beni artistici salvati dal terremoto
Comune di Civitanova Marche
17 dicembre 2017 25 febbraio 2018
Comune di Civitanova Marche
Trasporti Exibiz, Foligno (PG)
Assessorato alla Crescita Culturale
Assicurazioni Aon S.p.a.
Enti promotori Sindaco Fabrizio Ciarapica
Assessore Maika Gabellieri
Spazio Multimediale San Francesco Civitanova Marche Alta
Azienda Speciale Teatri di Civitanova
Stampa Marvel ADV, Civitanova Marche
Pinacoteca civica Marco Moretti
Un particolare ringraziamento ai colleghi del MIBACT, ai Vigili del Fuoco, ai Carabinieri, all’Esercito e ai volontari della Protezione civile che hanno contribuito al recupero delle opere negli edifici colpiti dal sisma del 2016.
Presidente Silvia Squadroni Direttore Pierluigi Borraccetti Direttore Enrica Bruni
A cura di Enrica Bruni Progetto allestimento e direzione lavori Marco Pipponzi Testi in catalogo Enrica Bruni Giuseppe Crapriotti Stefano Papetti Marco Pipponzi Andrea Viozzi Prestatori opere d’arte Curia Arcivescovile di Fermo Comune di Arquata del Tronto Comune di Ascoli Piceno Comune di Civitanova Marche Realizzazione allestimento Imprese Edile Quintili Maurizio Ufficio Tecnico Delegazione Comunale Video e fono REDGECO S.R.L. Grafica Federica Tarchi Comunicazione a cura di Ufficio Stampa Comune di Civitanova Marche Ufficio Stampa Teatri di Civitanova
COMUNE DI CIVITANOVA MARCHE
COMUNE DI CIVITANOVA MARCHE
Con il patrocinio di
Si ringraziano inoltre S.E. Mons. Rocco Pennacchio
Arcivescovo Metropolita di Fermo
Pierluigi Moriconi
Funzionario Storico dell’Arte Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Marche
Alma Monelli
Incaricato Diocesano Ufficio Arte Sacra, Beni Culturali Ecclesiastici, Edilizia di culto
Assessore LL. PP. Ermanno Carassai Enore Silenzi delle Assicurazioni Centrale GPA s.p.a. Antonio Frapiccini,
Geometra del Comune di Civitanova Marche
Stefania Ghergo,
Geometra del Comune di Civitanova Marche
Carla Paniconi, Funzionario Ufficio Cultura Comune di Civitanova Marche Laura Tittarelli
Funzionario Ufficio Cultura Comune di Civitanova Marche
e tutti gli operai della Delegazione comunale di Civitanova Marche che hanno prestato la loro opera con professionalità e cura
Con il patrocinio di
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I terremoti del 2016 hanno duramente colpito tutto l’entroterra marchigiano. Civitanova, fin dalle prime ore, è stata in prima linea per accogliere gli abitanti delle zone colpite, per dare loro accoglienza e per cercare di alleviare le sofferenze. Il sisma eccezionalmente grande per estensione e intensità distruttiva non ha colpito solo le persone, ma ha distrutto case e ha minato patrimoni. Da qui la mostra Recuperata Ars. Secondo recenti stime, sono state recuperate 6300 opere d’arte all’interno del cratere per le province di Macerata, Fermo e Ascoli Piceno. Testimonianza di tanta ricchezza ed eterogeneità è esposta in questa mostra che non mancherà di sorprendere e incuriosire il pubblico. Verranno esposti i frutti di una civiltà antica, ricca e poliedrica, reperti pregiati e degni. Mi auguro che anche quelli meno conosciuti e meno appariscenti, che meritano di essere ammirati nonostante portino i segni del terremoto, ricevano la giusta attenzione. A nome di tutta l’Amministrazione comunale ringrazio sentitamente quanti hanno recuperato i Beni Artistici, con dedizione e professionalità. Mi auguro che, anche grazie a Recuperata Ars, l’attenzione di tutti su tale tema, resti alta. Mi auguro che piccoli e grandi capolavori, testimonianze della nostra storia siano restaurati e restituito alla comunità. Un sentito grazie anche a quanti hanno collaborato alla realizzaziome di questo appuntamento, occasione prestigiosa per Civitanova e per i suoi abitanti di dare voce a tutti gli aspetti del Sapere.
Fabrizio Ciarapica
Sindaco di Civitanova Marche
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Nessuno potrà mai dimenticare gli avvenimenti del 24 agosto e del 26 e 30 ottobre 2016, solo per citare i più gravi, che hanno sconvolto la nostra terra. E se è stato fondamentale e di primaria importanza prendersi cura di sono stati privati tutto, importante è stato anche recuperare le opere d’arte che altrimenti sarebbero andate perse. Simbolicamente,nel recupero dell’opera d’arte c’è anche il recupero dell’identità di un territorio e di un popolo. È innegabile infatti che tra arte, territorio e storia ci sia un legame indissolubile. Il passato di una popolazione, testimoniato da dipinti, statue e altre opere di geni dell’arte non può andare perduto per la forza violenta della natura. Rendere a un territorio il suo passato equivale a restituirgli il futuro e la speranza di risorgere dalle macerie. Prendersi cura della cultura dei territori feriti è anche un importante atto di sostegno che simboleggia la rinascita; una mostra sui tesori del nostro territorio è un forte segno di speranza. Per questo Recuperata Ars è una mostra di grande valore che fonde cultura e solidarietà. Nonostante sia passato un anno, le ferite della nostra terra sono ancora aperte e difficilmente si rimargineranno, ma questo può essere considerato un inizio. Ringrazio, a nome mio e di tutta l’Amministrazione comunale, quanti hanno collaborato sia per recuperare le opere in edifici anche pericolanti sia per allestire questa mostra che, ne sono certa, attirerà persone anche da fuori regione.
Maika Gabellieri
Assessore alla Crescita Culturale
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Il sisma che ha ferito l’Italia evidenzia la forza e la debolezza del nostro Paese: la forza è nello slancio dei volontari e nella professionalità dei soccoritori impegnati a sollevare ogni pietra dietro la quale ci può essere una vita, nella solidarietà fra abitanti della terra ferita, nel rispetto per le vittime sconosciute e nella corsa a donare ai sopravvisuti, con l’augurio che la debolezza di dover vivere in centri urbani vulnerabili, la passività con cui si è costretti ad accettare la furia della Natura e l’impotenza davanti ad un edificio che crolla non diventino mai rassegnazione. Questa mostra vuol testimoniare proprio la forza e la determinazione con cui dobbiamo aggredire le debolezze e tetimoniare l’orgoglio e l’alto senso di se’ (di se’ come individui e di se’ come comunità) con cui poter ricostruire miracolosamente quelle città, con le loro splendide architetture e con le splendide opere artistiche e culturali che hanno saputo custodire e tramandare nei secoli. Un sentito grazie a tutti quanti hanno saputo e voluto collaborare per la realizzazione di questa mostra, dall’incommensurabile valore civico ed artistico.
Silvia Squadroni
Presidente Azienda Speciale Teatri di Civitanova
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opere
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Martino Bonfini (attribuito) (Patrignone, 1564 – post 1633)
Madonna del Rosario Olio su tela, cm 225 x 160 Chiesa di S. Francesco a Borgo Arquata del Tronto
La chiesa di S. Francesco di Borgo di Arquata del Tronto era parte di un complesso costruito sulle pendici di una collinetta intorno al 1251 che comprendeva anche un convento di frati francescani; la tela era posta sull’altare donato da Giulio Cosetta nel 1616, come recita l’iscrizione nella cornice esterna, collocato sulla parete destra dell’edificio; il dipinto è stato attribuito a Martino Bonfini (Antonini, Pagano 2007) soprattutto per un tratto molto caricaturale e popolano di alcuni personaggi rappresentati, più evidenti nella parte inferiore della tela dove la mano del pittore di Patrignone sembra essere più riconoscibile nelle figure delle sante e del committente. Nato l’11 novembre 1564, giorno in cui la Chiesa celebra la festività del santo omonimo, Martino era figlio di Guerriero e Pantasilea Agnelli, appartenente ad casata di pittori e scultori di Patrignone; dopo una inziale formazione artistica in famiglia, ebbe modo di ammirare le opere di Barocci, Zuccari e soprattutto di Simone De Magistris, con il quale non ebbe solo rapporti di collaborazione occasionali, bensì un legame diretto e continuo documentato il 10 ottobre 1590 dalla nomina, da parte del pittore di Caldarola, del pittore patrignonese come perito di parte nella stima dei propri lavori eseguiti ad Offida ed oggi perduti. Come altri allievi del De Magistris presenti sul territorio fra Marche ed Abruzzo, anche Bonfini replica del maestro la composizione teatrale a pianta piramidale, la gerarchia dei piani distributivi dei personaggi, l’asse centrale dove la Vergine in trono mostra ai fedeli il Bambino, l’uso di simbologie, di elementi decorativi ed iconografici utili per l’identificazione dei personaggi sacri, l’immagine del committente in atteggiamento di preghiera rivolto verso il fedele e i quindici Misteri del rosario distribuiti intorno alla scena centrale. Mentre i dettagli decorativi, resi spesso con colori dissonanti, l’attenzione rivolta ai particolari degli abiti, le espressioni dei volti e la gestualità dei personaggi sono tutti elementi distintivi del pittore di Patrignano, che ripropose spesso nella sua produzione artistica. L’accettazione da parte della comunità francescana di Borgo di Arquata della tela nel 1616 rappresentò probabilmente un primo tentativo di tregua da parte dell’ordine assisiate, soprattutto nei centri più periferici, nei confronti della secolare disputa
contro l’ordine domenicano in merito alla stigmatazione di Santa Caterina, in quanto i francescani rivendicavano come uniche stigmate reali quelle del loro santo fondatore. Sarà papa Urbano VIII a porre fine a questa controversia grazie ad una disposizione promulgata il 16 febbraio 1630, attraverso la quale si dichiaravano valide le stigmate di Santa Caterina, che venivano ricordate nella V lezione del Breviario Romano, ponendo così fine alla querelle. Dopo la vittoria di Lepanto del 7 ottobre 1571 il culto della Vergine del Rosario, a cui fu riconosciuto dalla Chiesa il merito di aver guidato le truppe cristiane nella vittoria contro la flotta turca, acquisì ancora più devozione soprattutto nei piccoli comuni dell’entroterra, in particolare nel centro arquatano da dove, secondo la tradizione, alla battaglia di Lepanto parteciparono anche un centinaio di spelongani di Arquata del Tronto a cui fu riconosciuto il merito di essersi impossessati di un vessillo sventolante su una nave turca, riportandolo in patria come straordinario cimelio di partecipazione e di vittoria. Il rosario, una preghiera diffusa dai certosini fin dal XII secolo ma la cui venerazione si diffuse grazie all’apparizione della Vergine con la corona in mano a San Domenico nel 1208 a Prouille, nella Francia meridionale, divenne strumento di salvezza per l’intera umanità e a partire dall’8 settembre 1475, quando attraverso la zelante predicazione del domenicano bretone Alain de la Roche venne fondata la prima Confraternita del Rosario, si diffuse in Europa l’idea che tale congregazione, a cui erano iscritti fedeli appartenenti ad ogni estrazione sociale, avesse non solo lo scopo dell’aiuto sociale, ma anche quello di mantenere viva questa preghiera. Ecco dunque spiegato il motivo per cui le rappresentazioni della Madonna del Rosario sono spesso caratterizzate nel registro inferiore da una variegata presenza di personaggi sacri e profani, dove il ricco committente raffigurato in atteggiamento orante, come nell’opera di Bonfini, viene affiancato da popolani e nobili. Andrea Viozzi Bibliografia P. Antonini, L. Pagano, 2007, p. 114-116 12
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Gian Domenico Cerrini (Perugia, 1609 - Roma, 1681)
San Giovanni Battista olio su tela, 245 x 172 cm Ascoli Piceno, chiesa di Sant’Angelo Magno
Prima di essere trasferita per ragioni di sicurezza nel deposito attrezzato di Forte Malatesta, la tela era collocata sul primo altare sinistro della chiesa di Sant’Angelo Magno di Ascoli Piceno, ma in origine era posta sul secondo altare destro della medesima chiesa. Come risulta dalla documentazione resa nota dal Fabiani, fu commissionata nel settembre 1656 dall’abate olivetano Emidio Ciucci di Ascoli, nel quadro di un rigoroso e armonico piano di ammodernamento della chiesa medievale. Insieme al dipinto di Cerrini, per una somma complessiva di 146 scudi, fu acquistata anche una tela raffigurante la Assunta di Girolamo Marchi, destinata anch’essa a un altare della chiesa e attualmente conservata in sacrestia . L’arrivo delle due pale è da porsi in relazione alla consegna effettuata nel 1655 di quattro altari in legno intagliato destinati alle navate laterali, e segue a ruota l’indoratura degli stessi, commissionata nel febbraio 1656 .Nello stesso periodo, e in chiara linea con un orientamento coerente verso gli indirizzi più aggiornati della scuola romana, si collocano la commissione del Gesù risorto di Giacinto Brandi (1655) e della Madonna col Bambino e santa Francesca Romana di Carlo Maratta, consegnata al monastero ascolano nel febbraio 1656. Sulla scorta di un giudizio altrui non meglio definito, sia Lazzari (1724, p. 81) che Orsini (1790, p. 174) asseriscono che il paesaggio del fondale del San Giovanni Battista sia di mano di “Giovan Francesco Bolognese”, vale a dire di Guercino. Tra gli studiosi che si sono occupati di Cerrini, sia Voss (1924) che Evelina Borea (1978) non menzionano l’opera, e Chiarini la espunge dal catalogo (1978, p. 282, n. 15) ignorando i riscontri documentari offerti da Fabiani. Dal canto suo Mancini ha in più sedi evidenziato l’importanza della tela nella ricostruzione della fase centrale dell’attività dell’artista, all’inizio del soggiorno fiorentino (1980, p. 18; 1992, p. 123, n. 14; 2004, p. 240). L’opera rivela una rivisitazione originale del classicismo reniano, al quale vivamente si contrappongono
l’evidenza statuaria della figura, la densa stesura del colore, il vigore della materia e dell’atmosfera, tali da ricordare piuttosto l’opera di Pomarancio e di Guercino, insieme a una umbratile ma percepibile apertura alle nuove tendenze barocche, evidente nell’articolata ondulazione del manto. Il confronto più perspicuo tra le opere di Cerrini, come evidenziato da Mancini, è con il David della Galleria Spada, consegnato nel 1649, dove il manto plasticamente evidenziato fa la differenza rispetto alla vellutata materia del manto della tela ascolana, mentre le corrispondenze nell’impostazione della posa e finanche le analogie fisionomiche delle due figure sono tali da far pensare all’utilizzo di uno stesso modello in un breve arco temporale. Il giovane santo dal torso nudo che si staglia sul fondo con la sua luce corrusca riemerge con tonalità intimistiche e devozionali in altre successive opere del perugino: il San Giovannino estatico della Pinacoteca comunale di Forlì, già riferito a un seguace di Guercino (Chiarini 1978, p. 282; fig. 6), e il San Giovanni Battista a mezza figura di San Pietro a Perugia, di cui sono state individuate due repliche alla Bob Jones University e sul mercato antiquario (Schleier 1996, p. 70; fig. 90). Andrea Viozzi
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Giovanni Silvagni (Roma, 1790 - 1853)
“S. Romualdo e Ottone III” olio su tela (cm. 225 x 150) Ascoli Piceno, Chiesa di Sant’Angelo Magno
Nel breve periodo in cui i frati camaldolesi vissero in questo monastero, dopo il loro rientro ad Ascoli seguito alle soppressioni napoleoniche, commissionarono nel 1838, a celebrazione del fondatore del loro ordine religioso, il dipinto presente in questo altare. Nella scena raffigurata, sulla sinistra, in piedi, in primo piano, vestito con il suo candido saio, l’artista colloca San Romualdo, con il braccio e l’indice della mano sinistra protesi ad indicare il cielo, in un atteggiamento di minaccia nei confronti dell’imperatore Ottone III. Costui, prostrato davanti al santo a braccia aperte, implora perdono per il crimine commesso: la soppressione del senatore Crescenzio. Alle spalle del Santo si intravedono due frati carmelitani, in atteggiamento di supplica; dal fondale, nella luce emergono tre personaggi i cui volti denotano sorpresa alla vista dell’umile atteggiamento assunto dall’Imperatore. Fanno da sfondo due colonne collegate tra loro da panneggi sapientemente intonati, che accentuano la luminosità contestuale dell’opera. Formatosi presso l’Accademia di San Luca, il Silvagni esordì con opere come “La partenza di Coriolano” ed “Eteocle e Polinice” caratterizzate da un linguaggio neoclassico armonioso e robusto nel colorito che discende dalla lezione del suo maestro, Gaspare Landi. Alle tematiche legate alla storia antica sostitutì nel corso degli anni trenta i soggetti sacri per i quali si intensificarono le commissioni sia a Roma che nelle Marche, dove inviò per la Cattedrale di San Severino la tela raffigurante la Beata Marsilia. Con l’avvento di Pio IX, Silvagni fu fra gli ispiratori della politica culturale del nuovo pontefice divenendo Principe dell’Accademia di san Luca per il biennio 1844-1846. Andrea Viozzi
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Ignoto Scultore Marchigiano del Sec. XV
Come attestano le fonti, il Crocefisso venne donato da un parrocchiano, citato nelle cronache dell’archivio del monastero come “Il Rosso”, unitamente ad una somma di danaro quale contributo per l’erigendo altare della parrocchia: si tratta di una scultura di legno policromo di pregevole esecuzione risalente, secondo il Rodilossi, al 1471. Il suo ottimo stato di conservazione accentua i suoi contenuti qualitativi, esaltati in virtù dell’attuale rutilante struttura architettonica barocca ove è collocata, ed inserita nello spazio, di norma, riservato alla pala d’altare. La Crocifissione è fissata sulla
Crocefisso Legno intagliato e dipinto, cm. 220x170 Ascoli Piceno, chiesa di Sant’Angelo Magno
parete di fondo, forse originariamente ambientata in un contesto pittorico paesaggistico oggi perduto e sostituito da un omogeneo fondo rosso. Quando l’antica scultura venne collocata nel nuovo altare barocco si provvide a completare la scena con l’aggiunta di un angelo beniniano in legno intagliato e dorato che seduto a terra guarda verso il Cristo, opera da riferirsi ad una artista locale legato alla bottega di Giuseppe Giosafatti. Stefano Papetti
Luca Vitelli (Ascoli Piceno, sec. XVIII)
Paliotto Olio su tela cm. 110 x230 Ascoli Piceno, chiesa di Sant’Angelo Magno
I paliotti collocati sugli otto altari della chiesa di Sant’Angelo Magno sono stati rimossi per ragioni di sicurezza e depositati con le altre opere danneggiate dal terremoto presso il Forte Malatesta. Sono opera del pittore ascolano Luca Vitelli, allievo di don Tommaso Nardini che realizzò la decorazione pittorica della volta e delle pareti della chiesa ascolana: presentano tutti la medesima impostazione compositiva caratterizzata da un elegante intreccio di carnose volute fitomorfe su fondo bianco che si dipartono da una immagine centrale. Si tratta di un modello largamente diffuso nelle chiese ascolane del
Settecento, come testimoniano i paliotti della chiesa di Santa Maria della Carità che presentano un analogo andamento del partito decorativo ispirato ai modelli diffusi a Roma nella stagione barocca. Andrea Viozzi
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Domenico Acciotti (Doc. Sec. XVIII)
Cornice in legno intagliato, dipinto e dorato Legno di pioppo, cm. 100x80 Ascoli Piceno, chiesa di Sant’Angelo Magno
La pregevole cornice che racchiude la tela di Giacinto Brandi raffigurante il padre Eterno benedicente era posta alla sommità dell’altare realizzato da Domenico Acciotti su incarico dell’ abate Emidio Ciucci per accogliere la scenografica Resurrezione dipinta dallo stesso Brandi nel 1656. In seguito alle scosse telluriche del 30 ottobre 2016 la parte superiore della complessa struttura barocca è precipitata a terra, spezzandosi in varie parti. L’Acciotti ha intagliato una elaborata cornice fiancheggiata da due angeli desinenti da un cartoccio fogliato e completata da un elegante fastigio architettonico che, nella complessità delle soluzioni decorative proposte, denuncia la matrice culturale dell’artista, formatosi nell’ambito della tradizione del tardo manierismo ma aggiornato sulle novità romane improntate ad un più teatrale gusto barocco.
L. Leporini, Ascoli Piceno. Guida artistica, Ascoli Piceno 1955 G. Fabiani, Artisti del Sei-Settecento in Ascoli, (Collana di pubblicazioni storiche ascolane, XIII), Ascoli Piceno 1961
Andrea Viozzi
L. Leporini, Ascoli Piceno. Guida artistica illustrata, Ascoli Piceno 1964 A. Rodilossi, Guida per Ascoli, Teramo 1973 M. Chiarini, Aggiunte al Cerrini, in “Antologia di Belle Arti”, 7-8, 1978, pp. 279-282 F. F. Mancini, Cerrini Gian Domenico, s.v. in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIV, Roma 1980, pp. 16-20 A. Rodilossi, Ascoli Piceno città d’arte, Rimini, 1983 F. F. Mancini, Introduzione, in F. F. Mancini (a cura di), Pinacoteca comunale di Deuta, Perugia 1992, pp. 119-125
T. Lazzari, Ascoli in prospettiva colle sue più singolari pitture, sculture, e architetture, Ascoli Piceno 1724
F. F. Mancini, Il David con la testa di Golai della Galleria Spada di Roma, precisazioni e novità su Gian Domenico Cerrini, in M. Pasculli Ferrara (a cura di), Per la storia dell’arte in Italia e in europa: studi in onore di Luisa Mortari, Roma 2004, pp. 237-248
B. Orsini, Descrizione delle Pitture Sculture Architetture ed altre cose rare della insigne città di Ascoli nella Marca, Perugia 1790
F. Cappelli in Gian Domenico Cerrini, il Cavalier Perugino tra classicismo e barocco, cat. della mostra a cura di F. F. Mancini, Milano 2005, p. 190
G. B. Carducci, Su le memorie e i monumenti di Ascoli Piceno, Fermo 1853
L. Borraccini, L’abbazia di S. Angelo Magno in Ascoli Piceno: dalle nobili badesse, prima benedettine poi clarisse, agli abati di Monte Uliveto Maggiore, ai camaldolesi, Acquaviva Picena 2010
Bibliografia:
E. Calzini, Note sulla pittura in Ascoli nei secoli XVII e XVIII, in “Rassegna Bibliografica dell’Arte Italiana”, III, 9-12, 1900, pp. 181-205 C. Mariotti, Guida di Ascoli Piceno, Ascoli Piceno, 1907 C. Mariotti, Il monastero e la chiesa di Sant’Angelo in Ascoli Piceno, Ascoli Piceno 1941, ora in C. Mariotti, Scritti d’arte e di storia, Ascoli Piceno 1960 (Collana di pubblicazioni storiche ascolane, XII), pp. 213-250 G. Poli, Ascoli. Guida turistica, Ascoli Piceno 1954
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Pietro Tedeschi
Madonna della cintola Olio su tela, cm. 288 x 153 Chiesa di S. Agostino, Civitanova Marche Alta
La tela, proveniente dal terzo altare laterale di sinistra della chiesa di S. Agostino di Civitanova Marche Alta, è firmata e datata in basso a destra: “Petrus Tedeschi, Roma MDCCCV” e fu la prima dei tre dipinti commissionati ad essere inviata dallo studio romano del pittore pesarese per la chiesa civitanovese. Nato a Pesaro nel 1750 si formò giovanissimo nella bottega del pittore pesarese Gian Andrea Lazzarini per poi trasferirsi a Roma dove fra il 1777 e il 1808 gestì una scuola di pittura molto vicina alla famiglia urbinate degli Albani, in particolare al cardinale Alessandro, mecenate di molti pittori marchigiani. Il tema iconografico rappresentato era molto caro all’ordine agostiniano, perché se la prima tradizione racconta che l’apostolo Tommaso, giunto troppo tardi a Gerusalemme per assistere alla morte della Madonna, fece aprire il sepolcro per contemplare le spoglie della Madre di Dio e di Maria trovò solo la cintura che divenne oggetto di speciale venerazione nella cristianità, la seconda tradizione, invece, riconduce l’origine del culto a Santa Monica, madre di Sant’Agostino desiderosa di imitare Maria anche nel modo di vestire. Divenuta vedova del suo consorte Patrizio, e desiderosa di imitare Maria SS. anche nell’abito, la pregò di farle conoscere come avesse vestito nei giorni della sua vedovanza, specialmente dopo l’Ascensione di Cristo al cielo. La Vergine non tardò a compiacerla e le apparve poco dopo con i fianchi cinti da una stretta e rozza cintura di pelle che scendeva fin quasi a terra, al lato sinistro della fibbia che la rinfrancava. Slacciandosi di propria mano la cintura la porse a S. Monica, raccomandandole di portarla costantemente, e di insinuare tale pratica a tutti i fedeli bramosi del suo speciale patrocinio. Il primo ad approfittarne fu Il figlio S. Agostino e da lui venne in seguito a diffondersi ad ogni strato sociale, specialmente per opera del benemerito Ordine Agostiniano; non a caso l’angelo porge al Bambino un catino colmo di cintole.
Tedeschi pur tenendo fede all’impianto iconografico del racconto, non raffigura la Vergine coperta di un’ampia veste di colore scuro, simbolo di umiltà e penitenza, come vuole la tradizione, bensì nel consueto dualismo rosso-blu, dove il rosso dell’abito rappresenta la sua natura umana e il blu la sua regalità celeste, giocando su una intensa materia cromatica, dove la luminosità del volto e la densa ricchezza del blu e del rosso delle vesti della Vergine vengono messe in risalto dalla sceneggiatura della luce divina dello sfondo che contribuisce ad espandere un clima di assoluta serenità all’intera composizione. La santa invece viene raffigurata in abiti monacali agostiniani, con il sotto velo che avvolge testa e collo di colore bianco. La base di una colonna che si scorge sull’angolo sinistro della tela ci lascia presagire che la scena sacra si svolga sul pronao di una chiesa collocata in una zona collinare, come si percepisce dal paesaggio che si apre alle spalle del putto inginocchiato in primo piano. Andrea Viozzi Bibliografia: E. Bruni, 2014, p. 25
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Pietro Tedeschi
San Nicola da Tolentino e le Anime Purganti Olio su tela, cm. 288 x 153 Chiesa di S. Agostino, Civitanova Marche Alta
L’ancona proviene dal terzo altare laterale di destra della chiesa di S. Agostino di Civitanova Marche Alta ed è firmata e datata in basso a destra: “Petrus Tedeschi, Roma 1807”. Il dipinto venne realizzato dal pittore pesarese nel suo studio romano e raffigura san Nicola da Tolentino in una delle sue forme diverse del suffragio, come taumaturgo protettore delle anime purganti che con lo sguardo implora la Trinità di intercedere per quanti vengono lambiti dalle fiamme degli inferi. L’iconografia scelta raffigura uno degli episodi più noti e più sentiti dal santo agostiniano che, secondo la Historia di Pietro da Monterubbiano, poté sperimentare personalmente quanto fossero grandi i tormenti di queste anime. San Nicola aveva, infatti, una particolare venerazione per i defunti che chiedevano l’aiuto delle sue preghiere. Nel periodo in cui il santo risiedeva nel convento di Valmanente, in provincia di Pesaro ebbe un sogno. Un suo confratello, Fra’ Pellegrino da Osimo, gli apparve avvolto dalle fiamme del Purgatorio, scongiurandolo di celebrare la santa Messa in suffragio suo e di tutte le anime che soffrivano con lui. Egli accorse prontamente in suo aiuto celebrando per una settimana la Messa dei defunti, al termine del settenario, Fra Pellegrino gli apparve di nuovo per ringraziarlo di essere stato liberato dagli atroci supplizi. I tratti fisiognomici ed espressivi che evidenziano nel santo l’enfasi e il pathos dell’azione mediatrice fra i dannati e la Trinità, sono tipici del linguaggio pittorico di Tedeschi e molto comuni alla tela da lui realizzata nel 1791 per la chiesa di S. Maria del Soccorso di Cartoceto. Al centro dell’abito nero degli eremitani indossato dal santo compare una stella a dispetto del sole antropomorfo, in ricordo, secondo la Historia, della visione di una stella levatasi dalla nativa Sant’Angelo in Pontano e che si fermava sopra il convento di Tolentino. Ai suoi piedi compaiono altri attributi: il
libro della Regola, il giglio e il meno comune teschio, simbolo della morte. Sullo sfondo è ben evidente un’architettura fortificata, rimando probabilmente ai numerosi bastioni che fronteggiano il mare presenti nelle alta Marca. Andrea Viozzi M. Antonello, 1999, p. 197; E. Bruni, 2014, p. 20 Bibliografia generale: M. Antonello in San Nicola da Tolentino e le Marche. Culto e arte, a cura di R. Tollo, E. Bisacci, Tolentino, 1999, p. 197 E. Bruni (a cura di), Pietro Tedeschi e i miti del sacro cat della mostra., Civitanova Marche, 2014, p. 10-12
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Pietro Tedeschi
La pala d’altare centinata proviene dal primo altare laterale di destra della chiesa di S. Agostino di Civitanova Marche Alta ed è firmata e datata in basso al centro: “Petrus Tedeschi 1808”. Tomás García Martínez, questo il nome da laico del santo, nacque in Spagna nel 1486 a Fuenllana, ma visse nella vicina Villanueva de los Infantes, residenza della sua nobile e ricca famiglia e fin dalle più antiche biografie si nota l’insistenza con la quale si descrive la santità dei genitori e soprattutto la loro carità verso i poveri. Per questo mamma Lucia veniva chiamata la Santa Elemosiniera . Tutto ciò ebbe un grande influsso su Tommaso, anch’egli chiamato Santo Elemosiniere e Padre dei Poveri. Da vescovo continuò a mantenere fede alla povertà religiosa, devolvendo ai bisognosi la consistente somma di denaro ricevuta dai canonici il giorno del suo ingresso in diocesi. Le entrate del suo ministero di pastore le considerava patrimonio dei poveri. Ogni giorno provvedeva il cibo a 300, 400 e anche 500 poveri, senza contare quanto distribuiva segretamente a coloro che si vergognavano di chiedere l’elemosina. L’opera di Tedeschi, con chiara funzione devozionale e dottrinale, rappresenta proprio il santo vescovo, carica che ricoprì a partire dal 1544 a Valencia per undici anni fino alla morte, nell’atto di porgere soccorso ai poveri, agli orfani e agli ammalati, secondo i dettami iconografici elaborati in Spagna da Giovanni de Juanes (1579).Nell’opera di Civitanova il santo vescovo è effigiato in semplici ed umili abiti vescovili, che era solito rammendare da solo in segno di umiltà, mentre sul pronao di una chiesa, prima o dopo una funzione religiosa, dona una moneta d’oro ad una madre con in braccio il suo piccolo bambino mentre un altro figlio è inginocchiato accanto in lei in segno di riconoscenza della munificenza e della santità del frate agostiniano. La sua generosità era nota in tutta la Diocesi valenziana, come dimostrano le numerose persone accorse dinanzi la chiesa, pronte a ricevere dal loro amato vescovo un gesto di elemosina. Divenuto paladino delle fortune dell’ordine, alla sua beatificazione
Elemosina di S. Tommaso da Villanova Olio su tela, cm. 278 x 144 Chiesa di S. Agostino, Civitanova Marche Alta
(1618) e canonizzazione (1658) contribuirono motivazioni sia di carattere prettamente religioso, la sua predicazione e la sua attività pastorale ben si allineavano con i dettami del Concilio di Trento e si spese a lungo anche per una riforma più austera dell’ordine degli Agostiniani Scalzi, sia per motivi storici e politici, visto l’importante ruolo esercitato dalla Spagna negli equilibri internazionali di quel complesso periodo storico. La datazione del dipinto lo colloca fra le ultime testimonianze pittoriche note dell’artista pesarese e ci fornisce ulteriore conferma sulla sua morte, che tradizionalmente indicata nel 1805, deve essere necessariamente posticipata dopo l’esecuzione del dipinto. Formatosi nella bottega del Lazzarini, anch’egli molto attivo per gli agostiniani, Tedeschi eseguì la pala in un periodo in cui molte chiese dell’ordine subivano già le soppressioni perpetuate da Napoleone, la dispersione di gran parte del loro patrimonio artistico e le manomissioni delle strutture architettoniche degli edifici sacri. Andrea Viozzi
Bibliografia: A.Turrado, 1994, p. 11-12; A. Llin Cháfer, 2013, p. 23; S. Papetti, 2014, p. 10-12 Bibliografia generale: A.Turrado, Santo Tomás de Villanueva, Editorial Revista Agustiniana, Madrid 1995, p. 11-12 A. Llin Cháfer, Semblanza biográfica de Santo Tomás de Villanueva, in Santo Tomás de Villanueva. I. Estudios y láminas, EDES – Biblioteca Egidiana, Madrid – Tolentino 2013, p. 23 S. Papetti, in Pietro Tedeschi e i miti del sacro cat della mostra a cura di E. Bruni testi di Gabriele Barucca et al., Civitanova Marche, 2014, p. 10-12 26
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Filippo De Conte
Firmata e datata in basso a sinistra: “Philippvs De Comitibvs Inv. Et. Pin. 1770” la tela proviene dall’abside della chiesa di S. Agostino di Civitanova Marche Alta e raffigura il momento in cui il santo vescovo di Ippona scrive la Regola che verrà poi riconosciuta come fondamento per la Comunità dei Canonici Regolari o Agostiniani e che a partire dal secolo XII sarà adottata da parte di un numero crescente di comunità ecclesiastiche, che la preferiranno alla regola benedettina per la sua maggiore duttilità, in favore di un servizio missionario e pastorale da svolgere oltre i confini del monastero. L’attenzione del fedele verso il santo Dottore della Chiesa è subito catturata grazie al braccio teso con il quale Agostino sorregge la penna, dalla cui punta si dirama una sottile lingua di fuoco che va a colpire in basso il demone raffigurato supino su un grande libro aperto, con la testa schiacciata dal piede destro del santo e sul cui braccio è avvolto a spirale un serpente. Inoltre l’arto del santo sembra dividere in due parti il dipinto: in secondo piano infatti, sospesi sopra una balaustra marmorea a colonne sagomate, tre angeli in volo leggono gli scritti di sant’Agostino e partecipando attivamente alla stesura della Regola. Più in alto su di una nuvola viene raffigurato sant’Antonio Abate, colui che, insieme agli scritti di san Paolo, conoscendone la sua biografia e il suo esempio eremitico aveva ispirato Agostino a perseguire una scelta di vita monastica; non a caso nelle Confessioni ricorda come la figura di sant’ Antonio fosse ancora viva nella memoria trent’anni dopo la sua morte e come suscitasse ancora vocazioni. Il santo taumaturgo, detto anche sant’Antonio del Fuoco, viene rappresentato con la fiamma in mano, simbolo della sua capacità di strappare dagli inferi le anime dei dannati, il bastone a forma di tau, in ricordo della croce egizia, essendo anche lui di origine egiziana, e la campanella, con la quale i monaci antoniani annunciavano il loro arrivo durante gli spostamenti e le questue, e con essa venivano
Sant’Agostino scrive la Regola olio su tela, cm. 300 x 177 chiesa di S. Agostino, Civitanova Marche Alta
scacciati gli spiriti maligni. La scena, resa armoniosa e pacata nei toni e nei movimenti grazie agli effetti della luce che da sinistra avvolge i personaggi, viene ambientata da De Conte all’interno di una chiesa settecentesca monumentale, di cui si intravedono parte della sue colonne di ordine corinzio. Andrea Viozzi Bibliografia: E. Bruni, 2014, p. 28
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Antonio Liozzi
(Penna San Giovanni 1730 – 1807)
La tela centinata, non firmata né datata, proveniente dall’altare maggiore della chiesa di San Savino di Gualdo è entrata a far parte del catalogo di Liozzi grazie all’attribuzione di Amico Ricci (1834). L’inventario del 1771 conservato presso l’Archivio Storico della Curia di Fermo documenta che all’interno della chiesa di San Savino vi era una “pittura antica” raffigurante il santo patrono, vestito in abiti vescovili, San Giovanni Battista e in alto la Vergine coronata da angeli; il cattivo stato conservativo e la ristrutturazione della chiesa avvenuta nei primi anni dell’Ottocento su disegno dell’architetto Pietro Maggi, probabilmente indusse la Curia fermana a commissionare al pittore l’intervento sul dipinto. Formatosi a Roma presso la bottega del pittore Marco Benefial che lo indirizzò allo studio dei classici della pittura del Cinquecento e Seicento, Liozzi realizzò le sue opere soprattutto per committenti locali lavorando per comuni, parrocchie e conventi. La tela di Gubbio rientra in quel ciclo di opere eseguite nell’ultima fase di attività del pittore pennese, intorno al 1805, dopo un lungo periodo di inoperosità, nella quale tornò a dipingere, pur mostrando stanchezza e ripetitività dei modelli, rifacendosi allo stile dei primi anni della sua formazione romana. L’impianto piramidale e lo schema compositivo del dipinto di Gualdo ricordano l’opera di Benefial proveniente dalla chiesa francescana di Santa Maria delle Grazie di Monte San Vito oggi nella collegiata di San Pietro Apostolo. Raffigurata in gloria appare la Vergine Maria seduta su di un trono di nuvole con accanto il Bambino circondati da una schiera di angeli; ai loro piedi vengono effigiati i santi Savino, in abito vescovile che benedice il castello di Gualdo, sorretto da un angioletto, fortezza importante in antichità in quanto nel suo territorio passava il confine tra i possedimenti dei Da Varano e quelli di Fermo, e san Giovanni Battista rappresentato con le mani incrociate sul petto in segno di riconoscimento della sua subalternità dinanzi alla venuta del Messia.
Madonna con il Bambino in gloria e si santi Savino e Giovanni Battista olio su tela, cm 290 x 190 chiesa di San Savino, Gualdo
Probabilmente la figura del santo vescovo è da ricondurre a san Sabino di Spoleto vescovo e martire, che veniva chiamato anche Savino, vissuto nel III-IV secolo, che è anche co-patrono della Diocesi di Fermo. Andrea Viozzi Bibliografia: A. Ricci, 1834, p. 421; F. Laudi, 1968, p. 64; A. Stramucci, 1974, p. 75; G. Crocetti, 1997, pp. 110-111. Bibliografia generale: A. Ricci, Memorie storiche delle arti e degli artisti della Marca di Ancona, vol. II, Macerata, 1834 F. Laudi, Indice degli artisti marchigiani, autori di opere esistenti in Italia: sotto l’egida ed a totale beneficio della Società mutua di assistenza e previdenza tra marchigiani residenti in Roma, Roma, 1968 A. Stramucci, Conosci le Marche - Macerata, Ancona, 1974 G. Crocetti, La pittura di Antonio Liozzi. Penna San Giovanni 1730-1807, Fermo 1997
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Ubaldo Ricci
La pala è collocata nell’altare della campata centrale sinistra della chiesa di San Savino di Gualdo, edificio risalente al XIV secolo e ricostruito alla fine del XVIII secolo dall’architetto milanese Pietro Maggi. Attribuita, in prima istanza, a Simone de Magistris, si deve a Giuseppe Crocetti aver individuato il documento di commissione del dipinto fra le memorie di Ubaldo Ricci in data 25 maggio 1693, dove viene registrata la richiesta di Francesco Paolucci per una “Cena del Signore con l’Apostolo per presso di scudi 25” (Papetti, 2007); la commessa è avvalorata da un documento firmato e datato 27 luglio 1693 rinvenuto sempre dallo studioso nel Registro di Entrata ed Esito della Ven. Compagnia del SS.mo Sacramento (1685) del borgo medievale di Gualdo, uno dei tredici comuni dell’Arcidiocesi di Fermo in provincia di Macerata. Nell’atto viene documentato che spontaneamente Ubaldo fece “elemosina a detta Compagnia di scudi 10”, ricevendo 15 scudi per la tela. La datazione colloca il dipinto fra le opere realizzate dopo il soggiorno romano in cui però, come sostiene Papetti, sembrano distanti i modelli cortoneschi e maratteschi della sua formazione, mentre appaiono più vivi i richiami all’affresco di medesimo soggetto realizzato da Livio Agresti nell’oratorio romano del Gonfalone nel 1571 e replicato in molte stampe; la figura dell’apostolo colto di spalle seduto sullo sgabello con lo schienale sagomato, effigiato in controparte dal Ricci rispetto all’opera romana e il discepolo con la mano al petto, sembrano trarre ispirazione proprio dall’opera dell’Agresti. La composizione centralizzata del Cristo che benedice il pane e i giochi della luce sul suo mantello, sembrano richiamare l’Ultima Cena di Barocci realizzata nell’ultimo decennio del XVI secolo per la cappella del Sacramento nel duomo di Urbino. Come il pittore urbinate anche Ricci trae spunto per questo dipinto dai capolavori del Tintoretto, creando effetti luministici che donano profondità di campo e mettono in evidenza, grazie
Ultima Cena (1693) Olio su tela, cm 241 x 170 Gualdo, Chiesa di San Savino
alle lumeggiature dorate delle pieghe della veste, la domestica sullo sfondo che spostando la tenda lascia intravedere la credenza della cucina. I volti ricchi di umanità degli apostoli in secondo piano, dipinti con vigorosi impasti cromatici, sembrano invece essere un rimando al dirompente realismo romano postcaravaggesco. Andrea Viozzi
Bibliografia: S. Papetti, 2007, p. 94-95
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PAGINA COLORATA COME TONI COPERTINA
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SAGGI saggi
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Ragioni di una mostra “Recuperata Ars” è l’occasione per mostrare una selezione di tesori recuperati, salvati dal terremoto del 2016, perchè vogliamo che questa disgrazia, questo sfregio alla Cultura, sia da impulso per far conoscere quanto e come la Terra di Marca, così varia e così fertile, in alcune sue parti ancora trascurata, sia ricca di felici esempi e di opere tanto originali quanto esclusive. La scelta è stata dettata tenendo conto della fragilità dei pezzi ed è stata fatta pensando di mettere in luce alcuni aspetti dell’arte figurativa compresa tra il XVII e il XI secolo, poco nota ai più. Queste opere che provengono da Ascoli Piceno, Fermo, Arquata del Tonto, Corridonia e Civitanova Alta, raccolte nei depositi temporanei allestiti dopo i sommovimenti tellurici, ma prima custodite nelle chiese, nei palazzi, nei musei disseminati sul territorio, sono sorprendenti e singolari, ammirevoli nella loro inaspettata bellezza, a volte nascosta, a volte sottovalutata. Queste tele e queste sculture, legate alle comunità per le quali sono state create, legate alla tradizione e alla memoria di un popolo, sono preziosi frammenti di una storia millenaria di arte e civiltà che nei secoli ha saputo fare della molteplicità e delle contaminazioni culturali un tratto della propria identità. “Recuperata Ars” ripercorre le contrade marchigiane come fecero Bernard Berenson e Roberto Longhi, Pietro Zampetti e Federico Zeri che contribuirono, con i loro studi e la capillare conoscenza del territorio, a dare identità culturale a queste zone rimaste ai margini del confronto critico e dei circuiti turistici e culturali. Recupero dell’arte e del patrimonio marchigiano, estremamente diffuso e pregevole, che noi vogliamo contribuire a divulgare e valorizzare attraverso il contatto diretto con le opere, facendo particolare attenzione a quell’arte meno celebrata, meno onorata, ma non per questo meno degna e certamente singolare espressione di fede e di sapere. L’esortazione è quella di divulgare questi valori d’arte e di storia che sono da proteggere, il richiamo che lanciamo è quello di mantenere accesa l’attenzione e costante l’interesse della collettività e degli studiosi per questo sorprendente, autentico e straordinario patrimonio. “Recuperata Ars” è uno dei tanti modi di affrontare la tragedia e questa mostra è l’occasione per dare un segnale positivo perchè come scrisse nel 1944 Roberto Longhi a Giuliano Briganti ”L’arte, di per se è muta e indifesa, non può proteggersi che con la fama, e la fama è la critica sempre desta”.
Enrica Bruni
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Mostrare per ricominciare Le sensazioni che ognuno di noi ha vissuto intimamente durante quei pochi interminabili secondi del terremoto, ci hanno indotto con violenza a mutare il modo di percepire la realtà e il tempo che la scandisce. Un tempo che in quella drammatica situazione ci è sembrato infinito, ma che si riduce a pochi attimi di forza devastatrice che tutto deturpa e sfregia. Gli oggetti che ci appartenevano saldi, fissi, immobili, inalterati per secoli sfuggono all’equilibrio per assumere un assetto insolito, deforme e fino a quel momento inimmaginabile. La nostra percezione necessita di un tempo per poter rielaborare quello sgomento, quel trauma. La casa in cui abbiamo abitato, i ricordi che custodiva, la chiesa della nostra infanzia, la pala d’altare alla quale abbiamo consegnato le nostre speranze, il borgo dove abbiamo vissuto anni spensierati, tutto diventa instabile e insicuro. Di fronte a tanta devastazione si deve raccogliere, ricomporre ciò che rimane, si deve riscoprire il senso e il valore delle cose perché non sbiadiscano dimenticate. E’ il recupero del ricordo il leitmotiv che mi ha guidato nel progettare l’allestimento della mostra Recuperata Ars, il concetto che si esprime nel gesto semplice di raddrizzare un quadro, di appoggiare all’impalcatura un crocefisso ferito, di accostare antiche tele dipinte che portano gli stessi segni impressi nell’animo di chi è rimasto orfano di tutto. Le opere esposte ci permettono così di impossessarci nuovamente, e con maggiore consapevolezza, del loro significato e del loro valore simbolico, oltre che culturale, la loro fisicità e i segni distintivi raccontano ancora la nostra Storia e senza prevaricazioni questi piccoli grandi tesori salvati e feriti, uno accanto all’altro, tornano ad essere i tasselli della stessa originale memoria. Marco Pipponzi
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OPERE DALLA CHIESA DI SANT’ANGELO MAGNO AD ASCOLI PICENO: UN MONUMENTO SFREGIATO DAL TERREMOTO
Giambattista Cerrini detto Il Cavalier Perugino, S. Giovanni Battista, 1656 ca. olio su tela, cm. 245 x 172 chiesa di Sant’Angelo Magno Ascoli Piceno
Le ripetute scosse telluriche che si sono succedute dal mese di agosto 2016 ad oggi hanno inferto gravi ferite al patrimonio architettonico e storico artistico dell’entroterra marchigiano, colpendo soprattutto quei centri appenninici che, sin dal Medioevo, avevano dato vita ad una intensa attività spirituale ed economica che ha favorito la crescita culturale di quella che oggi viene definita come la spina dorsale della Penisola. Posta nel cuore di questo territorio, anche la città di Ascoli Piceno ha subito le ingiurie del terremoto che hanno comportato la chiusura per inagibilità di numerose chiese, edifici pubblici e palazzi storici da sempre meta del turismo culturale: l’Amministrazione Comunale, grazie ai fondi resi disponibili dalle compagnie assicurative, ha in breve tempo provveduto alla messa in sicurezza di alcuni tra i monumenti più conosciuti del capoluogo piceno: la torre del Palazzo dei Capitani, le torri gemelle del complesso monumentale di San Francesco, la torre degli Ercolani, le chiese di Santa Maria della Carità e del Carmine e lo scalone di Palazzo Arrengo. La rapidità con cui si è intervenuti ha consentito ai turisti che, nonostante le preoccupazioni dovute al ripetersi degli eventi sismici, hanno continuato a visitare la città, di poter apprezzare le sedi museali comunali e tutti i più celebri monumenti cittadini, a fronte di una situazione che ancora oggi appare a livello regionale molto in ritardo rispetto alle urgenze connesse agli interventi di messa in sicurezza degli edifici storici. La chiesa di Sant’Angelo Magno, che sorge nel pittoresco quartiere della Piazzarola, ha subito anch’essa delle violente sollecitazioni strutturali che, compromettendo la stabilità dell’intero edificio, hanno consigliato dopo le violente scosse del 30 ottobre 2016 la rimozione di tutte le opere d’arte mobili conservate al suo interno: l’intervento, che ha riguardato l’intero apparato decorativo barocco della chiesa, è stato reso possibile grazie al tempestivo intervento dei carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale delle Marche, comandati dal maggiore Grasso, che ha coordinato il trasferimento delle opere d’arte presso il deposito del Forte Malatesta, individuato sin dal mese di settembre 2016 dai funzionari del Mibact come il luogo più idoneo per la conservazione delle opere d’arte mobili di proprietà pubblica provenienti dai centri terremotati. Con l’aiuto dei Vigili del Fuoco e dei tecnici comunali, sono state rimosse dalla chiesa tutte le pala d’altare eseguite nella seconda metà del XVII secolo per volontà degli abati Ciucci e Amati da alcuni tra i più rappresentativi pittori della scuola romana: da Maratta a Cerrini, 39
da Ghezzi a Brandi, le tele di Sant’Angelo Magno costituiscono un importante pinacoteca che illustra gli orientamenti stilistici presenti nell’Urbe negli anni centrali del Seicento: il Classicismo di matrice sacchiana di Maratta e la esuberante teatralità esibita dai dipinti di Ghezzi e di Brandi, giunti da Roma a partire dal 1656, rappresentano una precoce testimonianza nei centri periferici dello Stato Pontificio della varietà stilistica che animava la scena artistica romana, dominata da personalità di artisti come Giuseppe Ghezzi e successivamente Carlo Maratta di origine marchigiana. Un documento coevo di grande suggestione, la guida cittadina redatta nel 1792 da Baldassarre Orsini, testimonia in modo diretto la vitalità della stagione pittorica ascolana settecentesca; l’operosità di artisti locali come Tommaso Nardini, Carlo Palucci, Biagio Miniera e Nicola Monti si intreccia con la venuta di importanti dipinti commissionati ai più insigni maestri attivi nell’Urbe, rinsaldando così quei legami con la cultura romana che già nel Seicento avevano alimentato la produzione artistica locale”. Fra le chiese cittadine più direttamente interessate dal rinnovamento seicentesco, quella di Sant’Angelo Magno ha conservato più integralmente l’apparato decorativo tardo barocco voluto dagli abati che si succedettero alla guida del monastero olivetano cui la chiesa era annessa. Il Libro de’ Ricordi del convento consente di ricostruire con buona dose di certezza gli interventi attuati a partire dal 1637 dagli abati Ciucci e Lenti, appartenenti a due illustri famiglie del patriziato ascolano, che si prodigarono per abbellire la chiesa e gli appartamenti di rappresentanza del complesso monastico, provvedendo all’acquisto di paramenti liturgici in preziosi tessuti serici veneziani (20 luglio 1637), di manufatti in argento sbalzato (1644), di arazzi, di corami d’oro destinati all’anticamera dell’appartamento degli abati (1639) e di trentaquattro dipinti provenienti da Roma (1640). Dopo che, nel 1651, Francesco Fiorelli ebbe completato la decorazione del chiostro avviata due decenni prima da Andrea Lilli, l’abate Ciucci diede inizio alla realizzazione dei nuovi dipinti destinati alla chiesa: nel 1655 veniva commissionata a Carlo Maratta la Vergine che appare a santa Francesca Romana e a Giacinto Brandi la Resurrezione; nel 1662 nuovamente Brandi veniva incaricato di dipingere le due tele raffiguranti il Beato Bernardo Tolomei e san Benedetto abate, collocate nei due altari che fiancheggiano l’altare maggiore. Così nell’arco di dieci anni tutti gli altari della chiesa ebbero nuove tele, per la cui esecuzione ci si avvalse di artisti romani già affermati o in via di affermazione, opportunamente scelti fra i fautori di un compromesso stilistico fra le istanze barocche e quelle classiciste. Questa scelta moderata connota anche la realizzazione degli altari destinati ad accogliere le tele che venivano da Roma; gli 40
Chiesa di Sant’Angelo Magno Ascoli Piceno
abati Ciucci e Lenti non vollero che la decorazione fosse di a marmo o di stucco “... con raggiere dorate e folle d’angeli sgambettanti al di sopra delle trabeazioni, come gli artisti d’allora i andavano costruendo in altre chiese ascolane. Essi preferirono invece un’architettura tutta di legno scolpito, di stile classico leggermente baroccheggiante e con grande profusione d’oro” (Mariotti). Sul finire del secolo, l’abate Francesco Amati riprendeva l’opera di abbellimento avviata trent’anni prima dai suoi predecessori e faceva realizzare altri due altari, l’uno per la Sacra Famiglia di Giuseppe Ghezzi, dipinta nel 1698 e pagata centoquattro scudi, l’altro destinato ad accogliere un antico crocifisso ligneo cinquecentesco per soddisfare una sua speciale devozione (1719). L’ultimo e più impegnativo intervento riguardò la decorazione della volta del presbiterio e dell’arco trionfale, affidata dallo stesso Amati al pennello di un sacerdote pittore ascolano, don Tommaso Nardini. Nato ad Ascoli da facoltosa famiglia nel 1658, egli era stato educato presso lo studio di Ludovico Trasi e dopo la morte di questi (1695) era passato a collaborare con l’architetto-scultore Giuseppe Giosalatti, eseguendo la decorazione pittorica di molti edifici da lui progettati. Da Trasi, Nardini aveva ricevuto un’educazione legata ai modi di Andrea Sacchi e di Carlo Maratta, la cui bottega il pittore ascolano aveva frequentato a Roma copiandone anche la Natività di San Giuseppe dei Falegnami (oggi conservata presso il Museo diocesano di Ascoli); dalla collaborazione con Giosafatti, invece, Nardini ricavò una più teatrale inclinazione compositiva che espresse nella decorazione di varie chiese ascolane. Sebbene le fonti locali non ne facciano menzione, è assai pro-babile che Nardini, come quasi tutti i pittori ascolani del tempo, abbia perfezionato la sua formazione a Roma, attento alle grandiose imprese decorative avviate dal Baciccio nella chiesa del Gesù e da Pozzo in Sant’Ignazio. Perduti gli affreschi realizzati dal pittore ascolano nella chiesa di Santa Caterina, deperiti quelli della cripta del Duomo, dei quali ho però rintracciato alcuni studi preliminari presso la Pinacoteca ascolana, restano soltanto i soffitti della chiesa dell’Annunziata e di Sant’Angelo Magno a testimoniare le qualità di Nardini come esuberante decoratore di interni. Già Lanzi, acuto conoscitore della realtà artistica picena, riservò un plauso particolare all’impresa di Sant’Angelo Magno, eseguita da Nardini negli ultimi anni di vita in collaborazione con il bolognese Agostino Collaceroni, allievo di padre Pozzo, incaricato di eseguire le quadrature. Il complesso programma iconografico, cui lo stesso pittore probabilmente concorse mettendo a frutto una profonda dottrina teologica, è teso a esaltare la figura dell’arcangelo Michele, titolare della chiesa, e più in generale il ruolo degli angeli nella storia del Cristianesimo. Per incarico 41
di Amati, sulla volta del presbiterio dipinse l’Eterno Padre circondato da una folta gloria angelica, chiuso entro un robusto inquadramento architettonico mistilineo; sulle pareti raffigurò l’Apparizione di san Michele Arcangelo al vescovo di Siponto, la Cacciata di Eliodoro dal Tempio e i Quattro Evangelisti, mentre sopra l’arco trionfale compare la Cacciata degli angeli ribelli. Morto nel 1716 l’abate Amati, la decorazione venne poi ripresa dall’abate Cornacchia che incaricò Nardini di dipingere la volta della navata centrale sulla quale già nel XVI secolo erano stati realizzati degli ornati di gusto rinascimentale racchiudenti tre clipei, imbiancati sin dal 1659 per far luogo a una più elaborata decorazione. Così l’artista ascolano dipinse sulla volta della navata maggiore tre ovati raffiguranti l’Immacolata Conce-zione, l’Adorazione dell’Agnello mistico e l’Allegoria dell’Eucarestia; nelle vele figurano le Sibille (Cumana, Eritrea, Delfica, Ellespontica, Persica, Frigia, Tiburtina, Libica), mentre negli otto finti arazzi illusionisticamente appesi sopra gli archi delle navate laterali compaiono vari episodi biblici che hanno per protagonisti gli angeli. Nella controfacciata si nota invece una bella Estasi di santa Cecilia, caratterizzata dall’atteggiamento vivace degli angeli musicanti. La serrata intelaiatura architettonica di Collaceroni, ravvivata da cartigli e da festoni parzialmente dorati da Antonio Corpignoni, inquadra le animate composizioni concepite da Nardini con una chiara ricerca illusionistica, esaltata dall’uso sapiente della luce. In queste scene non mancano espliciti riferimenti alle opere del Baciccio, rilevabili in particolare nell’ovato raffigurante l’Adorazione dell’Agnello mistico, dove le figure dei patriarchi che compaiono in basso fra le nuvole ricordano quelle degli apostoli che assistono alla glorificazione dei santi francescani nell’affresco dipinto da Gaulli nel 1707 per la chiesa romana dei Santi Apostoli. A conferma di questa derivazione, possiamo ricordare che un’esercitazione grafica desunta dalla parte superiore della composizione del Baciccio compare fra i fogli riferiti a Nardini nella Pinacoteca civica di Ascoli, dove si conservano anche sei studi relativi alla decorazione di Sant’Angelo Magno. I fogli più antichi, risalenti al 1713, quando Nardini avviava la decorazione per incarico di Amati, sono da porsi in relazione con il dipinto dell’arco trionfale; l’uno propone un primo pensiero per uno degli angeli ribelli, poi eseguito in maniera diversa, mentre il secondo è relativo alla figura dell’Arcangelo Michele. Gli altri quattro studi si riferiscono invece alla grandiosa composizione realizzata sulla volta della navata su commissione dell’abate Cornacchia: il primo, a matita rossa su carta bianca, è relativo alla Sibilla Frigia che presenta un impianto analogo a quello dell’Eritrea, dipinta sul lato opposto, come se il pittore si fosse avvalso dello stesso 42
cartone. La figura femminile con un ampio mantello è invece da collegare all’allegoria dell’Eucarestia della quale Nardini ha anche studiato attentamente a sanguigna la mano che impugna la falce: due disegni a matita rossa si riferiscono alla Sibilla Delfica e alla tunica dell’angelo che adora l’Agnello mistico. Mancano invece studi di insieme, abbozzi preliminari che Nardini era solito eseguire a penna e inchiostro marrone con un segno veloce. Gli studi inediti collegati alla decorazione di Sant’Angelo Magno non presentano alcuna significativa variante rispetto all’esecuzione finale; sono eseguiti a matita nera o rossa con un tratto diligente. Questi fogli dimostrano l’importanza da lui attribuita alla pratica disegnativa, considerata come un necessario momento di studio relativo a imprese pittoriche assai varie e impegnative, ma anche come sussidio per i collaboratori che lo affiancavano nella realizzazione dell’ opera, soprattutto negli ultimi anni di vita del pittore. È poi da sottolineare come nei disegni preparatori esaminati le singole figure appaiano isolate, prive di riferimenti relativi al resto della composizione, né compare alcuno studio relativo all’inquadramento architettonico per il quale Nardini si affidò completamente a Collaceroni. Questo straordinari apparato decorativo, che include anche la realizzazione degli elaborati paliotti dipinti a ramages , dei confessionali e di altri manufatti destinati alla pratica liturgica è stato profondamente segnato dalle scosse telluriche dell’ottobre 2016 e ci auguriamo che l’opportunità offerta dall’Amministrazione Comunale di Civitanova Marche possa accendere i riflettori sulla necessità di provvedere quanto prima al ripristino dell’insigne monumento ascolano. Stefano Papetti
Bibliografia: - C. Mariotti, Il monastero di Sant’Angelo Magno, Ascoli Piceno, 1941 - S. Papetti, Musei d’Italia - Meraviglie d’Italia. Ascoli Piceno, Pinacoteca Civica, disegni, maioliche, porcellane, Bologna 1995 - Atlante dei Beni Culturali dei territori di Ascoli Piceno e di Fermo – Beni Storico-Artistici, Pittura e Scultura, a cura di S. Papetti, Milano 2005 - Il magistero di Carlo Maratti nella pittura marchigiana fra Sei e Settecento, a cura di C. Costanzi, M. Massa, Milano, 2011
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Le tele civitanovesi di Pietro Tedeschi
Pietro Tedeschi Elemosina di S. Tommaso da Villanova, 1808 olio su tela, cm 278x144 Chiesa di S. Agostino Civitanova Marche Alta
E’ difficile ricostruire le vicende dell’insediamento agostiniano a Civitanova Alta, probabilmente risalente alla prima metà del Duecento, esigue e lacunose sono le fonti documentarie. Della chiesa tardo medievale restano il portale e il campanile cuspidato. Gli interni hanno forme architettoniche ascrivibili al XVII-XVIII secolo. La chiesa ad aula ha sei altari laterali e si presenta con un ricco quanto elegante apparato decorativo in stucco attribuito a Gioacchino Varlè (Roma, 1734 – Ancona, 1806), allievo di Camillo Rusconi. Gli altari laterali sono tre per ogni lato della navata, due più vicini all’altar maggiore, adiacenti al piano presbiteriale, sono voltati a tutto sesto con cartigli e cornici movimentate, statue in stucco di angeli, conchiglie e motivi vegetali, gli altri quattro sono più lineari, con timpani triangolari dalle imposte spezzate. La chiesa di Sant’Agostino, alienata dalla Curia di Fermo, il 30 giugno del 1987, viene acquistata dal Comune di Civitanova Marche con le opere pittoriche tra cui le tre pale d’altare del pittore pesarese Pietro Tedeschi (Pesaro 1750-Roma 1805/08). Lo spazio restaurato e adeguatamente attrezzato per mostre d’arte e concerti è oggi vissuto come estensione naturale della Pinacoteca civica Marco Moretti. Le tre pale d’altare firmate da Pietro Tedeschi, artista anzitempo neoclassico, allievo di Gian Andrea Lazzarini, che espletò gran parte della sua attività a Roma, sono poste negli altari laterali dello pseudo transetto e nell’altare a destra dell’entrata principale di Sant’Agostino: la Madonna della Cintola, a sinistra dello pseudo transetto, di fronte a questa c’è San Nicola da Tolentino e le Anime Purganti, sull’altare a destra dell’ingresso principale si trova l’Elemosina di San Tommaso da Villanova. La personalità artistica di Pietro Tedeschi, che si trasferì a Roma nel 1777 e da qui mandò agli agostiniani le opere civitanovesi, si rivela ampiamente in questi dipinti che attendono e meritano un accurato esame perché possono contribuire a tracciare una chiara mappa della sua attività di pittore ancora poco conosciuto e non sufficientemente apprezzato. Armonia delle forme, ispirazione classica e riferimenti letterari sono la cifra che segna l’opera del Tedeschi che lavora sì a Bologna e nelle Marche, ma che a Roma trova la sua distinta ed espressiva via pittorica e le commissioni, come le realizzazioni testimoniano la posizione di prestigio raggiunta dal Tedeschi a Roma nel tardo Settecento. Dei dipinti di Sant’Agostino non si conosce la storia, tutte le carte civitanovesi sono andate perse, ma certo è che l’Elemosina di S. Tommaso da Villanova datata 1808 ci permette di spostare di qualche anno la morte del pittore tradizionalmente indicata e accettata nel 1805. Per la chiesa di Civitanova Alta Pietro Tedeschi manda da Roma, in diversi momenti, tre pale d’altare firmate e datate. La prima opera inviata è la Madonna della 45
Cintura e Santa Monica, collocata sul terzo altare di sinistra nell’area presbiteriale. Il tema è quello della donazione della cintola, simbolo di fedeltà e di consolazione, l’immagine si riferisce ai frati e alle suore agostiniani che portano in vita una cinta di cuoio nero. Al centro della composizione la Vergine Maria in un tripudio di luce e putti festanti, è sospesa, seduta su un trono di nuvole, alla sua sinistra in piedi Gesù Bambino che da un catino sorretto da un angelo prende una cintola. Maria rivolta a S. Monica le porge la cintola. La santa, madre di S. Agostino, nella veste nera dell’Ordine, è in piedi sul lato sinistro della pala, il viso segnato dagli anni, rapita guarda ed è guardata dalla Vergine, tra loro c’è un legame mistico disegnato e sottolineato visivamente dalla striscia scura della cintola che viene retta contemporaneamente dalla Madonna e da S. Monica. La firma di Pietro Tedeschi in basso a destra, Petrus Tedeschi Roma 1805, è dipinta nell’alzata di un basamento sul quale poggia una colonna che bilancia la solida figura della santa che ha ai piedi due angioletti. Uno quasi nascosto dal primo, prega rivolto al cielo, l’altro inginocchiato in primissimo piano, ci guarda e indica l’apparizione prodigiosa. Sullo sfondo un triangolo di paesaggio ci fa cogliere distintamente dolci colline, alberi e cespugli rigogliosi. La seconda pala del Tedeschi, realizzata a Roma e firmata 1807, è tutt’oggi collocata sul terzo altare a destra, dirimpetto alla Madonna della Cintola, e raffigura S. Nicola da Tolentino che intercede per le anime del Purgatorio. Il dipinto presenta sulla destra a figura intera il santo che, in una forma diversa del suffragio, vale a dire il santo taumaturgico, è nell’atto di intercedere per le anime purganti rivolgendosi alla Trinità dipinta sulla parte superiore della pala. Tra gli angeli e luce dorata, Cristo risorto, Dio Padre con il globo terrestre e la colomba bianca dello Spirito Santo, dialogo con S. Nicola implorante, rivolto verso l’alto, le braccia aperte ad indicate il cielo e i penitenti e mettere così in relazione le suppliche e la divinità trina. La testa di San Nicola spunta dall’abito agostiniano che è una superficie nera e compatta, sul petto risplende la stella, attributo che ricorda la visione di una stella levatasi dalla sua città natale, Sant’Angelo in Pontano, e fermatasi sull’oratorio degli agostiniani di Tolentino. A destra della tela, di fronte al santo, da una spaccatura della terra salgono i peccatori, uomini e donne dolenti avvolti dalle fiamme, le braccia tese in atto di supplica. Sullo sfondo un’ampia veduta di valli e dirupi, alberi e cespugli frondosi. Sempre sul fondo a sinistra si erge una fortezza e in lontananza il mare che tocca all’orizzonte il cielo velato da nubi. In primissimo piano, al bordo della voragine, è dipinto un libro chiuso, rappresentazione del limitato sapere umano, un teschio simbolo della vita eremitica e della caducità delle cose umane, gigli bianchi distintivi del santo. L’ultima pala d’altare inviata da Pietro Tedeschi a Civitanova Alta raffigura l’Elemosina di S. 46
Tommaso da Villanova firmata Petrus Tedeschi 1808, data che sposta di tre anni in avanti la morte del pittore. La tela posta sul primo altare di destra entrando nella chiesa, rappresenta uno degli episodi più noti dell’iconografia dedicata all’agostiniano spagnolo, diventato vescovo di Villanova nel 1555 e canonizzato nel 1658. San Tommaso è dipinto nell’atto di fare l’elemosina ad una giovane donna. La storia vuole che S. Tommaso fece alle tre figlie di un sarto povero il dono di cinquanta scudi ognuna per la loro dote. L’episodio va letto sotto l’influsso dell’Arcivescovo di Valenza che predicava una chiesa cattolica povera che distribuisce i suoi avere ai bisognosi. Il santo è ritratto in abiti sontuosi che dimostrano la sua condizione all’interno della gerarchia ecclesiastica, il pastorale finemente decorato nella mano sinistra con la quale regge anche un sacchetto pieno di monete come quella che sta deponendo nel palmo della mano della donna genuflessa ai suoi piedi. La donna è sul primo gradino di quello che si intuisce è il sagrato di una chiesa. Il pastorale, simbolo della missione del vescovo che guida il suo gregge, divide verticalmente in due parti la composizione pittorica: a destra di chi guarda c’è di scorcio la donna in abiti dimessi, scalza, inginocchiata di fronte al vescovo, tiene con il braccio destro un bambino e stende la mano sinistra per raccogliere l’elemosina. Sempre su questo lato una piccola folla di poveretti, a fianco a lei un altro bambino inginocchiato, un uomo cieco che si aggrappa ad un bastone e ancora una figura in lontananza che partecipa meravigliata al fatto straordinario. Sul lato sinistro del quadro, vediamo S. Tommaso, tre chierici e una colonna imponente che delimita lo spazio profano da quello sacro lasciato intuire alle spalle del santo e dei religiosi. Il primo chierico appresso S. Tommaso è proteso a proteggere il vescovo, si vede bene l’abito talare nero e sopra la cotta bianca, degli altri due scorgiamo in prospettiva i visi meravigliati per il fatto inconsueto che sta accadendo sotto i loro occhi. Lo sfondo un cielo velato da nubi dove si affacciano le fronde degli alberi. Le tre pale d’altare della chiesa di S. Agostino di Civitanova Alta testimoniano non solo l’attività del prolifico pittore pesarese, ma evidenziano i rinnovati rapporti col classicismo bolognese e forme di carattere già ottocentesco. Il caso di S. Agostino e delle opere del Tedeschi qui conservate è particolare. La chiesa accoglie l’ultima testimonianza del pittore datata 1808 che ci introduce già, prima del declino e dispersione del patrimonio artistico, nel periodo napoleonico. Le opere civitanovesi di Pietro Tedeschi, scampate alle razzie, ai danni del tempo, alla faciloneria degli uomini, aspettano un’ accurata ricostruzione storica e artistica, uno studio serio e approfondito che dia finalmente loro dignità e risalto. Enrica Bruni 47
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Libera nos a flagello terraemotus. Immagini e culti contro il terremoto nelle Marche meridionali del Settecento1*
Pier Leone Ghezzi, Vincenzo Maria Orsini salvato dal terremoto, 1688 olio su tela, cm 176x166 Chiesa San Filippo Matelica
Nella sua Predica della catedra di San Pietro, recitata a Roma, nella chiesa di S. Lorenzo in Damaso il 22 febbraio 1539, Cornelio Musso, uno dei più grandi predicatori francescani d’età moderna, nonché illustre protagonista del Concilio di Trento�, difende l’autorità di San Pietro, come “pietra” fondante la Chiesa, e di tutti i suoi successori dagli attacchi degli eretici, i protestanti, ricorrendo alla metafora dell’edificio costruito su solide fondamenta, capace di resistere ai terremoti provocati dal diffondersi dell’eresia: “Entrate hora in questo bel pensiero per stare nella metafora, che ogni edificio benché sia grandissimo e fortissimo, pure alla fine va in rovina, quando non sia per altra forza, almeno per i terremoti. Hora tanto sono più grandi, i terremoti quanto vengono dalla più profonda parte della terra, perché quelle essalationi pigliano sempre forza maggiore, e sbuffando i venti fuora di quelle caverne, e venendo in su tanto maggior scossa danno alle fabriche, quanto più ascendano da basso in alto. Onde si vede che alle volte la terra s’apre in quelle gran voragini, e sorbisce nelle sue viscere non sol palagi, e tempi, ma monti, Città, provincie intere, si che non se ne vede mai più vestigio alcuno, come se discendessero veramente infino all’ultimo centro. Se dunque dall’ultima parte dell’inferno, dove stanno i diavoli, che è propriamente il centro dell’elemento terra uscisse un terremoto, e venisse qua su, non vi par ragione, che sarebbe atto a rovinare ogni gran fabrica? Certo si. Et pure questo edificio della Chiesa (vedete se è ben fondato dice Christo) non caderebbe mai quando bene dalle porte dell’inferno, cioè dalle sue bocche uscissero mille terremoti. O’ che fermezza è questa della chiesa di Christo, e di San Pietro”. Gli eretici, che vengono dall’inferno, sono i terremoti che scuotono la Chiesa: “Sono terremoti, senza dubio, scuotono questa gran casa, vengono dal vero e vivo inferno, sono cacciati dal diavolo a rovina della Chiesa, a rovina della fede, a rovina della casa di Dio”2. Nel fare uso della pregnante metafora dell’edificio che non crolla se costruito su solide fondamenta, il predicatore di uomini che avevano violato la legge divina o avevano corrotto l’intima essenza dell’animo umano�, e dichiara invece di conoscere molto bene le cause fisiche che, secondo il pensiero scientifico dell’epoca, davano 1 * Ringrazio Enrica Bruni, Carol Bedini, che ha scattato le foto del Sant’Emidio di Potenza Picena, e Francesca Casamassima, che mi ha aiutato nella ricerca bibliografica. 2 C. Musso, Il secondo libro delle prediche, Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1563, pp. 59-61. 49
origine ai sismi, ovvero, ancora sulla base di Aristotele, la pressione e la fuoriuscita dei vapori prodotti dai venti sotterranei, dallo pneuma, accumulatosi nelle viscere della terra�, dove però, secondo Musso, c’è l’inferno coi suoi diavoli che provocano i terremoti. Se la Chiesa fondata su Pietro ha resistito alle scosse della modernità, adeguandosi ai mutamenti delle società nel loro processo storico, le chiese ed altri edifici ecclesiastici sono invece andati spesso in frantumi a causa dei movimenti tellurici. Lo sapeva bene Vincenzo Maria Orsini, futuro Benedetto XIII, che nel 1688 aveva visto crollargli addosso il Palazzo Vescovile di Benevento a causa di un terremoto. Per ricordare questo evento il pontefice aveva commissionato tra il 1724 e il 1726 a Pier Leone Ghezzi un dipinto che raffigurasse proprio il miracolo compiuto da San Filippo Neri, che lo aveva salvato dal crollo delle macerie. Il dipinto, oggi conservato nella chiesa di S. Maria in Vallicella a Roma, viene replicato dallo stesso Ghezzi non oltre il 1730, con alcune modifiche e in più grandi dimensioni (fig. 1), per la chiesa di S. Filippo di Matelica (in provincia di Macerata), su commissione di monsignor Filippo Piersanti, che era nato proprio nel 1688, anno del terremoto e del miracoloso evento, ed era inoltre un intimo di papa Benedetto XIII, a cui egli doveva in particolare la propria devozione per il suo santo omonimo, San Filippo. Nella replica per Matelica, il pittore sceglie di focalizzare l’attenzione sul salvataggio dell’allora arcivescovo attraverso un taglio più ravvicinato, riducendo gli sfondi e il numero dei personaggi. In questo modo l’osservatore viene coinvolto nella scena, come se partecipasse attivamente allo spostamento delle macerie e al salvataggio, oppure entrando in empatia con il malcapitato, che a mani giunte ringrazia il santo che lo ha miracolato. L’invocazione della protezione dei santi e l’immagine dell’edificio che non vacilla perché costruito su stabili fondamenta sono ritornati di straordinaria attualità con il recente terremoto che ha colpito nel 2016 la regione Marche, nella quale molti edifici, nonostante l’adeguamento sismico condotto a seguito del precedente sisma del 1997, che aveva messo a dura prova esattamente la stessa area montana, sono stati di nuovo resi inagibili o pesantemente lesionati. Molti di questi sono, per ovvi motivi, palazzi storici, chiese e contenitori museali, costruiti tra Medioevo ed Età moderna in pietra e mattoni. Si tratta dunque, in questo caso, di una vulnerabilità intrinseca a quei luoghi, caratterizzati da un edificato storico, su cui è più problematico intervenire, e da una presenza endemica di scosse telluriche, provocate dall’esistenza di una faglia in movimento sotto l’Appennino. Così come il ciclico ritorno della peste ha influenzato in molte zone della penisola italiana l’elaborazione di specifiche iconografie contra pestem, 50
1. Pier Leone Ghezzi, Vincenzo Maria Orsini salvato dal terremoto, Matelica (MC), chiesa di S. Filippo
il continuo ripetersi di terremoti non solo nelle Marche, ma in tutta Italia, ha generato in molte aree geografiche il diffondersi di specifici culti di santi, la cui invocazione era ritenuta efficace contro il sisma, e di peculiari iconografie, elaborate proprio in occasione di una catastrofe, o di raffigurazioni di città distrutte dal terremoto. Il Settecento è il secolo dei grandi e documentati terremoti, non solo in Italia e nelle Marche. Nello stesso anno, il 1756, Immanuel Kant, a seguito del sisma che nel 1755 aveva distrutto Lisbona, redige e pubblica tre brevi saggi sulle cause del terremoto, perché “è un dovere vincolante nei confronti del pubblico che l’indagatore della natura offra un resoconto delle opinioni cui l’osservazione e l’indagine possono farlo pervenire”3, mentre il meno noto Eusebio Sguario pubblica a Venezia il suo Specimen phisico-geometricum de Terraemotu ad Architecturae, ovvero una sorta di trattato sull’architettura antisismica. Nello stesso secolo si moltiplicano le relazioni e i resoconti sui terremoti e sui danni da essi provocati non solo nel centro Italia. È proprio in questo periodo che in alcune città delle Marche si riattiva e rifunzionalizza il culto di alcuni santi, come ad esempio quello di Sant’Emidio, capace secondo la leggenda di provocare i terremoti, ma anche quello di San Nicola da Tolentino o della Madonna di Macereto, che non avevano invece mai avuto alcuna diretta connessione con i movimenti tellurici. Nella sua Istoria dell’antica città di Potenza rediviva in Montesanto, pubblicata a Ripatransone nel 1852, Carlo Cenerelli Campana, ricordando i frequenti fenomeni sismici del 1770 a Montesanto, odierna Potenza Picena (in provincia di Macerata), afferma che “Si manifestarono, quivi soltanto, nel 1770, frequenti scosse di terra, le quali venivano precedute da una sfumata, che si elevava nella Piazza Municipale, per il collo del Pozzo, detto della Cava, quali essendo state durevoli per mesi, indussero gli Abitanti ad abandonare il fabricato, e ritirarsi nell’aperte campagne. Ricorsero i nostri Padri alla protezione di Maria Santissima, ed in atto di penitenziale processione si portarono a Loreto: ed ascrissero a Comprotettore Sant’Emidio, e cessò il minacciato flagello, e Montesanto niun danno sofferse, niuna rovina; indi si procurarono Essi una Reliquia di detto Santo, e ne fecero fare un Quadro in pittura, che resta nel Palazzo publico, a piedi del quale, a forma di Lapide è scritto TERRA TREMUIT ET CONTUTORE NOSTRO QUIEVIT M.D.CCLXX”4. Oltre a ricorrere alla Vergine, in particolare a quella di Loreto, gli abitanti di Montesanto richiedono dunque la protezione del santo che, nel 3 I. Kant, Scritti sui terremoti, a cura di P. Manganaro, Salerno 1984, p. 11. 4 C. Cenerelli Campana, Istoria dell’antica città di Potenza rediviva in Montesanto, Ripatransone 1852, p. 91. 51
1770, aveva oramai lo specifico patronato di proteggere il popolo dal terremoto, ovvero Sant’Emidio, di cui riescono ad avere anche una reliquia. Nella Passio Sancti Emygdii, scritta nel XI secolo, il legame di questo santo con i terremoti è in realtà molto debole. Nato a Treviri da una famiglia pagana nel 273, Emidio, contro la volontà della sua famiglia, si converte al cristianesimo; quando ancora giovane quest’ultima lo conduce con forza in un tempio pagano per rinnegare la sua fede, un improvviso terremoto distrugge l’edificio. Solo a seguito dei terremoti che nel 1703 colpirono più o meno la stessa zona del cratere del 2016, la comunità di Ascoli Piceno, di cui Sant’Emidio era già santo patrono, attribuisce proprio al suo protettore e difensore civico il merito di aver risparmiato dalle macerie la città, la quale, rispetto alle vicine Amatrice, Norcia e L’Aquila, non aveva subito molti danni. Da questo momento in poi il culto del santo, divenuto segnatamente protettore dai terremoti, si diffonde non solo nelle Marche, ma in tutta Italia, anche se in alcune circostanze egli continua a mantenere ancora nel Settecento le sue peculiari caratteristiche di santo taumaturgo contro numerosi morbi: nel 1730 a Roma viene infatti principalmente invocato contro le infezioni che mietevano vittime nella capitale, benché sia anche brevemente ricordato come il “Difensore de’ suoi Divoti ne’ pericoli del Terremoto: Pur troppo ciò è manifesto per le molte, e singolarissime grazie, che il Santo operò nel 1703, quando l’Abruzzo, la Marca, e una gran parte d’Italia si vidde in grave pericolo di rimanere oppressa dalle ruine”5. Proprio come Ascoli Piceno aveva scampato disastrosi danni nel 1703, così Montesanto, nel 1770, per esser stata risparmiata dai terremoti, decide di votarsi a Sant’Emidio e di far realizzare il dipinto citato da Cenerelli Campana nel 1852 e ancora oggi conservato nel Palazzo Comunale della città (fig. 2). La scritta presente nel dipinto dichiara che “La terra ha tremato, ma grazie all’intervento del nostro protettore si è calmata”; segue la data 1770 e le lettere B.B.P.P., da sciogliere come “Benedetto Biancolini pictor pinxit” (fig. 3). Il pittore, nato ad Ascoli nel 1717 e giunto a Montesanto nel 1750 grazie ai Buonaccorsi che lo chiamano a realizzare la decorazione di una loggia nella loro villa, viene incaricato dal comune di realizzare un dipinto che sancisca lo stretto rapporto tra il nuovo patrono e la città: il santo è raffigurato sullo sfondo di un solido edificio, con colonne e pilastri che si ergono da alti piedistalli, immagine della stabilità; in primo piano Sant’Emidio, vestito da vescovo, regge con una mano il pastorale, 5 A.G. Andreucci, Invocazione del patrocinio di Sant’Emidio martire, e vescovo della città d’Ascoli nel Piceno, fatta in Roma nella v. chiesa parochiale de’ SS. Apostoli Simone e Giuda il dì 19, 20, e 21 di marzo 1730, in occasione dell’influenza, che affliggeva questa metropoli con malattie, Roma 1730, p. 9. 52
2. Benedetto Biancolini, Sant’Emidio, Potenza Picena (MC), Palazzo Comunale
3. Benedetto Biancolini, Sant’Emidio (dettaglio), Potenza Picena (MC), Palazzo Comunale
4. Benedetto Biancolini, Sant’Emidio, Potenza Picena (MC), Palazzo Comunale
mentre con l’altra benedice l’osservatore di cui cerca lo sguardo; allo stesso modo, però, egli sta benedicendo il modellino della città che, esattamente sotto la sua mano, è sorretto da un puttino; la raffigurazione realistica della città di Montesanto nell’icona urbana del modellino, che recupera una tradizione iconografica già medievale, va interpretato come un ex voto indirizzato dalla comunità cittadina al suo santo protettore (fig. 4). Come hanno dimostrato infatti gli studi di Chiara Frugoni e Massimo Ferretti, l’ideogramma della città portata in mano dal santo non è sempre e solo l’attributo iconografico che permette di identificare il santo patrono del luogo, ma è anche e soprattutto un’immagine votiva, cioè un vero e proprio ex voto urbano miniaturizzato, equivalente ai molti oggetti miniaturizzati che si trovavano di sovente nei santuari taumaturgici antichi, medievali e moderni. Mentre la città di Montesanto nel 1770 decide di votarsi al santo che a partire dal 1703 specializza il suo patronato contro i terremoti, nella città di Offida (in provincia di Ascoli Piceno), il popolo aveva già deciso in occasione del terremoto del 1703 di affidarsi a San Nicola da Tolentino. I libri dei Consigli comunali della città, al giorno 29 aprile 1703, registrano infatti che la comunità intendeva elevare il santo di Tolentino a patrono di Offida: “per la grazia ricevuta da S. Nicola da Tolentino nella preservazione di questa nostra Patria da’ Terremoti, se pare elegerlo Protettore col fare di precetto la sua festa, e procissione generale, pregandosi dal nostro Publico anche l’insigne Capitolo ad assisterci, e riconoscere la detta Festa coll’offerta di sei libre di cera conforme si pratica con le altre simili feste”. La proposta viene ovviamente accettata: “Per la grazia singolarissima ricevuta dell’intercessione del gran santo Nicola da Tolentino già Protettore della nostra Marca, direi si dovesse eleggere per nostro Protettore particolare con fare la sua festa comandata […] con fàrline solenne Processione per tutta la Terra, e perché ridondarebbe a maggior gloria di detto santo portare processionalmente la sua Statua, direi che si richiedessero il Priore Silvestro Corradini, et il Reverendo Priore di S. Agostino da’ Signori residenti di fare la questua per tutta la terra, assieme con due Signori Deputati concittadini, per li quali eleggo li Signori Giandominico [?] Bianchetti, e Francesco Cataldi, affinché con il ritratto della questua possa fabricarsi la statua del santo […] e per rimostrare al Santo maggior ossequio, e mortificazione direi, che colla licenza de’ Signori Superiori si prohibisse il Carnevale per cinque anni. Voti favorevoli 25, contrario 1 et fuit obtentus”6. La statua citata nel registro dei 6 Archivio Storico Comunale di Offida, Consigli, 3 (1703-1713), cc. 4r-5r, seduta del 29 aprile 1703. Il documento è stato trascritto da Viviana Castelli in “Lapicidata. Lapidi immagini 53
consigli venne effettivamente realizzata, come documenta il fatto che l’11 gennaio 1711 i priori e il popolo di Offida chiedono al vescovo di Ascoli di accogliere la proposta di elevare San Nicola da Tolentino a patrono della città e di poter portare annualmente in processione nel giorno del santo la scultura conservata nel tempio agostiniano: “Li Priori, e Popolo della Terra d’Offida Oratori umilissimi di Vossignoria Illustrissima con ogni divoto ossequio le rappresentano come essendosi visti preservati dalle famose scosse di Tremoto mediante le intercessioni del glorioso S. Nicola da Tolentino presso S. D. M., risolverono per publico decreto di Consiglio prendere per protettore, et Avvocato detto glorioso Santo; E poiché bramerebbero gli oratori di dimostrare al medesimo maggiori atti di ossequio, e di devotione con portare annualmente in processione per tutta la Terra nel giorno di detto Santo la di lui Statua esistente nella chiesa de Padri Agostiniani, Supplicano la somma pietà di Vossignoria Illustrissima, per che si degni con particolare benigna licenza che della grazia”. Invocato finora da appestati, naufraghi, carcerati e soprattutto in favore delle anime del Purgatorio, San Nicola da Tolentino, a seguito dei terremoti del 1703, acquista ad Offida il ruolo di difensore contro il terremoto. Nella scultura (fig. 5), istallata ancora sulla sua base processionale munita di ganci per il trasporto, Nicola veste l’abito che gli Agostiniani avevano difeso contro quello proposto dai più rigoristi Agostiniani Scalzi (che a differenza dei primi non indossavano calzature ai piedi) in una disputa sulla raffigurazione artistica dei santi dell’Ordine che durò dal 1615 al 1676 (e che fu poi ripresa tra il 1717 e il 1729): mentre questi ultimi volevano che i agostiniani fossero rappresentati scalzi e con l’abito riformato, cioè con veste nera di ampiezza contenuta, maniche strette e cappuccio acuminato, gli altri ritenevano che essi dovessero essere invece effigiati con scarpe chiuse ai piedi e con l’abito effettivamente usato dall’ordine, ovvero con veste ampia, maniche larghe e cappuccio arrotondato. Il fatto che nella scultura la veste copra completamente i piedi di San Nicola sembra risolvere almeno il problema se i santi dovessero essere raffigurati con le scarpe o meno. Per il resto Nicola è rappresentato con il consueto sole raggiato sul suo petto, mentre mostra un’ampia gestualità: con la mano sinistra reggeva probabilmente un crocefisso, mentre con l’altra mostrava forse un giglio. Sole, crocefisso, giglio e libro sono infatti i suoi più consueti attributi. Nell’immagine tuttavia non vi è alcun riferimento alla circostanza che ha provocato la commissione dell’opera, ovvero allo scampato terremoto del 1703, che invece è ex voto memorie e tracce di terremoti italiani”: https://lapicidata.wordpress.com/2016/10/31/ offida-ap-chiesa-di-santagostino/ (consultato il 21.08.2017). 54
5. San Nicola da Tolentino, Offida (AP) chiesa di S. Agostino
6. Santuario di Macereto, Visso (MC)
7. Maestro della Madonna di Macereto, Madonna di Macereto, Visso, Museo Civico e Diocesano
testimoniato dai documenti cittadini. In occasione della stessa calamità che colpì il centro Italia nel 1703 anche la celebre Madonna di Macereto, allora conservata ancora all’interno del suo santuario, in territorio di Visso (in provincia di Macerata), acquisì un significato “antisismico”. Lo ricorda una lapide apposta in quell’anno all’ingresso del tempio: D.O.M. / DEIPARAE VIRGINI DE MACERETO PATRONAE / OB EPIDEMICVM MORSVM / PER ITALIAM FERE TOTAM CRASSANTEM /ANNO MDCLVII / OB TERRAEMOTUM / XIX KAL. ET IV NONAS FEBRVARII LABENTIS ANNI / PLVRIES SVBINDE AC GRAVITER REPETITVM / CIIVIBVS AD PLVRA MILLIA INOPINANTER SVBLATIS / MARSORVM VMBRIAEQUE MONTANAE PROVINCIIS / OBRVTIS PATIM PARTIM SEMIRVTIS / TERRORES IN LONGINQUAS ETIAM CIVITATES / ET AD VRBE, VSQVE PROPAGATO /FIDELIS POPVLVS VISSANVS / EIVSDEM PATROCINIO VIRGINIS /A TOT INFORTUNIIS / SEMPER INCOLVMIS / SVAE APVD POSTEROS VICTVRAE / PIETATIS ET GRATI ANIMI MONVMENTVM /POSVIT KAL. AVGUSTI ANNO M D CC III (A Dio Ottimo Massimo. Alla Vergine Madre di Dio di Macereto, Patrona durante l’epidemia che nel 1657 infierì in quasi tutta l’Italia e durante il terremoto, ripetutosi veemente molte volte il 14 gennaio e il 2 febbraio del corrente anno, con rovina dei castelli vicini e repentina morte di varie migliaia di cittadini della Provincia di Abruzzo e della montagna umbra, qua e là disseminate di rovine e propagatosi con terrore anche in città lontane e fino nella stessa Roma, il fedele popolo di Visso, sempre reso incolume in tali calamità dal patrocinio della Santa Vergine, volendo tramandare ai posteri l’irremovibile sua devozione, con animo grato, pose questa memoria il primo agosto 1703). Prima di questa data la Madonna di Macereto era stata la protettrice di chi si spostava tra i valichi montani per motivazioni economiche e commerciali o in occasioni di pellegrinaggi. La statua stessa era in fondo giunta in occasione di un viaggio: mentre dei muli, nel Trecento, la stavano trasportando dalla Toscana al Regno di Napoli, sul pianoro di Macereto l’avanzata si arresta e gli animali non vogliono più proseguire; subito si grida al miracolo: la Vergine stava indicando in quel modo il luogo dove voleva essere venerata; nel pianoro del prodigio viene prima edificato un piccolo sacello e poi, a partire dal 1528, il tempio rinascimentale che è ancora oggi inserito in un paesaggio mozzafiato (fig. 6). La statua viene sostituita nella seconda metà del XV secolo da quella attualmente conservata nel Museo di Visso (fig. 7). Col suo volto malinconico, la Vergine guarda in basso, verso il devoto che la invoca, mentre suo figlio, impaurito, cerca protezione aggrappandosi alla sua veste: il tema della preveggenza della Vergine e della consapevolezza 55
della Passione da parte del Bambino era stato raramente espresso nel centro Italia con delle espressioni così intense ed efficaci. In occasione del terremoto del 1703 la Vergine di Macereto allarga in ogni modo il suo patronato, fino a diventare capace di rendere inefficaci le scosse telluriche, per proteggere il popolo di Visso. Costruito con una tecnologia evidentemente “antisismica” già nel Cinquecento, il santuario ove era conservata la Madonna di Macereto prima della sua musealizzazione ha resistito anche alle scosse del 2016, tanto che la stampa nazionale ha parlato di nuovo di un “miracolo” di Macereto. La chiesa costruita su solide radici, citata nelle sue prediche da Cornelio Musso, cessa in questo caso di essere una efficace metafora per diventare una pregnante realtà.
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sommario
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Saluti istituzionali Fabrizio Ciarapica Sindaco di Civitanova Marche
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Maika Gabellieri Assessore alla Crescita Culturale
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Silvia Squadroni Presidente Azienda Speciale Teatri di Civitanova
pag. 9
Opere
pag. 11
Saggi
pag. 35
Ragioni di una mostra Enrica Bruni
pag. 37
Opere dalla Chiesa di Sant’Angelo Magno ad Ascoli Piceno: un monumento sfregiato dal terremoto Stefano Papetti
pag. 39
Le tele civitanovesi di Pietro Tedeschi Enrica Bruni
pag. 45
Libera nos a flagello terraemotus. Immagini e culti contro il terremoto nelle Marche meridionali del Settecento
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Finito di stampare nel mese di dicembre 2017