentesco, un tono quasi sacrale pervadono le nature morte di Magini, da inquadrarsi nell’ambito della tendenza della cultura laica ed illuminista della prima metà del XVIII secolo: tale orientamento, di lontana discendenza caravaggesca, coinvolge alcune espressioni della natura morta italiana e trova significativi paralleli a livello europeo nelle esperienze di Liotard e di Chardin, al quale andavano le simpatie di Diderot. In queste nature morte di tono più rustico e dimesso può leggersi anche un possibile intendimento di denuncia sociale, alla luce di uno spirito pauperistico che alligna in Lombardia ma soprattutto in Emilia: Arcangelo Resani. Nicola Levoli, il cosiddetto pittore di Rodolfo Lodi danno vita con Magini ad un genere nuovo di nature morte, capaci di parlare all’anima e non intese come superficiale espressione di una grande valentia tecnica. Tutti questi artisti chiudono la loro vita sul finire del Settecento o nei primissimi anni del secolo successivo, in tempo per non restare coinvolti nella esaltazione del genere storico, considerato dall’incipiente movimento neoclassico come il più adatto ad incitare le virtù morali: l’affermarsi di questa nuova corrente, la cui evoluzione si intreccia con l’epopea napoleonica, confina la natura morta ai margini degli interessi artistici, tutti orientati ad esaltare i protagonisti della storia antica e di quella contemporanea. Sarà il Romanticismo a rivalutare la natura morta come espressione della componente divina che appartiene all’universo e di conseguenza questo genere riconquisterà la ribalta della pittura, per trovare le sue espressioni più elevate nel contesto dell’Impressionismo francese. Stefano Papetti

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La durata delle cose “vive” Marisa Vescovo

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Potremmo dire che l’arte moderna comincia con una madre (la storia), che ha rinnegato i propri figli, e continua poi attraverso una serie di malintesi, ma si può però renderla coerente mediante un’estetica che definisca l’arte in modo molto positivo e concreto. Questa estetica definisce l’arte come un mezzo per concepire il mondo in modo visivo. Tutta la storia dell’arte è una storia di modi di percezione visiva: delle varie maniere in cui l’uomo ha visto il mondo. Noi vediamo ciò che impariamo a vedere, e la visione diventa un’abitudine, una convenzione, una scelta parziale di tutto quello che c’è da vedere, e un compendio deformato del resto. Quello che vediamo deve essere reso reale, in tal modo l’arte diventa la costruzione della realtà. Non c’è dubbio che, ciò che viene oggi chiamato il movimento moderno dell’arte, incomincia dalla decisione isolata, e personale, di un pittore francese, di vedere il mondo obiettivamente. E’ chiaro che Cézanne desiderava vedere il mondo, o quella parte di esso che egli stava contemplando, come un oggetto, senza alcun intervento, sia di ordine razionale, sia delle emozioni irrazionali. I suoi immediati predecessori, gli Impressionisti, avevano visto il mondo soggettivamente, cioè come si presentava ai sensi sotto varie luci, o diversi punti di vista, e ogni impressione, dava origine a una diversa opera d’arte. Ma Cèzanne voleva oltrepassare la superficie brillante e ambigua delle cose per penetrare nella realtà immutabile. Notava Virginia Woolf, a proposito delle opere di Cézanne, esposte nel 1910 a Londra: “Ci sono sei mele nel quadro di Cézanne. Che cosa possono essere sei mele? C’è il rapporto tra ognuna di loro e il colore e il volume… Quanto più le si guarda tanto più le mele sembrano diventare più rosse e rotonde e più verdi e pesanti……il loro pigmento stesso, toccare qualche nostro nervo, stimolare, eccitare….suggerisce forme dove prima non vedevano che vuoto….” Un tale entusiasmo non deve sorprendere in una scrittrice sensibile come la Woolf, che di Paul Cézanne sembra condividere le stesse esigenze espressive, e le fatiche della lotta creativa. Dipingere la materia che sta coagulandosi, rendere il mondo nella sua densità, l’opaco, il trasparente, i diversi stadi della materialità delle cose, rappresentò una sfida per l’artista provenzale e per la scrittrice inglese. Diceva ,Cézanne, in un suo scritto: ”In un’arancia come in una mela, o in una palla, o in una testa, c’è sempre un punto culminante che coincide col nostro punto di vista, nonostante sia reso con toni a effetto: luci, ombre, sensazioni coloranti. I contorni, degli oggetti, fuggono verso un centro collocato sul nostro orizzonte”. Questa mia insistita sottolineatura, legata al lavoro di Cézanne sulle “cose” , nasce anche dal fatto che negli anni della tranquilla, e relativamente prospera, moderatamente progressista, Italia giolittiana, fino allo scoppio della prima guerra mondiale, la cultura artistica ufficiale era ancora accademica: quello che vi è di nuovo è limitato a cerchie ancora ristrette. Sintomi di rinnovamento, almeno sul piano culturale, sono tuttavia in alcuni scritti legati agli impressionisti, che compaiono ad opera del critico Vittorio Pica, e del pittore Ardengo Soffici, che dirige la vivace rivista fiorentina “La voce”. Per la stessa via si diffonde anche da noi la conoscenza di Cézanne, la cui pittura rimarrà fondamentale in buona parte della ricerca moderna del Novecento nostrano. Pure Pablo Picasso creava delle “nature morte”, altamente espressive: costruzioni di volumi 19


coperti di colori contrastanti e vivacissimi, che avevano la preziosità dell’intarsio, secondo un ritmo martellato e durissimo, in cui ci pare di scorgere lo sforzo dell’invenzione dal nulla, che influenzerà la pittura di Morlotti , Monachesi, e degli espressionisti. Un discorso a parte è quello dei Futuristi che invece esemplificarono le teorie del dinamismo universale con sacra foga romantica, ma cercarono di dare vita ad una pagina di pittura politica tipicamente italiana. Per poco più di un triennio, 1916-1920, ha una forte evidenza artistica in Italia, con centro a Ferrara, un piccolo gruppo di grandissimi artisti, che si richiamarono ad un’idea di pittura metafisica : sono De Chirico ( in Francia lo riconoscono come l’apostolo del Surrealismo), Carrà e Morandi. Ma De Chirico ripudierà ben presto i vaticini metafisici per darsi a una pittura la quale voleva valorizzare la sostanza dei colori pieni di turgore, che genererà bellissime “nature morte” ( non dimentiche anche delle canestre di Caravaggio), che lui chiamava “nature silenti”, o stilleven, in cui il verismo mimetico e illusionistico era estremo. Queste opere esibiscono la consistente forma visibile e l’evanescente prospettiva del loro prossimo consumarsi, come avveniva nella pittura olandese del Seicento. Per Carlo Carrà la pittura “metafisica” ha avuto , dopo l’esperienza futurista, che lo aveva liberato dal Divisionismo, il valore di una serie di esercizi di grammatica pittorica, in cui mescolava calchi, oggetti e cibi, che gli serviranno di base per la sua vera conquista della natura, dal 1921 in poi, partecipando al movimento del Novecento.Morandi, che aveva iniziato studiando le riproduzioni di opere di Cézanne, partecipava alla “metafisica” accentuando la geometricità delle nature morte, ponendo le basi della sua prossima maturità artistica. Il Novecento italiano nacque a Milano, voluto da un gruppo di pittori , in seguito le adesioni furono in crescendo, sotto l’ala ambigua di Margherita Sarfatti, che era il critico militante del movimento, con la sua retorica nazionalista e il suo classicismo di maniera. Ma , a parte questi sbandamenti, e a parte la mediocrità di molti suoi componenti, il “900” si richiamò alla necessità di un ritorno alla natura come reazione ai movimenti d’avanguardia dell’anteguerra, e pure dell’Impressionismo, inoltre predicò l’importanza della fase “neoclassica” di Picasso, il ritorno ai “Valori plastici”, cioè ad un arte che riconquistasse la natura organizzandola in salde composizioni volumetriche. Di qui il riavvicinamento massiccio alla “natura morta”, ai frutti della terra, che permettevano di adire a sottili valori cromatici-pittorici. Non si possono dimenticare dunque le “nature morte” di Arturo Tosi ( che si muoveva nel solco del Piccio, di Ranzoni, e di Cézanne), dipinte con un linguaggio conciso, fatto di colori densi, collosi, scuri, e di semplificazioni compositive intime e materiche. Mentre Carlo Carrà invece ha trovato una profonda poesia nella tensione che lo spingeva verso una ricomposizione organica della visione della natura, cosi come avveniva per Raffaele de Grada. Anche Felice Casorati fece parte ,in un primo tempo, forse da posizione defilata , del novecentismo, ma in seguito i suoi volumi divennero interpreti di uno spazio astratto e senz’aria, più tardi questa musicalità si espresse soprattutto attraverso delicati rapporti tonali, che si notano soprattutto nelle affascinanti e melanconiche “nature morte” con le uova, che portano avanti un clima decisamente “anticlassicista”. 20

Anche se è ovvio che la personalità di Achille Funi, si identificasse col lato più ufficialmente classicista del Novecento, l’artista non abbandonò mai una sua tipica veste di “spontaneità” creativa, di modernità pittorica, pur nel riecheggiamento delle forme e delle composizioni tizianesche o pompeiane. Filippo De Pisis, se pur proveniente da “Valori plastici” e dalla “Metafisica”, ha poi praticato un orientamento pittorico, che nasceva dalla sua conoscenza diretta dell’Impressionismo, anche se ne attenuava parecchio gli aspetti naturalistici, e condizionava la visione delle cose e degli oggetti a stati d’animo fuggevoli. Il suo linguaggio è fatto di una pennellata leggerissima , che nelle sue “nature morte” pare registrare soltanto la commozione sottile di fissare un istante di vita capace di gioire del rosso di un gambero, o del giallo povero di una conchiglia. Il raggruppamento del Novecento non aveva ancora esaurito il suo ciclo vitale, che già nel periodo tra la sua prima e la seconda mostra (1926, 1929), attraverso le quali esso si fece conoscere, cominciarono ad attenuarsi quei legami di natura non filosofica, o artistica, tra chi aveva aderito , ma prevalsero in maniera forte quelli politico-diplomatici, che erano alla sua base. Gli artisti che componevano lo schieramento cominciarono ad andare ciascuno per proprio conto, nelle direzioni che erano loro proprie, ingaggiando in verità una lotta accanita per sopravvivere alla storia. Faceva però eccezione la tesi del ”Realismo magico”, elaborata da Massimo Bontempelli, nel 1926, essa fu l’unico tentativo di conferire una giustificazione storico-filosofica al nuovo movimento: avvero creare i “miti” di una nuova epoca, superando classicismo e cristianesimo, anche se tutto questo era troppo ambiguo per diventare una vera piattaforma. Comunque tali tesi hanno trovato riscontro a Roma, attraverso l’attività di artisti come :Pirandello, Cagli, Scipione, che guardavano a miti umani quali :Carrà, De Chirico, Morandi. Da quella sfera era ormai fuori il cosiddetto gruppo dei ”6 di Torino”, guidato da Enrico Paulucci, essi non condividevano l’arcaismo metafisico, nè le posizioni politico-sociali di Sironi e dei sironiani. Non c’è dubbio che Paulucci ha guidato la sua pattuglia verso la conoscenza della pittura fauves ,e il recupero di valori cromatici timbrici e caldi. Anche il nuovo gruppo degli espressionisti e degli astrattisti, raccolti, nel 1930, attorno alla milanese Galleria del Milione, tra i quali c’era anche Osvaldo Licini ( qui con una bellissima natura morta ), rimproveravano ai novecentisti gli innumerevoli compromessi perpetrati ai danni dell’”avanguardia” , e della libertà creatrice dell’arte. Ugualmente negativi erano gli espressionisti romani, in polemica col Novecento per la sua freddezza accademica, e il suo relativo, talora bolso, classicismo. In questo quadro l’attacco della estrema ala “classicista” contro le posizioni “moderniste” ha continuato a svilupparsi con accanimento, mettendo magari in moto tattiche opportuniste. La pressione per un’arte di regime si faceva sentire con una forza sempre maggiore. A Roma, tuttavia, già con la II Quadriennale (1935), appariva evidente l’esistenza di un filone metafisico-- che però aveva fatto ormai il suo corso-- nettamente espressionista, la cosiddetta “Scuola Romana”, di cui si suole attribuire la paternità al binomio Scipione-Mafai. A questo raggruppamento appartengono anche : Edita Broglio, Felice Carena, Sante Monachesi. La Broglio (moglie di Mario Broglio ), se 21


pur nei primi tempi mostrava caratteri fauves ed espressionisti, nel dopoguerra, con il suo interesse verso “Valori plastici” ha recuperato temi antichi, legati alla favola e al magico. Carena, allievo a Torino di Grosso, si spostò giovanissimo a Roma, dove si avvicinò al gruppo del Novecento, per poi arrivare ad una pittura dagli accenti espressionisti derivati dalla Scuola romana. Mario Tozzi, fin dal 1919, a Parigi fu uno degli animatori della “Ecole italienne de Paris”, svolgendo così un importante funzione di tramite tra la cultura italiana e quella francese, si avvicinò alle idee di “Valori plastici”, cercando nei temi comuni implicazioni mitiche. E’ innegabile che nel XX secolo la “Natura Morta” ha conosciuto momenti di rinnovata fortuna rispetto ai secoli passati , sia nell’ambito di gruppi, o di tendenze, sia in singole personalità artistiche. A tale genere, in parte svuotato dei suoi tradizionali significati simbolici, si è ricorso quando l’interesse dei pittori si è concentrato sui valori puramente linguistico-strutturali dell’immagine dipinta, per lo più privi di riferimenti significativi alla storia, ovvero a componenti di tipo narrativo. Crali è stato un autore , anzi un pittore, sorto dalle ceneri del Futurismo, diventando in seguito un protagonista dell’ “aereopittura”, o Secondo futurismo, ai cui programmi estetici restò fedele anche nel secondo Novecento, da cui trasse ispirazione per questa sua natura morta dai forti volumi vegetali. Tulli invece, pur avendo la medesima radice stilistica, negli anni Sessanta creava composizioni quasi astratte, che possedevano un forte ritmo lineare, capace di oscurarne il tema di partenza. Nel dopoguerra, dopo esercizi pittorici di verismo mimetico e illusionistico estremo, nettamente realistici come quelli di Renato Guttuso, Armando Pizzinato, Giuseppe Zigaina, Mario Calandri, nasceva, in contrasto il movimento Informale e astratto. Nel decennio seguente ha trovato molta udienza l’Arte Concettuale e poi l’Arte Povera, che ha preparato il terreno alla particolare Pop-Art italiana, legata ai materiali, alla propria storia artistica passata, e con la passione per la natura ormai in crisi. Due artisti, che hanno fatto da cerniera tra Arte Povera e Pop, sono stati Aldo Mondino e Piero Gilardi. Del primo si ricordano le sue opere con torrone, caramello, cioccolato, fagioli, zucchero, caffè ( non dimentichiamo che anche i “poveristi” hanno adoperato le patate, frutta, verdura, grasso, insalata ), infatti i quadri di Mondino sono costruiti con i gianduiotti (cioccolatini) , come se fossero tessere di un mosaico giocoso e goloso, come un intarsio orientale fatto di oro e luce. Piero Gilardi, anche lui è nato all’arte nel clima povero torinese , i suoi “ tappeti natura”, sorta di sculture da pavimento, fatte di poliuterano dipinto, creano oasi di frutti e verdure, che segnarono un forte discrimine tra falsa natura ed effimera materia sintetica, paradossale denuncia del predominio dell’artificiale sul reale. In tutto questo riscontriamo che, sotto il guscio materiale di tele, tavole, materiali nuovi, immagini e colori, le cose dipinte nascondono precisi valori simbolici. I vegetali, la frutta, la cacciagione i pesci, le uova , sono tutte cose dipinte per la gioia e il godimento degli uomini. Esse ci appaiono ancora sospese tra la vita effimera, la loro consistente forma visibile, e l’evanescente prospettiva del loro prossimo consumarsi. Noi oggi contempliamo il dipinto nella sua vita rappresa, nel suo parlare muto, che tuttavia reclama il nostro coinvolgimento, raffigurando, 22

simultaneamente, qualcosa di più e qualcosa di meno, rispetto alla realtà fisica, della sua salda consistenza. Partecipiamo così al comune destino di tutto ciò che nasce e muore. La pittura rende durevoli le cose, le fissa nel loro muto persistere. La provvisorietà viene riscattata, e il godimento - promesso dalla loro immediata consumazione in forma di cibo, o bevanda - diventa virtualmente infinito per lo sguardo di ogni futuro possibile fruitore. Nella rappresentazione pittorica (ma anche nella fotografia e nel cinema)le cose vengono trasportate in un altro spazio, sospese nel tempo e messe, per quanto è possibile, al riparo dall’oblio, dal decadimento, dalla morte. Acquistando impassibilità e immobilità nell’arte, staccandosi dal dominio del divenire in cui gli oggetti sono inevitabilmente destinati a scomparire, l’effimero tende, nella pittura, a farsi eterno. L’opera d’arte aiuta a sciogliere ancora meglio l’apparente contraddizione insita nell’espressione “vita delle cose”, perché la “vita” che si riferisce a ciò che nasce e nuore, permane nelle cose rappresentate immobili dallo stilleven . In questo caso volendo parlare di nature morte legate al cibo , le nostre percezioni sensoriali, intrecciandosi con i significati, disegnano i confini fluttuanti dell’ambiente in cui viviamo, ne precisano l’estensione e il sapore. I sensi non sono “finestre sul mondo”, specchi che registrano le cose in modo indifferente alla cultura e alla sensibilità, bensì filtri che trattengono nella loro rete solo ciò che si è imparato a mettervi, e ciò che si cerca di identificare mobilitando tutte le proprie risorse. La cucina è l’arte di predisporre i sapori per il piacere di coloro che mangiano, si nutrono, ed è una musica del gusto; è l’arte di comporre gli elementi per trarne sapori seduttivi in forme innumerevoli e sofisticate. Ma cosa fanno, o cosa non hanno fatto, gli artisti per raggiungere questi traguardi? Il gusto, come l’arte, è un prodotto della storia e dei territori, e in particolare il luogo in cui gli artisti si collocano nella trama simbolica della propria cultura. Marisa Vescovo

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Cibo e design: legame indissolubile Virginio Briatore

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All’inizio erano le bacche, i frutti e le mani. Ma subito dopo fu il design! Senza design non si mangia, non si beve, non si cucina e non si serve, non si coltiva e non si vende. Cibo e design viaggiano a fianco sin dagli albori e si incitano l’uno con l’altro per permettere agli umani di nutrire con il corpo, anche la psiche. Nella post fazione al catalogo del Salone Satellite 2014, Paola Antonelli, Senior Design Curator del MoMA di New York, ci ricorda che: ”Senza i designer, al posto di una città virtuale di homepage con finestre, porte, icone e collegamenti, Internet sarebbe ancora un’incomprensibile stringa di codice.” È una bellissima immagine, un’istantanea sull’oggi, che ci aiuta a capire il ruolo del design. In un suo scritto del 1962 Ettore Sottsass ci ricordava che senza il design non sarebbero nate le frecce, gli archi, lo scudo di Enea e la cetra di Omero, le armi della guerra e gli strumenti dell’amore. Che il design non è tanto razionalità quanto piuttosto rito e magia. “… Gli strumenti e le cose sono nella vita degli uomini, i mezzi con i quali essi compiono o cercano di compiere il rito della vita e se c’è una ragione per la quale esiste il design, la ragione – l’unica ragione possibile – è che il design riesca a restituire o a dare agli strumenti e alle cose quella carica di sacralità per la quale gli uomini possano uscire dall’automatismo mortale e rientrare nel rito.” Il design è come la musica, un linguaggio attraverso cui le cose entrano in comunicazione con noi, nella loro straordinaria varietà di partizioni, stili, ritmi, melodie. Ma a differenza della musica e della scrittura, il design ci parla in silenzio. Senza parole. Muto. Cucchiai, armadi, tavole da surf e surgelatori parlano poco, e scrivono ancora meno. (Ma i chip che stanno invadendo tutto, presto obbligheranno il congelatore a telefonarci al secondo pisello scaduto!). Da qui forse la difficoltà di capire, di educare, di raccontare, leggere e gioire della incessante cavalcata del design, che accompagna l’essere umano dalle sue origini ad oggi, se inteso come collettivo, e dalla culla alla tomba, se visto come individuo. Fra tutti i rapporti che il design intesse con l’esistenza degli esseri umani, dai mezzi di trasporto all’interfaccia del bancomat, quello con il cibo è con ogni probabilità il più antico, universale e primario. Il cibo è un serbatoio semantico ed ogni biscotto, ogni formaggio, ogni tipo di condimento ci parla di un luogo, di una tradizione, di una cultura. La stessa cosa vale per gli oggetti che da sempre accompagnano la preparazione, la cottura e l’assunzione del cibo. Si inizia con un biberon, si passa ad un cucchiaino, a un bicchiere e con lo scorere degli anni ci appropriamo della vastissima quantità di strumenti, stoviglie e suppellettili che entrano in rapporto col cibo. La mostra che la Pinacoteca Moretti di Civitanova Marche Alta mette in scena è dedicata ad opere pittoriche rappresentanti nature morte con oggetti e cibo. Ad esse si aggiungono manufatti che percorrono i secoli: cratere attico a figure rosse, fiasca di bronzo, coppette in argento, Hydria, coppa vetro, frammento di sarcofago con un banchetto in bassorilievo, piatti e altri oggetti per la tavola dell’800-’900, sino ai prodotti in plastica contemporanei della Fratelli Guzzini. Attraverso questa raccolta abbiamo la percezione del cammino lungo cui arte, artigianato e nutrimento terrestre si sono senza posa incontrati. In tutto questo percorso e sino al secolo 25


scorso il design primordiale era ovunque e quasi sempre anonimo; dava forma ad ogni piatto, ogni otre, ogni coltello grazie alla capacità e alla sapienza di un vasto numero di artigiani in grado di lavorare la materia con perizia, infondendovi quasi sempre accanto al buono della funzione la magia della bellezza formale o dell’ornato. Semplificando la cavalcata del progetto possiamo dire che il passaggio decisivo da una produzione di tipo artigiano ad una di tipo seriale avviene agli albori della civiltà industriale e spesso si inserisce su realtà produttive preesistenti da secoli, innovandone la capacità tecnica. Limitando l’escursus all’Europa vediamo luoghi divenire sinonimi di manifatture e produzioni su larga scala: vetri di Murano e di Boemia. Ceramiche e porcellane di Caltagirone, Grottaglie, Faenza, Sèvres, Limoges etc. Ed è con la comparsa delle prime macchine e degli strumenti di misura, con il crescere della borghesia e delle sue esigenze, che la produzione industriale muove i primi passi e con esso compare il disegno industriale, da noi poi conosciuto con il boom degli anni Cinquanta e Sessanta. La prima grande ondata produttiva si attiva nel Settecento, e possiamo indicare nella fabbrica dei marchesi Ginori vicino Firenze nel 1735 un punto di inizio. Luigi XV e Madame Pompadour favoriscono la nascita del comparto ceramico, dapprima a Vincenne nel 1740, trasferito poi a Sèvres nel 1756. L’inglese Wedgwood prende corpo nel 1765 e la Reale Fabbrica di Porcellana di Copenaghen nasce nel 1775 per volere della Regina Maria Giulia di Danimarca. Ed è proprio grazie all’imprenditore Josiah Wedgwood che la parola design compare, forse per la prima volta nella storia, secondo il significato che oggi conosciamo. L’artigiano inglese non solo inventò il pirometro, strumento per misurare le alte temperature ma adottò nella sua industria una moderna divisione del lavoro, distinguendo nettamente un reparto design, affidato al designer John Flaxman, delegato alla progettazione delle forme e delle decorazioni dei manufatti, dal reparto produttivo, portato avanti da artigiani divisi in formatori, tornitori, plasmatori, decoratori e addetti alla rifinitura. Nel 1782 la manifattura Etruria da lui fondata divenne la prima fabbrica dotata di un motore a vapore. Da qui in avanti la cavalcata della civiltà industriale procede spedita e conosce il suo ulteriore salto con l’avvento dell’energia elettrica ed una delle nuove protagoniste sulla scena dell’arte della tavola sarà l’azienda Rosenthal fondata nel 1879 a Selb, in Baviera. Di fatto l’industria porta la forza dell’automazione, del ciclo produttivo seriale, della distribuzione ma sino alla metà del ‘900 buona parte dei prodotti sono ancora realizzati con materiali noti da secoli: metallo, vetro, porcellana. La rivoluzione vera avviene gradualmente con l’irrompere dell’industria chimica che con le ‘early plastic’ del primo Novecento mette a disposizione dei progettisti i primi materiali non presenti in natura, ma ottenuti tramite sintesi. Il più noto è la Bakelite, messa a punto, combinando fenolo (C6H5OH) e formaldeide (HCOH da Leo Baekeland negli Stati Uniti verso il 1910 e usata a partire dal 1920 in vari settori merceologici, dai primi apparecchi elettrici ai gioielli. Il nylon ( poliammide, PA) viene presentato nel 1939 a New York dalla DuPont, il polietilene (PET) è del 1941 e la scoperta decisiva è opera del nobel Italiano Giulio Natta che brevetta il polipropilene (PP) nel 1954. Con la chimica anche metalli, 26

vetro e porcellana conoscono nuove leghe, combinazioni e implementazioni e negli anni ‘50 prende il via quella che chiamiamo la produzione di massa. La stagione del design italiano coincide con queste trasformazioni e uno dei momenti storici della sua affermazione, non a caso legato al ‘primato’ del cibo, è il concorso Reed&Barton del 1959. In quell’anno la società americana bandisce il concorso Silver design competition in Italy, invitando 10 architetti italiani a progettare una serie di posate da proporre al ricco mercato del Nord America. Le origini del concorso risalgono al 1954 quando la Reed&Barton chiese a Gio Ponti di progettare un servizio di posate che fossero ‘dinamicamente differenti’ da quelle già in produzione. Il successo del servizio Diamond spianò la strada all’allargamento del concorso a cui furono invitati i fratelli Castiglioni, Franco Albini, Roberto Mango, Carlo Mollino, Bruno Munari, Marco Zanuso, Ettore Sottsass jr, Carlo Scarpa col giovane figlio Tobia, il duo Mangiarotti-Morassutti e il trio Corsini-Pozzo-Wiskemann. Questi ultimi si aggiudicheranno il secondo premio, mentre il primo venne assegnato ad Achille e Pier Giacomo Castiglioni per le posate serie “Secco”, ed il terzo a Carlo Scarpa. Il design italiano in quegli anni conosce la sua grande epopea ed una delle icone conosciute in tutto il mondo, accanto alla Vespa di Corradino Ascanio prodotta da Piaggio e alla Fiat 500 di Dante Giacosa, è senza dubbio la caffettiera Moka che cronologicamente è la prima grande icona del disegno industriale italiano, progettata nel 1933 da Alfonso Bialetti e diventata oggetto di notorietà internazionale a partire dal disegno del celebre Omino coi Baffi, nato nel 1958 dalla penna di Paul Campani e divenuto simbolo grafico del marchio a livello globale. La Moka originale è anche figlia di un territorio da tempo vocato alla lavorazione dei metalli, che è quello di Crusinallo e più in generale di Vercelli, Omegna, Verbania, attività che poi trova un’altra sua concentrazione a Lumezzane, nel bresciano. Per la natura tipica della storia e dell’economia italiana anche le piccole medie imprese, che sono la spina dorsale del sistema design, si distribuiscono a macchia di leopardo dando vita a quei distretti industriali che in qualche modo ricalcano i saperi artigianali preesistenti. Limitando il percorso al panorama italiano e nello specifico al settore in stretta relazione col cibo, sintetizzato dai termini inglesi kitchenware e tableware, non sono molte le aziende già storicizzate ma ancora attive, che si possano definire di design, ovvero design driven e design oriented. Un discorso a parte meriterebbero il design del caldo e il design del freddo, ovvero quelle tecnologie e quelle estetiche per cui siamo passati in un secolo dal focolare e dalla ‘cucina economica’ ai piani di cottura ad induzione e dalle ghiacciaie agli abbattitori rapidi di temperatura, così in voga oggi nella nouvelle cuisine. Tralasciando quindi le grandi industrie di elettrodomestici e le aziende produttrici di cucine, ovvero quei prodotti di scala più grande che pur essendo in relazione al cibo hanno caratteristiche di piccole architetture e di arredi, le aziende che hanno fatto la storia degli oggetti quotidiani non sono molte: Sambonet, Alessi, Zani & Zani, Serafino Zani. Tutte partite dalla lavorazione dell’acciaio a cui vanno ad aggiungersi le due eccellenza dell’argenteria di design: De Vecchi e San Lorenzo. Più difficile individuare protagonisti assoluti nel design del vetro e della ceramica ma è interessante notare come 27


i due antichi territori di Murano e Faenza abbiano saputo mantenere il filo con la tradizione senza rinunciare all’innovazione, restando però in una dimensione di nicchia colta e raffinata. Arduo comunque ancora oggi portare il vino o l’acqua alla bocca in calici e coppe più belli e vivi di quelli che fuoriescono dal soffio dell’isola veneziana! Accanto alle aziende cresciute sulla lavorazione di materiali noti, spicca su tutte una realtà marchigiana che si è sviluppata tramite l’innovazione assoluta portata proprio dall’afflusso di nuove materie plastiche. La Fratelli Guzzini di Recanati è in Italia la musa dei casalinghi in plastica, affinati dalla cultura del design. Già nel 1954, l’azienda di famiglia nata nel 1911 attorno alla lavorazione del corno animale, abilmente trasformato in posate, calzascarpe o tabacchiere, immetteva sul mercato prodotti mai visti. È il caso di cucchiaio e salsiera bicolore, dall’imprinting estetico scandinavo, prodotta proprio quell’anno. La tecnologia del bicolore, brevettata dalla Fratelli Guzzini, in cui lastre in acrilico di diverso colore venivano accoppiate a caldo prima dello stampaggio introdusse una variante di profondità estetica sino ad allora riservata al vetro. Con l’introduzione dei granuli di abs (vedril) iniziò l’era dello stampaggio ad iniezione, che permetteva un’assoluta libertà nella forma e la possibilità di realizzare incavi di profondità maggiore rispetto a quelli realizzati sino ad allora con gli stampi in lastra. Esempio della nuova tecnica sono i contenitori da tavola per sale e pepe in plastica opaca a forma di goccia del 1960. Il resto è storia contemporanea ed è visibile sugli scaffali dei migliori negozi, a partire da un piano della Rinascente di Milano, dedicato al design dei casalinghi. Nell’inquadrare sommariamente il rapporto fra il cibo e il design, oltre agli strumenti con cui lo si prepara e serve, resta da fare un accenno al fenomeno esploso in questo secolo: il cosidetto food design! Di cosa si tratta? In parole semplici possiamo dire che è la forma stessa del cibo prodotta artificialmente dall’uomo. Se l’uovo, l’arancia e la noce sono già perfetto esempio di forma e di ‘packaging’ protettivo del contenuto, da sempre l’essere umano ha cercato di dare forma ed estetica alla trasformazione degli alimenti edibili, siano essi serviti col nome di torta, michetta, soufflè o sushi. Oggi la competizione dell’industria alimentare non può prescindere dalla forma stessa data al cibo: biscotti, cioccolatini, gelati, caramelle, mozzarelline vengono introiettati con tutta la loro forma! Così come non si può prescindere dal packaging senza cui non esisterebbero i Mon Chéri Ferrero nel loro letto dorato, le cialde di caffè A Modo Mio Lavazza nella loro grafica pop e la mitica bevanda americana venduta in una lattina rossa o in una bottiglietta di vetro disegnata da Alexander Samuelson ed Earl R. Dean nel 1915. Chiusura infine con un omaggio a due grandi designer italiani scomparsi di recente. Massimo Morozzi (Firenze 1941, Milano 2014) di cui vogliamo ricordare due prodotti evergreen disegnati per Alessi verso il 1985: il Vapor Set per cuocere a vapore e la pentola Pasta Set, che ha avuto nel mondo oltre cento imitazioni. Luigi Massoni ( Milano 1930, Sicilia Orientale 2013) da cui traiamo un breve testo, dedicato al suo rapporto con la Fratelli Guzzini, iniziato nei primi anni Sessanta, per cui ha disegnato vari oggetti e anche il marchio. “Una delle qualità che mi riconosco è di progettare insieme a chi poi produce; è stato uno 28

degli elementi vincenti perché sensibilizzava tecnici e operai all’amore per la materia, a conoscerla e a sottolinearne le qualità migliori. Le nostre forme si spogliarono di tutto ciò che era superfluo per esaltare la dimensione, la materia, la finitura. Non si trattava più di coprire una superficie di decorazioni, ma di mostrare il materiale per quello che era, esaltandolo attraverso l’uso del colore. Facemmo molte prove di colore: satinando il nero, usando i gialli, i rossi, gli arancioni. Questi colori rendevano più allegra la cucina e la tavola, toglievano il senso di freddo che ci portavamo dietro dagli anni della guerra. Volevamo un momento di festa e questo momento di gioia opportunamente dosato è stato trasferito sugli oggetti.” ( Augusto Morello, Cultura di una regione italiana. Le Marche, i Guzzini e il design; Electa 2002). Cibo e design sono inscindibili. Lo sforzo culturale che gli umani devono fare è quello di riconoscere, capire e scegliere il buon cibo e il buon design.

Virginio Briatore

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Vita silente. Temi, simboli, significati. Enrica Bruni

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Sottili richiami simbolici, riferimenti spirituali, enigmistici, la natura morta, ricca e trionfante, appassita e corrotta, rivela la sua duplicità, da un lato è un inno alla vita, dall’altro manifesta la caducità delle cose terrene, è tormento e delizia insieme. Affascinante, non priva di inquietudine e di mistero, è tutt’altro che oggetto silenzioso, la festa opulenta e la resa illusionistica cattura e coinvolge lo spettatore con la sua inaspettata attualità e vitalità. Gli italiani come gli olandesi, i francesi come gli spagnoli, aggiungono alla natura morta con fiori ortaggi e frutta, note di modernità sorprendenti, testimonianze efficacissime di abitudini e di novità: il tabacco, i libri, le pipe, le scimmiette, i gioielli, i boccali di birra, le conchiglie, le piume e gli animali esotici. Nella letteratura classica, nei trattati di Vitruvio e di Plinio il Vecchio, compaiono espressioni che possiamo considerare antesignane della natura immobile ed è sempre Vitruvio che ci dice che i pittori greci hanno dipinto cesti di frutta e vivande, vasellame, fiori e animali, composizioni di oggetti inanimati per ricordare i doni fatti al padrone di casa. Dall’ellenismo, fino all’esaurirsi della tradizione tardo antica, l’arte classica dimostra attenzione al mondo naturale e a quello delle cose. La capacità di simulare e di imitare la realtà continua dalla pittura fiorentina del XIV secolo, per tutta la lunga stagione del gotico internazionale, con stupende interpretazioni dove quaglie e levrieri, gatti e lucertole occhieggiano tra erbe e fiori. Il desiderio di riprodurre la realtà e la vita quotidiana è così forte da tempestare di dettagli le monumentali strutture classiche, le azioni epiche, le decadenti rovine, gli interni fuori tempo. Il linguaggio delle cose segna una nuova stagione e si affianca a quello degli ambienti chiusi, la società culturale veneziana del Cinquecento si dimostra molto ricettiva nel captare la narrazione della natura e dei particolari presenti nel dipinto. Se il vero laboratorio intellettuale, da cui prende avvio il genere natura morta è da rintracciare nel fertile terreno culturale dei primi decenni del XVI secolo, la piena affermazione della natura morta come genere autonomo è da spostare alle soglie del Seicento. Mentre tramonta il Rinascimento e si affaccia l’alba del Barocco, traboccanti esposizioni di vivande, di floride verdure, di frutti maturi, di primizie succose, di pesci spettacolari e invitanti carni macellate, con strumenti musicali e coppe dipinte, si donano allo spettatore in un felice tripudio di natura, di ricchezza e di abbondanza. (Vincenzo Campi, Jacopo Chimenti, Fede Galizia, Michele Pace, Bartolomeo Bimbi, Giovanna Garzoni, Giovan Battista Recco, Paolo Porpora). Festoni decorativi, forme naturali stupefacenti, rigogliosi trionfi di frutta, sorprendenti ghirlande, più che realisti mazzi di cacciagione, conchiglie rare, tappeti preziosi conquistano lo spazio nelle tele di Maestri insuperabili. (Raffaello Sanzio, Giovanni Antonio Nessoli, Francesco Squarcione, Giuseppe Arcimboldo). Il termine natura morta o vita immobile, per Roberto Longhi oggetti da ferma, per Giorgio De Chirico natura silente, still-life per gli inglesi, stilleben per le lingue germaniche, nel XVIII secolo definisce un genere artistico con un’ampia gamma di temi, ma che si colloca ai margini dell’insegnamento accademico e al di fuori dell’arte classica. A Roma tra Seicento e Settecento il nuovo genere pittorico prende piede, dai palazzi e dalle raccolte principesche la pittura di cose inanimate si impone, godibile e 31


allusiva, amata dalla solida e ricca borghesia che espone anche così il suo benessere e in pochi decenni diventa, in tutti i sui temi e formati, la status symbol dei mercanti, dei nuovi ricchi e della nuova classe dirigente. La canestra di frutta di Michelangelo Merisi è la pietra miliare del genere, capolavoro insuperato quanto celebre e controverso. E’ romana e caravaggesca l’origine della natura morta genere autonomo, nato e affermato in un contesto ambientale particolare, continuamente arricchito dagli artisti che da tutta Europa vanno nella città eterna per confrontarsi ai massimi livelli di creatività e trovano a Roma, la culla della natura morta, un punto di incontro tanto vitale quanto lo sarà Parigi tra Ottocento e Novecento. (Rubens, Velazquez, Van Dick, Giovanni Paolo Castelli, Felice Boselli, Andrea Belvedere, Giovanni Maria Crespi, Giacomo Ceruti, Tommaso Salini). Il fiore, nella natura silente, è uno dei soggetti più rappresentati: tulipani bianchi, iris gialli, ciclamini striati, rose carnose, peonie vibranti, gigli regali, varietà rare e costose nella stessa composizione, fioriture impossibili da avere contemporaneamente, associano alla loro perfezione la caducità della vita, l’effimera bellezza delle cose terrene, il passare inesorabile del tempo, la morte. Il fiore, legato al rinnovarsi della vita, è simbolo del Paradiso terrestre, della purezza della Madonna il giglio bianco, l’iris del suo dolore, l’asfodelio è il fiore del lutto, la rosa, associata al mito di Adone e Afrodite, simbolo di grazia e passione. I bouquet degli artisti sono ricchi e vari e i Florilegi, molto diffusi fin dal Cinquecento, preziosissimi perché non è possibile creare composizioni con specie di diversi tempi di fioritura. La natura morta è quindi un patrimonio iconografico di altissimo livello tecnico e descrittivo a volte superiore ai trattati di botanica, i trionfi di fiori creati per decorare sono studi naturalistici attenti e precisi, un eterno Giardino delle Esperidi, simbolo dell’Età dell’Oro, simbolo dell’eterna primavera tragicamente e irrimediabilmente perduta. La cura scientifica che caratterizza la vita inanimata alle soglie dell’Ottocento lascia il posto al fascino dell’oggetto, così tocchi lievi, accostamenti di colore, pennellate gialle, bianche, rosa, fanno un’esplosione di colore e di cromie, un’impressione vibrante, una magia, un sentimento fuggevole, è la rivincita delle cose, è l’esaltazione della forza della natura, dei bagliori di luce che giocano sulla materia. La vita immobile, considerata con sufficienza perché concentrata sulla cosa, contrapposta all’arte vera perché ha per soggetto la vita, la storia, il divino, si radica e conquista un successo impensato che sfonda nell’arte e nel gusto superando il tempo, le mode e le divisioni di genere. Su questo tema, a fine Ottocento, i particolari non ci sono più, solo i toni e gli accoppiamenti di tinta fanno sentire che quello spazio dipinto è occupato da oggetti e da fiori e tra i fiori una mosca, simbolo di Baalzebub, una scimmia che ricorda il diavolo e l’ottusità dell’uomo, la chiocciola che evoca la pazienza e la prudenza, una libellula simbolo della costante trasformazione del mondo e una farfalla allegoria di salvezza, conchiglie, delicati gusci vuoti, sinonimo della fertilità femminile che ammoniscono sulla fragilità dell’esistenza e su quanto le cose desiderate siano di per se belle, ma senza sostanza. La natura morta con frutta vuole, come per i fiori, mostrare una grande varietà di prodotti, disposte in un cesto o sulla tovaglia, uva, pere, meloni, pesche, mele, melangoli, limoni, 32

melagrane, fichi, ciliegie di struggente realismo, drammatiche nelle loro parti bacate e marcescenti, devono con acume botanico far pensare ai tesori della terra alludendo le mele al Paradiso e al peccato originale, l’uva e la ciliegia al sangue versato da Gesù per la redenzione degli uomini, la melagrana all’onestà e per i suoi tanti semi alla fecondità, alla carità e all’unione dei fratelli in Cristo, il fico vellutato emblema della forza e della conoscenza, del piacere e del sesso, la pera dedicata ad Afrodite per la sua forma è l’allegoria della dolcezza per la polpa zuccherina, spesso associata alla Madonna e a Gesù, simbolo del bene, le arance, i pomi d’oro creati dalla Terra per festeggiare le nozze di Zeus e Hera e il melangolo profumato simbolo delle pene amorose, il limone considerato un efficace rimedio contro il veleno, emblema di Maria Vergine e della salvezza divina perché cresce sotto il sole diretto. Al rigore scientifico e simbolico non sfuggono le pesche, in oriente metafora dell’immortalità e della giovinezza, in occidente della Trinità perché formate da tre parti: il frutto, il seme chiuso nell’osso e il nocciolo. La magnificenza di Dio e la bellezza della natura sono celebrate anche nelle cose più discrete e modeste pervase da una preziosa atmosfera mistica che invita a meditare su i meloni compatti, la semplice zucca, i teneri asparagi, i carciofi legato alla ninfa Cynara e simbolo di gelosia. I prodotti della terra sono contrapposti alla cacciagione, ai colombacci, alle anatre e ai germani, al cibo da ricchi sinonimo di agiatezza. Due mondi discordanti contrapposti ricordano l’inutilità del lusso e dello sfarzo messo di fianco all’umile e preziosa noce eretta, per il guscio duro e il mallo delizioso, a simbolo della solidità dell’unione coniugale, al cetriolo legato alla resurrezione di Cristo, al dolce melone per i suoi molteplici semi richiamo di fecondità, oggetti e frutti regolati per tipo avvicinati ad oggetti semplici danno un’ammaliante resa tattile di una dimensione quotidiana, umile ed elegante insieme. Il vasto repertorio delle cose inanimate, che include ogni manufatto umano e qualunque forma naturale combinate illimitatamente tra loro, sono selezionate dal pittore, unite con sottili e sofisticate allegorie. La vita si dimentica nella pace della campagna e del mare, i germani reali, le oche, i fagiani e tutti gli uccelli mediatori tra il mondo fisico e quello spirituale, le lepri sospettose e miti, le parsimoniose triglie, i polipi che per i greci erano il male, le ostriche associate alla donna e alla luna, sono prede ambite e protagoniste di scene impressionanti, un’accozzaglia di animali e capricci che raccontano e raffigurano il cosmo, la natura e i suoi elementi, ma anche la crudeltà umana, lo stato sociale del committente, i privilegi, sono un avvertimento morale, una denuncia velata di compassione per quelle creature che ci invitano a non considerare solo i beni materiali, ma guardare oltre l’effimero. (Giuseppe Arcimboldi, Vincenzo Campi, Cristoforo Munari, Felice Boselli, Giacomo Maria Crespi, Andrea Benedetti, Bartolomeo Bimbi, Paolo Castelli, Cristoforo Munari). I temi della rappresentazione comprendono anche tutto ciò che desta stupore e desiderio: perle, conchiglie, coralli, coppe intarsiate, monete, libri rari, una natura silente che mostra e dimostra il principio della vanitas, del memento mori ed ecco che altre allegorie svelano i vizi eterni dell’uomo, i cristalli alludono alla fragilità delle bellezze materiali, alla malinconia e gli errori, il violino 33


e il liuto confermano lo spirito religioso che si rifà a sant’Agostino che nel trattato De Musica sostiene che le tonalità musicali si riferiscono a Dio creatore di tutte le cose, all’armonia celeste, al sollievo che la musica porta nell’animo. Vizi e piaceri espressi con simboli evocatori di intensa e soggiogante fascinazione, sensorialità e conoscenza speculativa, con virtuosismo ottico, schema compositivo semplice e perizia luminosa e materica, la natura morta nel tempo è sempre originale, eloquente e varia, densa di contenuti e di destrezza pittorica, di calibrati accostamenti di colore e di oggetti, di riflessi spirituali. La vitalità del genere attraversa tutte le tipologie e assimila molte tendenze europee, lo stile natura morta è senza tempo, il suo fascino è assoluto, virtuosistico, delicato e robusto insieme e lungo il cammino dei secoli perde quel tocco di funereo che è nel nome, per mantenere un sottofondo di malinconia anche quando la poetica impressionista dell’istante svaluta l’oggetto ed esalta la luce. Parigi nell’Ottocento è punto di riferimento per la pittura, la moda dei movimenti artistici fondati su precisi programmi sposta l’asse della novità facendo dell’accademia l’emblema della conservazione contrapposta all’avanguardia, alla libertà, al cambiamento. Vasi di fiori in interni borghesi, porcellane cinesi, tranci di carne o di pesce su tovaglie drappeggiate, ampollle di vetro traslucido, calici di vino, suggeriscono sensibili impressioni di delicata poesia, atmosfere e sensazioni che vibrano di colore per i rapidi, pastosi tocchi di pennello che traducono la traccia visiva con la progressiva perdita di contorno. Sfumano e si animano di nuova vita i pezzi di pane che sottendono al corpo di Cristo e alla vita eterna, il formaggio cibo del digiuno e di Quaresima, gli anemoni, fiore di Afrodite, che spuntano ai piedi della croce nati dalle gocce del sangue di Gesù, le tovaglie rosse in ricordo della sua passione, i pesci richiamo alla fertilità per il gran numero di uova che producono, ma anche simbolo dell’essenza spirituale. Immagini di semplicità tutt’altro che convenzionale, per un verso pungente, realizzate con tecnica magistrale nella padronanza delle forme e delle ombre, si contrappongono allo sfarzo, all’abbondanza dei fiori, dei frutti canditi, dello zucchero riferito alla dolcezza divina e all’amore carnale, alle ostriche simbolo di voluttà, al prezioso corallo da sempre considerato un amuleto contro il Demonio. L’abbandono, nell’Ottocento, del simbolo e dell’opulenza delle cose consente maggiore libertà. Gli oggetti da ferma rappresentano ora il mondo interiore e il genio dell’artista, la sua speciale relazione con la vita e sono un potente veicolo di trasmissione di contenuti umani, politici e sociali. Fiori, frutta, piatti, sedie rispondono alle esigenze luministiche e atmosferiche, sono immagini liquefatte nella luce che vincolano l’uomo alle cose terrene e l’uomo cerca di organizzare una realtà particolare con lo scopo di carpire lo spirito che è in ogni forma alla quale viene attribuito anche un carattere etico oltre che simbolico, pittorico, ottico e cromatico (Francisco Goya, Eugène Delacroix, Eduard Manet, Claude Monet, Pierre Auguste Renoir). Senza cedimenti, con tutto il suo bagaglio di sensazioni e di verità, la natura silente ritrova, alla fine del XIX secolo, la solidità pittorica, la prospettiva e compatta svela il mistero che è in lei all’artista che traduce la sua intuizione poetica e ce la mostra in tutta la gamma di sensazioni. Il suo sguardo interpreta le petunie 34

nei vasi sbeccati, i biscotti sminuzzati nel piatto, la frutta nell’alzatina di ceramica bianca, la brocca di coccio e allora non solo gli oggetti, ma anche i colori traducono un messaggio di verità recondita e si riflettono gli uni su gli altri, si valorizzano e prendono forza gli uni dagli altri. Significati simbolici e allegorici sono materia di contemplazione, sono immagini di una cultura e di un’epoca, oggetti e presenze come contenitori di emozioni e di solitudini, un concentrato di storie che rimandano all’uomo, alla drammaticità e alle gioie della vita. La mela vive di vita propria ritratta come un viso, i canestri di frutta, i tavoli di legno, le sedie impagliate, gli ortaggi ancora sporchi di terra, i fiori di campo, il catino di rame, omaggiano il quotidiano, le candele ricordano la precarietà della vita, il libro di preghiere il dialogo tra uomo e Dio. Oggetti autobiografici che evocano la vita di chi li possiede, che hanno in se stessi il mistero del mondo a cui appartengono e che raccontano una storia personale, intensa, originale. (Paul Cèzanne, Vincent van Gogh, Henri Matisse). La vita immobile, carica di significati psicologici, non ripropone più una porzione di realtà simile al vero, è in autonomia pronta ad essere investigata, le cose come le atmosfere domestiche sono metafore dell’esistenza e assumono valenze particolari pur richiamando i maestri e i capolavori del passato. Il vissuto contemporaneo con rigore, sobrietà, precisione, viene interpretato e trasmette la magia del silenzio, premessa necessaria per comprendere il messaggio delle opere. La pittura è sospesa, atemporale e il repertorio di oggetti: frutta, fiori recisi, conchiglie, vanitas, animali, vino, pani, brocche concilia simultaneamente il presente con il passato, ricrea le delicate magie, gli umori, i profumi, l’incantesimo tonale, il piacere del dettaglio, il fascino della forma, la seduzione dell’analisi psicologica e la malia ambigua del simbolo che svela il privato. (Henri Matisse, Pablo Picasso, George Braque, Giorgio De Chirico, Umberto Boccioni, Giorgio Morandi, Carlo Carrà). L’arabesco senza tempo della vita immobile supera indenne rivoluzioni epocali e penetra l’arte fino ai giorni nostri, recuperando ed esorcizzando, tra tradizione e avanguardia, l’emblema della consunzione, l’inquietudine intellettuale, la fragilità emotiva, la complessità sottesa della vita e si dimostra consapevole scelta espressiva, veicolo e comunicazione dell’interiorità, specchio della profondità di un’anima. Enrica Bruni

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Sapori Saperi della letteratura Marcello Verdenelli

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La prossima Esposizione Universale, che si inaugurerà a Milano il 1° maggio 2015 e che avrà per tema l’alimentazione nel mondo dal titolo «Nutrire il pianeta. Energia per la vita», e per il quale evento sono attesi oltre 21 milioni di visitatori da tutto il mondo (60 saranno i padiglioni self built, realizzati dalle varie nazioni, rispetto ai 42 di Shanghai, e 9 i cluster, i raggruppamenti nei quali per la prima volta gli Stati si riuniranno non più per vicinanza geografica, ma intorno a un particolare prodotto: spezie, caffè, frutta, riso, cacao), sarà un grande evento non solo per l’implicita valenza commerciale ed economica, ma soprattutto per le significative implicazioni di carattere culturale che un evento di questa portata necessariamente muove. Sarà un viaggio alimentare straordinario, da quanto si è potuto sinora leggere, con importanti interferenze di carattere antropologico, simbolico, artistico, un viaggio nella biodiversità alimentare, in un mondo sempre più globalizzato, sempre più «villaggio globale» anche sotto questo profilo. Un mondo in cui la forbice tra paesi ricchi e paesi poveri si sta sempre più allargando, con non pochi problemi di ordine sociale. Si pensi solo al drammatico tema della denutrizione e alla morte per fame in alcuni paesi, accanto a paesi più ricchi in cui l’eccedenza alimentare, da cui il tema della obesità, ha enormi ripercussioni sulle stesse economie di quei paesi. L’Esposizione Universale è un’occasione per affrontare anche questa urgenza. Il tema dello spreco, dell’eccedenza di cibo, che sentiamo come una drammatica ferita del nostro tempo, sarà infatti affrontato nei sei mesi della Esposizione Universale milanese. Il cibo eccedente, non distribuito (si prevede che all’interno del sito espositivo saranno serviti circa 15 milioni di pasti), sarà recuperato e distribuito giornalmente a scopo solidaristico grazie ad alcune encomiabili iniziative umanitarie. Tema, quello dell’eccedenza, dello spreco di cibo, a dir poco, drammatico, e che impone interventi sempre più strutturali, radicali perché il pianeta Terra possa avere un progetto di futuro socialmente e culturalmente più sostenibile, e in cui ai processi sempre più avanzati, innovativi della tecnologia si accompagni una visione nel segno di un nuovo umanesimo che metta l’uomo di nuovo al centro. In questo quadro ci piace ricordare le forti, toccanti e accorate parole di Papa Francesco, il Papa venuto dalla periferia del mondo, simbolo di un francescanesimo, e la scelta del nome ne è un segnale inequivocabile, vivente, attivo, soprattutto pragmatico, rivolte ai governanti, ai potenti della Terra perché affrontino con una visione nuova e più coraggiosa questo drammatico e ineludibile tema che è il tema della nostra stessa sopravvivenza, del nostro stesso futuro. Tra l’altro le stesse Esposizioni Universali sono nate, a partire dalla metà dell’Ottocento (la prima Esposizione Universale si svolse a Londra nel 1851), nel segno di una trasversalità, di un dialogo 37


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culturale, laddove appunto la diversità non può essere vista come una insormontabile barriera ma come un momento, un’occasione invece in cui i saperi (e la biodiversità alimentare è uno fra questi) dialogano, si incontrano, interagiscono per progettare un futuro migliore. Che il cibo abbia una intrinseca valenza culturale, simbolica, e persino artistica, lo dimostra il fatto che l’Expo milanese si articolerà in vari percorsi culturali, nell’ambito di un progetto multidisciplinare e intersensoriale molto articolato: ovviamente partendo dal settore agro-alimentare (cuore di tutto il progetto), ma letto, questo sapere, in rapporto ad altri significativi saperi: architettura, urbanistica, arte, cinema, letteratura, fotografia, installazioni, perfomance, scultura, pittura, tecnologia, informatica, sociologia, antropologia, scienza, e il tutto veicolato, e reso simbolicamente più attraente, in una sorta di meticciato culturale, che, ne siamo più che sicuri, sarà ricordato come la vera forza, la vera eredità della milanese Esposizione Universale. Che le Esposizioni Universali siano nate nel segno di questo fisiologico incrocio culturale, senza il quale davvero non si capirebbe la loro significativa ricaduta a livello sia di immaginario simbolico sia pratico, lo dimostra proprio la prima Esposizione Universale londinese del 1851, se si considera che in quello stesso anno veniva brevettato, dallo statunitense John Gorrie, il frigorifero, che avrebbe avuto una ricaduta fondamentale non solo sulla conservazione dei cibi ma anche sugli stessi usi alimentari da parte della società del tempo. Insomma, una data rivoluzionaria, epocale, il 1851, laddove il «cibo - come ha scritto Roberta Scorranese - si piegava al dominio della tecnica: conservato, “domato”, redento dalla caducità. E anche l’arte colse (a suo modo) questo insondabile sentire: di lì a poco, Manet dipingerà quel famoso picnic ne Le déjeuner sur l’herbe con le pietanze raffigurate come piccole vite a sé, quasi avulse dal resto del quadro»1. L’Esposizione Universale prevede, inoltre, nell’ambito della Triennale, in una rete culturale più allargata che avrà alcune significative connessioni in città e altrove (il Cenacolo leonardesco e anche alcuni musei italiani saranno direttamente coinvolti), un progetto artistico dal titolo Arts & Foods («Al plurale, arti e cibi), curato da Germano Celant; progetto che parte, considerandola una data simbolica, dal 1851. Intuizione artistica, quella di Édouard Manet, relativamente a quelle pietanze, quelle «piccole vite» che prendono una loro autonomia, laddove appunto il dettaglio diventa il vero centro del quadro, che ha fatto scuola. La Scorranese ricorda infatti, in rapida sintesi, l’evoluzione che quella data simbolica del 1851 ha avuto nel campo della pittura, in direzione cioè di un realismo non più semplicemente decorativo, accessorio, quello cioè di tante nature morte di certa pittura sei-

settecentesca, ma di un realismo che è andato in direzione della vita vera, autentica, di una vita soprattutto semplice, quotidiana, dove gli stessi poveri riferimenti alimentari, proprio per quel loro sguardo diverso sulle cose, sono andati riempiendosi di uno struggente e poetico senso sociale, umano. Non a caso la Scorranese ricorda la Natura morta con carpa e ostriche di Édouard Manet, le patate di Vincent Van Gogh, le magnifiche «mele e pere» di Paul Cézanne. E il discorso potrebbe continuare con altre interessanti citazioni artistiche. E ancora, per venire al mondo cinematografico, un regista del calibro e della sensibilità di Ermanno Olmi, Palma d’oro a Cannes nel 1978 per L’albero degli zoccoli (film che, al di là di tanti discorsi retorici sul rapporto dell’uomo con la natura, si dovrebbe proiettare nelle scuole elementari), Leone d’oro alla carriera nel 2008, e autore di film come La leggenda del santo bevitore e Il mestiere delle armi, sta realizzando un documentario «aperto» (nel senso cioè di un documentario aperto fino alla fine per quel tratto di imprevedibilità di cui solo la natura è capace) di dieci minuti sul rapporto tra il cibo e il cinema. Rossella Verga ce ne ha anticipato alcuni significativi percorsi, luoghi, suggestioni: «Si va dalla zona umida autunnale dell’Oasi di Sant’Alessio (nel pavese) con i suoi 10 ettari, ai medesimi luoghi rivisitati in primavera. Ci sono gli scorci del Monte Bianco, simbolo del valore dell’acqua dei ghiacciai. C’è la siccità del Po. / E poi c’è il lavoro dell’uomo: il momento della mietitura, raccontata dalla Cascina dei Piatti di Cassinetta, l’attività di un mulino (Mulino Bava di Abbiategrasso, nel Milanese), la fase della panificazione»2. Di tutta questa intensa visione artistica, di taglio cinematografico, che attraversa la dimensione antropologica e simbolica del cibo, ci rimarrà solo una sintesi, sicuramente densissima, di dieci minuti, sintesi che toccherà soprattutto due elementi: l’acqua e il pane che sono in sostanza i due veri e fondamentali salvavita dell’umanità. Metafora, il viaggio di Olmi, di un legame indissolubile e vitale dell’uomo con la terra, di una ritrovata consapevolezza nei confronti della natura, una natura che ci nutre, ci alimenta, chiedendoci solo in cambio rispetto, amore. Sotto il profilo più squisitamente letterario, l’Esposizione Universale, partendo dal presupposto che il cibo è sempre e comunque una forma di conoscenza, di espressione, un segno di civiltà, prevede percorsi molto interessanti. Si sta infatti lavorando al progetto We che vuole essere una sorta di Romanzo del Mondo con voce femminile. Come ha scritto Cristina Taglietti, il «Romanzo del Mondo sarà un mosaico di racconti scritto a più mani che parlerà con la voce di un centinaio di scrittrici, creative, intellettuali. Nutrimento come capacità di occuparsi degli altri, di accogliere, ma anche di esprimere un ritorno alle origini: il risultato

1 R. Scorranese, Un baccanale alla Triennale (e altrove), in «la Lettura» (inserto culturale domenicale del «Corriere della Serra»), 13 aprile 2014, p. 9.

2 R. Verga, L’occhio di Olmi su pane e ghiacciai, in «la Lettura» (inserto culturale domenicale del «Corriere della Sera»), 13 aprile 2014, p. 9.

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sarà un giro del mondo intorno al cibo e a tutto ciò che esso comporta»3. Al progetto We hanno già assicurato la loro adesione alcune importanti scrittrici (anche italiane: Simonetta Agnello Hornby, Sveva Casati Modigliani, Laura Bosio, Michela Marzano) da tutto il mondo, tra cui il premio Pulitzer americano Elizabeth Strout. E questo non per una banale rivendicazione di una quota rosa all’interno di un progetto così articolato come l’Esposizione Universale, ma per una esigenza culturale vera, autentica, per un sacrosanto diritto di parola della voce, del punto di vista femminile, considerando tra l’altro che la figura femminile, a partire dall’antichità, è stata assolutamente centrale, strategica nella costruzione materiale e simbolica del cibo e che il Romanzo del Mondo vorrebbe appunto, all’interno di un disegno multidiscorsivo, raccontare. Cristina Taglietti ricorda inoltre come «le contaminazioni culinarie sono state elementi fondamentali per l’integrazione, anche culturale, dei popoli. D’altro canto la grande letteratura ha saputo identificare in un cibo, in un piatto, in un sapore, in un banchetto lo spirito dell’epoca o un sentimento universale (i capponi di Manzoni, la maleleine di Proust, i funghi ambidestri di Alice nel Paese delle meraviglie, le triglie di Montalbano, ma anche gli animali al macello visti dall’occhio pietoso di Jonathan Safran Foer e via dicendo)»4. E il «racconto», partendo già da queste interessanti suggestioni, potrebbe continuare davvero, come nelle Mille e una notte, all’infinito, considerando i tantissimi richiami che il rapporto cibo, sapori e il mondo della letteratura evoca. Tanto che è praticamente impossibile parlare di letteratura, a partire già dai suoi primi movimenti, senza parlare di cibi, sapori, di un mondo alimentare cioè dalle ampie valenze simboliche, culturali, trovandoci di fronte a un fisiologico e funzionale intreccio tra questi due mondi, laddove questo processo di osmosi, di interazione è stato foriero di integrazione culturale. A questo riguardo, osserva ancora Cristina Taglietti: «E le contaminazioni culinarie sono state elementi fondamentali per l’integrazione, anche culturale, dei popoli»5. Perché il segno culinario non solo è un segno polivalente, ma è un segno soprattutto aperto, democratico, un segno che include, ingloba, e che non esclude, isola. Per questa implicita vitalità, Anthelme Brillat-Savarin ha potuto scrivere nella Fisiologia del gusto che «la scoperta di un piatto nuovo è più preziosa per il genere umano che la scoperta di una nuova stella», volendo sottolineare proprio il carattere per così dire rivoluzionario del segno culinario; segno dalla natura ambivalente e proprio per questo così presente e incisivo nella letteratura. Gian Paolo Biasin, che ha ricostruito in un densissimo e affascinante libro dal titolo I sapori della modernità il rapporto tra cibo e romanzo, ha messo giustamente in 3 C. Taglietti, Giro del mondo in cento autrici, in «la Lettura» (inserto culturale domenicale del «Corriere della Sera»), 13 aprile 2014, 9. 4 Ibidem. 5 Ibidem.

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evidenza, in una visione interdisciplinare, la dimensione antropologica, sociologica, politica e culturale, la ricchezza del segno culinario; segno visto all’interno di un sistema di relazioni, a partire proprio dalla bocca umana, luogo di una doppia oralità, dove quella dimensione si realizza. Dimensione che ha a che fare con quella oralità, che è il tratto di origine della letteratura: «Non v’è dubbio che alla base di un tale sistema di relazioni stia il dato fondamentale che la bocca umana è il luogo ambiguo di due oralità: quella che articola la voce, il linguaggio, e quella che soddisfa un bisogno, l’ingestione del cibo per la sopravvivenza innanzitutto, ma anche per un piacere che si sovrappone al valore del nutrimento. Da questo dato fondamentale deriva la ricchezza del segno culinario, che è il processo di trasformazione di un cibo (una cosa commestibile) in un piatto da consumare, e nello stesso tempo il risultato di questo processo»6. Il segno culinario non può sfuggire a questo paradigma. Perché il cibo è sì nutrimento, necessità, valore primario, ma anche rielaborazione, valore simbolico, laddove il segno culinario si determina attraverso una duplice funzione: la prima di tipo realistico, mimetico, quella che determina, secondo Roland Barthes, il cosiddetto «effetto di realtà», o anche principio di verosimiglianza, la seconda di tipo tropologico, letterario, che non è affatto in contraddizione con la prima funzione ma semmai un rafforzamento in chiave simbolica. Naturalmente il rapporto cibo e letteratura diventa più operativo, più complesso, quando ci riferiamo all’uso letterario, tropologico del cibo. Biasin, dopo aver precisato un primo uso più realistico, mimetico, del segno culinario, significativamente annota: «Il secondo uso letterario del cibo è tropologico, inerente alla struttura stessa del segno culinario come del segno verbale, e cioè la trasformazione analogica (metafora) o lo slittamento per contiguità (metonimia), o l’accostamento per paragone o similitudine, o ancora l’attribuzione arbitraria di senso (simbolo), per cui un determinato cibo è anche altro da quello che è letteralmente, e questo altro (figura retorica, traslato) contiene spesso in sé tutto un discorso morale, o ideologico, o affettivo, o sociale, ma proprio perché traslato è prima di tutto discorso letterario – cioè indagine, conoscenza, espressione in termini propri della letteratura, e non della storiografia o della gastronomia»7. La cosa più sorprendente, e che spiega tra l’altro l’interesse sempre più crescente su questo tema, è che il segno culinario è un segno dalla natura polivalente, mobile, difficilmente inquadrabile in un ambito prettamente referenziale, realistico, avendo in sé, a partire dalla propria connotazione linguistica, un tratto di socialità, di convivialità molto evidente. In un altro stimolante e importante contributo dedicato all’argomento del cibo, dal titolo Misticanze. Parole del gusto, linguaggi del cibo, ha scritto Gian 6 7

G.P. Biasin, I sapori della modernità. Cibo e romanzo, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 7. Ivi, p. 27. 41


Luigi Beccaria: «Tra le componenti simboliche e culturali del cibo non si trascuri un aspetto fondamentale: quel simbolo di fraternità e di unione che il convito impersona quando realizza un’ideale comunità e un dialogo (anche intellettuale, se penso al Convito platonico, al Simposio di Senofonte, o ai Colloquia di Erasmo). Certo, il banchetto può talvolta rovesciarsi in un antibanchetto tragico (il banchetto come centro del dramma, in Macbeth III 4, quando appare il fantasma di Banquo; il convito infernale di paura e morte nel Don Giovanni), o in un banchetto come orgia, orrore o barbarie (la scena finale nel Tieste di Seneca, quando il padre inconsapevole mangia la carne dei suoi figli; il banchetto dei soldati cartaginesi che apre Salambò di Flaubert). Ma di norma la convivenza è stata ed è condivisione, partecipazione, amicizia, rituale pacificatorio, armonia (riconquistata spesso nell’organismo famigliare: la parabola evangelica del ritorno a casa del figliuol prodigo). Con-vito, con-vivio esprime l’uomo sociale, significa (etimologicamente) il vivere insieme, è simbolo dell’unione che nasce dal mangiare e bere in comune, condivisione del cibo ma soprattutto di momenti significativi della vita tra amici, scambio di idee, intrattenimento intellettuale, amicale, e conversazione. Ci si invita l’un l’altro non semplicemente per mangiare e bere, ma per mangiare e bere insieme»8. Convito, dunque, come forma di socialità, momento di convivialità, di conversazione, di scambio intellettuale, convito anche come esperienza plurilinguistica, di voci diverse, come il Convivio di Dante, importante opera dottrinale fermatasi al quarto trattato (il progetto originario ne prevedeva quindici, il primo di introduzione e gli altri dedicati al commento di altrettante canzoni), e dove appunto nel primo trattato Dante giustificava il fine e il titolo dell’opera come un «convivio» (da cui il titolo), offrendo a chi avesse desiderio di conoscenza una difficile «vivanda» (le canzoni), accompagnate da un «pane» (il commento) che ne avrebbe illustrato i significati, parlando poi, nel secondo trattato, dei diversi «sensi» in cui la scrittura si articola (letterale, allegorico, morale, anagogico), che, per rimanere al campo semantico del «convito», non è poi così lontano dal carattere polivalente, tropologico, letterario del segno culinario di cui si è detto. Dimensione sociale, conviviale della parola «convito», «convivio», che risale all’antica Grecia. Molto opportunamente ha rilevato Folco Portinari che l’Odissea è un grande poema conviviale che «sviluppa la sua azione quasi interamente a tavola. O, almeno, a tavola si raccontano i fatti, lì i fatti prendono consistenza»9. Per dire, in sostanza, come la letteratura, la grande letteratura, relativamente sia alla prosa sia alla poesia, abbia trovato i suoi momenti di ispirazione migliore proprio a tavola, avvalendosi, per quanto riguarda la poesia, 8

dell’accompagnamento musicale. Non a caso poesia e canto sono stati un intreccio fondamentale in questa lunga e affascinante storia. Se «convito», «convivio» sono parole altamente segnaletiche di questa natura simbolica del segno culinario, la parola «simposio» (bevuta: pósis e syn: insieme) non lo è meno. Perché quel piacere, scaturito dal connubio di poesia e canto (si pensi soprattutto al valore rituale del simposio che faceva da sfondo alla antica poesia anacreontica), magari accompagnato al piacere del vino, rappresentava una forma di distrazione dall’ossessivo e struggente tema della morte. Qualche breve digressione ora sul tema relativamente alla letteratura italiana, e cioè alla ricchezza simbolica, espressiva che il segno culinario esprime in un sistema letterario, appunto come quello italiano, particolarmente ricco di esempi, di suggestioni, di intrecci culturali. Un viaggio che parte da molto lontano e che incrocia testi più letterari e altri solitamente etichettati come testi più secondari, minori, compresi quelli riguardanti la gastronomia, e che, invece, da studi più recenti, si sono rivelati di una certa importanza, anche a livello linguistico, per comprendere il processo della nostra unificazione linguistica. A quest’ultima e niente affatto secondaria tipologia è certamente ascrivibile un testo come La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, uscito nel 1891, e quindi in una fase in cui il problema linguistico si stava sempre più imponendo. In un interessante capitolo, dal titolo Il mosaico Italia, del succitato libro Misticanze, Beccaria ha affrontato proprio questa questione, facendo vedere come a livello linguistico la direzione di fondo si sia mossa dal regionale al nazionale (per esempio, il veneziano scotadeo ‘a scottadito’, il piemontese grissino, i lombardi risotto, panettone, brasato, il laziale-abruzzese bruschetta, i romaneschi abbacchio, stracciatella, pappardelle, saltimbocca, stuzzichino, fettuccine, bucatini all’amatriciana, puntarelle, misticanza, ammazzacaffè). Direzione, come si è detto, di fondo che non ha però cancellato, proprio in virtù della straordinaria ricchezza, tastiera espressiva dei linguaggi del cibo, certe precise identità territoriali. Questa incredibile varietà espressiva fa sì per Beccaria che la lingua italiana appaia come un vero e proprio «mosaico» (da cui il titolo del capitolo Il mosaico Italia), uno «sfolgorio di forme e di colori», e in cui il libro dell’Artusi rappresenta un punto di snodo molto interessante: segnando, relativamente al processo di unificazione linguistica, uno spartiacque decisivo, laddove la nostra lingua da lingua domestica, municipale, appunto regionale, con intonazione popolari, diventa lingua unificata, nazionale, lingua della nascente classe borghese: «La lingua della cucina italiana, per tutta una serie di ragioni, almeno sino all’Artusi (La scienza in cucina e l’arte

G. L. Beccaria, Misticanze. Parole del gusto, linguaggi del cibo, Milano, Garzanti, 2011, p. 69.

9 F. Portinari, Da Omero a Abramo, in Aa.Vv., Di cotte di crude. Cibo, culture, comunità, Atti del Convegno Internazionale di Studi [2007], Torino, 2009, p. 218

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di mangiar bene, 1891), è stata una lingua domestica, municipale, ricchissima di voci e coloriture dialettali popolari regionali, scarsamente unificata (“Che linguaggio strano si parla nella dotta Bologna!” annotava; “Nelle trattorie poi trovate la trifola, la costata alla fiorentina ed altre siffatte cose da spiritare i cani”), un misto di gergo francesizzante e con alto tasso di dialettalità. Una qualche unificazione all’interno della “bizzarra nomenclatura della cucina” l’Artusi riuscirà a operare. Il suo trattato rivolto alla nascente classe borghese dell’Italia unita ha avuto un suo rilievo non solo per la storia della cucina, ma anche nell’ambito della storia della lingua: era uno spaccato esemplare del fiorentino d’uso della borghesia di fine Ottocento, ed ebbe una qualche influenza sull’italiano nazionale dell’uso scritto e parlato. Anche perché, come Cuore e Pinocchio, è stato con le sue decine e decine di edizioni uno dei pochi best-seller dell’Ottocento. Impastando tradizioni locali, collaborava a un gusto “medio” non solo del palato, ma in qualche piccola misura anche della lingua»10. Siamo a un punto davvero di svolta della formazione di quel gusto «medio» nazionale, italiano, a livello sia del gusto, sia della lingua, di cui il libro dell’Artusi, uno dei pochi best-seller dell’Ottocento, è un esempio straordinario; libro, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, che, insieme ad altri libri di grande diffusione come Cuore e Pinocchio, ha contribuito ad aprire alla nascente classe borghese orizzonti culturali diversi, portandosi fuori, in un certo senso, dal solco tracciato da Manzoni nei Promessi sposi. Carlo Collodi, autore di Pinocchio, ci ha dato tra l’altro interessanti indicazioni socio-culturali su un cibo come la «pizza» (diventata nel corso degli anni la parola più nota fuori d’Italia). Collodi, nel Viaggio per l’Italia di Giannettino (1886), non ne parla in termini molto entusiastici, segnalandone una certa «aria di sudiciume complicato», in perfetta «armonia con quello del venditore»11: «Vuoi sapere che cos’è la pizza? È una stiacciata di pasta di pane lievitata, e abbrustolita in forno, con sopra una salsa di ogni cosa un po’. Quel nero di pane abbrustolito, quel bianchiccio dell’aglio e dell’alice, quel giallo verdacchio dell’olio e dell’erbucce soffritte e quei pezzi rossi qua e là di pomidoro dànno alla pizza un’aria di sudiciume complicato che sta benissimo in armonia con quello del venditore». Altra interessante finestra culinaria, in un tratteggio comico e pantagruelico, si legge in Pinocchio (cap. XIII), relativa alla cena di Pinocchio col Gatto e la Volpe all’osteria del «Gambero Rosso» (luogo, l’osteria, dove la letteratura italiana ha costruito scene davvero memorabili) prima di andare al «Campo dei miracoli». Personaggi, tutti e tre, inappetenti (ma solo Pinocchio lo è in maniera coerente), che hanno un comportamento molto strano di fronte al cibo; una scena, come si è detto, dagli effetti comici, surreali: «Entrati nell’osteria, si posero tutti e

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G.L. Beccaria, Misticanze… cit., pp. 189-190.

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Ivi, p. 35.

tre a tavola: ma nessuno di loro aveva appetito. / Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato! / La Volpe avrebbe spilluzzicato volentieri qualche cosa anche lei: ma siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, cosí dové contentarsi di una semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre, si fece portare per tornagusto un cibreino [come annota Beccaria: “La ricetta classica del “cibreo” vorrebbe creste di gallo, fegatini e cuori di pollo, testicoli di gallo, e rossi d’uovo!”, mentre più sobria è la ricetta che del “cibreo” ci dà l’Artusi, parlando di “un intingolo semplice, ma delicato e gentile, opportuno alle signore di stomaco svogliato e ai convalescenti”] di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca. / Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di noce e un cantuccino di pane, e lasciò nel piatto ogni cosa. Il povero figliuolo col pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli, aveva preso un’indigestione anticipata di monete d’oro»12. Dove il vero inappetente è solo Pinocchio, che nel suo atteggiamento così svogliato di fronte al cibo (la sua richiesta si limita solo a uno «spicchio di noce e un cantuccino di pane») ci ricorda molto da vicino quello di Renzo (del resto il modello manzoniano era ben presente al Collodi) nell’osteria dove si ferma a mangiare un po’ di «stracchino» (rifiutando naturalmente il pericoloso vino) quando, lasciata Milano con tutte le insidie della città, va in direzione del bergamasco, dopo che certe esperienze, vissute sulla propria pelle, gli hanno fatto capire i rischi dell’osteria. Tornando a Pinocchio, l’inappetenza del burattino rappresenta qualcosa di strano, in un personaggio solitamente tratteggiato da Collodi nella «versione infantile-popolaresca della fame». Beccaria così riassume le sequenze di questa fame che in Pinocchio non solo ha qualcosa di atavico, ma che lo accomuna a tanti servi, “zanni” della commedia dell’arte (Arlecchino, Pulcinella); fame che affonda le sue radici nel teatro latino (Plauto) e che porta Pinocchio a mangiare tutto: «delle pere mangia anche le bucce e i torsoli, ruba per fame l’uva moscadella al contadino. E sogna (cap. XXIX) una montagna di panini “imburrati di sopra e di sotto”. “Un’uggiolina allo stomaco, che somigliava moltissimo all’appetito” si converte subito “in una fame da lupi, una fame da tagliarsi col coltello” (cap. V). Troverà un uovo, e impazzito di gioia è preso dalla frenesia di papparselo all’istante, e comincia a sognare i vari modi di cuocerselo: “e ora come 12 C. Collodi, Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, con le illustrazioni di Enrico Mazzanti, Milano, Baldini&Castoldi, pp. 73-74.

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dovrò cuocerlo? Ne farò una frittata?... No, è meglio cuocerlo nel piatto!... O non sarebbe più saporito se lo friggessi in padella? O se invece lo cuocessi a uso uovo da bere? No, la più lesta di tutte è cuocerlo nel piatto o nel tegamino: ho troppa voglia di mangiarmelo!”. Avviandosi al campo dei miracoli sogna duemila, cinquemila, centomila zecchini d’oro appesi ai rami, capaci di fruttargli “una cantina di rosoli e di alchermes, e una libreria tutta piena di canditi, di torte, di panattoni, di mandorlati e di cialdoni colla panna”»13. È interessante come il personaggio di Pinocchio, mosso da una atavica fame, costruisca la propria libreria cibaria, occupandola con una serie di segni culinari tutti tendenti all’eccesso, alla dismisura, al paradosso, come se a un progetto culturale, canonicamente inteso e più raffinato, sovrapponesse un progetto alimentare molto più materiale, legato ai reali bisogni della vita. Condizione che avvicina il personaggio collodiano, in questo smisurato sogno alimentare, a tanti personaggi di quel sulfureo filone cavalleresco di cui è particolarmente ricca la letteratura italiana umanistico-rinascimentale, soprattutto di area padano-veneta. Si pensi, per esempio, a certe descrizioni alimentari di Luigi Pulci (nel Morgante rimangono esemplari certi pantagruelici pasti; così come esemplare rimane il «Credo» gastronomico di Margutte: il quale, alla domanda di Morgante se sia cristiano o saracino, risponde di credere solo nel cappone, nel burro, nella torta, nel tortello, nel fegatello) e Teofilo Folengo, autore di quella Macaronea o Opus macaronicum (Opera maccheronica), che esibisce chiaramente nel titolo la necessità di un sogno alimentare. Visioni, quelle del Pulci e del Folengo, che toccano di riflesso, in quella generale dismisura, anche la lingua. Lingua peraltro di forte impatto espressionistico, popolaresco, gergale, resa in tutta la sua affascinante materialità. Autori che preparano la strada al grande François Rabelais, e più specificamente a un’opera come Gargantua et Pantagruel, vero e proprio paradigma alimentare per molta letteratura europea. Il grande e variegato capitolo della letteratura umanistico-rinascimentale sulla tematica del cibo, capitolo continuamente oscillante tra un sogno di trasgressione, di dismisura, proprio per calmare i morsi di una fame atavica, e un bisogno invece di incanalare, nell’ambito del genere della trattatistica, quella trasgressione entro categorie socio-culturali, guardando ovviamente al mondo aristocratico, più generali, più stabili. Non a caso in quella temperie storico-culturale maturò un’opera come il Galateo ovvero de’ costumi di monsignor Giovanni Della Casa, un manuale di buone maniere a tavola, a uso principalmente della società di corte. Ed è curioso vedere come il tema alimentare, sia pure in una altalena di registri linguistici, espressivi, invada, come un fiume in piena, i tanti e diversificati territori della letteratura italiana. Non c’è infatti epoca 13

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G.L. Beccaria, Misticanze… , cit., p. 55.

della nostra letteratura che non porti un mattone importante, decisivo alla costruzione di un edificio così complesso quanto affascinante, fatto di tanti tasselli culinari. Si pensi al napoletano Giovan Battista Basile, autore di quella straordinaria raccolta di fiabe dal titolo Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de li peccerille, opera divisa in cinque giornate e chiamata, in ossequio al modello boccaccesco del Decameron, Pentamerone, un Basile che oscilla tra modi più plebei, popolari e modi più colti, barocchi. Del resto, sullo specifico tema cibario, Boccaccio gli offriva più di un significativo esempio, a partire dal personaggio di Calandrino che crede al «paese di Bengodi», a quella esplosione di cibo che tocca anche la natura: il «paese di Bengodi» ha infatti montagne di parmigiano grattugiato e maccheroni, salsicce per sostenere le viti, e poi fiumi di vino, come se il segno culinario si fosse vestito completamente di natura. E come sempre a un momento più euforico, di grande spinta segue un momento più disforico, all’illusione la delusione, a un segno culinario pieno e vitale un segno culinario più depotenziato, laddove alla abbondanza, ricchezza segue la penuria, la mancanza di cibo, fino alla fame più nera, come dimostrano le storie del villano Bertoldo disegnato, con una penna sempre viva e ispirata, da Giulio Cesare Croce ne Le sottilissime astuzie di Bertoldo (1608); personaggio molto astuto, di un pragmatismo spiazzante al punto da tenere testa persino al re Alboino. Tante e significative sono le presenze del cibo nell’immaginario letterario che è francamente difficile seguirne i percorsi, gli avvitamenti. Ci basti segnalare la rilevanza che il tema ha, in generale, in tutto il filone novellistico, fiabesco, dove il bisogno alimentare affiora in tutta la sua più profonda cifra antropologica e simbolica, tra povertà e sfarzo, tra necessità e momento più ludico14. Naturalmente in questa storia, dai capitoli molto interessanti, l’epoca illuministica ha avuto un ruolo fondamentale. Epoca indubbiamente di grande apertura socioculturale, epoca che ha, a detta di Jean Starobinski, lo «stile della conversazione», proprio per segnalarne l’intima vocazione comunicativa, dialogica. Epoca, quella illuministica, caratterizzata soprattutto da nuovi luoghi di incontro, di costruzione cioè di quella socialità, diremmo oggi, più liquida, fatta sì di imprevisti, di occasioni a rischio, ma anche di nuove forme di conoscenza. Le piazze, le botteghe, i caffè, le osterie, le taverne, le bettole, diventano i luoghi più emblematici di quella nuova esigenza di comunicazione, di socialità. Epoca, il Settecento, in cui il romanzo (genere più di altri direttamente toccato dalla tematica del cibo) conobbe una diffusione europea davvero sorprendente, intercettando, sostanzialmente, i bisogni di una nascente e intraprendente borghesia moderna, bisognosa di leggersi nel ruolo di protagonista in un genere letterario più aperto come il romanzo. Ma anche su 14 Un interessante excursus sull’importanza simbolica del cibo nella fiaba europea ci ha fornito: G. Cusatelli, Ucci, ucci. Piccolo manuale di gastronomia fiabesca, Milano, Emme Edizioni, 1983.

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questo percorso in cui si disegna la storia del romanzo moderno europeo, prendendo come punto di riferimento uno dei più grandi romanzi della letteratura occidentale, il Don Quijote di Cervantes, il tema del cibo, della fame trova una delle sue espressioni artistiche migliori, a conferma che nel Dna del romanzo moderno c’è un segno culinario dall’alta valenza simbolica. Lo scudiero Sancho Panza è un personaggio dominato da un appetito smisurato, portato a mangiare preferibilmente, per marcare una propria origine popolare, cibi della propria terra (lardo, cavolo, carne, cipolla). Sancho Panza e Don Chisciotte, due «cavalieri erranti», due straordinari e quasi plastici simboli di un codice cavalleresco ormai in dissoluzione, prossimo alla fine, insomma una tragicomica parodia del genere. Sancho Panza e Don Chisciotte, pur indissolubilmente uniti nell’avventura del viaggio, sono in realtà, come ha osservato giustamente Gian Luigi Beccaria, personaggi molto diversi nel loro rapporto con il cibo. Uno, Sancho Panza, bulimico, che nel suo viaggio mangia davvero di tutto, spinto da quella «salsa de la hambre» (salsa della fame), felice e ironica combinazione linguistica, che è un tocco di immaginario barocco su uno scenario in fondo di fame, di povertà, una fame ancestrale, la sua, che gli fa sognare anche grandi tavole imbandite. L’altro, Don Chisciotte, anoressico, «nato per vivere morendo», laddove (questo è il suo vero insegnamento) i veri «cavalieri erranti» mangiano raramente e solo in certi sontuosi banchetti offerti in loro onore, a differenza di Sancho «nato per morire mangiando». Per Don Chisciotte il non mangiare è solo motivo di vanto, di distinzione, non sente insomma quella condizione come una privazione, ma semmai, nella cifra visionaria della narrazione, come una ricchezza. Questo spogliarsi completamente della corporalità, il non sentire più i morsi della fame e la conseguente necessità del cibo, cosa che invece sente lo scudiero Sancho, fa del personaggio di Don Chisciotte, in quella inarrestabile dissoluzione del genere cavalleresco, una funzione letteraria allo stato puro, funzione che non ha più neanche bisogno di calarsi in un corpo. A suo modo, Don Chisciotte esprime una forma di ascetismo, liberandosi delle necessità (la fame e il cibo) del corpo. Questo è l’unico insegnamento capace di trasmettere al fido scudiero Sancho: «Devi sapere, Sancho, che è vanto dei cavalieri erranti star senza mangiare per un mese, o se mangiano, che sia di quello che capita loro a portata di mano; e ciò ti apparirebbe chiaro se avessi letto tante storie quante ne ho lette io: che sebbene siano state moltissime, in tutte quante non ho trovato nessun riferimento che i cavalieri erranti mangiassero, se non per caso e in alcuni sontuosi banchetti che davano in loro onore, e tutti gli altri giorni li passavano in bianco» (I x)»15. C’è di più: questa consapevolezza che decide della natura del vero «cavaliere errante» Don Chisciotte 15

G.L. Beccaria, Misticanze… , cit., p. 64.

la ricava dalla lettura di tante storie, a conferma che la letteratura si muove sempre su un piano superiore alle necessità, persino corporali, della vita. Venendo ora a due pesi massimi della nostra letteratura, Leopardi e Manzoni, e ricollegandoci a quella ampia forbice, divaricazione sempre esistita tra il romanzo, genere sostanzialmente più aperto, più ricettivo nei confronti del segno culinario, e la poesia, genere invece più refrattario, più allergico, forse per una sua antica storia più letteraria, a quel segno, confermano, a rimanere almeno alla loro produzione più ufficiale, questa tendenza di fondo, anche se in ambito poetico dialettale occorre registrare nell’Ottocento l’eccezione del romano Giuseppe Gioachino Belli, la cui poesia ha una robusta quanto funzionale impalcatura di tipo gastronomico. Più di uno studio ha dettagliatamente documentato l’attenzione di Manzoni, con riferimento soprattutto ai Promessi sposi, al mondo dei sapori, dei cibi e di certi luoghi, su tutti l’osteria, dove quell’attenzione si è meglio disegnata16. Manzoni ha infatti strizzato più di una volta l’occhio al segno culinario, alla vitalità, alla ricchezza espressiva (significante) e connotativa (significante + significato) di questo segno soprattutto nei Promessi sposi. Anche l’attenzione manzoniana verso il vino, decisamente fuori dalla antica funzionalità del simposio e visto quasi sempre come un elemento molto pericoloso per un personaggio come Renzo, è senz’altro ascrivibile a questa dimensione semantica. Questi significativi addentellati di Manzoni con il segno culinario trovano peraltro conferma nella stessa ambientazione storica del romanzo: appunto in quel Seicento, secolo particolarmente buio per l’Italia, un’Italia devastata da terribili guerre, epidemie, carestie, tumulti per il pane. Carestia che, almeno all’inizio dei Promessi sposi, sembra non toccare da vicino la condizione di Renzo, che Manzoni ci presenta come «agiato»: «Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell’annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la fame»17. Manzoni è abilissimo nell’intrecciare questi due piani, la macrostoria e la microstoria, nel passare dal piano più generale a quello più individuale, illuminando, 16 Per l’importanza assolutamente strategica dell’ “osteria” nei Promessi sposi, si rinvia al fondamentale lavoro di Ezio Raimondi, L’osteria della retorica, in La dissimulazione romanzesca. Antropologia manzoniana, Bologna, Il Mulino, 1990.

Le citazioni dal romanzo manzoniano si riferiscono alla seguente edizione: A. Manzoni, I promessi sposi, Introduzione e note di Vittorio Spinazzola, Milano, Garzanti, 2002, p. 23. 17

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come pochi, quegli umili che passano anonimamente nel grande teatro della «Historia», ma che sono portatori di straordinarie e portentose psicologie di cui il romanzo moderno non può fare a meno di registrare. Una sorta di antiromanzo psicologico, linguistico, emotivo che si contrappone a un romanzo più ufficiale, più visibile, quello dei grandi personaggi storici, che a mano a mano che si procede nella narrazione finisce per dissolversi. Romanzo e antiromanzo che confliggono anche a livello di spazi, di luoghi: da un lato i palazzotti e i conventi simboli del potere politico e religioso, dall’altro le case modestissime di contadini, di umili persone, le osterie. La forza di questo antiromanzo, che parla una lingua assolutamente nuova, fatta di parole vere e di una diversa gestualità, deriva in fondo da un movimento corale della scrittura, in cui si sente quasi il respiro dei contadini, delle persone più semplici, più umili, dei mendicanti, figure che parlano e mangiano, là dove il cibo diventa un segno fortemente espressivo della loro condizione sociale. C’è un cibo che ha una particolare rilevanza simbolica: la polenta, quasi un gustema di quel mondo. Cibo umile, che riporta a una cultura contadina, popolare, a quella condizione di socialità, di convivio, che i Promessi sposi perseguono sin dall’inizio. Cibo che allude a una dimensione tutta familiare, polenta che si mangia, secondo una tradizione tutta contadina, insieme su una unica spianata di legno, realizzando un «convivio» più umano, più reale, meno letterario. Non a caso quando Renzo, viste le tante difficoltà che s’abbattono sul suo matrimonio con Lucia, viste le tante e incomprensibili resistenze di Don Abbondio, va a trovare il cugino Tonio per coinvolgerlo, come testimone, nel suo progetto di matrimonio clandestino, lo trova in cucina, accanto al focolare, intento a preparare una «piccola polenta bigia»: «Andò addirittura, secondo che aveva disegnato, alla casetta d’un certo Tonio, ch’era lì poco distante; e lo trovò in cucina, che, con un ginocchio sullo scalino del focolare, e tenendo, con una mano, l’orlo d’un paiolo, messo sulle ceneri calde, dimenava, col matterello ricurvo, una piccola polenta bigia, di gran saraceno. La madre, un fratello, la moglie di Tonio, erano a tavola; e tre o quattro ragazzetti, ritti accanto al babbo, stavano aspettando, con gli occhi fissi al paiolo, che venisse il momento di scodellare» (cap. VI)18. Come se tutti fossero in attesa di un miracolo, ed effettivamente quel «momento di scodellare» è visto come un momento rituale, quasi religioso, diventando quel segno culinario, la polenta, nello spazio, appunto sacro, della casa un segno dall’alta valenza simbolica. Ma gli effetti negativi della carestia, di una annata non particolarmente fortunata, si fanno sentire e come su quel segno culinario: «La mole della polenta era in ragion dell’annata, e non del numero e della buona voglia de’ commensali: e ognun d’essi, fissando, con uno 18

Ivi, p. 81.

sguardo bieco d’amor rabbioso, la vivanda comune, pareva pensare alla porzione d’appetito che le doveva sopravvivere. Mentre Renzo barattava i saluti con la famiglia, Tonio scodellò la polenta sulla tafferìa di faggio, che stava apparecchiata a riceverla: e parve una piccola luna, in un gran cerchio di vapori» (cap. VI)19. Si respira, in questo passaggio del romanzo, ritualità, senso religioso di timbro antico, popolare, quello che si disegna nello spazio umile della casa, e che proprio per questo diventa uno spazio assolutamente sacro, dove non si può concepire neanche l’idea di un matrimonio clandestino. Non crediamo infatti che le ragioni del rifiuto di Renzo ad accettare l’invito del cugino Tonio a restare risiedano nel fatto di sottrarre, come dice il romanzo, «alla polenta un concorrente, e il più formidabile», un concorrente agguerrito, quanto invece nell’inviolabilità di quel sacro spazio domestico dove la scrittura di Manzoni deve necessariamente arrestarsi per non profanare quel luogo sacro (non si dimentichi l’episodio del Nuovo Testamento, in cui il figliuol prodigo sperpera la propria eredità proprio in una taverna). Ecco perché Renzo invita Tonio a seguirlo alla vicina osteria, portando l’azione fuori, all’osteria appunto, in uno spazio cioè più laico, dove potrà liberamente parlare del proprio piano: «Giunti all’osteria del villaggio; seduti con tutta libertà, in una perfetta solitudine, giacchè la miseria aveva divezzati tutti i frequentatori di quel luogo di delizie; fatto portare quel poco che si trovava, votato un boccale di vino; Renzo, con aria di mistero, disse a Tonio: “se tu vuoi farmi un piccolo servizio, io te ne voglio fare uno grande”» (cap. VI)20. E un’osteria (cap. VII) torna quando Renzo porta Tonio e Gervaso, i due testimoni, a cena in attesa della «grand’operazione della sera», quella cioè del matrimonio clandestino. L’oste serve a loro un «piatto di polpette, che le simili non le avete mai mangiate». Solo che Renzo non riesce a gustarle pienamente perché preoccupato per alcuni strani avventori e per alcuni melliflui atteggiamenti dell’oste, che, dopo essersi presentato all’inizio con «una tovaglia grossolana sotto il braccio, e un fiasco in mano», lo invita ora a mangiare e a non preoccuparsi di nulla. E poi perché preoccuparsi tanto «con davanti quelle polpette, che farebbero resuscitare un morto?». Ma si sa, le osterie sono luoghi strani, pericolosi, a rischio, dei porti di mare, in cui si possono venire a creare situazioni molto strane, difficili, soprattutto per un «forestiero» come Renzo. Insomma, Renzo sente che c’è qualcosa nell’aria che non va. Se in questa osteria il comportamento di Renzo è improntato a cautela, alla milanese osteria della «Luna piena» (cap. XIV), il suo atteggiamento è radicalmente diverso, senza più freni inibitori, soprattutto per colpa del vino che una prima volta all’osteria con i cugini Tonio e Gervaso è riuscito a evitare, «stando indietro nel mangiare, come nel bere», 19 Ivi, 20

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pp. 81-82.

Ivi, p. 82. 51


ma che ora lo consegna completamente nelle mani dell’oste e di quella guardia che l’oste conosce molto bene: alla fine i bicchieri di vino tracannati da Renzo non si conteranno più. All’osteria della «Luna piena» a Renzo viene servito un piatto tipico della cucina milanese, lo «stufato», particolarmente gradito dal «forestiero» Renzo. Nonostante gusti lo «stufato» con il «pane della provvidenza», quello che ha raccolto per strada durante i tumulti per il pane dove si è trovato ad essere lui malgrado protagonista, tanto che la città di Milano, con tutti quei pani e con tutta quella farina (da lui inizialmente creduta neve) per terra, gli è apparsa come un vero e proprio «paese di cuccagna», la Provvidenza ora sembra abbandonare Renzo lasciandolo in balia di eventi più grandi di lui. Una terza e modestissima osteria s’incontra nei Promessi sposi (cap. XVI) quando Renzo s’incammina verso il bergamasco, terra a lui più familiare, più amica. Forte dell’esperienza negativa vissuta all’osteria della «Luna piena», dove per puro miracolo è riuscito a sfuggire all’arresto, questa volta il suo atteggiamento non è più baldanzoso, ma dimesso, controllato. È costretto a entrarvi per pura necessità: «Mentre cerca la maniera di pescar tutte quelle notizie, senza dar sospetto, vede pendere una frasca [una insegna] da una casuccia solitaria, fuori d’un paesello. Da qualche tempo, sentiva anche crescere il bisogno di ristorar le sue forze; pensò che lì sarebbe il luogo di fare i due servizi in una volta; entrò. Non c’era che una vecchia, con la rocca al fianco, e col fuso in mano. Chiese un boccone; gli fu offerto un po’ di stracchino e del vin buono: accettò lo stracchino, del vino la ringraziò (gli era venuto in odio, per quello scherzo che gli aveva fatto la sera avanti); e si mise a sedere, pregando la donna che facesse presto»21. Nell’andarsene Renzo prenderà un «pezzo di pane che gli era avanzato dalla magra colazione, un pane ben diverso da quello che aveva trovato, il giorno avanti, appiè della croce di san Dionigi»22. E non è un caso che Renzo, in questo ritorno alla normalità, a una vita più semplice, riprendendo un dialogo con la natura, avverta il bisogno di portare con sé un pezzo di pane, alimento che nei Promessi sposi ha, tendenzialmente, un valore religioso, simbolico. Non si dimentichi che lo stesso padre Cristoforo porterà sempre con sé, come segno di penitenza e di umiltà, un pezzo di pane-simbolo, custodito, come una reliquia, in «una scatola d’un legno ordinario, ma tornita e lustrata con una certa finitezza cappucinesca» per poi donarlo, nel lazzaretto, luogo di morte e di redenzione al tempo stesso, a Renzo e Lucia. Tra l’altro, il pane e il vino sono, nella liturgia cattolica, il corpo e il sangue di Cristo. L’enunciato linguistico che fissa, simbolicamente, questa straordinaria e misteriosa trasformazione (transustanziazione) è: «Questo è il mio corpo». Come ha scritto Gian Paolo Biasin, passando per le fondamentali parole di 21 22

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Ivi, p. 224. Ivi, p. 225.

Louis Marin: «La formula significa dunque che il pane (e il vino) “non sono più cose, ma segni. Sono una specie di cosa-segno che nasconde il corpo di Gesù Cristo in quanto cosa e lo rivela in quanto simbolo”, perché l’immagine del pane ci aiuta […] “a concepire il modo in cui il corpo di Gesù Cristo è il cibo delle nostre anime e il modo in cui tutti i fedeli sono uniti fra loro” appunto dal cibo comune»23. Il ritorno a casa di Renzo, da inquadrarsi in un disegno più solidale del romanzo, è un ritorno non facile, come è giusto che sia dopo che si è infranto quel vero senso cristiano su cui poggia un romanzo come i Promessi sposi. È un ritorno a casa che esige che uno si spogli di tutto ciò che è inutile, superfluo, recuperando una dimensione semplice della vita, dove i veri valori tornano finalmente ad affermarsi. In questa ritrovata atmosfera di pace, di solitudine, in cui si disegna il vero senso della vita, è la natura a soccorrere Renzo, a dimostrazione che la natura non solo non tradisce mai, non lascia mai soli, ma offre i suoi succosi e abbondanti frutti. Scrive Manzoni: «Frutte, n’aveva a sua disposizione, lungo la strada, anche più del bisogno: fichi, pesche, susine, mele, quante n’avesse volute; bastava ch’entrasse ne’ campi a coglierne, o a raccattarle sotto gli alberi, dove ce n’era come se fosse grandinato; giacchè l’anno era straordinariamente abbondante, di frutte specialmente». Dopo la carestia, i momenti difficili, torna finalmente l’abbondanza; un’abbondanza non solo materiale ma anche spirituale. Giacomo Leopardi, sostanzialmente refrattario alla via del romanzo, pur avendo abbozzato le linee di un significativo romanzo autobiografico, in quel primo Ottocento dove quella via del romanzo, almeno relativamente all’Italia, si andava definendo con grande forza (Foscolo, Manzoni) per poi trovare nella seconda metà del secolo un’importante accelerazione (Nievo, Fogazzaro, Verga, il primo Svevo), percorreva, da par suo, la via della poesia, una poesia dal robusto impianto classicistico e dove gli sconfinamenti della scrittura verso il mondo alimentare sono decisamente più contenuti, mentre interessanti e numerose finestre sul tema si possono leggere nell’Epistolario e nello Zibaldone. Leopardi, nell’Indice del mio Zibaldone di Pensieri cominciato agli undici di Luglio del 1827 in Firenze, lemmatizza, a dimostrazione di un interesse culturale per niente secondario, proprio la parola «Sapori». Due carte dello Zibaldone24 ci appaiono, anche per le notevoli implicazioni culturali che hanno con l’intero sistema filosofico leopardiano, particolarmente significative: «Ne’ sapori ha luogo armonia ec.» (Zib., 1940, 2) e «Quanto possa l’assuefazione e l’opinione anche sul gusto de’ sapori, ch’è pure un senso naturale e innato, e ciò nonostante, varia spessissimo fino in un medesimo individuo, secondo la differenza e delle assuefazioni e delle opinioni intorno al buono o cattivo de’ sapori, è manifesto per 23 G.P. Biasin, I sapori della modernità… cit., pp. 50-51. Il libro di Louis Marin, da cui Biasin cita, è La parole mangée et autres essais théologico-politiques, Paris, Méridiens Klincksieck, 1986 24 Per lo Zibaldone si cita, indicando tra parentesi il numero di carta, dalla seguente edizione: G. Leopardi, Zibaldone di Pensieri, a cura di Francesco Flora, Milano, Mondadori, 1973.

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l’esperienza giornaliera e comparativa sì de’ gusti successivi di un individuo, sì de’ gusti de’ diversi individui» (Zib., 1733). Per non parlare poi delle tante riflessioni leopardiane sul «vino», vino che, abbinato al cibo, «dà talvolta una straordinaria prontezza vivacità, rapidità, facilità, fecondità di idee, di ragionare, d’immaginare, di motti, d’arguzie, sali, risposte ec., vivacità di spirito, furberie, risorse, trovati, sottigliezze grandissime di pensiero, profondità, verità astruse, tenacità e continuità ed esattezza di ragionamento anche lunghissimo e induzioni successive moltissime, senza stancarsi, facilità di vedere i più lontani e sfuggevoli rapporti, e di passare rapidamente dall’uno all’altro senza perderne il filo ec.» (Zib., 3881-3882). Che è esattamente l’opposto di quello che succede al povero e sprovveduto Renzo nei Promessi sposi, letteralmente intontito e psicologicamente devastato da quel vino da lui tracannato senza più controllo. Vino che, nell’ottica leopardiana, ha un’azione benefica ad ampio raggio: «Il poeta lirico nell’ispirazione, il filosofo nella sublimità della speculazione, l’uomo d’immaginativa e di sentimento nel tempo del suo entusiasmo, l’uomo qualunque nel punto di una forte passione, nell’entusiasmo del pianto; ardisco anche soggiungere, mezzanamente riscaldato dal vino, vede e guarda le cose come da un luogo alto e superiore a quello in che la mente degli uomini suole ordinariamente consistere» (Zib., 3269). Tra il 1821 e il 1823 Leopardi nello Zibaldone dispiega una serie di significative riflessioni, che in lui hanno sempre un respiro culturale molto articolato, sul cibo, sui sapori, sugli odori. Interesse che non deve sorprendere più di tanto alla luce anche della sua diretta esperienza come avido consumatore di dolci, gelati, ma anche di altre tipicità cibarie marchigiane di cui conserverà sempre un ottimo ricordo lontano da Recanati. È nota, come ha scritto Alberto Savinio in un articolo pubblicato su «Omnibus», la rivista di Leo Longanesi, il 28 gennaio 1939 dal titolo Il sorbetto di Leopardi, la golosità, la «irrefrenabile ingordigia del contino», soprattutto durante l’ultimo periodo napoletano, un Leopardi descritto come «grande amatore di gelati, sorbetti, mantecati, spumoni, cassate e cremolati», con la curiosità e la gioia quasi di un fanciullo di fronte a quelle prelibatezze. Tornando alla poesia, è interessante segnalare come nei Canti 25 sia assente il verbo «mangiare», mentre è presente il verbo «cibare». Nella Palinodia al marchese Gino Capponi, la cui stesura si fa risalire fra la primavera e il settembre del 1835, durante il soggiorno napoletano, troviamo sia il verbo «cibare» che le parole «cibo»,«fame», «digiuno»: «Ghiande non ciberà certo la terra / però, se fame non la sforza» (vv. 55-56) « […] cibo de’ forti / il debole, cultor de’ ricchi e servo / il digiuno mendico» (vv. 90-92). E la parola «cibo», nell’accezione di alimento, ricorre anche nel Consalvo, poesia

composta a Firenze fra l’autunno del 1832 e la primavera del 1833, laddove nella trasfigurazione poetica e metaforica Leopardi allude al «cibo» d’amore che il personaggio di Elvira regala al poeta («[…] sostegno e cibo / esser solea dell’infelice amante») (v. 18). Tornando alla Palinodia, dove si ha una concentrazione semantica quasi plastica con effetti persino sonori di parole inerenti la dimensione alimentare, Leopardi ci descrive una interessante battaglia dei cibi e delle bevande, in una atmosfera densa, carica di fumo, intrisa di forti e ubriacanti odori: «[…] Alfin per entro il fumo / de’ sìgari onorato, al romorio / de’ crepitanti pasticcini, al grido / militar, di gelati e di bevande / ordinator, fra le percosse tazze / e i branditi cucchiai, viva rifulse / agli occhi miei la giornaliera luce / delle gazzette» (vv. 13-20). Tutto è ridotto a battaglia: i pasticcini crepitano come moschetti, i cucchiai sono branditi come spade e lance, le tazze si urtano come armi micidiali. Battaglia resa da Leopardi in uno straordinario pastiche linguistico, rivisitando, in forma parodica, un famoso verso (v. 30) della IV egloga virgiliana («et durae quercus sudabunt roscida mella»), ricorrendo, per la rappresentazione della mitica età dell’oro, alla figura retorica dell’impossibilità («né meraviglia fia se pino o quercia / suderà latte e mele») (v. 45), facendo sgorgare dalla natura un «paese di Cuccagna» sempre generoso, sempre pronto ad esaudire certi sogni alimentari. Quella battaglia, precedentemente risolta in una lente tutta deformante e parodica, si trasforma ora in una vera e propria guerra per la conquista dei mercati del «pepe», della «cannella», di «melate canne», d’«altro aroma», in una spietata logica di concorrenza commerciale, sempre più dominata dal guadagno, dell’arricchimento facile, costi quel che costi, logica che spinge nazioni sorelle a un’assurda guerra fratricida, in un brusco arresto di quel disegno di civiltà, di progresso che il Settecento, il secolo dei Lumi, aveva illusoriamente indicato. Strage, insensatezza culturale, vuoto di civiltà che toccano l’Europa e l’America, bloccando le naturali vie del commercio, delle relazioni economiche, sociali: «[…] E già dal caro / sangue de’ suoi non asterrà la mano / la generosa stirpe: anzi coverte / fien di stragi l’Europa e l’altra riva / dell’atlantico mar, fresca nutrice / di pura civiltà, sempre che spinga / contrarie in campo le fraterne schiere / di pepe o di cannella o d’altro aroma / fatal cagione, o di melate canne, / o cagion qual si sia ch’ad auro torni» (vv. 59-68). E altri significativi esempi dai Canti si potrebbero elencare, con qualche interessante sconfinamento, sempre relativamente alla tematica del cibo, nella prosa delle Operette morali: Dialogo d’Ercole e di Atlante, Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, La scommessa di Prometeo (per certi affondi nell’antropofagia), Detti memorabili di Filippo Ottonieri. Ma è sicuramente nell’Epistolario26 che il tema del cibo, dei sapori, e dei

25 Per i Canti si cita dalla seguente edizione: G. Leopardi, Canti, con note e prefazioni dell’autore, argomenti e abbozzi di poesie, scritti e frammenti autobiografici, a cura di Lucio Felici, Milano, Newton & Compton, 1996.

26 Per quanto riguarda l’Epistolario di Leopardi, si cita dalla seguente edizione: G. Leopardi, Le lettere, a cura di Francesco Flora, Milano, Mondadori, 1970.

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conseguenti collegamenti alla amata e mai dimenticata terra marchigiana, torna a decollare con una freschezza linguistica, espressiva, davvero sorprendente. In particolare, una lettera, sempre un po’ periferica rispetto ai percorsi interpretativi avanzati sull’Epistolario, colpisce; lettera diretta alla recanatese marchesa Volumnia Roberti, senza data, ma molto presumibilmente scritta a Recanati nel giorno dell’Epifania del 1810, e firmata, in un curioso mascheramento linguistico, «La Befana». Un primo strategico camuffamento del mittente, e cioè di Giacomo, che si trincera dietro una finta firma, appunto «La Befana», per veicolare contenuti a dir poco imbarazzanti, che toccano quella categoria del «basso corporeo» di cui ha parlato uno studioso come Michail Bachtin. Ma c’è di più: dietro il registro dichiaratamente dissacratorio della lettera s’intravede un bersaglio storicamente più ampio, più ufficiale, e cioè quella età dei Lumi, quel Settecento illuministico, aspramente combattuto da Leopardi pur avendone ereditato un certo vocabolario di fondo; epoca che aveva messo al centro del proprio progetto culturale proprio quella «conversazione», che Leopardi ora irride, svuota di senso, laddove proprio ad apertura di lettera, si rivolge sia alla marchesa Roberti sia «a tutti li Signori Ragazzi della Vostra Conversazione», rovesciando, irridendo quel consolidato schema sociale, comunicativo. L’inizio della lettera è caratterizzato dalla figura della Befana che non porta i soliti e attesi doni, ma un tratto di irriverenza che ci restituisce un’immagine insolita del giovane Giacomo: «Ho pensato dunque di fermarmi un momento per fare la Piscia nel vostro Portone, e poi tirare avanti il mio viaggio. Bensì vi mando certe bagattelle per cotesti figliuoli, acciocchè siano buoni ma ditegli che se sentirò cattive relazioni di loro, quest’altro Anno gli porterò un po’ di Merda» (s. d., ma Recanati, Epifania del 1810?) (lett. 1). Per trasformare subito dopo quella «Conversazione» di ascendenza settecentesca, di cui il «Caffè» è la bevanda più significativa, in una «Conversazione del Pasticcio», in una declinazione tutta alimentare della scena e della lingua (la stessa espressione «e non siate stitica» che sta per «e non siate avara» evoca comunque un passaggio ben preciso della catena alimentare): «Voi poi Signora Carissima avvertite in tutto quest’Anno di trattare bene cotesti Signori, non solo col Caffè chè già si intende, ma ancora con Pasticci, Crostate, Cialde, Cialdoni, ed altri regali, e non siate stitica, e non vi fate pregare, perchè chi vuole la conversazione deve allargare la mano, e se darete un Pasticcio per sera sarete meglio lodata, e la vostra Conversazione si chiamerà la Conversazione del Pasticcio» (lett. 1). Altre lettere aprono interessanti finestre sul mondo alimentare: in una lettera allo stampatore Antonio Fortunato Stella (Recanati, 21 marzo 1817) (lett. 27) Giacomo parla di un certo «Bariletto d’Olio» e di una 56

«cassa di fichi». Ma il cibo, come si legge in una lunga e importantissima lettera a Pietro Giordani (Recanati, 30 aprile 1817) (lett. 32), diventa felice metafora di una conversione letteraria e che fa sì che quelle «cose moderne», precedentemente considerate squisite, gustose, si trasformino in «schifissime», come un cibo che si odia, si detesta. In una lettera, sempre al Giordani, Giacomo ricorre all’immagine alimentare dei funghi, che hanno la proprietà quasi miracolosa di crescere nell’arco di una notte, per definire il carattere giornaliero, effimero delle controversie: «Le stesse controversie non vi si possono scrivere, perchè sono infinite, e ne nasce tutto giorno come i funghi» (Recanati, 21 novembre 1817) (lett. 55). Lontano da Recanati, Leopardi vede in una luce diversa, proprio perché aiutato da certi tipici prodotti e sapori della terra marchigiana, il «natìo borgo selvaggio». A Bologna definisce «doni» alcuni prodotti che il padre Monaldo gli ha fatto avere; «doni» che gli permettono di farsi «onore» presso alcuni suoi amici. L’olio, i fichi, i formaggi («che qui si stimano più del parmigiano») sono i prodotti che il padre Monaldo gli invia più frequentemente. Prodotti straordinari di quella Marca che ora Leopardi rivede con più indulgenza: «Il dono che Ella mi manda mi sarà carissimo, e mi servirà per farmi onore con questi miei amici, presso i quali trovo che l’olio e i fichi della Marca sono già famosi, come anche i nostri formaggi, che qui si stimano più del parmigiano, il quale non ardisce di comparire in una tavola signorile: bensì vi comparisce una forma di formaggio della Marca, quando se ne può avere, che è cosa rara» (Bologna, 8 febbraio 1826) (lett. 412). Non solo, ma in un’altra lettera al padre Monaldo, Giacomo si avventura in una sottile analisi socio-economica del «commercio di formaggi» e di vini, rivelando un’apprezzabile visione commerciale («Veramente non si può scusare l’indolenza della nostra provincia nel mettere a profitto i tanti generi squisiti che essa possiede, e che eccedono il consumo dell’interno: giacchè i formaggi non sono il solo capo che manca in altre parti d’Italia, e che sarebbe ben accolto, ma noi abbiamo ancora molti e molti altri capi che da noi non si stimano e non si trovano a vendere perchè soprabbondano, e altrove sarebbero ricercatissimi. E i nostri vini, che noi mandiamo solamente a Roma e in piccola quantità, mentre ne abbiamo tanta abbondanza, non si venderebbero qui nel Bolognese a preferenza di questi vini fatturati e pessimi della provincia, tutti ingrati al gusto, e scomunicati generalmente da tutti i medici?» (Bologna, 20 febbraio 1826) (lett. 416). E ancora i «graditissimi», «specialmente i freschi», formaggi e i «preziosi» salami che la famiglia gli invia dalla Marca tramite un vetturale: «Ebbi dal vetturale i formaggi e i salami, di cui ringrazio novamente Lei e Mamma. I formaggi sono stati graditissimi, specialmente i freschi. I salami poi 57


sono sembrati preziosi, e sono comparsi con onore in una delle più splendide tavole di Bologna» (Bologna, 4 aprile 1826) (lett. 435). Attenzione che Giacomo ricambierà con la ricetta del «famoso latte e mele» (di cui parla anche nella Palinodia al marchese Gino Capponi): «La ricetta del latte e mele è molto semplice, perchè consiste in fior di latte o panna, gelatina non salata, e zucchero a piacere. Ma il principale consiste nella manipolazione, della quale mi hanno fatto una descrizione assai lunga, e tale che io non so se la saprei riferir bene» (Bologna, 1 giugno 1827) (lett. 522). La più volte dichiarata superiorità dei formaggi marchigiani sul più celebrato parmigiano, è forse da inquadrarsi nell’ambito di una ulteriore presa di distanza da quella cultura illuministica che fa spesso da sfondo alla scrittura leopardiana. Il bersaglio di Leopardi ha tutta l’aria di rivolgersi a quel «pranzo filosofico» di Voltaire (pensando soprattutto a un racconto come Il Toro bianco), esponente di punta dell’Illuminismo europeo, e più in particolare alla preferenza riservata dal filosofo francese fra i formaggi al roquefort e proprio al parmigiano. Cibi, sapori, tipicità della Marca, resi in una tastiera espressiva molto efficace, e che hanno peraltro una diversa funzionalità in rapporto anche ai luoghi, alle città dove Leopardi si trovò a vivere, in una altalena evocativa molto interessante, con alti e bassi, in rapporto anche al suo umore. Insomma, ci sono città che funzionano meglio e altre meno. Per esempio, Firenze, rispetto a Bologna, è città decisamente meno funzionale nella mappa leopardiana dei cibi e dei sapori. In terra toscana c’è invece una città, Pisa, come scrive Leopardi in una lettera alla sorella Paolina, città assolutamente incantevole, a partire dal clima. Caratteristica che le deriva, non a caso, dal fatto di essere «un misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico, che non ho mai veduto altrettanto», città dove ancora è possibile una vita a misura d’uomo, e dove la cifra evocativa ha un ritmo molto intenso: «Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura così, sarà una beatitudine. Ho lasciato a Firenze il freddo di un grado sopra gelo; qui ho trovato tanto caldo, che ho dovuto gittare il ferraiolo e alleggerirmi di panni. L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze. Questo lung’Arno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora: non ho veduto niente di simile nè a Firenze nè a Milano nè a Roma; e veramente non so se in tutta l’Europa si trovino molte vedute di questa sorta» (Pisa, 12 novembre 1827) (lett. 555). In una lettera al fratello Pierfrancesco, nell’approssimarsi delle festività pasquali, Giacomo si raccomanda che «quelle povere uova toste» che verranno gustate per la festività religiosa a Recanati non vengano strapazzate troppo, in un momento in cui il suo regime alimentare si limita a una semplice zuppa, e non perde

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occasione per decantare quelle «schiacciate» che si mangiano a Pisa proprio in occasione della Pasqua. «Schiacciate» che vorrebbe tanto mandare per posta alla cara sorella Paolina, chiamata vezzosamente nelle lettere anche Pilla, «perchè è roba che ci entra il zucchero». Ma non può farlo, perché per gustare appieno il sapore di quelle incantevoli «schiacciate», sarebbe opportuno «mangiarle calde», cosa che la troppa distanza ovviamente non consente, a meno che, scrive in tono scherzoso, non si voglia spedire per posta anche il forno (Pisa, 31 marzo 1828) (lett. 590). Pisa è città così unica che quando Giacomo si sposta a Firenze torna quella fastidiosa «difficoltà della digestione», da cui dipende «in massima parte il ben essere e morale dell’uomo»: «La mia salute è passabile quanto al sostanziale, benchè in questi ultimi giorni i dolori e la difficoltà smaniosa del digerire mi travagliano molto» (Firenze, 9 ottobre 1828) (lett. 646); «La mia salute è sempre nel medesimo stato: difficoltà estrema di digerire, e impossibilità di applicare, che n’è la conseguenza» (Recanati, 30 novembre 1828) (lett. 657). Anche Roma non è una città molto generosa sotto questo particolare profilo. Se Pisa e Bologna sono città in cui la digestione non dà grossi problemi a Giacomo, Firenze e Roma sono città invece in cui il processo digestivo è più faticoso, difficile. A Roma, più ancora che a Firenze, è pressoché impossibile trovare un cibo che non faccia male a Giacomo: «Io sto bene, ma obbligato a grande e noioso riguardo; e trovo quest’aria contrarissima al mio fisico, e nemica mortale del digerire. Almeno, mentre a Firenze non v’era più cibo ch’io non digerissi senza fatica, qui non v’è cibo abbastanza sano che mi convenga, ed ogni menomissima libertà mi fa male» (Roma, 9 gennaio 1832) (lett. 791). In questa variegata geografia leopardiana delle città, Napoli, città non solo di nuovi incontri, ma anche di nuovi cibi, sapori, odori, rappresenta un caso a sé, un’eccezione. È la città in cui Giacomo, quasi in un’ultima e toccante illusione di vita, di felicità, si perde in una serie di eccessi di gola: gelati, sorbetti, pasticcini, mantecati, spumoni, cassate, cremolati. Golosità che restituisce Giacomo a una dimensione di vita persino più reale, rendendocelo, per certi versi, più umano, più simpatico. Una golosità peraltro molto colorata, come quell’intenso colore giallo della «ginestra», del «fiore del deserto», che quasi chiude, simbolicamente, l’esperienza poetica del Recanatese. In una carta dello Zibaldone, datata 28 maggio 1821, Leopardi, nel mettere a fuoco il meccanismo evocativo di quelle «antiche reminiscenze» a lui così tanto care, non a caso lega la sua «prima ricordanza» ad «alcune pere moscadelle» («E le più antiche reminiscenze sono in noi le più vive e durevoli. Ma elle cominciano giusto da quel punto dove il fanciullo ha già acquistato un linguaggio sufficiente, ovvero da quelle prime idee, che noi concepimmo

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unitamente ai loro segni, e che noi potemmo fissare colle parole. Come la prima mia ricordanza è di alcune pere moscadelle che io vedeva, e sentiva nominare al tempo stesso») (Zib., 1103). Pere che ritroveremo, più di una volta, nel romanzo italiano del Novecento. Si pensi a Memoriale di Paolo Volponi, in cui il protagonista Albino Saluggia ricorda le pere, provenienti dal Monferrato, regalategli da padre Caligaris, e a La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda, dove, nel gioco deformante della lingua, il nome Pirobutirro diventa «pere butirro». Parlare dell’importanza del cibo, dei sapori nel Novecento, è operazione pressoché impossibile, per i tanti percorsi culturali in cui il tema si è articolato. Riprendendo lo schema da cui siamo partiti, e cioè della maggiore incidenza del cibo nel romanzo (o generi affini) rispetto alla poesia, il Novecento, pur non riequilibrando il discorso, è un secolo comunque che guadagna qualche significativa posizione. Poeti anche di grande levatura letteraria hanno sentito il bisogno di orientarsi verso il mondo dei cibi, dei sapori, mondo visto come espressione di civiltà e non più come una forma di declassamento del discorso letterario. Tra i nomi che ci piace ricordare non può certo mancare quello di Giovanni Pascoli, laddove nel componimento La piada (Nuovi poemetti) parla della sorella Maria mentre prepara la piadina, tipicità della terra romagnola: «Ma tu, Maria, con le tue mani blande / domi la pasta e poi l’allarghi e spiani; / ed ecco è liscia come un foglio, e grande // come la luna; e sulle aperte mani / tu me l’arrechi, e me l’adagi molle / sul testo caldo, e quindi t’allontani. // Io, la giro, e le attizzo con le molle / il fuoco sotto, fin che stride invasa / dal calor mite, e si rigonfia in bolle: // e l’odore del pane empie la casa» (vv. 10-19). Ciò che più colpisce è l’intensa e quasi rituale materialità che scandisce quella preparazione, all’interno per di più di uno spazio domestico (spazio paradigmatico nella poesia pascoliana) dove si diffonde quell’«odore del pane», simbolo di un «convivio», di una socialità umana da cui siamo partiti. Dimensione simbolica, rituale, religiosa, quella evocata dal pane, cui non è sfuggito un autore assolutamente diverso, per cifra espressiva e culturale, da Pascoli come Gabriele D’Annunzio, il quale, nella Figlia di Jorio, testo teatrale che più direttamente si ricollega alle radici antropologiche della amata terra abruzzese, riprende questa dimensione religiosa del pane quando Vienda, nelle vesti quasi di officiante, si lascia cadere dal grembiule il pane spezzato e le sorelle di Aligi, Ornella e Favetta, si prodigano perché quel pane venga subito «raccattato», raccolto, custodito, per non disperderne l’alto valore religioso, simbolico. Un D’Annunzio arcaico, primitivo, religioso e pagano al tempo stesso, molto diverso da quel D’Annunzio lussureggiante, con forti tonalità decadenti, erotiche, esotiche che si vede, per esempio, in un romanzo come Il Piacere, dove la vita mondana di

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Andrea Sperelli è tutta scandita da quel «tè», bevanda «elegante», bevanda simbolo di quel mondo aristocratico. Su questa direttrice barocca, lussureggiante, con effetti sensuali, si muoverà un romanzo come Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dove tra i tanti indicatori alimentari ci piace ricordare il pranzo in casa Salina, il pranzo a Donnafugata, il buffet al ballo. In una ambientazione decisamente più borghese, di piccola e media borghesia, si gioca su questo tema una carta importante anche il torinese Guido Gozzano, nella descrizione della cucina della Signorina Felicita, cucina intrisa di odori «consolatori, di basilico d’aglio di cedrina»; odori naturali che ravvivano quel monotono e un po’ spento spazio domestico. La poesia ama portarsi verso luoghi sempre più umili, semplici, luoghi di una convivialità e socialità più naturale: bettole, osterie, proprio per intercettare un senso più vero della vita. Si pensi alla Lettera dall’osteria di Camillo Sbarbaro che si legge in Pianissimo (1914), come se il testimone, fatto di uno straordinario lascito di vita, di esperienza che l’osteria ha sempre rappresentato nel romanzo, fosse passato alla poesia. E qualche altro importante nome, sempre per quanto riguarda la poesia, si potrebbe fare (Palazzeschi, Gatto, Folgore, Montale, Guerra). Ma non v’è dubbio che il romanzo (e più in generale la produzione in prosa) rimanga il genere più fertile, più ricettivo rispetto a certe pur significative finestre aperte sul tema dalla poesia. Sul cibo gioca, nel primo Novecento, una carta strategicamente molto importante anche l’avanguardia. Si pensi, per esempio, all’atteggiamento, dichiaratamente dissacratorio e trasgressivo verso il cibo passatista, avuto da una avanguardia come il Futurismo, nel gettare le basi di una «rivoluzione cucinaria» che ha avuto un’onda lunga nel Novecento. Il progetto era di «uccidere le vecchie radicate abitudini del palato». Marinetti e Fillia fecero uscire nel 1932 un volume molto curioso, La cucina futurista (nel 1930 era uscito il Manifesto della cucina futurista), in cui venivano indicate le modalità in cui quella «rivoluzione cucinaria» avrebbe dovuto realizzarsi. Una idea di «rivoluzione cucinaria», con implicazioni linguistiche anche molto interessanti, laddove si ripuliva sostanzialmente la lingua di forestierismi, molto trasgressiva, giocata su vistosi effetti scenografici, in cui la dimensione visiva, tattile, olfattiva giocava un ruolo di primo piano. Questa sfarzosità scenografica, che ha qualcosa a volte di monumentale, ci ricorda il tratto scenograficamente molto vistoso di molti «conviti» cinquecenteschi, dove la presentazione delle vivande aveva qualcosa di teatrale. Tra le creazioni, provocazioni futuriste più curiose, c’è il «carneplastico», una sorta di polpetta cilindrica di carne, proposta da Fillia, il «pollofiat», pollo con dentro pallini per cuscinetti a sfere in modo che la carne prendesse il sapore dell’acciaio dolce. Una cucina comunque

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piena di sorprese, di effetti speciali, di effetti scenografici molto vistosi, laddove conta molto anche l’aspetto visivo del cibo. Anche nel Novecento, pur registrando un interesse sempre più crescente della poesia nei confronti del cibo, il romanzo (e più in generale la produzione in prosa) continua a essere un osservatorio culturale molto privilegiato. Non solo, ma si avverte anche la necessità di fissare linguisticamente quel sapere. Nel primo Novecento Alfredo Panzini è autore del Dizionario moderno, da leggersi quasi come un romanzo del gusto italiano. Interesse culinario che non si ferma al Dizionario moderno. Nei suoi romanzi, il Viaggio di un povero letterato e la Lanterna di Diogene, il cibo diventa pretesto anche per alcune aperture di tipo sensuale, erotico. Ma la presenza del cibo nel romanzo italiano del Novecento continua a essere come un fiume in piena; presenza che ci fa vedere, in sostanza, la crescita assolutamente esponenziale della cifra connotativa su quella descrittiva del segno culinario. Segno diventato, in qualche caso, un vero e proprio logo: l’«aringa» di Elio Vittorini in Conversazione in Sicilia, da cui si snoda la cifra memoriale, evocativa di Silvestro, gli «arancini», le «triglie» di Andrea Camilleri. Ma come si è detto, il romanzo e il racconto rimangono la zona più ricettiva. C’è poi il caso, davvero emblematico, di Italo Calvino in cui il segno culinario si risolve in una dimensione più metalinguistica, laddove il piano connotativo sembra quasi nascondere, azzerare il piano descrittivo da cui quel segno necessariamente si snoda. Famose rimangono alcune felici incursioni culturali di Calvino nel segno culinario in Palomar, dove la ghiottoneria di Palomar è tutta di carattere mentale, estetico, simbolico, persino erotico. In particolare, in Palomar, c’è un capitolo (Palomar fa la spesa) in cui questa sensibilità emerge più chiaramente. Capitolo che ha tre sotto percorsi. Il primo (Un chilo e mezzo di grasso d’oca) sulla declinazione erotica del cibo: «Aspettando in fila, il signor Palomar contempla i flaconi. Cerca di trovare un posto nei suoi ricordi per il cassoulet, pingue stufato di carni e di fagioli, di cui il grasso d’oca è ingrediente essenziale; ma né la memoria del palato né quella culturale gli sono d’aiuto. Eppure il nome, la visione, l’idea lo attraggono, risvegliano un’istantanea fantasticheria non tanto della gola quanto dell’eros: da una montagna di grasso d’oca affiora una figura femminile, si spalma di bianco la pelle rosa, e già lui immagina se stesso facendosi largo verso di lei tra quelle dense valanghe e abbracciarla e affondare con lei»27). Il secondo (Il marmo e il sangue) sulla differenza tra «sapienza sacrificale» e ««sapienza macellatrice e quella culinaria»: «Le riflessioni che il negozio del macellaio ispira a chi vi entra con la borsa della spesa coinvolgono cognizioni tramandate per secoli in varie branche del sapere: la competenza delle carni e dei tagli, il miglior modo di cuocere ogni pezzo, i riti che 27

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I. Calvino, Palomar, Torino, Einaudi, 1983, pp. 69-70.

permettono di placare il rimorso per l’uccisione d’altre vite al fine di nutrire la propria. La sapienza macellatrice e quella culinaria appartengono alle scienze esatte, verificabili in base a esperimenti, tenendo conto dei costumi e delle tecniche che variano da paese a paese; la sapienza sacrificale invece è dominata dall’incertezza, e per di più caduta in oblio da secoli, ma pesa sulle coscienze oscuramente, come esigenza inespressa»28. Ma è all’interno del terzo percorso (Il museo di formaggi) che la sensibilità metalinguistica, tassonomica, di Calvino meglio si disegna quando descrive ciò che prova davanti a una «formaggeria», letta come una vera e propria «enciclopedia»: «La formaggeria si presenta a Palomar come un’enciclopedia a un autodidatta; potrebbe memorizzare tutti i nomi, tentare una classificazione a seconda delle forme - a saponetta, a cilindro, a cupola, a palla -, a seconda della consistenza – secco, burroso, cremoso, venoso, compatto -, a seconda dei materiali estranei coinvolti nella crosta o nella pasta – uva passa, pepe, noci, sesamo, erbe, muffe -, ma questo non l’avvicinerebbe d’un passo alla vera conoscenza, che sta nell’esperienza dei sapori, fatta di memoria e d’immaginazione insieme, e in base ad essa soltanto potrebbe stabilire una scala di gusti e preferenze e curiosità ed esclusioni». E dove ogni formaggio è, in sostanza, un viaggio, un discorso di civiltà, bene così prezioso, assoluto da custodire quasi in un museo, essendoci dietro a ogni formaggio una straordinaria storia di lavoro umano, di manualità, di sensibilità, di amore, di «esperienza dei sapori» cui non si può rinunciare, per non perdere quel tratto naturale di cui sentiamo sempre più il bisogno: «Dietro ogni formaggio c’è un pascolo d’un diverso verde sotto un diverso cielo: prati incrostati di sale che le maree di Normandia depositano ogni sera; prati profumati d’aromi al sole ventoso di Provenza; ci sono diversi armenti con le loro stabulazioni e transumanze; ci sono segreti di lavorazione tramandati nei secoli. Questo negozio è un museo: il signor Palomar visitandolo sente, come al Louvre, dietro ogni oggetto esposto la presenza della civiltà che gli ha dato forma e che da esso prende forma»29. Altre significative immagini culinarie, frammenti, tasselli di un sapere, di un disegno di civiltà che la scrittura sente il bisogno di fagocitare, affiorano anche in Se una notte d’inverno un viaggiatore, dove quelle immagini culinarie risultano determinanti nella destrutturazione del codice narrativo per quella assoluta esigenza metalinguistica (la narrazione verte ora sulla esperienza del Lettore e della Lettrice) che ispira un libro così particolare, sempre più rarefatto, impalpabile nell’impianto narrativo. All’inizio del capitolo Fuori dell’abitato di Malbork si fa riferimento a un forte, fastidioso «odore di fritto» che uno ha l’impressione quasi di respirare («Un odore di fritto aleggia ad apertura di pagina, anzi soffritto, soffritto di cipolla»). Una 28 Ivi,

p. 77.

29 Ivi,

p. 75. 63


percezione multisensoriale che ci ricorda, con le dovute cautele, l’esperienza futurista. E poi ancora odori, vivande, utensili, luoghi dove il segno culinario di Calvino meglio si determina, sempre nella direzione decostruttiva del sistema narrativo. Un segno culinario che in alcuni capitoli ha risvolti dichiaratamente erotici: Sul tappeto di foglie illuminato dalla luna e Intorno a una fossa vuota. C’è poi in Calvino un testo dove quel segno culinario più scopertamente declina, se riportato alla sua originaria traiettoria culturale, verso una dimensione multisensoriale, multiculturale, e dove la cerniera Sapore Sapere, cerniera assoluta di civiltà, ha una sua indiscutibile iconicità. Si tratta del testo Sapore Sapere, pubblicato inizialmente da Calvino sulla raffinata rivista «FMR» nel 1982. Testo di commento alle straordinarie immagini tratte dal Codice Fiorentino della Biblioteca Laurenziana contenente la Historia General de las cosas de Nueva España di fra Bernardino da Sahagún, trattato relativo agli usi e ai costumi degli Aztechi scritto in lingua nahuatl nel Cinquecento. Testo ripubblicato in volume col titolo Sotto il sole giaguaro, titolo che però nasconde lo straordinario e ben più pregnante titolo Sapore Sapere, che non è solo un sottile gioco di parole, quale quello evocato dal cambio di vocale e dall’assonanza, ma soprattutto una significativa direttrice culturale, che viaggia in direzione di quel disegno di civiltà che l’originario titolo meglio indicava30. Non si dimentichi che il progetto di Calvino avrebbe dovuto intitolarsi I cinque sensi (ci rimangono i tre racconti sull’olfatto, sul gusto, sull’udito, mancano quelli sul tatto e sulla vista). In Sotto il sole giaguaro i protagonisti sono una coppia di turisti italiani in Messico, terra in cui il legame, simbolicamente molto intenso, fra antropologia e cibo, è davvero molto stretto. Un viaggio, quello raccontato in Sotto il sole giaguaro, che si configura come una vera e propria «esplorazione gustativa». Perché la conoscenza di un paese, di una cultura altra, diversa, passa necessariamente per il cibo, per le valenze simboliche che esso evoca, implicando, il viaggio, «un cambiamento totale dell’alimentazione», e conseguentemente anche del processo digestivo, come se quel paese venisse letteralmente mangiato, inghiottito dal visitatore: «il vero viaggio, in quanto introiezione d’un “fuori” diverso dal nostro abituale, implica un cambiamento totale dell’alimentazione, un inghiottire il paese visitato, nella sua fauna e flora e nella sua cultura (non solo le diverse pratiche della cucina e del condimento ma l’uso dei diversi strumenti con cui si schiaccia la farina o si rimesta il paiolo), 30 Tra l’altro, come epigrafe al racconto Sotto il sole giaguaro (quello che dà il titolo al volume) viene riportato un interessante passaggio di Niccolò Tommaseo, tratto dal Dizionario dei sinonimi, relativo alla differenza che c’è tra il verbo «sapere» e il verbo «gustare»: «Gustare, in genere, esercitare il senso del gusto, riceverne l’impressione, anco senza deliberato volere, o senza riflessione poi. L’assaggio si fa più determinante a fin di gustare e di sapere quel che si gusta; o almeno denota che dell’impressione provata abbiamo un sentimento riflesso, un’idea, un principio d’esperienza. Quindi è che sapio, ai Latini, valeva in traslato sentir rettamente; e quindi il senso dell’italiano sapere, che da sé vale dottrina retta, e il prevalere della sapienza sopra la scienza».

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facendolo passare per le labbra e l’esofago. Questo è il solo modo di viaggiare che abbia un senso oggigiorno, quando tutto ciò che è visibile lo puoi vedere anche alla televisione senza muoverti dalla tua poltrona. (E non si obietti che lo stesso risultato si ha a frequentare i ristoranti esotici delle nostre metropoli: essi falsano talmente la realtà della cucina cui pretendono di richiamarsi che, dal punto di vista dell’esperienza conoscitiva che se ne può trarre, equivalgono non a un documentario ma a una ricostruzione ambientale filmata in uno studio cinematografico)»31. Cibo, dunque, come espressione di civiltà, in un intreccio, davvero affascinante e originalissimo, di antropologia, pensiero, erotismo. Sapori Saperi della letteratura, valore così inestimabile e prezioso della civiltà naturale assolutamente da salvare, preservare. Un po’ come «L’orto dei frutti dimenticati» realizzato dal poeta romagnolo dialettale Tonino Guerra nel 1990 nel paesino di Pennabilli, con tanti alberi da frutto raccolti dalla flora spontanea delle campagne appenniniche, bacche, frutti di bosco, mele, pere in via di estinzione, dimenticati dalla agricoltura moderna e che invece Guerra, con grande intuito poetico, volle far rivivere nel loro antico respiro, valore, dono appunto naturale come segno polivalente di tanti Sapori Saperi. Marcello Verdenelli

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I. Calvino, Sotto il sole giaguaro, Milano, Garzanti, 1986, pp. 38-39..

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L’alimentazione nella Preistoria

Cibo, cucina e suppellettili tra preistoria ed età romana Nicoletta Frapiccini

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Sin dai tempi più remoti la primaria esigenza di alimentarsi ha spinto l’uomo a sviluppare comportamenti sociali e abilità specifiche, a realizzare utensili funzionali a procacciarsi il cibo e oggetti utili a consumarlo e conservarlo. Con ogni probabilità fu proprio al passaggio da una dieta vegetariana a un’alimentazione onnivora e, soprattutto, carnivora, che si dovette l’evoluzione degli ominidi verso il genere Homo. L’apporto proteico della carne dovette favorevolmente influire sull’evoluzione fisica dell’uomo, mentre l’ingegnosità necessaria all’attività della caccia e l’esigenza di realizzare strumenti adeguati ne affinò la vivacità intellettuale. Sin dal Paleolitico inferiore, durante il periodo glaciale, l’homo habilis e l’homo erectus avevano introdotto la carne nella propria dieta e, nelle Marche, tale abitudine è documentata da un giacimento rinvenuto presso il torrente Menocchia, a Boccabianca di Cupra Marittima (AP). Qui il ritrovamento di resti di grandi mammiferi, forse residui di pasti, documenta che si praticava la caccia al cervo, all’uro (bovide selvatico), al cavallo selvatico e all’elefante, accanto al consumo di molluschi di terra e d’acqua dolce. Le trasformazioni climatiche del Neolitico, con il ritiro dei ghiacciai e il sopraggiungere di temperature più miti, provocò una vera “rivoluzione”, che ebbe inizio in Oriente nel X millennio, per affermarsi successivamente in Europa, con l’inizio delle coltivazioni di cereali e l’allevamento di suini, ovicaprini e, successivamente, anche bovini, insieme ad alcuni volatili quali pollame e anatidi. L’insediamento di Maddalena di Muccia (MC) (VII-V millennio a.C.) attesta l’utilizzo di inediti strumenti litici adatti alle nuove esigenze, come falcetti e asce in pietra levigata, usate per il disboscamento, e ami in osso, accanto ai manufatti legati alla consuetudine della caccia, che continuava a essere praticata. Nel corso dell’Eneolitico, l’insediamento di Conelle di Arcevia (AN) offre una testimonianza eloquente dello sviluppo dell’agricoltura tra IV e III millennio a.C., con il rinvenimento di numerosi strumenti agricoli in corno di cervo, mentre la raffinatezza del vasellame si esprime nel gusto ricercato di taluni recipienti, come la brocca a becco obliquo con decorazione a bande puntinate. Gli attrezzi da lavoro per la coltivazione di cereali e legumi in corno di cervo, come vanghe, zappette e, forse, vomere e bidente, si affiancano a strumenti in metallo nel corso dell’Età del Bronzo nell’insediamento di Moscosi di Cingoli (MC), dove i resti faunistici registrano la presenza di animali da allevamento accanto al cinghiale, la lepre, il gatto selvatico, il tasso, la volpe, il lupo, il capriolo, il cervo, l’orso e il cane, a conferma che l’attività della caccia continuava ad avere una notevole rilevanza. Tra l’Età del Bronzo finale e l’inizio dell’Età del Ferro, tra X e IX sec. a.C., i rinvenimenti dall’abitato del Colle dei Cappuccini di Ancona, come ad esempio le macine in pietra, gli strumenti da lavoro, i contenitori dei cibi e i “taralli” per la cottura degli stessi, documentano una comunità dedita tanto ai lavori agricoli e alla coltivazione, quanto

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alle attività marinare, rivelate dal consumo di molluschi, ma anche dalla presenza di ceramiche di importazione balcanica e trans-adriatica. I Piceni, tra tradizioni italiche e usi orientali Quando, dalla fine dell’VIII sec. a.C., le comunità umbre e picene presenti nel territorio delle Marche furono investite dall’influenza delle civiltà del vicino Oriente, dando vita al fenomeno culturale noto come “Orientalizzante”, si estese all’occidente anche la consuetudine del banchetto e del simposio. L’espansione mercantile sirofenicia diffuse in occidente nuovi manufatti, tecnologicamente innovativi e dalle fogge originali, considerati beni di lusso, che trovarono nelle élite locali acquirenti fortemente interessati a esibire il proprio prestigio e il rango acquisito, grazie alle ricchezze accumulate verosimilmente dal controllo delle vie di transito, oltre che dalle attività agricole. Le descrizioni dei poemi omerici restituiscono con vivide e quasi palpabili immagini il rituale previsto dal banchetto, come nel passo dell’Iliade (IX, 162 ss.), in cui si descrive il banchetto offerto da Achille ai messi di Agamennone, Ulisse Fenice e Aiace: “ […] nella luce del fuoco spinse una tavola grande, vi pose sopra una spalla di pecora, una di capra grassa, una schiena di porco bavoso, fiorente di grasso;Automedonte teneva fermo, Achille glorioso tagliava, e le fece a pezzi, con arte, poi l’infilò negli spiedi, cosparse il sale divino, alzandoli su dai sostegni. Quando ebbe arrostito, passato nei piatti la carne, Patroclo prese il pane, lo distribuì sulla tavola nei bei canestri; Achille distribuì la carne; e poi sedette davanti al divino Odisseo contro l’opposta parete, ma diede ordine al compagno suo, Patroclo, di fare l’offerta ai numi; quello gettò le offerte nel fuoco. Allora misero le mani sui cibi pronti e serviti […].” Nei contesti aristocratici umbri e piceni, dominati dalla figura del princeps guerriero, tra i simboli del prestigio raggiunto, un ruolo predominante spettava all’apparato del simposio e del banchetto, legato anche all’introduzione, in questo periodo, del consumo dell’uva domestica e dell’olivo. Questa nuova ideologia del banchetto, destinata a permanere anche nella successiva età arcaica e classica, trovò un eloquente riflesso nel rituale funerario e nei corredi, che esibiscono, quali inedite insegne di rango, straordinari contenitori di cibi e bevande accanto a offerte votive di alimenti. Clamoroso esempio di tale ideologia sono le ricchissime sepolture di Matelica (MC), in cui i principes ostentano le insegne del proprio status e del potere, come scettri e armi, affiancandole a eccezionali corredi da mensa e offerte di grappoli d’uva (di cui restano i vinaccioli), latte e persino un maialino. Unico è il sontuoso recipiente dalla tomba 1 di Passo Gabella, un holmos (sostegno di vaso) con olla ed elementi mobili, costituiti da oltre quaranta kyathoi (attingitoi) d’impasto rosso e bruno, pochi kantharoi (coppe a due anse) appesi al vaso, due scodelle ed elementi plastici ad anatide, deposti nella sepoltura 68

di una dama di alto rango, a conferma del coinvolgimento della donna nel rituale del banchetto-simposio. Questa eccezionale deposizione principesca comprendeva inoltre un raffinato corredo di vasi in ceramica e bronzo, accanto al quale era stato deposto tutto lo strumentario per la macellazione e la cottura delle carni: coltello, alari, spiedi, creagra. Oltre ad essi erano i resti di offerte funebri di carni, con arti di maiale e pecora, testimonianza eloquente di come le donne, a differenza di quanto accadeva nel modo greco, fossero ammesse al rituale della cottura delle carni e al banchetto, come pure erano coinvolte nella gestione del rituale del vino. In questo caso, d’altra parte, la prevalenza di vasi per attingere, piuttosto che di vasi per bere, “potrebbe enfatizzare un ruolo di “amministratrice” più che di consumatrice della bevanda” (A. Cohen, 2008). In età arcaica e classica, tra VI e V sec. a.C., l’ideologia del banchetto venne ulteriormente arricchita dai fitti rapporti derivanti dai commerci intessuti dal Piceno con il mondo greco e, in particolare, con l’Attica e con la Magna Grecia. Ancora una volta tale ideologia è testimoniata dal rituale funerario e in particolare dalle straordinarie, prestigiose sepolture di Numana-Sirolo (AN), dove è ormai evidente come, nelle deposizioni maschili, gli aspetti militari avessero un ruolo assolutamente marginale, mentre prevaleva decisamente l’apparato da banchetto e simposio. Con enfasi assoluta queste tombe sfoggiano corredi sontuosi, caratterizzati dalla presenza di vasi attici talora monumentali e magistralmente dipinti a figure rosse da famosi atelier, grandi crateri utilizzati per mescolare l’acqua al vino, ma anche alle spezie, come indizia la presenza della grattugia. Il vino infatti veniva miscelato e aromatizzato, per migliorarne il sapore e per conservarlo più a lungo. Per filtrare poi la bevanda occorreva un colino, anch’esso spesso presente nel corredo, indispensabile per il travaso dal cratere all’oinochoe (brocca) e alla coppa. Scene di simposio e di banchetto sono spesso raffigurate sugli stessi vasi deposti nelle sepolture, come sul cratere attico a figure rosse da Sirolo (AN) (470-460 a.C. circa). Sui due lati del recipiente, attribuito alla bottega del Pittore di Leningrado, sono illustrate due scene di simposio, che ci mostrano le modalità con cui si stava a tavola: su un lato sono presenti due giovani sdraiati sulla kline, davanti alla trapeza (tavolo), uno dei quali porge all’altro una kotyle (coppa); sul lato opposto un uomo maturo, barbato, al centro della scena conversa con un giovane, mentre alle sue spalle un auleta suona il suo strumento. I Senoni a banchetto A partire dal IV sec. a.C. una considerevole migrazione di tribù celtiche, che dal nord si spinsero verso l’Europa meridionale e l’Asia anteriore, giunsero anche nell’Italia centro-settentrionale, arrivando a lambire le Marche. Fu la tribù dei Senoni a stanziarsi nella nostra regione, a gruppi di numero limitato, prevalentemente 69


maschili, che si inserirono in un contesto umbro-piceno dove erano in corso profondi mutamenti. L’ultima fase della civiltà picena, tra IV e III sec. a.C., vide infatti il progressivo affermarsi di una compagine etnica e culturale assai variegata e complessa determinata, oltre che dall’arrivo del Celti, dalla contestuale presenza dei Siracusani ad Ancona e, verso la fine del IV sec. a.C., dal crescente imporsi dell’ingerenza romana. Pur assimilati a questa articolata koinè ellenistica medio-adriatica, i celti non persero alcune loro abitudini, come attestano i peculiari corredi funerari, talora assai cospicui, rinvenuti nella regione. Nei corredi maschili spiccano sicuramente le armi, mentre in quelle femminili i sontuosi gioielli sono sicuri indicatori di una ricchezza straordinaria e di un raffinato gusto dell’èlite senone. Accanto a tali status symbol sono però presenti, anche nelle tombe celtiche, ricchissimi apparati da banchetto e simposio, talora con un impressionante numero di attrezzi, che vanno dagli alari, gli spiedi, i calderoni, le teglie - utilizzati per banchetti a base essenzialmente di carni- ai colini, gli attingitoi, le brocche, le situle in bronzo, come pure gli originali barilotti in legno e bronzo per contenere il vino che, presso queste popolazioni stanziate in Italia, aveva assunto un’importanza fino ad allora inedita. Tale bevanda aveva infatti sostituito la birra e l’idromele della tradizione celtica, e con il vino erano entrati a far parte del corredo anche alcuni recipienti squisitamente tipici del simposio mediterraneo, benché in taluni contesti transalpini l’assenza di vasi per bere forse deponga a favore di una modalità di assunzione del vino dai connotati “barbarici”. Non altrettanto può dirsi dei Senoni, che assimilarono completamente le usanze mediterranee esibendo raffinati corredi da simposio, anche in argento, e mostrando di aver ormai pienamente recepito la tradizione ellenica, mutuata dalle usanze italiche. Imbandire la tavola in età romana: lusso, leccornie e curiosità Passato ormai sotto il controllo di Roma, dal III sec. a.C., il Piceno acquisì nuove abitudini nel tipo e nel consumo dei cibi. In età romana la giornata era scandita anche dai pasti, a cominciare dalla colazione (jentaculum), che si faceva all’alba, e consisteva in pane, miele, formaggio, uova, latte e acqua, ma anche biscotti o avanzi della cena. Poi, nella tarda mattinata, si consumava un pasto veloce, il pransus o prandium, a casa oppure nelle tabernae, durante il quale si consumavano verdure, uova, pesce e funghi, carni fredde. Il pasto principale era la coena, che si faceva a casa, per i più abbienti distesi nel triclinio, ad assaporare un gustoso antipasto (gustatio) di uova, verdure o anche ostriche, seguito dalle primae mensae, ossia pesce, carne e verdure assai elaborati, poi dalle secundae mensae, che comprendevano dolci e frutta, secca e fresca. Il tutto era ovviamente accompagnato dal vino, servito mescolato all’acqua o al miele (mulsum); prima di coricarsi, infine, ci si poteva concedere un

ulteriore spuntino, chiamato vesperna. L’unica raccolta di ricette che sia giunta fino a noi è il famoso testo del gastronomo Marco Gavio Apicio, il De re coquinaria, diviso in due parti, una dedicata alle pietanze e la seconda riservata alle salse. Nel trattato è presente anche una ricetta piuttosto insolita (VIII, 9), in cui si spiega la preparazione di quella che era considerata una vera leccornia: ghiri serviti con salse raffinate a base di pesce e spezie (pepe, pinoli e laserpicium ossia il silfio, una pianta oggi estinta), e ripieni di carne di maiale e interiora di ghiri: “Riempi i ghiri con salsicce di maiale e con altre parti dello stesso ghiro tritate; con pepe, pinoli, laser e salsa. Cucili e mettili in forno in una casseruola o cuocili in un tegame”. Anche Petronio nel Satyricon (XXXI, 10), descrive uno dei piatti forti della cena di Trimalcione: “[…] e vi avevano saldato dei ponticelli, che sostenevano ghiri cosparsi di miele e di papavero”. Questi “deliziosi” roditori, che somigliano a piccoli scoiattoli, venivano allevati entro degli appositi contenitori, i glirari, come conferma un’antica descrizione: “Ti porterò qualche quaglia che potrai servire a Marco, contornata da uova di Smirne, ed anche sei dozzine di ghiri (i miei glirari ne sono pieni), deliziosi conditi con miele”. Il glirario, come documenta l’esemplare da Helvia Ricina (Villa Potenza di Macerata), era un grande vaso di terracotta, originariamente chiuso da un coperchio, con una serie di fori aperti lungo le pareti per l’areazione. All’interno, una serie di costolature sporgenti a spirale, consentivano ai ghiri in cattività un po’ di movimento (analogamente alle ruote nelle gabbie dei criceti), mentre ingrassavano e, probabilmente, si riproducevano. Le pietanze a base di questo roditore erano considerate talmente prelibate ed erano così dispendiose, che una legge suntuaria del 115 a.C. ne sanzionò il consumo, ribadita in seguito anche nel 78 a.C., entrambe quasi certamente infrante assai spesso. Del resto che le tavole dell’èlite in età romana fossero imbandite con cibi e oggetti di straordinario pregio, è noto sia dalle fonti letterarie sia dai rinvenimenti archeologici, che documentano come l’ostentazione della ricchezza fosse affidata ai preziosi ornamenti e alle suppellettili lussuose che arredavano le dimore e che ne arricchivano anche le tavole. Ne sono una testimonianza tangibile gli oggetti deposti nei più pregevoli corredi funerari delle tombe rinvenute ad Ancona, risalenti al II – I sec. a.C. In queste sepolture, accanto ai preziosi gioielli, alle sontuose corone funerarie in oro o bronzo dorato e agli oggetti destinati alla cura del corpo, spesso in argento, compaiono anche servizi potori d’argento, costituiti da raffinato vasellame (come brocchette, coppe, piattini), e in vetro. Questi ultimi recipienti, realizzati a stampo nelle fogge più eleganti, o impreziositi da lavorazioni in vetro policromo a bande, anche con inserti in oro, erano manufatti di importazione, di provenienza medio orientale, mentre dai commerci mediterranei giungevano ad Ancona i vasi in faïence di produzione probabilmente alessandrina, testimonianza del vasto circuito mercantile in cui la città era inserita. Nicoletta Frapiccini

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opere

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Frammento di rilievo Da Ancona Marmo, etĂ romana Museo Archeologico Nazionale della Marche, Ancona

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Holmos e olla con vasi ed elementi decorativi mobili Da Matelica (MC), loc. Passo Gabella, tomba 1 Impasto; decorazione a lamelle metalliche Ultimo quarto del VII sec. a.C. Museo Archeologico Nazionale delle Marche - Ancona

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Coppia di alari Da Matelica (MC), loc. Passo Gabella, tomba 1 Ferro, Ultimo quarto VII sec. a.C. Museo Archeologico Nazionale delle Marche - Ancona

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1

1

2 3

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1. Creagra Da Sirolo (AN) Area Quagliotti, tomba 64 Bronzo, fine V sec. a.C.

2. Fascio di spiedi Provenienza sconosciuta Ferro, III sec. a.C

3. Coltello Da Numana (AN), sporadico Ferro, VI-V sec. a.C.

Museo Archeologico Nazionale della Marche, Ancona

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4. Coltello Da Filottrano (AN) loc. Santa Paolina, tomba 2 Ferro, IV-III sec. a.C.

1. Colino

2. Grattugia

Da Serra San Quirico (AN), loc. Trivio, tomba 2 Bronzo, V sec. a.C.

Da Sirolo (AN), area Quagliotti, tomba 69 Bronzo, V sec. a.C.

Museo Archeologico Nazionale della Marche, Ancona

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Cratere a colonnette attico a figure rosse Barilotto Da Filottrano (AN), Loc., Santa Paolina Bronzo e legno (ricostruito), IV sec. a.C. Museo Archeologico Nazionale della Marche, Ancona

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Da Sirolo (AN) Ceramica, 470-460 a.C. circa Museo Archeologico Nazionale della Marche, Ancona

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Coppa

Skyphos

Da Ancona, tomba XXXII Vetro a bande d’oro, II-I sec. a.C. Museo Archeologico Nazionale della Marche, Ancona

Da Ancona, tomba LI Argento, etĂ ellenistica. Museo Archeologico Nazionale della Marche, Ancona

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1

4

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1. Skyphos Da Ancona, tomba LI Argento, età ellenistica.

4. Coppa Da Ancona, tomba XXXII Vetro a bande d’orate, II-I sec. a.C.

2. Hydria Da Ancona, tomba LI Argento, età ellenistica

5. Coppetta Da Ancona, tomba XXXIV Iscrizione: Zopion Argento, età ellenistica

3. Coppetta Da Ancona, tomba XXXIV Argento, età ellenistica

6. Vaso Da Ancona, tomba XXVII Argento, età ellenistica

Glirarium Da Macerata, loc. Villa Potenza Terracotta, Età romana Museo Archeologico Nazionale della Marche, Ancona

Museo Archeologico Nazionale della Marche, Ancona

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Virgiliotto Calamelli Saliera

Enea Utili Crespina con frutta e verdura applicata

maiolica seconda metĂ sec. XVI, Faenza Collezione Matricardi, Ascoli Piceno

maiolica seconda metĂ sec. XVI, Faenza Collezione Matricardi, Ascoli Piceno

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Manifattura casetelli d’Abruzzo Crespina con uccello e fiori maiolica fine sec VI, inizio sec. VII, Faenza Collezione Matricardi, Ascoli Piceno Manifattura faentina Brocca a casco e bacile ad acquareccia maiolica seconda metà sec. XVI, Faenza Collezione Matricardi, Ascoli Piceno

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Manifattura Castelli d’Abruzzo Piatto in turchina lumeggiato oro

Manifattura Castelli d’Abruzzo Versatoio a casco, stile compendiario

servizio cardinale Farnese maiolica seconda metà sec. XVI Collezione Matricardi, Ascoli Piceno

maiolica fine sec. XVI Collezione Matricardi, Ascoli Piceno

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Manifattura Castelli d’Abruzzo Saliera a navicella con stemma gentilizio, stile compendiario

Manifattura Castelli d’Abruzzo Fruttiera con stemma gentilizio, stile compendiario

maiolica fine sec. XVI inizio sec. XVII Collezione Matricardi, Ascoli Piceno

maiolica inizio sec. XVII Collezione Matricardi, Ascoli Piceno

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Giovanni Domenico Valentino Natura morta con vasellame, 1706-10

Giovanni Domenico Valentino Utensili da cucina, 1706-10

olio su tela cm. 38x42 Pinacoteca civica, Ascoli Piceno

olio su tela cm. 38x42 Pinacoteca civica, Ascoli Piceno

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Cristoforo Munari Natura morta con strumenti musicali, 1706-10 olio su tela cm. 80x105 Pinacoteca civica, Ascoli Piceno

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Cristoforo Munari Natura morta, vasellame e commestibili, 1706-10

Carlo Magini Natura morta con cipolle, cavolfiore, formaggio e tazza

olio su tela cm. 80x105 Pinacoteca civica, Ascoli Piceno

sec. XVIII olio su tela cm. 68x85 Fondazione Cassa di Risparmio di Fano

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Carlo Magini Natura morta con tavola imbandita

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sec. XVIII olio su tela cm. 61x78 Fondazione Cassa di Risparmio di Fano

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Nicola Levoli Natura morta con terraglie

Carlo Magini Natura morta con piatto di uova

seconda metĂ sec. XVIII olio su tela 48x64 Collezione Intesa San Paolo, Pesaro

sec. XVIII olio su tela cm.76x58 Fondazione Cassa di Risparmio di Fano

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Gesualdo Fuina Piattino e tazzina, decoro a terzo fuoco

Gesualdo Fuina Caffettiera, decoro a terzo fuoco

maiolica fine sec. XVIII Collezione Matricardi, Ascoli Piceno

maiolica fine sec. XVIII Collezione Matricardi, Ascoli Piceno

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Manifattura Castelli d’Abruzzo Saliera a quattro vasche su piatto con elementi plastici

Gesualdo Fuina Zuppiera con coperchio e pomi di presa, decoro a terzo fuoco

maiolica inizio sec. XVIII Collezione Matricardi, Ascoli Piceno

maiolica fine sec. XVIII Collezione Matricardi, Ascoli Piceno

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Felice Carena Natura morta, 1919

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olio su tela cm. 50x62 Studio d’Arte Nicoletta Colombo, Milano

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Osvaldo Licini

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Natura morta, 1926, olio su tela cm 44,5x60,8 Collezione privata, Fermo

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Giancarlo Polidori, I frutti della terra, 1927 Ă˜

Gregorio Sciltian (Grigorij Ivanovic Siltjan) Natura morta con frutta, 1930 ca.

ceramica policroma, cm. 61 Collezione privata, Fermo

olio su tavola cm. 40x50 Collezione privata, Civitanova Marche

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Filippo De Pisis Natura morta con carta da lettere, 1929

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olio su tela cm. 85x135 Galleria d’Arte Moderna Osvaldo Licini Ascoli Piceno

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Galileo Chini, Natura morta, 1931

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olio su tavola cm. 54x68,7 Fondazione Cavallini-Sgarbi, Ferrara

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Enrico Paulucci Natura morta, 1931

Arturo Tosi Natura morta con frutti e brocca sul tavolo, 1939

acquarello su carta mm.410x330 Collezione privata, Torino

olio su tela cm. 50x60 Studio d’Arte Nicoletta Colombo, Milano

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Raffaele De Grada Aringhe sul tovaiolo, 1940 olio su tela cm. 33x51 Studio d’Arte Nicoletta Colombo, Milano

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Achille Funi Natura morta con cesto di pane e uova, 1940

Tullio Crali Volumi vegetali,1948

olio su tela cm. 37x47 Studio d’Arte Nicoletta Colombo, Milano

olio su cartone cm. 46x60 Collezione privata, Macerata

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Edita Broglio (Edita Walterovna zur Muehlen) Finocchi, 1947

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olio su tavola cm. 23,5x30,3 Fondazione Cavallini-Sgarbi, Ferrara

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Giorgio De Chirico Vita silente, 1952

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olio su tela cm. 40x50 Studio d’Arte Nicoletta Colombo, Milano

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Felice Casorati Uova sul tappeto, 1958

Mario Tozzi Natura morta, sec. XX

tempera su cartone mm. 550x505 Collezione privata, Torino

olio su tela cm. 53x51 Collezione privata, Pescara

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Sante Monachesi Natura morta, sec. XX

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olio su tela cm. 48x63 Collezione privata, Pescara

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Wladimiro Tulli, Nel salotto della zia, il the, 1965

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olio su tela cm. 80x100 Archivio Tulli, Macerata

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Arnoldo Ciarrocchi Natura morta con cipolla, 1967 ca.

Carlo Mattioli Il cestino di Caravaggio, 1967

olio su tela cm. 24x30 Collezione privata, Fermo

olio su tela cm. 51x40 Collezione privata, Torino

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Mario Calandri Natura morta, funghi, 1973 ca.

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acquarello su carta mm. 380x500 Collezione privata, Torino

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Piero Gilardi Pesche cadute, 1967

Aldo Mondino Bic, 1999 ca.

scultura poliuretano espanso cm. 70x90 Fondazione Centro Studi Piero Gilardi, Torino

tecnica mista su tavola cm. 40x50 Collezione privata, Torino

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Piero Gilardi Pesche cadute, 1967

Aldo Mondino Bic, 1999 ca.

scultura poliuretano espanso cm. 70x90 Fondazione Centro Studi Piero Gilardi, Torino

tecnica mista su tavola cm. 40x50 Collezione privata, Torino

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Piero Gilardi Pesche cadute, 1967

Aldo Mondino Bic, 1999 ca.

scultura poliuretano espanso cm. 70x90 Fondazione Centro Studi Piero Gilardi, Torino

tecnica mista su tavola cm. 40x50 Collezione privata, Torino

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Piero Gilardi Pesche cadute, 1967

Aldo Mondino Bic, 1999 ca.

scultura poliuretano espanso cm. 70x90 Fondazione Centro Studi Piero Gilardi, Torino

tecnica mista su tavola cm. 40x50 Collezione privata, Torino

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Piero Gilardi Pesche cadute, 1967

Aldo Mondino Bic, 1999 ca.

scultura poliuretano espanso cm. 70x90 Fondazione Centro Studi Piero Gilardi, Torino

tecnica mista su tavola cm. 40x50 Collezione privata, Torino

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biografie

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Edita Broglio (Edita Valterovna Zur-Muehlen, Smiltene, Lettonia,1886 - Roma, 1977) Studia all’Accademia di Belle Arti di Könisberg fino al 1910. Dal 1910 è a Parigi dove frequenta gli ateliers degli artisti. Nel 1911 viene per la prima volta in Italia e nel 1912 si stabilisce definitivamente a Roma. Comincia quello che lei stessa definisce il suo periodo “incandescente” e “visionario”. A Roma entra in contatto con Olga Resnevic Signorelli che la introduce nel suo salotto internazionale. Nel 1913 Edita esordisce con alcune opere ispirate dalla luce di Roma. Allo scoppio della Prima guerra mondiale iniziano le sue traversie economiche. Conosce Mario Broglio impresario e mecenate e lo nel 1927. Pittrice apprezzata espone con Bucci, Carrà, Chini, Conti, De Chirico, De Grada, Dudreville, Francalancia, Martini, Melli, Morandi, Semeghini, Viani: la sua pittura è ricca di suggestioni internazionali, dalla cultura dell’avanguardia russa e dal “Realismo magico”. Nel 1959 è presente alla Quadriennale romana; nel 1967 espone a Firenze alla mostra “Arte italiana, 1915-1935”, curata da Carlo Ludovico Ragghianti.

Virgiliotto Calamelli (Faenza 1531 – 1570) Grande ceramista faentino della metà del Cinquecento. A lui si deve la nascita dello Stile Compendiario. 150

Riconosciuto abilissimo ceramista e decoratore, serve le casate più nobili e ricche del tempo. Apporta alla ceramica un grande mutamento formale e stilistico con il trionfo del bianco sul quale risaltano amorini, cavalieri, santi e guerrieri tratti con colori velati affiancati a motivi zoomorfi. Lo stile e i manufatti di Calamelli sono stati ricordati anche da Giorgio Vasari come le migliori terre.

Mario Calandri (Torino 1914 - 1993) Si forma presso il Liceo artistico di Firenze e di Torino. Nel 1932 frequenta l’Accademia Albertina di Belle Arti alla scuola di Cesare Maggi e diviene suo assistente. Ai suoi esordi espone a Roma e a Venezia. Nel 1940 partecipa alla Biennale. Nel dopoguerra Calandri è assistente di Marcello Boglione all’Accademia di Torino e dal 1957 al 1977 è incaricato nella stessa Accademia per la cattedra di tecniche dell’Incisione. Pittore di ottima qualità, di personalità appartata e schiva, è considerato uno dei massimi incisori del XX secolo e si colloca nell’olimpo degli artisti specializzati nella grafica.

Felice Carena (Cumiana, 1879 - Venezia, 1966) Allievo di Giacomo Grosso Enta Albertina di all’Accademia

Torino, frequenta personalità del Simbolismo, i poeti Arturo Graf e Giovanni Cena, il critico Enrico Thovez e Leonardo Bistolfi. Nel 1906 si trasferisce a Roma. Nel 1912 espone alla Biennale di Venezia le opere del primo periodo romano simbolista. Scopre la Secessione (Franz von Stuck) e tra il 1913 e il 1915 si apre agli influssi della pittura francese di Cézanne e Matisse che rinnovano profondamente il suo linguaggio pittorico. Dopo la prima guerra mondiale si trasferisce in un piccolo paese laziale, Anticoli Corrado, e quì la sua pittura ritorna al “vero” con una ricerca di maggiore solidità costruttiva e di definizione dei volumi. Nel 1919 partecipa alla Promotrice di Torino con il quadro Contadini al sole. Nel 1922 organizza a Roma una scuola d’arte, frequentata da Pirandello e da Capogrossi. Nel 1924 viene nominato docente all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Accademico d’Italia nel 1933. A Firenze strinse amicizia con Ardengo Soffici e di Libero Andreotti. Nel 1945 si trasferisce a Venezia dove lavora per il resto della sua vita.

Felice Casorati (Novara, 1883 – Torino, 1963) Trascorre l’infanzia a Milano, Reggio Emilia, Sassari e Padova dove si dedica agli studi musicali. Nel 1902 a Praglia, sui colli euganei, comincia

a dipingere. Nel 1907 si laurea in Giurisprudenza nell’Università di Padova. Con la sorella Elvira viene ammesso alla Biennale di Venezia nel 1907. Tra il 1911 e il 1915 vive a Verona dove fonda nel 1914 la rivista La Via Lattea. Vicino agli artisti di Ca’ Pesaro, Arturo Martini, Gino Rossi, Umberto Moggioli, Pio Semeghini. Alla morte del padre nel 1917 si trasferisce a Torino dove diventa una figura centrale nei circoli intellettuali della città. Strinse rapporti di amicizia con il il compositore Alfredo Casella e con Pietro Gobetti e nel 1922 aderisce al gruppo della “Rivoluzione Liberale”. A Torino nel 1921 apre una scuola di pittura per giovani artisti. Nelle opere della maturità, al dettaglio decorativo si sostituì la meditazione di una forma essenziale, influenzata dalle costruzioni spaziali matematiche della pittura quattrocentesca e, in particolare, dall’atmosfera di immobilità tipica dell’opera di Piero della Francesca. Casorati vince il premio per la pittura alla Biennale di Venezia nel 1938 e riceve riconoscimenti ufficiali anche alle grandi esposizioni di Parigi, Pittsburg e San Francisco.

Galileo Chini (Galileo Andrea Maria Chini, Firenze 1873 – 1956) Ceramista, grafico, scenografo, pittore, architetto è uno dei protagonisti del Liberty italiano. Frequenta la scuola

d’Arte di Santa Croce a Firenze e poi fino al 1897 la Scuola libera del Nudo All’Accademia. A Firenze fonda nel 1898 la manifattura “Arte della Ceramica”.Nel 1897 il Comune di San Miniato gli commissiona il restauro degli affreschi della Sala del Consiglio Comunale. Dal 1898 al 1900 si dedica al restauro. Con i lavori in ceramica venne premiato alle esposizioni internazionali di Bruxelles, San Pietroburgo, St. Louis. Nel 1904 lascia la vecchia manifattura e fonda la “Fornaci di San Lorenzo” dove realizza ceramiche e vetrate ma anche arredamenti d’interni e progettazione di mobili in legno decorati da piastrelle, ceramiche e vetri. Continua ad esporre in molteplici occasioni, sia in Italia che all’estero senza lasciare il restauro. Dal 1908 al 1938 insegna alla Regia Accademia di belle Arti di Roma e poi alla Reale scuola di Architettura di Firenze. Artista poliedrico, versatile, imprevedibile, ha avuto tra i suoi appassionati estimatori il regista Luchino Visconti.

Arnoldo Ciarrocchi (Civitanova Marche 1916 – 2004) Dopo la licenza della Regia Scuola di Avviamento, dal 1932 frequenta la Scuola del Libro di Urbino con i Maestri Francesco Carnevali e Leonardo Castellani. Dal 1934 inizia la sua attività espositiva che sarà ricchissima di partecipazioni fino alla sua morte. Nel 1937 si trasferisce

a Roma nel 1939 è assunto alla Calcografia Nazionale di Roma come torcoliere. Nel 1944 è con Melli, Guzzi, Fazzini, Pirandello, Stradone, Savelli e Gentilini promotore della “Libera Associazione Arti Figurative” della quale sarà presidente Gino Severini. Dal 1956 è incaricato alla Cattedra di Incisione dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove rimarrà fino al 1968, anno nel quale ottiene il trasferimento all’Accademia di Belle Arti di Roma mantenendo l’incarico fino al 1980. Pittore, scrittore e incisore di primissimo piano soprattutto per quel che attiene la tecnica dell’acquaforte nel 1993 è nominato Accademico di San Luca.

Tullio Crali Ingalo, Montenegro, 1910 – Milano 2000) Visse a Zara fino al 1922, si trasferisce a Gorizia. A quindici anni scopre il Futurismo mentre era studente all’istituto tecnico della città, e fu influenzato nei suoi primi lavori da Giacomo Balla eEnrico Prampolini. Nel 1928 vola per la prima volta, e l’anno successivo - quello in cui nacque l’aeropittura futurista - si mise in contatto con FilippoTommaso Marinetti ed entrò ufficialmente nel movimento futurista. Dopo le sue prime mostre in Italia, Marinetti lo invita ad esporre a Parigi nella prima mostra di aeropittori italiani: era il 1932. Amico personale di Marinetti, 151


dopo la seconda guerra mondiale rimase fedele alla poetica futurista. Dapprima esercitò a Torino, si trasferì poi a Parigi, poi ancora al Cairo dove dal 1962 al 1966 insegna alla scuola d’arte italiana. Dal 1958, al 1961, insegna Disegno e Storia dell’Arte al Liceo Scientifico Da Vinci di Milano. Dal 1966 fino alla morte vive a Milano. Un fondo delle sue opere è presente al MART di Rovereto.

Giorgio De Chirico (Vòlo, Grecia, 1888 – Roma, 1978) Si iscrive al Politecnico di Atene per intraprendere lo studio della pittura, poi all’Accademia di Belle Arti di Firenze e all’Accademia delle Belle arti di Monaco di Baviera. Nell’estate del 1909 si trasferisce a Milano. Nel 1910 a Firenze dipinge la sua prima piazza metafisica. Nel 1911 De Chirico raggiunge il fratello Alberto Savinio a Parigi dove conosce i principali artisti dell’epoca. Subisce l’influenza di Gauguin. Tra il 1912 e il 1913 comincia a dipingere i suoi primi manichini. Negli anni parigini, Giorgio dipinge alcune delle opere pittoriche fondamentali per il ventesimo secolo. A Ferrara Giorgio rinnova la propria pittura, non dipinge più grandi piazze assolate ma nature morte. Negli anni cinquanta la sua pittura è caratterizzata da autoritratti in costume di tipo barocco e dalle vedute di Venezia. Pochi mesi prima, 152

il suo novantesimo compleanno era stato celebrato in Campidoglio. Raffaele De Grada Milano, 1885 - 1957) Giovanissimo aiuta il padre nei suoi lavori di decorazione. Dal 1902 al 1908, frequenta le Accademie di Dresda e di Karlsruhe. Nel 1913 esordisce con una personale a Zurigo. La sua prima personale italiana è del 1921 a Firenze in Palazzo Antinori. Nel 1922 è invitato alla Biennale di Venezia alla quale parteciperà in quasi tutte le edizioni successive. Dal 1926 partecipa a tutte le mostre di “Novecento” in Italia e all’estero. Nel 1928 ha una sua personale alla Biennale veneziana. Sono di questo periodo alcune nature morte dai toni caldi, vasi di fiori e cesti di frutta, e alcune vedute. Nel 1929 prende parte alla seconda esposizione del Novecento Italiano alla Permanente di Milano. Nel 1930 si trasferisce a Milano e continua a dedicarsi al paesaggio confrontandosi con la pittura di Corot e di Cezanne. Filippo De Pisis Luigi Filippo Tibertelli De Pisis Ferrara, 1896 - Milano, 1956) Si dedica giovanissimo alla pittura sotto la guida del maestro Odoardo Domenichini, ed è la pittura a portarlo a vivere una vita avventurosa in varie città: Roma, Venezia, Milano, Parigi e Londra. Nel 1915

incontra De Chirico e il fratello Alberto Savinio a Ferrara, nel 1917 Carlo Carrà. Da prima condivide lo stile metafisico, ma i soggiorni a Roma e a Parigi all’inizio degli anni ‘20 gli aprono nuovi orizzonti pittorici. Nel 1925 si trasferisce a Parigi dove rimane per quattordici anni. Dipinge nel periodo parigino paesaggi urbani, nudi maschili e immagini d’ermafroditi. Nel 1944 è a Venezia a studiare ispirato la pittura di Francesco Guardi e di altri maestri veneziani del XVIII secolo. Le sue opere ottengono il successo soprattutto alle Biennali di Venezia del 1948 e del 1954.

Gesualdo Fuina (Castelli di Abruzzo 1755 – 1822) Ceramista e decoratore è l’ ultima grande personalità della maiolica di Castelli. Con la sua produzione segna la fine del paesaggio barocco di intonazione aulica. Fuina si orienta verso il nuovo gusto influenzato dalla porcellana e tenta di rendere con la maiolica queste suggestioni orientali, usando nuovi colori, come il verde brillante e il rosso cardinale sconosciuti alla pentacromia castellana. Le sue figure, i suoi fiori si stagliano sul fondo completamente bianco, il vasellame è spesso bordato in oro. La produzione di maioliche continuerà fino ai primi dell’Ottocento specializzandosi in decorazioni molto

vicine alla miniatura. Oggi e’ possibile ammirare nei piu’ importanti musei del mondo i suoi capolavori, dall’ Ermitage di S. Pietroburgo al Louvre di Parigi, dal British e dal Victorian and Albert Museum di Londra al Metropolitan di New York.

Achille Funi (Ferrara, 1890 - Appiano Gentile, 1972) Si diploma nel 1910 all’Accademia di Belle Arti di Brera. Nel 1914 aderisce al Movimento Futurista ed elabora una sua particolare forma di futurismo che si apparenta al dinamismo di Boccioni. Dopo la Grande Guerra torna a Milano trova che la situazione è profondamente mutata nel 1919 aderisce al Fascismo, ma anche in questo secondo Futurismo Funi mostra un’attenzione per robusti valori formali del cubismo sintetico o dalla metafisica casoratiana. Le sue figure femminili, le nature morte, i ritratti, al di là dell’esplicita aspirazione neoclassicistica, stabiliscono un’eclettica gamma di riferimenti culturali, in parte connessi alla tradizione artistica ferrarese. Negli anni quaranta insegna pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano. Nel 1945 ha la cattedra di pittura all’Accademia Carrara di Bergamo e successivamente ne diviene direttore, succedendo a Luigi Brignoli, per poi tornare a Brera negli anni cinquanta.

Piero Gilardi (Torino 1942)

Nel 1963 debutta con un’esposizione neodadaista di Macchine per il futuro presso la Galleria L’Immagine di Torino. Ottiene grande fama con i Tappeti natura nel 1965, opere realizzate in poliuretano che riproducono in modo realistico frammenti di ambiente naturale. Intensa l’attività espositiva all’estero, da Amburgo a New York. A partire dal 1968 interrompe la produzione di opere per partecipare all’elaborazione teorica delle nuove tendenze artistiche: Arte Povera, Land Art e Antiform Art. Partecipa negli anni 1967-68 come collaboratore alla realizzazione delle prime due rassegne internazionali delle nuove tendenza allo Stedelijk Meseum di Amsterdam. Torna alla piena produzione artistica nel 1981 e inizia una ricerca artistica con le nuove tecnologie attraverso l’elaborazione del Progetto “IXIANA” presentato al Parc de la Villette di Parigi che prefigura un parco tecnologico nel quale il grande pubblico può sperimentare in senso artistico le tecnologie digitali. Nel corso degli ultimi anni ha sviluppato una serie di installazioni interattive

multimediali con una intensa attività internazionale. Insieme a Claude Faure e Piotr Kowalski, ha costituito l’associazione internazionale “Ars Technica”. Nicola Levoli (Renigio Enrico Policarpo, Rimini 1728 – 1801) Nel 1747, dopo aver fatto rinuncia ai beni, il Levoli veste l’abito agostiniano a Bologna, assumendo il nome di Nicola. La passione per la pittura lo spinse ad iscriversi, nel 1762, all’Accademia Clementina; qui conobbe Ubaldo Gandolfi, con cui collaborò ai suoi esordi. Nel 1769 tornò a Rimini, nel convento di Sant’Agostino, e vi rimase fino al 1779. Nel 1788 torna a Rimini dove resta fino alla morte e vi restò fino alla morte. Tolte pochissime opere giovanili di carattere religioso, Levoli è ricordato come pittore di nature morte: domestiche e poetiche composizioni di pesci dell’Adriatico, selvaggina, frutta e di altre cose mangerecce. Pittore appartato e feriale, è stato a lungo trascurato, ma oggi totalmente rivalutato e conosciuto.

Osvaldo Licini (Monte Vidon Corrado1894 – 1958) La sua formazione comincia nel 1908 con l’ingresso nell’Accademia di Belle Arti di Bologna dove conosce Giorgio Morandi, Mario Bacchelli, Giacomo 153


Vespignani e Severo Pozzati. Nel 1916 si reca a Parigi dove la famiglia abitava fin dal 1902. Qui, conosce Picasso, Cocteau, Mario Tozzi e Modigliani di cui diviene particolarmente amico. Nella capitale francese espone a tre Salons d’Automne e a tre Salons des Indipéndants. Nel 1925 torna in Italia e si ritira a Monte Vidon Corrado dove vive come eremita anche se sono da registrare diversi viaggi a Parigi, in Svezia e in altre paesi europee. Fino al 1930 i differenti periodi della sua pittura si possono dividere così: 19131915 Primitivismo fantastico - 19151920 Episodi di guerra (quasi tutti distrutti) - 1920-1930 Realismo e fino al 1940 si interessa di astrattismo. Dopo la seconda guerra mondiale, riappare a Venezia, nel 1948, per la XXIV Biennale. Nella XXV edizione, espone le famose nove Amalasunte. Dal 1950 comincia il periodo più intenso e bello dell’opera di Licini. Il successo ormai crescente della sua arte è suggellato dalla presentazione della personale alla XXIX Biennale del 1958.

Carlo Magini (Fano 1720 – 1806) Inizia il suo apprendistato artistico dallo zio Sebastiano Ceccarini, pittore fanese di buone qualità. Nel 1738 è a Roma dove ha occasione di rifinire in senso classicista il proprio linguaggio pittorico. Entrò in stretta relazione con il nobile Carlo Ferri e 154

con Francesco Mancini. Nel 1748 si trovava nuovamente a Fano, dove svolge la gran parte la sua esistenza e la sua carriera. Buon ritrattista e di pittore di storia, sopratutto è noto come pittore di nature morte tra le più notevoli realizzate in Italia nel Settecento recuperate all’attenzione della critica grazie a Roberto Longhi.

viene allestita a Parma la prima mostra antologica delle sue opere. La rinomanza internazionale di Mattioli è ormai consolidata. Dopo la sua morte nel 1996 nasce a Parma l’Archivio Carlo Mattioli con lo scopo di sovrintendere alle dichiarazioni di autenticità dell’opera del Maestro e di promuoverne la conoscenza.

Carlo Mattioli

Sante Monachesi

(Modena, 1911 – Parma, 1994)

(Macerata 1910 – Roma 1991)

Si forma presso l’Istituto d’Arte di Parma ed inizia la sua attività artistica, con modi che si rifecero all’esperienza di Giorgio Morandi. La prima importante uscita pubblica avviene nel 1940 alla Biennale di Venezia, dove successivamente viene invitato numerose volte ottenendo premi e riconoscimenti importanti. Nel 1943 si tiene a Firenze la sua prima mostra personale. Gli ‘40 e ‘50 sono caratterizzati da una produzione che si connota per un suggestivo tonalismo figurativo. Gli anni ‘60 sono gli anni della sua piena affermazione presso il grande pubblico. La sua produzione viene segnata dalla laboriosa ricerca di sempre nuove modalità espressive, con una vena pittorica, sospesa tra formale ed informale. Sono gli anni dei Nudi, delle Nature Morte e, in particolare, degli Studi sul Cestino del Caravaggio. Nel 1966 viene nominato membro dell’Accademia Clementina e, nel 1968, dell’Accademia Nazionale di San Luca. Nel 1970

Termina gli studi all’Istituto d’Arte di Macerata e si trasferisce a Roma. Boccioni e la scultura futirista ispirano la sua produzione artistica degli anni ‘30. Nel 1932 è tra i fondatori del Gruppo Futurista Marchigiano”Umberto Boccioni,Futuristi nelle Marche”, con Bruno Tano ed altri artisti. Nel 1934 inizia un intenso ritmo espositivo che vede Monachesi partecipare alle principali manifestazioni del terzo decennio sia in Italia che all’estero. Nel 1937 partecipa all’Esposizione Universale di Parigi, nel 1938 nell’Art Department della Columbia University di New York e poi alla XXI Biennale di Venezia, alla III Quadriennale di Roma. Dopo l’esperienza futurista proietta la sua ricerca nella elaborazione di una poetica figurativa attraverso larghi piani cromatici e sintetiche profilature che caratterizzano la sua pittura negli anni ’40 e ’50 ispirati anche al suo soggiorno a Parigi.

Dal 1960 è docente alla cattedra di decorazione all’Accademia di Belle Arti di Roma. Negli anni ’60 le sculture in gommapiuma ed in polimetilmetacrilato. Fonda nel 1964 il movimento “Agravitazionale”e stila il I Manifesto Agra’. Negli ultimi anni, sempre attivo e pieno di curiosità per il futuro,continua la sua ricerca di scultore e pittore nella definizione di nuovi orizzonti per l’arte.

Aldo Mondino (Torino 1938 – 2005)

Nel ‘59 si trasferisce a Parigi dove segue i corsi nella scuola di incisione di William Hayter. Frequenta l’Ecole du Louvre con Gino Severini, ha contatti con importanti artisti e con Sebastian Matta e Wilfredo Lam. Espone nel 1960 alla Galerie Bellechasse. Nel 1961 rientra in Italia e grazie ad Antonio Carena espone alla Galleria l’Immagine. Nel 1962 Enrico Crispolti gli organizza una mostra a Venezia alla Galleria Alpha dove presenta una serie di quadri particolari con grandi scritte e figurine che possono ricordare i codici miniati. Prima di ritornare a Parigi nel 1972 è molto intensa la sua attività espositiva. Partecipa alla Biennale di Venezia del ‘76, nel ‘77 è al Museo d’Arte Moderna di Parigi. Affascinato dalla cultura

orientale, presenta nel 1990 a New York la serie I sultani.Dell’ambito orientalista fa anche parte la realizzazione di tappeti sovrapposti in composizioni a parete, con colori vivaci e realizzati su eraclite. Nel 2000 compie il suo primo viaggio in India. Dopo la sua morte molte e diverse le occasioni espositive dove viene ricordata valorizzata la sua eredità artistica.

Si forma alla scuola emiliana. Alla fine del ‘600 si trasferisce a Roma. Abilissimo pittore di nature morte inizia dipingendo le “cucine rustiche” (utensili, selvaggina, salumi, formaggio), poi il suo stile si evolve e nei suoi dipinti iniziano ad apparire raffinate porcellane cinesi, che diventarono quasi una sua firma, utensili, stoffe, strumenti musicali e poi fra 1706 ed il il 1715, a Firenze dipinge anche trofei di guerra e trompe-oeil. Si trasferisce a Pisa dove si occupa esclusivamente di restauri.

1927-1928 comincia a frequentare i pittori più noti dell’area torinese e stringe amicizia con lionello Venturi Felice Casorati, ed Edoardo Persico. Costituisce nel ‘29 il Gruppo dei Sei di Torino e inizia ad esporre a Parigi, Londra e Roma. Fonda con Casorati lo studio dove organizza mostre d’avanguardia. Nel 1939 viene chiamato alla cattedra di pittura dell’Accademia Albertina di cui sarà anche direttore nel 1955. Dopo la guerra la sua pittura comincia a subire una rielaborazione, lenta ma continua. Nel 1955 è nominato membro dell’Accademia di San Luca a Roma. Moltissime le sue partecipazioni espositive in Italia e all’estero. Nel 1996, viene inaugurata la mostra “Omaggio a Paulucci” alla Fondazione Palazzo Bricherasio a Torino, ripresa nel 1997 al Palazzo delle Nazioni Unite di Ginevra. Oggi il suo appartamento ospita un archivio che documenta l’esperienza artistica del pittore.

Enrico Paulucci

Giancarlo Polidori

(Enrico Paolucci delle Roncole, Genova 1901 – Torino 1999)

(Urbino 1895 – Pesaro 1962)

Cristoforo Munari (Reggio Emilia 1667 – Pisa 1720)

Si trasferisce da adolescente a Torino. Si laurea in scienze economiche e legge. Negli anni

Artista nato in una famiglia attiva per tradizione nel mondo della ceramica Gaincarlo Polidori iniziò la sua attività lavorando presso la manifattura Molaroni per poi nel 1921 passare 155


alla “Bottega del vasaio” di venezia diretta da Giacomo Dolcetti. Dal 1925 al ‘31 passa alla manifattura Matricardi di Ascoli Piceno dove rinnova la produzione e la decorazione dei manufatti con soggetti elaborati da Adolfo De Carolis. Sperimenta soluzioni tecniche innovative che consentirono l’introduzione di nuovi colori in rilievo basati sull’uso di ossidi metallici. A partire dagli anni ‘30 si dedica all’insegnamento presso le Scuole d’Arte di Urbino,Grottaglie, Castelli, Castellamonte e Pesaro. Notevole la sua attività di studioso di ceramica anctica.

Gregorio Sciltian (Grigorij Ivanovic Siltjan, Rostov 1900 – Roma 1985) Si forma all’ Accademia di San Pietroburgo, esordisce con opere attente l Cubismo e al Futurismo. Nel 1919 a seguito della Rivoluzione d’ottobre lascia la Russia per Costantinopoli. Negli anni ’20 ritorna alla figurazione, studia le opere del Rinascimento italiano. Nel 1923 si trasferisce a Roma e partecipa alla II Biennale romana nel ‘25. Roberto Longhi presenta la sua personale alla casa d’arte Bragaglia sottolineando la sua pittura che recupera la tradizione caravaggesca e fiamminga preferendo la natura morta e dando margine al realismo, alla fedeltà fotografica alla tecnica pittorica antica. Dopo la Biennale di Venezia del ’26 si stabilisce 156

a Parigi. Rientra in Italia nel ’34 e si stabilisce a Milano è ormai un pittore conosciuto e un ritrattista apprezzato. Dopo la guerra allestisce uno studio milanese in palazzo Trivulzio. Espone di nuovo alla Biennale di Venezia del ’50 e tiene mostre Parigi dal ’58 al ’74. Intercala la pittura alla scrittura di saggi e con l’attività di costumista per il Maggio Musicale Fiorentino e per il Teatro alla Scala.

Arturo Tosi (Busto Arsizio, 1871 – Milano, 1956) Studia alla Scuola Libera di Nudo a Brera e poi con Adolfo FeraguttiVisconti, si forma nel clima della Scapigliatura sulle opere di Daniele Ranzoni e Tranquillo Cremona. Nel 1891 esordisce alla Permanente di Milano e nel 1909 partecipa, per la prima volta, alla Biennale di Venezia nella quale sarà presente fino al 1954. La conoscenza dell’opera di Cézanne, del 1920, lo indirizza verso la pittura del paesaggio en plein air. Nel 1922 è premiato con medaglia d’oro dal Ministero della Pubblica Istruzione ed espone alla “Fiorentina Primaverile” una serie di paesaggi. Nel 1925 è tra i fondatori della corrente artistica “Novecento”. Nel 1926 espone a Brighton e negli anni a seguire a Zurigo, Lipsia, Amsterdam, Ginevra, Berlino, Parigi, Basilea, Buenos Aires, Berna, Stoccolma,

Baltimora, Monaco, Stoccarda, Kassel, Colonia, Berlino, Dresda e Vienna. Nel 1931 ottiene il premio della fondazione Crespi alla I Quadriennale di Roma e, a Parigi, il Grand Prix della pittura dove torna nel 1937, per partecipare all’Esposizione mondiale; nel 1941 e nel 1942 espone al III e IV Premio Bergamo. Nel 1951 il Comune di Milano gli dedica una mostra antologica premiandolo con una medaglia d’oro. Alla sua morte, la Biennale di Venezia gli dedica una mostra commemorativa, esponendo sessanta opere.

Wladimiro Tulli (Macerata 1922 –2003) Inizia l’attività di pittore nel 1938. Viene affascinato inizialmente dal suo concittadino Ivo Pannaggi e da altri futuristi del tempo, Filippo Tommaso Marinetti su tutti. Dopo la seconda guerra mondiale si avvicina all’astrattismo instaurando contatti e rapporti con i maggiori astrattisti del momento come Alberto Burri. Nel 1953 entra a far parte del gruppo “Numero” di Firenze e grazie ad esso comincia a girare il mondo e ad esporre alcune sue opere in grandi musei fino a far parte attiva del gruppo “Eclats” di Parigi. Nel 1962 insieme ad altri artisti è nel gruppo “Levante” di Macerata. Ha realizzato affreschi, murales, plastiche murali, graffiti e decorazioni

in varie città italiane. Nel 1961 Giuseppe Ungaretti gli dedica una poesia. Pittore fantasioso nelle forme e nel colore, nel 1996 su proposta della Presidenza del Consiglio dei ministri è stato insignito del titolo di Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

Mario Tozzi (Fossombrone 1895 – Saint-Jean-duGard 1979) Con la famiglia si stabilisce a Suna sul Lago Maggiore. Abbandona gli studi di chimica per dedicarsi alla sua vocazione artistica ed entra all’Accademia di belle Arti di Bologna nel 1913 dove conosce Morandi e Licini. Dopo la prima guerra mondiale si stabilisce a Parigi. Qui espone al Salon des Artistes Indépendantes, al Salon d’Automne e al Salon des Tuileries dove viene subito notato dalla critica. Nel 1926 ritrova a Parigi il suo amico Osvaldo Licini e conosce gli altri pittori italiani d’avanguardia e in particolare stringe amicizia col pittore e cartellonista pubblicitario Severo Pozzati. Fonda il Groupe des Sept (Gruppo dei Sette conosciuti anche come Les Italiens de Paris) con Campigli, De Chirico, De Pisis, Paresce, Savinio. È insignito della Legion d’Onore dal governo francese. Nel 1936 torna a Rona, si dedica all’affresco. È alla Biennale di Venezia nel ‘48, ‘52 e nel ‘54. Nel 1971 torna in Francia dove muore nel ‘79.

Enea Utili (Faenza 1542 – 1567 documentato) Appartiene al gruppo di maestri faentini che dopo la metà del‘500 rinnova la maiolica. La produzione firmata Enea Utili si nota per la realizzazione di nuove cromie pittoriche, delicate nei toni ed elaborate nelle costruzioni, oggetti dove il bianco è preponderante. Le saliere sono sorrette da arpie e delfini, coppe con frutta modellata, crespine traforate interpretano con virtuosismo il neo gusto Barocco. Utili attua la rivoluzione detta dei “bianchi”, abbandona del tutto o in parte, gli ornati astratti o figurati “a storie” ricchi di policromia, per una nuova maniera che rendere più coprente e vellutato lo smalto bianco, lasciato in gran parte scoperto a valorizzare la forma del recipiente, spesso modellato, la decorazione è ridotta a una figuretta o a uno stemma tracciati in modo vibrante. Tale maniera di lavoro ebbe grande fortuna e si diffuse fino al XVII secolo in Italia e in Francia, Svizzera, Baviera, Austria, Ungheria, Europa centrale, Olanda, contribuendo alla diffusione della fama di Faenza.

Giovanni Domenico Valentino (Roma 1639 – 1715) Si deve agli studi di Antonio Corbara il merito di aver sciolto il monogramma G.D.V. con il quale erano siglate

varie nature morte realizzate dallo stesso artista, individuando nel pittore Giovanni Domenico Valentino l’autore di quelle opere sulla base della lettura della firma completa, individuata in un dipinto conservato ad Imola. Le notizie documentarie rintracciate, oltre ad accertarne la nascita a Roma, ne registrano l’attività in Romagna nel ventennio compreso tra il 1661 e il 1681, ma la presenza di numerose sue tele nelle raccolte fiorentine del Gran Principe Ferdinando, in varie collezioni romane e napoletane del XVII secolo induce a credere che l’area della sua attività è stata assai più ampia. Le nature morte del Valentino riproducono interni di cucine, appena rischiarati dal fuoco che arde nei camini, nelle quali l’artista dispone in apparente disordine utensili e pentole in rame, modesti arredi e semplice vasellame in ceramica: si tratta di opere nelle quali si evidenzia l’ammirazione per la pittura fiamminga, conosciuta a Roma frequentando l’ambiente dei Bamboccianti, ma anche una evidente attenzione nei riguardi delle nature morte di ambito napoletano, in modo particolare per le opere di Giovanni Battista (Napoli 1615-1660) e Giuseppe Recco (Napoli 1634-1695) dalle quali discende l’attenzione con cui il Valentino descrive gli effetti di luce ed i riverberi dei rami.

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F. Zeri (a cura di), La natura morta in Italia, Milano 1984

A. Dosi, F. Schnell, Le abitudini alimentari dei romani, Roma 1992

S. Papetti, Proposte per Giovanni Domenico Valentino in “Paragone 435”, 1986

L. Franchi Dell’Orto (ed.), Piceni, popolo d’Europa, Roma 1999

P. Zampetti (a cura di), Carlo Magini, Milano 1990

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A. Del Re (ed.), Apicio: De re coquinaria. Antologia di ricette, Milano 2004 158

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Sommario 14

Percorsi per la natura morta nelle Marche Stefano Papetti

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La durata delle cose vive Marisa Vescovo

24 Cibo e design: legame indissolubile Virginio Briatore 30 Vita silente. Temi,simboli, significati Enrica Bruni 36 Sapori Saperi della letteratura Marcello Verdenelli 66

Cibo, cucina e suppellettili tra preistoria ed EtĂ Romana Nicoletta Frapiccini

72 Opere 138 Schede biografiche 148 Bibliografia


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finito di stampare nel mese di luglio 2014 dalla Fast Edit di Acquaviva Picena



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