Patteggiamento e Plea Bargaining di Michele Pietropaolo

Page 1

PATTEGGIAMENTO E PLEA BARGAINING NEL SISTEMA DI GIUSTIZIA PENALE NEGOZIATA di Michele Pietropaolo


PATTEGGIAMENTO E PLEA BARGAINING NEL SISTEMA DI GIUSTIZIA PENALE NEGOZIATA di Michele Pietropaolo


Copyright©2020 Istituto Italiano Design S.r.l. – IID S.r.l. Editore come da revisione dell'oggetto dello Statuto Sociale effettuata con Atto Notarile iscritto al Registro delle Imprese di Perugia il 9 gennaio 2019 protocollo n. 25, contenente lo Statuto Sociale Via Galeazzo Alessi 3/A, 06122 Perugia, C.F. 02589670757 Immagine di copertina ©Simone Fucchi, Corso in “Design”, IID S.r.l. Stampa – Press Up, IT10922761001, V. Caduti Lavoro 01036 Viterbo Direttore Responsabile Dott. Ing. Andrea Lenterna, pubblicista iscritto all'Ordine dei Giornalisti di Perugia dal 30 maggio 2013 (già Direttore Responsabile: “Cerco&Trovo”, “Art&News”). Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta con mezzi grafici o meccanici quali la fotoriproduzione e la registrazione, anche parziale o ad uso interno o didattico, senza autorizzazione. I lettori che desiderano essere informati sulle novità di IID S.r.l. Editore possono contattare: info@istitutoitalianodesign.it; +39 075 5734 647 (sito web: www.istitutoitalianodesign.it). Approvazione del Comitato Scientifico di IID.

3


INDICE

PARTE PRIMA

1 2 3 4 5

La giustizia penale negoziata in generale: le teorie…………………………………………… La applicazione della pena su richiesta delle parti quale strumento di giustizia negoziata…… L’evoluzione storica e normativa del patteggiamento in Italia: gli antecedenti storici……….. Una rinnovata lotta al fenomeno corruttivo disincentiva il patteggiamento: dalla legge Severino alla legge “Spazzacorrotti”………………………………………………………….. Le origini della giustizia negoziata negli Stati Uniti…………………………………………..

PARTE SECONDA 1 2 3 4 5 6

3 4 5 6 7

7 11 17 29 32

Il Patteggiamento. La Triade Negoziale

I soggetti nel patteggiamento…………………………………………………………………. Il pubblico ministero: la questione dei rapporti tra principio di obbligatorietà dell’azione penale e applicazione della pena su richiesta delle parti………………………………………. La rinuncia ai diritti da parte dell’imputato…………………………………………………… Il Giudice. Il suo ruolo nella giurisprudenza della Corte di Cassazione……………………… La vanificazione del ruolo della vittima nel patteggiamento…………………………………. La pubblica amministrazione quale “danneggiato privilegiato”……………………………

PARTE TERZA

1 2

L’evoluzione normativa del patteggiamento. Le origini della giustizia negoziata negli USA

37 40 45 52 56 63

Il Plea Bargaining nel Sistema Nordamericano. La Triade Negoziale

Il processo penale negli USA: la c.d. bifurcation. “Jury trial” e “bench trial”……………….. La disciplina del “plea bargaining”: “sentence bargaining”, “charge bargaining” e la c.d. “forma mista”…………………………………………………………………………………. Dal plea bargainig «under the table» alla verbalizzazione dell’accordo……………………… L’accusa: il prosecutor. La discrezionalità dell’azione penale………………………………… La Difesa. La rinuncia ai diritti costituzionali. Il rapporto defendant-attorney………………. Gli strumenti a tutela dell’imputato nel plea process. Direct appeal e collateral attack……. Il Judge…………………………...………………..…………………………………………..

4

66 68 71 74 80 84 86



CAPITOLO I L’EVOLUZIONE NORMATIVA DEL PATTEGGIAMENTO. LE ORIGINI DELLA GIUSTIZIA NEGOZIATA NEGLI USA.

SOMMARIO: 1. La giustizia penale negoziata in generale: le teorie. ˗ 2. L’applicazione della pena su richiesta delle parti quale strumento di giustizia negoziata. ˗ 3. L’evoluzione storica e normativa del patteggiamento in Italia: gli antecedenti storici. ˗ 3.1. Dalla legge delega 16 febbraio 1987, n.81 agli artt.444 e ss. del nuovo codice di procedura penale. ˗ 3.2. La legge 16 dicembre 1999, n. 479: la c.d. “legge Carotti”. La legge n.97 del 2001. ˗ 3.3. Il c.d. “patteggiamento allargato” legge 12 giugno 2003, n.134. - 4. Una rinnovata lotta al fenomeno corruttivo disincentiva il patteggiamento: dalla legge Severino alla legge “Spazzacorrotti”. ˗ 5. Le origini della giustizia negoziata negli Stati Uniti.

6


1.

LA GIUSTIZIA PENALE NEGOZIATA IN GENERALE: LE TEORIE.

Il patteggiamento ed il plea bargaining rappresentano due importanti momenti dell’esplicarsi della negozialità nel processo penale. Essi si pongono come forme differenziate e alternative alle vie ordinarie, nell’ambito della generale tendenza a ridurre i tempi del processo o ad evitarlo1. Mentre il plea bargaining ha avuto un grande successo negli Stati Uniti, costituendo il mezzo principale di definizione delle controversie penali, lo stesso non può dirsi per il patteggiamento, che nel nostro ordinamento, fin dalla sua introduzione non è stato ben visto in quanto presenta meccanismi estranei alla nostra tradizione processuale, restia a riconoscere forme di giustizia negoziale fondate sull’accordo delle parti. Il fenomeno della negozialità, mancando una regolamentazione unitaria, comporta una varietà di etichette: giustizia consensuale, concertata, negoziale, pattizia, riparativa, restaurativa. Volendo dare una definizione del fenomeno si escludono dall’ambito della negozialità in senso stretto gli istituti di diritto dell’esecuzione e di diritto penitenziario, nonché la legislazione premiale in materia di collaboratori di giustizia perché essi costituiscono sistemi autonomi, che assolvono finalità diverse da quelle che governano l’ordinario processo di cognizione. L’espressione giustizia negoziata è onnicomprensiva e potrebbe comprendere ogni situazione in cui la volontà o il consenso delle parti incide sul processo. Guardando però gli accordi rivolti alla definizione del processo penale, la nostra attenzione cade sull’istituto del patteggiamento. Il patteggiamento, quale frontiera più avanzata della giustizia negoziata, «non costituisce rinuncia all’azione ed alla pretesa punitiva, ma all’opposto, una sua più rapida

1

PIZIALI G., “Pluralità dei riti e giudice unico”, in “Rivista italiana diritto e procedura penale”, 2000, pag. 971. L’autore fa notare come «l’idea di un modello unico di processo penale, valido per ogni tipo di reato, se pure potrebbe costruire in astratto la più rispettosa realizzazione del principio di uguaglianza formale tra i cittadini (art.3, comma 1 Cost.), non è mai stato un obiettivo realmente perseguito dal legislatore, sia per il suo intrinseco massimalismo, sia per l’esistenza di un opposto principio di adeguatezza delle forme processuali alle regiudicande, che ha da sempre comportato un certo tasso di “polimorfismo processuale” del sistema».

7


realizzazione2». È stato evidenziato da autorevole dottrina3 come questa forma di negozialità incida in maniera decisiva sul “giudizio” e come abbia anche ricadute sul concetto di verità. Si è rilevato come nella giustizia negoziata operi una selezione della verità. Con il ricorso agli istituti di giustizia negoziata «si rinuncia a raggiungere la verità, attraverso procedimenti accertativi dei fatti, e si persegue piuttosto, il risultato pratico di una rapida attuazione della giustizia, mediante la ricerca di un’anticipata conclusione che veda concordi le parti in causa4». Alla soluzione processuale, quale risultato dello svolgersi dell’ordinaria sequenza procedimentale, si sostituisce una soluzione artificiale, ricercata e voluta dalle parti5. La giustizia negoziata trova la sua ragione d’esistenza in un’esigenza pratica: da un lato, per far fronte al carico di lavoro giudiziario; dall’altro per prevenire il pericolo della prescrizione. Essa va vista nella particolare prospettiva del suo operare pratico. La giustizia contrattata «non è istituto di alta teoria nel quale risplendono grandi valori. È uno strumento di bassa cucina giudiziaria6». Da un punto di vista teorico tutti i processi si devono svolgere con la pienezza del contraddittorio nella formazione della prova, ma bisogna essere consapevoli che ciò non avviene perché non è possibile assicurare livelli altamente qualitativi per tutta la mole dei procedimenti generati dal gran numero di notitiae criminis. Rifiutare questo piatto poco raffinato, cercando soddisfazione nel rito ordinario, che sì, garantisce l’oralità ed il diritto alla prova, non significa essere di fronte ad un processo giusto ed efficiente7. Non mancano tuttavia gli oppositori a momenti di negoziazione all’interno del processo penale. Vi è in dottrina chi, opponendosi a tali meccanismi, in alternativa propone, la via del c.d. diritto penale minimo8, che riacquisti

2

MARCOLINI S., “Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale negoziata”, Milano, 2005, pag.109. 3 MARAFIOTI L., “Giustizia penale negoziata e verità processuale selettiva”, in Cassazione penale, 2013, fasc.6, pag.2497e ss. 4 MARAFIOTI L.,”La giustizia penale negoziata”, Milano, 1992, pagg. 78 e ss. 5 VIGONI D., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, Milano, 2000, pag. 47. 6 AMODIO E., “Giustizia penale negoziata e ragionevole durata del processo”, in “Cassazione penale”, 2006, fasc. 10, pag. 3408. 7 AMODIO E., “Giustizia penale negoziata e ragionevole durata del processo”, cit., pag. 3410. 8 Per un’analisi sul diritto penale minimo: FERRAJOLI L., “Crisi della legalità e diritto penale minimo”, in “Critica del diritto”, 2001, pag.46 e ss. Il “diritto penale minimo”, secondo Ferrajoli può essere inteso in una duplice accezione. Innanzitutto con questa espressione si intende «un paradigma meta-teorico di giustificazione del diritto penale; in secondo luogo un modello teorico e normativo di diritto penale.» in senso metateorico, il “diritto penale minimo” designa una dottrina che giustifica il diritto penale se e solo se è in grado di realizzare due scopi: non solo la prevenzione negativa, ma anche la prevenzione e minimizzazione delle punizioni arbitrarie. Come modello normativo il termine indica il sistema delle garanzie penali e processuali idonei a soddisfare entrambi questi due scopi.

8


credibilità attraverso una drastica riforma del sistema sanzionatorio, senza innesti di negozialità nel settore processuale. Si è affermato che «il processo penale, oltre che dalla disparità tra accusa e difesa, è stato deformato da tutti quei meccanismi di deflazione giudiziaria –riti alternativi, patteggiamenti- che hanno rotto il nesso tra pena, prova e reato9». La negozialità nel processo penale «incide sul dogma tradizionale secondo cui l’esercizio dello ius puniendi costituisce il momento più alto di imperio che lo Stato-autorità possa esercitare sul cittadino10». La consensualità nel processo penale fa sì che «accanto al tradizionale schema autoritativo-individuale, che vede una soluzione “imposta dall’alto”, frutto delle determinazioni dell’organo giurisdizionale, si affacciano una pluralità di modelli alternativi di “giustizia integrata”, “cercata dalle parti”, di carattere compositivo-multilaterale11». Esistono diversi modelli di giustizia penale: un modello di justice imposée (di giustizia imposta), di carattere unilaterale, connessa con il solo interesse pubblico, il quale si limita a considerare l’imputato come soggetto passivo del processo. Vi è poi un modello di justice partecipative (di giustizia partecipata), che ammette la partecipazione attiva di soggetti diversi da quelli pubblici, quali l’imputato e la persona offesa del reato. Infine vi è un modello di justice négociéè (di giustizia negoziata), dove l’autonomia delle parti incide sull’oggetto del processo12. La giustizia contrattata mira a realizzare una semplificazione ed una accelerazione, riducendo la distanza spazio-temporale dall’esito della vicenda penale. I moduli processuali di natura consensuale costituiscono un ottimo strumento per realizzare un “processo di parti”, affiancandosi al giudizio ordinario, con schemi in cui assume rilievo l’elemento consensuale. Tuttavia l’affermazione di moduli a contenuto dispositivo alterano i rapporti fra giudice e parti. È stato sottolineato come se è vero che «il potere dispositivo, quale manifestazione tipica dell’autonomia riservata alla volontà delle parti, pare coessenziale ad un sistema accusatorio, occorre tenere in conto che i moduli consensuali superano la tradizionale contrapposizione relativa alla struttura processuale, trovando, piuttosto, a seconda dei casi, vincoli o aperture dai fondamentali principi ispiratori dell’ordinamento13». È così

Per una critica al “diritto penale minimo”: DOLCINI E. e MARINUCCI G., “Diritto penale minimo e nuove forme di criminalità”, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 1999, pag. 802 e ss. 9 FERRAJOLI L., “Crisi della legalità e diritto penale minimo”, cit., pag. 51. 10 MARCOLINI S., “Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale negoziata”, cit., pag.1. 11 VIGONI D., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, cit., pag. 46. 12 TULKENS-VAN DE KERCHOVE, “La justice pénale: justice imposée, justice participative, justice consensuelle ou justice negociée”, in “Rev. dr. pen. et crim.”, 1996, pag. 445-494, così come richiamata da VIGONI D., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, cit., pag. 46. 13 VIGONI D., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, cit., pag. 53.

9


che il principio di obbligatorietà nell’esercizio dell’azione penale frena la portata espansiva dell’elemento negoziale, a prescindere dai caratteri del sistema processuale. La scelta verso un sistema di tipo accusatorio, verso il quale si è indirizzato il legislatore del 1988 nella riforma del codice di procedura penale, ha imposto una maggiore attenzione verso le forme di definizione del processo alternative a quella ordinaria14. Le nuove regole sulla formazione della prova introdotte nel dibattimento hanno indotto il legislatore a stimolare il ricorso a riti che, evitando la fase dibattimentale, semplificano la sequenza procedimentale, consentendone la definizione anticipata. In questa direzione, l’applicazione della pena su richiesta delle parti, che elimina la fase dibattimentale, costituisce strumento idoneo a tale finalità, dato che allo stesso si può accedere sia nella fase delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare, sia nell’ambito degli altri riti.

14

STORELLI F., “I riti alternativi nel processo penale alla luce della più recente giurisprudenza”, Milano, 2007, pag.87.

10


2.

L’APPLICAZIONE

DELLA PENA SU RICHIESTA DELLE PARTI QUALE STRU-

MENTO DI GIUSTIZIA NEGOZIATA

Possiamo definire il patteggiamento come il procedimento con cui nelle fasi iniziali del processo, le parti, ossia l’indagato/imputato ed il pubblico ministero raggiungono un accordo avente ad oggetto l’applicazione della pena, evitando così il dibattimento e l’incerto esito del giudizio. L’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, detto anche “patteggiamento”, disciplinato nel Titolo II, libro VI del codice di procedura penale, costituisce un importante strumento di giustizia penale negoziata. I profili dell’istituto si ricavano dagli artt. 444, 445, 446, 447 e 448 del c.p.p., dall’art.556 c.p.p., così come modificato dalla legge 1 dicembre 1999, n.479, dalla legge 27 marzo 2001, n. 97 e dalla legge 12 giugno 2003, n. 134, e da recenti interventi del legislatore le quali hanno inciso sulla materia. È stato detto che il patteggiamento presenta i tratti della “peripezia”, per sottolineare come questo istituto nel suo trentennio di vita, abbia avuto un capovolgimento rispetto al suo contesto di partenza. La trentennale peripezia del patteggiamento ha un’indubbia origine nella genesi dell’istituto e nelle contraddizioni che lo accompagnano, nonché in un tessuto normativo lacunoso ed incerto15. L’applicazione della pena a richiesta delle parti, fin dalle sue origini, è un «prodotto legislativo semilavorato, nel senso che il legislatore non ha voluto imbrigliare i contenuti del congegno negoziale in linee portanti solide e blindate, ma ha preferito tracciare i contorni di un istituto nuovissimo che doveva essere sperimentato dalla pratica, prima di rilevare i tratti precisi della sua fisionomia16». Il patteggiamento nasce dalla pressione esercitata da due componenti patologiche: da un lato l’ipertrofia processuale che rende necessaria la deflazione, e dall’altro, per prevenire i pericoli della prescrizione del reato. Il patteggiamento non si applica nel procedimento davanti al giudice di pace17 e nel processo minorile18. 15

PERONI F., “La peripezia del patteggiamento in un trentennio di sperimentazione”, in “Archivio penale”, 2019, pag. 2. 16 AMODIO E., “Giustizia penale negoziata e ragionevole durata del processo”, cit. pag. 3407. 17 Art.2, comma 1º, lett.g d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274. 18 Art. 25, comma 1º, d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448.

11


Per quanto riguarda l’esclusione del rito dall’ambito del processo minorile, è intervenuta la pronuncia della Corte Costituzionale 20 aprile 1995, n. 13519, chiamata ad un sindacato sulla conformità ai principi costituzionali dell’art. 25, comma 1º, d.P.R. 22 settembre 1988, n.448. Il giudice rimettente aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale della suddetta norma che esclude l’applicabilità del processo penale minorile delle disposizioni di cui agli artt.444 e ss. c.p.p., in riferimento alla violazione del principio di uguaglianza, disciplinato dall’art.3 della Costituzione. La Consulta ha sottolineato che, nonostante la presenza del controllo del giudice sul patteggiamento, la scelta operata dal legislatore circa l'inapplicabilità al processo minorile dell'istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti non appare contraddittoria con la facoltà, invece riconosciuta all'imputato minorenne, di chiedere (personalmente o a mezzo di procuratore speciale) il giudizio abbreviato. Il patteggiamento, secondo il ragionamento seguito dalla Corte, opera su un piano diverso da quello proprio del giudizio abbreviato. Quest’ultimo «si riflette esclusivamente sul rito e sulla misura della eventuale pena, per cui la scelta di esso da parte dell'imputato,

19

Corte Costituzionale 20 aprile 1995, n.135: «In particolare il giudice rimettente, nella specie il Tribunale per minorenni di Napoli, riteneva che «l’esclusione del patteggiamento nel processo minorile sia in contraddizione con le stesse scelte effettuate dal legislatore del 1988 nel dettare la disciplina del nuovo processo penale minorile; se da un lato l'obiettivo di fondo è quello della più sollecita fuoriuscita del minore dal circuito giudiziario penale, e se in linea con questo obiettivo sono stati previsti gli istituti della irrilevanza del fatto (art. 27 del d.P.R. n. 448 del 1988) e della sospensione del processo per messa alla prova (art. 28 del d.P.R. n.448 del 1988), risulta d'altro lato contraddittorio l'abbandono delle possibilità deflattive e di spedita risoluzione della vicenda processuale insite nel patteggiamento19». Pertanto secondo il giudice a quo, la norma che esclude l’applicazione del patteggiamento al processo minorile contrasta con le finalità proprie del processo minorile. In definitiva il Tribunale affermava che «l'impossibilità di accesso al patteggiamento per il minore sia ingiustificata, e lesiva dell'art. 3 della Costituzione, sia sotto il profilo della disparità di trattamento tra minorenne e maggiorenne, sia sotto il profilo della incongruenza della norma ostativa rispetto alla possibilità, viceversa accordata, di altri riti differenziati, nei quali il "rischio" di perdita di chances è assai elevato e per i quali dovrebbero dunque a maggior ragione valere le giustificazioni (di diminuita o incerta capacità e consapevolezza) offerte dal legislatore nel motivare la denunciata preclusione». La Corte Costituzione ha dichiarato non fondata la sollevata questione di costituzionalità. Sotto il profilo di una possibile disparità di trattamento tra imputati minorenni e imputati maggiorenni, ha evidenziato che il compito primario del processo penale minorile sia il recupero del minore. A tal fine sono previsti la presenza di alcuni istituti come il perdono giudiziale, la sospensione del processo con messa alla prova, sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, invece precluse nel patteggiamento. Dunque si esclude una disparità di trattamento tra imputati minorenni e maggiorenni, in quanto si è in presenza di situazioni diverse che richiedono un trattamento differenziato: si fa leva sul principio di uguaglianza sostanziale.»

12


se comporta la decidibilità allo stato degli atti, lascia tuttavia impregiudicati i poteri decisori del giudice e quindi aperte tutte le possibili conclusioni del giudizio. Nell' applicazione di pena su richiesta delle parti, invece, il controllo del giudice consiste nella verifica della sussistenza dei presupposti per la sua ammissibilità, della correttezza della qualificazione giuridica del fatto e dell'applicazione o della comparazione delle circostanze, nonché della congruità della pena concordata ai fini e nei limiti di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione (sentenza n. 313/1990), mentre il giudice stesso può pervenire ad una pronuncia di proscioglimento solo se ricorrano le condizioni previste dall'art. 129 del codice di procedura penale. Ma al di là di questi poteri, una volta intervenuto l'accordo resta esclusa ogni possibilità per una conclusione del giudizio di contenuto assolutorio o comunque diversa da quella concordata, per cui la relativa sentenza, diversamente da quanto si verifica nel giudizio abbreviato, si ricollega in via diretta alla definizione pattizia intercorsa tra imputato e pubblico ministero. Pertanto la Corte conclude, salvando la norma dalla declaratoria di incostituzionalità che «"Negozialità", sul contenuto della decisione, da una parte, ed equiparazione sotto il profilo degli effetti alla sentenza di condanna, dall'altra, costituiscono certamente elementi tali da far ritenere non contraddittorio e quindi non irragionevole aver escluso la richiesta di patteggiamento là dove è ammessa la richiesta di rito abbreviato da parte del minore, dato che in quest'ultimo giudizio l'accordo delle parti non incide sul contenuto della decisione né sugli effetti della sentenza del giudice che lo recepisce20». Questo orientamento è stato successivamente confermato dalla Corte Costituzionale, con la sentenza 12 luglio 2000, n. 272, pronuncia che affrontava una questione diversa, la possibilità per l’imputato minorenne, divenuto maggiorenne nel corso del procedimento di ricorrere al patteggiamento. La Corte, facendo leva sul fatto che il patteggiamento non è una misura di favore per l’imputato, ma uno strumento di economia processuale, escluse la possibilità di utilizzo del rito deflattivo da parte dell’imputato minorenne divenuto maggiorenne nel corso del processo. Nei procedimenti a carico degli enti l’applicazione della pena a richiesta è ammessa per tutti gli illeciti sanzionati con la sola pena pecuniaria, mentre per quelli sanzionati con altra pena pecuniaria è condizionato alla non applicabilità, in via definitiva, di una delle sanzioni interdittive previste dall’art.16 del d.lgs. 8 giugno 2001, n,23121. Le sanzioni interdittive, che escludono l’applicabilità del patteggiamento sono l’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività e la sanzione del divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, ovvero del divieto di pubblicizzare beni o servizi

20

Corte Cost. 20 aprile 1995, n. 135, in “w.w.w.cortecostituzionale.it”. Art.63, comma 3º d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

21

13


quando è già stato condannato alla stessa sanzione almeno per tre volte negli ultimi sette anni22. La stessa intitolazione del libro VI, “Procedimenti speciali23” ci consente di cogliere un primo tratto distintivo di questo procedimento: la specialità. I riti speciali24 costituiscono lo strumento con il quale il legislatore, attraverso diversi moduli procedimentali, persegue le finalità di politica criminale, muovendo dalla diversità delle situazioni processuali: natura dei reati, semplicità di accertamento, istanze di economia processuale25. La loro collocazione dopo il libro sulle indagini preliminari e prima di quello dedicato al giudizio ci mostra come la finalità del legislatore fosse quella di regolare in maniera differente il rapporto tra le due fasi. La specialità è espressione di «diversità strutturali-teleologiche tese a semplificare la sequenza tipica del procedimento ordinario nella prospettiva di garantire un processo in tempi ragionevoli26».

22

Art.16. d.lgs.n.231 del 2001,” Sanzioni interdittive applicate in via definitiva”: 1. Può essere disposta l'interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività se l'ente ha tratto dal reato un profitto di rilevante entità ed è già stato condannato, almeno tre volte negli ultimi sette anni, all’interdizione temporanea dall'esercizio dell'attività. 2. Il giudice può applicare all'ente, in via definitiva, la sanzione del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione ovvero del divieto di pubblicizzare beni o servizi quando è già stato condannato alla stessa sanzione almeno tre volte negli ultimi sette anni. 3. Se l'ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati in relazione ai quali è prevista la sua responsabilità è sempre disposta l'interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività e non si applicano le disposizioni previste dall'articolo 17. 23 Con l’espressione “procedimenti speciali” si fa riferimento a riti disciplinati dagli artt.438-464 c.p.p. Si può distinguere tra i riti alternativi basati su forme negoziali ed aventi effetti premiali, da un lato, e riti anticipatori del dibattimento, lasciati esclusivamente nella disponibilità dell’organo dell’accusa, fatta salva una scelta di convergenza da parte dell’imputato (art.451, comma 5; 452, comma 3; 456, comma 2 e 458 c.p.p.) in riti premiali e la residuale ipotesi di giudizio immediato richiesto dall’imputato ex art. 419, comma 5. Tra i riti speciali c.d. premiali rientrano: il giudizio abbreviato (artt. 438-443 c.p.p.); l’applicazione della pena su richiesta delle parti (artt. 444-448 c.p.p.) ed il procedimento per decreto (artt. 459-464 c.p.p.). Nella categoria dei c.d. riti speciali anticipatori del dibattimento si annoverano il giudizio direttissimo (artt. 449-452 c.p.p.) ed il giudizio immediato (artt. 453-458 c.p.p.) Cosi FIORIO C., “La strategia autoritativa”, in “Corso di procedura penale”, a cura di FIORIO C., MONTAGNA M., FONTI R., Milano, 2019, pag. 279. 24 Con l’adozione del codice di procedura del 1988, con il quale il potere dispositivo delle parti nel processo penale ha assunto un ruolo fondamentale, il legislatore è passato da una specialità incentrata sulla modesta entità del reato ovvero sull’evidenza della prova, ad una specialità basata sull’accordo delle parti o sulla esclusiva affermazione della volontà di una sola parte. Cosi FIORIO C., “La strategia autoritativa”, cit. pag. 278. 25 SPANGHER G., “i procedimenti speciali”, in “Procedura penale”, Torino, 2017, pag. 508. 26 VIGONI D., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, in “I procedimenti speciali in materia penale” a cura di Marco Pisani, Milano, 2003, pag. 116.

14


Questa prospettiva è divenuta espresso canone costituzionale, con la riforma costituzionale realizzata con la legge costituzionale 23 novembre 1999, n.2, che all’art.111, comma 2º, Cost. ha introdotto il canone della ragionevole durata del processo27. Il patteggiamento, quale espressione di “giustizia negoziata”, è da ricondurre non solo alle scelte del modello accusatorio, ma soprattutto dalla necessità di predisporre una pluralità di moduli procedimentali per far fronte alle diverse ipotesi criminose nella prospettiva di una giustizia rapida e confezionata in relazione alle esigenze del caso concreto. L’elemento negoziale legittima la deroga al contraddittorio. Tale deroga trova, in seguito alla riforma costituzionale del 1999, specifico riconoscimento a livello costituzionale laddove all’art.111, comma 5º, Cost. stabilisce che «la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso delle parti». Invece la rinuncia al dibattimento ed alle correlate garanzie (si fa riferimento ai principi di oralità, del contraddittorio e di immediatezza) trova composizione in un regime premiale, cioè in un regime sostanziale favorevole. Consenso e premialità costituiscono «un inscindibile binomio, comune ai riti di taglio deflattivo28», per realizzare gli scopi di economia processuale: nel patteggiamento «la commistione fra scelte processuali e favorevoli esisti sostanziali risulta ulteriormente accentuata dall’accordo tra le parti che coinvolge prospettazione giuridica e sanzione applicabile29». Altro tratto essenziale del patteggiamento e più in generale dei riti speciali è la sua funzione di “deflazione”. I riti alternativi al dibattimento rappresentano circa il 30%: una percentuale molto lontana dalle speranze che il legislatore riponeva in essi per lo sfoltimento del carico giudiziario. Una delle ragioni della scarsa applicazione nella prassi delle aule giudiziarie di questi «risiede nel gioco di aspettative che il procedimento penale ordinario lascia intravvedere alle parti30». Le norme che regolano il nostro processo penale offrono numerose occasioni per pretestuose perdite di tempo. La difesa ha spesso interesse a spostare in là il momento della decisione definitiva, nella speranza di una prescrizione, di una abolitio criminis. È proprio l’incertezza sulla possibile evoluzione e definizione del processo, che spinge spesso i difensori a non ricorrere ai riti speciali, ed in particolare al patteggiamento. Una delle ragioni dell’insuccesso dei riti speciali «è consistito nell’aver dato per scontato un ricorso massiccio a

27

Art.111.2 Cost.: «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata». 28 VIGONI D., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, in “I procedimenti speciali in materia penale” a cura di Marco Pisani, Milano, 2003, pag. 117. 29 VIGONI D., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, in “I procedimenti speciali in materia penale” a cura di Marco Pisani, Milano, 2003, pag. 118. 30 ORLANDI R., “L’insostenibile lunghezza del processo penale e le sorti progressive dei riti speciali”, in “Rivista dir. Proc.”, 2012 1, pag. 24

15


tali riti, per effetto dei vantaggi promessi31». Per incentivare un maggior ricorso ai riti speciali sarebbe necessario un rito ordinario celere. I giudizi protratti a lungo accrescono le speranze di sfuggire alla pena e costituiscono quindi un forte disincentivo alla scelta dei riti negoziali. Il problema riguarda perciò la struttura del rito ordinario. Intervenendo su quella sarà possibile “rivitalizzare” i riti speciali e, in particolare, quelli alternativi al dibattimento32. Per rendere più celere processo, secondo autorevole dottrina,33 bisognerebbe mutare la disciplina dell’udienza preliminare e rendere meno stringente il principio di obbligatorietà dell’azione penale.

31

ORLANDI R., “L’insostenibile lunghezza del processo penale e le sorti progressive dei riti speciali”, cit., pag.26. 32 ORLANDI R., “L’insostenibile lunghezza del processo penale e le sorti progressive dei riti speciali”, cit., pag.28. 33 Ibidem. L’Autore sostiene che: «non si tratta di abolire l’udienza preliminare, disconoscendone la funzione. Si tratta, piuttosto, di sostituirla con un diverso meccanismo procedurale atto a perseguire quella stessa funzione. Pretendere di fronteggiare la massa di processi destinati al dibattimento con i riti alternativi è illusorio. Né meriterebbe di essere condivisa una riforma che promettesse vantaggi anche più sostanziosi degli attuali per rendere più “appetibili” i riti alternativi al dibattimento: essa finirebbe col mortificare in misura eccessiva la posizione dell’imputato e col coartare in modo inaccettabile la sua volontà. La via d’uscita dall’oggettiva difficoltà nella quale ora versa la giustizia penale italiana consiste in un deciso intervento normativo volto ad ampliare le possibilità di archiviare notizie di reato pur fondate.»

16


3.

L’EVOLUZIONE STORICA E NORMATIVA DEL PATTEGGIAMENTO IN ITALIA: GLI ANTECEDENTI STORICI.

Tra gli antecedenti storici del patteggiamento, nell’Italia preunitaria, viene spesso ricompreso il cosiddetto “truglio34”, che trae il suo nome dai termini “intruglio”, “inganno”. Si trattava di un procedimento straordinario, applicato nel Regno delle due Sicilie, fino al 1800, quando si doveva far fronte a situazioni di sovraffollamento carcerario. Esso consisteva in un accordo con l’imputato circa la pena da irrogare, senza processo, sulla base dei soli indizi per i delitti di cui erano accusati. Ciò che contraddistingueva questo istituto era la possibilità di infliggere una condanna senza giudizio. Guardando all’ordinamento costituzionale l’unico antecedente storico dell’applicazione della pena su richiesta delle parti è costituito dall’istituto disciplinato dall’art.77 della legge 24 novembre 1981, n. 689, abrogato dall’art.234 norme coordinamento c.p.p. Esso prendeva il nome di “applicazione di sanzioni sostitutive su richiesta delle parti”, ma nella prassi veniva anche definito come “patteggiamento” o “mini patteggiamento”. Le differenze con il rito ex art.444 e ss. c.p.p. sono molteplici «tanto da far dubitare che i due istituti partecipino della stessa natura35». Si trattava di un lontano parente dell’attuale istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti: per evidenziare le notevoli differenze tra i due meccanismi si diceva che, guardando al rito introdotto con la riforma del 1988 «ci si trova in presenza non di un figlio, ma di un nipote, nel quale le caratteristiche della stirpe si intravedono ancora, ma fortemente trasformate36». È stato evidenziato in dottrina come con la riforma del codice si «realizza il passaggio dalla previsione di un mero beneficio per l’imputato alla costruzione di un rito alternativo, di ispirazione negoziale e di contenuto premiale37». Dalla lettura del dato normativo38 si rileva che non si era di fronte ad un vero e proprio accordo,

34

PALAZZO D., “Il truglio”, in “Giustizia e Costituzione”, 1981, nn.3-4, pag.33 ess. ARRU A.A., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, in “Trattato di procedura penale” a cura di Leonardo Filippi, diretto da Giorgio Spangher, Milano, 2008, pag.6 36 LATTANZI G., “Giudizio abbreviato e patteggiamento”, in “Cassazione penale”, 1988, pag.2195. 37 VIGONI D., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, cit., pag.5. 38 Art. 77 legge 689 del 1981:« Nel corso della istruzione e fino a quando non sono compiute per la prima volta le formalità di apertura del dibattimento, il giudice, quando ritiene, in seguito all'esame degli atti e agli accertamenti eventualmente disposti, che sussistono elementi per applicare per il reato per cui procede la sanzione sostitutiva della libertà controllata o della 35

17


perché il consenso del pubblico ministero era necessario per consentire un esito del processo diverso da quello ordinario. Più precisamente il parere favorevole del p.m. era vincolante, solo fino a quanto il dibattimento non fosse aperto; invece nel corso della fase dibattimentale, il giudice poteva accogliere la richiesta dell’imputato, a prescindere dalla posizione assunta dall’organo dell’accusa. Molto controversa era la natura della sentenza di cui all’art.77 della l.689 del 1981. La Corte Costituzionale riconosceva alla procedura in esame la natura di accordo sul rito per fini deflattivi, sottolineando «l’atipicità39» di una sentenza applicativa di sanzioni sostitutive con effetti di estinzione del reato. Invece le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, escludendo che la stessa fosse una sentenza di condanna, affermava che «la sentenza emessa ex art.77 è una sentenza di proscioglimento, ancorché applichi una sanzione40». Ciò significava che il patteggiante non fosse tenuto né al pagamento delle spese processuali, né al risarcimento della parte civile, in quanto entrambi presuppongono una sentenza di condanna. Invece in dottrina vi era chi attribuiva alla stessa natura amministrativa e chi invece sosteneva di trovarsi di fronte ad un tertium genus. La procedura non riscosse grande fama, in quanto si mostrò poco idonea a realizzare le esigenze di economia processuale e di sfoltimento del carico giudiziario.

pena pecuniaria può disporre con sentenza, su richiesta dello imputato e con il parere favorevole del Pubblico Ministero, l'applicazione della sanzione sostitutiva, con esclusione di ogni pena accessoria e misura di sicurezza, ad eccezione della confisca nei casi previsti dal secondo comma dell'articolo 240 del codice penale. In tal caso, con la stessa sentenza dichiara estinto il reato per intervenuta applicazione della sanzione sostitutiva su richiesta dell'imputato. Nella determinazione e nell'applicazione della sanzione sostitutiva si osservano le disposizioni della sezione i di questo capo. La sentenza produce i soli effetti espressamente previsti nella presente sezione. Contro la sentenza è ammesso soltanto ricorso per Cassazione». 39

Corte Costituzionale 30 aprile 1984, n.120 in “w.w.w.cortecostituzionale.it”. Cass. Sez. Un., 23 novembre 1988, Valvo.

40

18


3.1.

DALLA LEGGE DELEGA 16 FEBBRAIO 1987, N.81 AGLI ARTT.444 E SS. DEL NUOVO CODICE DI PROCEDURA PENALE.

L’applicazione della pena su richiesta delle parti fa ingresso nel nostro ordinamento quale espressione di quei caratteri del sistema accusatorio eletti a riferimento dal legislatore della riforma del 198841. Il rito in esame ha natura consensuale e fini deflattivi, oltre che accentuati profili premiali e congenita versatilità. La normativa emanata nel 1988 si caratterizza per una procedura nella quale imputato e pubblico ministero assumono il ruolo di attori principali, mentre il giudice è chiamato a svolgere un ruolo meramente notarile, investito del solo controllo circa la fondatezza formale della pena pattuita e, in presenza delle condizioni, della potestà di prosciogliere, ai sensi dell’art.129 c.p.p. Il rito, in una direzione di accrescimento della sua appetibilità, presenta una pluralità di vantaggi: oltre alla pena ridotta “fino ad un terzo” (art.444, comma1º c.p.p.), pena peraltro suscettibile di sospensione condizionale, esonera inoltre il patteggiante dal pagamento delle spese processuali. Egli inoltre viene esonerato dalle pene accessorie e dalle misure di sicurezza, con esclusione della confisca obbligatoria. Gode del beneficio della non menzione nel certificato di casellario giudiziario, della inefficacia della sentenza di patteggiamento nei giudizi civili ed amministrativi. Vi è inoltre un’equiparazione della sentenza patteggiata ad una pronuncia di condanna, l’assenza di pubblicità del rito, nonché l’estromissione della parte civile dal processo. Si prevede inoltre l’estinzione del reato e di ogni altro effetto penale. L’obbiettivo era quello della massima contrazione di tempi e forme «perseguita ora con esplicite previsioni, ora con emblematici silenzi42». Un esempio è il silenzio del legislatore in relazione al negoziato tra le parti: ciò che ci si limita a prevedere è una potestà di verifica giudiziale, peraltro a discrezionalità libera, circa la volontarietà della richiesta o del consenso prestato dalle parti, art.446, comma 5 c.p.p. Questi silenzi e lacune normative, dall’inserimento dell’istituto nel sistema processuale penale, hanno attirato l’attenzione di dottrina e giurisprudenza.

41

Art.2, comma 1, legge 16 febbraio 1987, n.81: «Il codice di procedura penale deve attuare i principi della Costituzione e adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale. Esso inoltre deve attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio…». 42 PERONI F. “La peripezia del patteggiamento in un trentennio di sperimentazione”, cit., pag.3.

19


Una delle questioni che ha animato il dibattito dottrinale è stata la conciliabilità dell’istituto nella dimensione della punibilità. La questione ruota sulla compatibilità dello sconto di pena indotto dal rito con i canoni di legalità della pena e con il corredo teleologico della stessa. In sede di elaborazione, il legislatore si è preoccupato di concepire il rito in ottica processualistica, quale strumento volto a soddisfare esigenze di deflazione della macchina giudiziaria. A tanta preoccupazione in chiave “funzionalprocessualistica”, non è seguita un’altrettanta preoccupazione volta a verificare le conseguenze di diritto sostanziale dei riti speciali, a cominciare dalla loro compatibilità con gli scopi della pena. Il problema è quello delle implicazioni del patteggiamento con il finalismo della pena, cioè rispetto alla duplice funzione di prevenzione generale e di prevenzione speciale. La funzione di prevenzione generale, insieme alla connessa funzione di intimidazione speciale, costituisce storicamente il principale scopo a cui assolvono le pene. Si distingue tra funzione di prevenzione generale c.d. “negativa” (o mediante intimidazione) e funzione di prevenzione generale c.d. “positiva” (o di tipo educativo). Secondo la teoria sulla prevenzione generale c.d. “negativa” «la pena consiste in una “sofferenza” che viene minacciata dal legislatore nei confronti della generalità dei consociati come conseguenza necessaria dell’illecito a carico di chi lo abbia realizzato in concreto, così da dissuadere i consociati dalla commissione degli illeciti. L’inflizione e l’esecuzione della pena costituiscono un momento irrinunciabile al fine di mantenere efficacia intimidativa generale alla minaccia della pena». Invece, secondo la teoria sulla prevenzione generale c.d. “positiva”, «la comminatoria legislativa della pena, accanto all’effetto intimidatorio, esplica un effetto di accreditamento sociale dei valori tutelati mediante la formale stigmatizzazione dei comportamenti criminosi, così da favorire l’astensione spontanea dai comportamenti inosservanti43». In dottrina è stato sostenuto che la migliore giustificazione del patteggiamento, anche in un’ottica politico-criminale è riconducibile, proprio sul piano della prevenzione generale c.d. positiva. In una chiave di lettura che tende a privilegiare «la certezza e la prontezza di applicazione della sanzione, più che il suo livello di severità, quali fattori decisivi dell’effetto general-preventivo, se n’è dedotto che da una sanzione certa e pronta possiamo avere un effetto preventivo maggiore di quello connesso ad una sanzione meno ma di più tarda ed incerta applicazione44». L’utilizzo della teoria della prevenzione generale c.d. positiva per giustificare il patteggiamento è stata criticata in quanto non si fonda su «riscontri empirici». È stato obiettato che non si può concludere che il tipo di livello di severità della sanzione giuridica svolga un ruolo secondario. Anzi si deve rilevare che «severità» e «probabilità» della pena, connotati

43

PALAZZO F., “Corso di diritto penale”, Torino, 2016 pagg. 16 ess. PAGLIARO A., “Riflessi del nuovo processo sul diritto penale sostanziale”, in “Riv. it. dir. e proc. Pen.”, 1990, pag. 38 e ss.

44

20


della prevenzione generale negativa costituiscono «fattori inscindibili della rappresentazione mentale del potenziale reo45». Da questo punto di vista «la certezza o probabilità di incorrere in una sanzione può dunque fungere da deterrente, soltanto in quanto riferita a una sanzione che per livello di severità sia sentita come giusta, cioè adeguata alla gravità del fatto commesso46». Un primo pericolo è che la pena «patteggiata», ancorché di più pronta applicazione, venga invece socialmente percepita come eccessivamente blanda, e perciò inadeguata rispetto all’accentuato disvalore di alcune figure di reato cui essa è pur astrattamente applicabile47. Il rischio è che una pena non proporzionata alla gravità del reato può comportare perdita di fiducia nelle istituzioni da parte dei consociati. La teoria della prevenzione speciale trova nella rieducazione e nell’espiazione le sue espressioni più significative. «Rieducazione ed espiazione si pongono una finalità di concreto “miglioramento” della personalità del condannato e dunque implicano che il contenuto afflittivo della pena si conformi in rapporto a tale scopo tenendo decisivo conto di quali possono essere le conseguenze di questo o di quell’altro contenuto afflittivo sulla concreta personalità del soggetto in carne ed ossa. “Prevenzione”, perché mirano al “miglioramento” della personalità del reo e si pongono così l’obiettivo della commissione di futuri reati. “Speciale”, perché sia la rieducazione che l’emenda hanno come destinatario il singolo soggetto condannato48». La concezione rieducativa della pena si può far risalire già alla tradizione romana: si attribuisce a Paolo49, noto giurisconsulto romano, il brocardo «Poena constituitur in emendationem hominum», che si può tradurre in «la pena è stabilita per il miglioramento degli uomini». Si tratta di un principio elaborato dalla dottrina illuminista nel XVIII secolo. È a metà del XIX secolo che si sviluppa la corrente c.d. “correzionalista”, che introduce per la prima volta il principio di rieducazione del reo alla vita sociale. Alla base di questa teoria vi 45

FIANDACA G., “Pena «patteggiata» e principio rieducativo: un arduo compromesso tra logica di parte e controllo giudiziale”, in “Foro italiano”, anno 1990, parte I, pagg.2386-2395. (Nota a Corte cost., 2 luglio 1990, n. 313) 46 Ibidem 47 Ivi, pag.2389. 48 PALAZZO F., “Corso di diritto penale”, pagg. 33 e ss. 49 Novissimo Digesto Italiano, terza ed., vol. XII, pag 362, 363.Paolo (Iulius Paulus), giureconsulto romano vissuto fra la fine del sec. II e l’inizio del sec. III d.C (figura eminente della giurisprudenza severiana). Esercitò l’avvocatura, fu assessore di Papiniano, magister memoriae e membro del consilium imperiale sotto Settimio Severo e Caracalla, ed infine praefectus praetorio insieme ad Ulpiano sotto Alessandro Severo. Fu probabilmente allievo di Cervidio Scevola e, seppure non sempre chiarissimo ed elegante per lo stile, lo si deve considerare, per qualità e quantità di produzione fra le i giuristi maggiori dell’età classica. Tuttavia, la recente tendenza critica volta a considerare numerose opere paoline come semplici edizioni separate di porzioni di lavori più ampi, porterebbe a ridurre considerevolmente il numero dei suoi scritti originali.

21


è il principio che la pena più che punire il soggetto, deve essere indirizzata al suo recupero sociale, al fine di prevenire la ricaduta nel delitto50. La finalità rieducativa della pena è espressamente sancita in Costituzione, laddove all’art.27, comma 3˚ si dispone: «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». La dottrina sostanzial-penalista non ha mancato di mettere in discussione la compatibilità del patteggiamento con la funzione rieducativa cui deve tendere la pena. Si è sottolineato come tra la scelta dell’imputato a favore del rito speciale ed il principio rieducativo non esista alcun nesso. Trattasi, infatti, di ragioni di strategia processuale o meglio ragioni di convenienza che spingono l’imputato verso la richiesta di patteggiamento, che non offre alcun indice rispetto all’avvenuto ravvedimento. Da qui sorge un conflitto tra il procedimento speciale e l’esigenza di indirizzare il trattamento sanzionatorio verso finalità rieducative. Infatti i benefici conseguenti al rito negoziale, se è vero che da un lato lo rendono appetibile, dall’altro mal si prestano al soddisfacimento delle istanze di prevenzione speciale, in quanto è difficile trovare «nelle opzioni di strategia processuale dell’imputato alcun indicatore di adattamento sociale51». L’applicazione della pena concordata, profondamente incentivata dal legislatore, ampliata nel suo ambito operativo dalla riforma del 2003, ha riscontrato un grande successo in sede legislativa ed anche nella prassi. Viceversa, l’istituto ha registrato una grande riluttanza da parte della cultura giuridica. Il patteggiamento, da una parte della dottrina, dal punto di vista della commisurazione della pena, «è considerato un “mostro” perché non trova una collocazione nel piano penalistico dei valori che devono sottendere la determinazione del trattamento sanzionatorio52». Altra parte della dottrina ha invece preso atto di come gli istituti di giustizia negoziata siano un modello, che si sta imponendo, diverso da quello tradizionale, e che dunque, bisogna individuare i valori che possono giustificare l’attenuazione della pena.

50

BORTOLOTTO T., “L' educatore penitenziario. Compiti, competenze e iter formativo. Proposta per un'innovazione”, Milano, 2002, pag.34. 51 PERONI F., “La peripezia del patteggiamento in un trentennio di sperimentazione”, cit., pag.5. 52 AMODIO E., “Giustizia penale negoziata e ragionevole durata del processo”, cit.pag.3406.

22


3.2.

LA

LEGGE

16

DICEMBRE

1999, N. 479:

LA C.D.

“LEGGE CAROTTI”. LA

LEGGE N.97 DEL 2001.

Con la legge 16 dicembre 1999, n. 479, nota come c.d. “legge Carotti”, sono state apportate alcune modifiche al tessuto normativo originario volte a recepire gli orientamenti della Corte Costituzionale tramite degli «aggiustamenti53» al tessuto normativo originario. Si tratta di una riforma generale che ha dato attuazione al giudice unico di primo grado, che è andata ad toccare anche la disciplina dei procedimenti speciali di natura premiale. Alla base della riforma del patteggiamento, vi sono esigenze di razionalizzazione e ragioni di economia processuale, volte ad incentivarne il ricorso54. Una prima novità è stata apportata dall’art.32 della legge n.479 del 1999, che ha affidato al giudice il compito di effettuare, oltre ad un sindacato relativo alla correttezza della qualificazione giuridica del fatto e dell’applicazione e comparazione delle circostanze prospettate, un ulteriore controllo relativo alla congruità della pena stabilita nell’accordo. Tale novella si è resa necessaria a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 2 luglio 1uglio 1990, n. 313, con la quale la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.444, comma 1˚ c.p.p. nella parte in cui non consentiva al giudice «di valutare la congruità della pena ai fini e nei limiti di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione55». Altro “aggiustamento” operato dalla legge Carotti è la previsione nell’art.444, comma 2˚ c.p.p.56, ove è previsto che il giudice condanni l’imputato patteggiante al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile. Anche questo intervento del legislatore ha fatto seguito ad una pronuncia manipolativa di accoglimento della Corte Costituzionale. Con la sentenza 26 settembre 1990, n. 443, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.444, comma 2˚ c.p.p., «nella

53

STORELLI F., “I riti alternativi nel processo penale alla luce della più recente giurisprudenza”, cit., pag.89. 54 VIGONI D., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, in “I procedimenti speciali in materia penale” a cura di Marco Pisani, Milano, 2003, pag.126. 55 Art. 27, comma 3 ̊ Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». 56 L’art.32 della legge 479 del 1999 ha modificato l’art.444, comma 2 ̊ c.p.p. inserendo l’inciso «l'imputato è tuttavia condannato al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, salvo che ricorrano giusti motivi per la compensazione totale o parziale».

23


parte in cui non prevede che il giudice condanni l'imputato al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile, salvo che ritenga di disporne, per giusti motivi, la compensazione totale o parziale57». La legge di riforma, al fine di spostare il termine ultimo di accesso al rito e pertanto di aumentare la capacità deflattiva del rito, ha previsto che le parti possono proporre la richiesta di patteggiamento fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado58, termine ultimo anche per dare il consenso alla richiesta, nel caso in cui fosse stato in precedenza negato59. Sempre per le stesse finalità la legge di riforma ha anticipato il termine per accedere al procedimento speciale, facendolo coincidere con quello in cui vengono presentate le conclusioni nell’udienza preliminare. La legge 27 marzo 2001, n.97, rubricata "Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche", è intervenuta modificando gli effetti extrapenali della sentenza che dispone la pena concordata dalle parti inserendo un comma 1-bis nel testo dell’art. 653 c.p.p60. Dalla lettura in combinato disposto dell’anzidetta norma con l’art.445, comma 1-bis c.p.p.61, discende che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ha efficacia disciplinare nei procedimenti disciplinari davanti alla Pubblica Autorità, quanto alla sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale ed alla responsabilità personale dell’imputato.

57

Corte Costituzionale sentenza 26 settembre 1990, n.443. Art.446, comma 1:̊ «Le parti possono formulare la richiesta prevista dall’art.444, comma 1, fino alla presentazione delle conclusioni di cui agli articoli 421, comma 3, e 422, comma 3, e fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo». 59 Art. 446, comma 4:̊ «il consenso sulla richiesta può essere dato entro i termini previsti dal comma 1, anche se in precedenza era stato negato». 60 Art. 653, comma 1-bis c.p.p., così come modificato dalla legge n.97 del 2001: «La sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio di responsabilità disciplinare, davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso». 61 Art.445, comma 1-bis c.p.p.: «Salvo quanto previsto dall'articolo 653, la sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi. Salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna.» 58

24


3.3.

IL C.D. “PATTEGGIAMENTO ALLARGATO” LEGGE 12 GIUGNO 2003, N.134.

Il legislatore, spinto da esigenze di efficienza del sistema ed allo scopo di decongestionare il funzionamento complessivo della macchina giudiziaria, con la legge 12 giugno 2003, n.134 ha introdotto il c.d. patteggiamento allargato. Con la novella normativa si è assistito all’estensione della dimensione applicativa dell’istituto. È stato sottolineato, dai primi commentatori della riforma come questa scelta «sveli gli intendimenti del legislatore di forzare l’utilizzo del rito per fini deflattivi ed allo scopo di riequilibrare l’ipertrofia processuale62». Alle radici della riforma sul patteggiamento allargato vi è la proposta elaborata qualche anno dopo Tangentopoli da un gruppo di giuristi milanesi. Nel testo intitolato “Proposte in materia di prevenzione della corruzione e dell’illecito finanziamento dei partiti”63, si constatava la necessità di facilitare la rapida definizione dei processi, che si erano accumulati per via di Tangentopoli64 e dunque per decongestionare la macchina giudiziaria. La proposta prevedeva che il limite edittale per l’accesso al patteggiamento fosse innalzato fino a 3 anni di pena detentiva, con la possibilità di disporre le misure di sicurezza e la condanna a pene accessorie. Queste proposte sono successivamente riemerse nel successivo progetto di riforma volto ad estendere il patteggiamento a reati di una certa gravità. La riforma 62

VIGONI D., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, in “I procedimenti speciali in materia penale”, Milano, 2003, a cura di Marco Pisani, pag.128 63 Il testo integrale della proposta si può leggere in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 1994, pagp.1024 e ss. 64 «Tangentopoli» è un termine usato in Italia dal 1992 per definire un sistema diffuso di corruzione politica, che coinvolgeva politici ed imprenditoria. Essa è nota anche come «Mani pulite», nome del fascicolo d’aperto dalla procura di Milano, dal magistrato Antonio Di Pietro. Le indagini da Milano si propagarono quindi verso Verona, Venezia, Reggio Calabria, Firenze, Varese, Ancona, Napoli, Parma e Roma. Parallelamente alla classe politica locale, furono coinvolti politici di rilevanza nazionale. Dalle indagini fu scoperto, un utilizzo sistematico di tangenti nella aggiudicazione e gestione degli appalti relativi a strade e autostrade, aeroporti e metropolitane, istituti penitenziari ed enti pubblici di varia natura. le statistiche giudiziarie, che pure riflettono la sola parte emersa del fenomeno, segnalarono un forte attivismo della magistratura almeno fino alla metà degli anni Novanta. Nei soli reati di concussione, corruzione per un atto d'ufficio o per un atto contrario ai doveri d'ufficio, corruzione di incaricato di pubblico servizio, si passò da una media annua di 252 delitti e 365 persone l'anno denunciate per corruzione e concussione tra il 1984 e il 1991, a una di 1076 delitti e 1991 persone tra il 1992 e il 1996. “Enciclopedia Italiana”, VII Appendice (2007).

25


del c.d. patteggiamento “allargato” è il risultato della fusione di tre progetti di legge. È da sottolineare come la riforma si sia svolta in un clima di «leale confronto e reciproca collaborazione tra le diverse forza politiche», molto probabilmente perché a differenza di altre leggi, la normativa in esame non è apparsa legata a specifiche vicende processuali. Le originarie proposte di legge esprimevano una diverso trattamento per quanto riguarda l’innalzamento della cornice edittale, la p.d.l. n.718 del 200165 prevedeva un innalzamento della pena patteggiabile a 3 anni di pena detentiva, la p.d.l. n. 1488 del 200166, a quattro anni, mentre la p.d.l. n.1423 del 200167 prevedeva la possibilità di patteggiare qualsiasi reato, anche se punibile con l’ergastolo68. La novella legislativa del 2003, composta da soli cinque articoli, incide su due istituti: da una parte il rito dell’applicazione della pena su richiesta delle parti; dall’altro la

65

Si fa riferimento alla proposta di legge dell’onorevole Pisapia, del 12 giugno 2001, n. 718, denominata “Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti”. La proposta voleva introdurre nel sistema processuale penale un meccanismo destinato ad avere applicazione dove la pena detentiva contrattata, a fine computo, pur superiore a due anni, non superasse i tre. Si prevedeva che l’accoglimento dell’accordo fosse subordinato al versamento di una somma a titolo di provvisionale. Si prevedeva l’esclusione dei benefici di cui all’art.445.1 c.p.p., ossia il beneficio dell’esenzione dal pagamento delle spese del procedimento, della non applicabilità delle pene accessorie e delle misure di sicurezza. Si prevedeva la sostituzione dell’intera pena con lavoro non retribuito da svolgere in favore della collettività. Si prevedeva inoltre la possibilità per il giudice, dove non ritenesse adeguato l’accordo delle parti, di emettere un’ordinanza con cui si invitassero le parti a rimodulare i termini dell’accordo. SCELLA A., “Patteggiamento «allargato» nel quadro della programmata espansione della giustizia negoziale”, a cura di Francesco Peroni, Torino, 2004, pag.29. 66 Si tratta della proposta di legge dell’onorevole Vitali del 2 agosto 2001, n.1488 recante “Modifiche agli articoli 444 e 446 del codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti”. Questa proposta si limitava ad ampliare i limiti oggettivi di applicabilità dell’istituto, innalzando a quattro anni il limite della pena patteggiabile. SCELLA A., “Patteggiamento «allargato» nel quadro della programmata espansione della giustizia negoziale.”, cit. pag.30. 67 Si fa riferimento alla proposta di legge dell’onorevole Palma e altri del 25 luglio 2001, n.1423, recante “modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti.” Questa proposta voleva generalizzare il ricorso al procedimento speciale del patteggiamento. Si prevedeva infatti l’applicabilità dell’istituto per pene detentive che, a fine computo, diminuite da un terzo alla metà, non superassero venti anni di reclusione o quattro anni di arresto, consentendo di applicare il rito anche a reati puniti con l’ergastolo senza isolamento diurno, sostituito con ventiquattro anni di reclusione. Si prevedeva inoltre la possibilità di sottoporre la sentenza di patteggiamento a revisione. SCELLA A., “Patteggiamento «allargato» nel quadro della programmata espansione della giustizia negoziale.”, cit., pag.30 68 Art.1. lett.b p.d.l. n.1423 del 2001 prevedeva che alla pena dell’ergastolo senza isolamento diurno si sarebbe dovuta sostituire quella della reclusione di anni ventiquattro.

26


disciplina delle sanzioni sostitutive. L’art.1 della legge 134 del 2003, rubricata ”Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti", ha sostituito il comma 1 del testo originario dell’art. 444 c.p.p., introducendo un comma 1 e 1-bis, alla scopo di innalzare il tetto edittale entro il quale ricorrere al rito, portandolo da 2 a 5 anni. Il testo riformato dell’art.444, comma 1 c.p.p., dispone: «L’imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice l’applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria». L’art.444, comma 1-bis, continua statuendo: «Sono esclusi dall’applicazione del comma 1 i procedimenti per i delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, nonchè quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi ai sensi dell’articolo 99, quarto comma, del codice penale, qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria». Il nocciolo duro della riforma si fonda su uno sdoppiamento delle fattispecie di composizione della pena, cui consegue un diverso “inventario” della premialità ad essa collegata. Dalla riforma ne risulta dunque «una duplicità di modelli, il cui discrimen, sul piano dei presupposti quantitativi, è costituita dalla linea di due anni di pena contrattata; il sottomodello “superiore” si caratterizza per alcuni congegni preclusivi d’accesso69». La previsione di due sottomodelli di accesso all’istituto del patteggiamento è stato detto che risponderebbe ad una precisa scelta di politica del processo: «coniugare il ricercato incremento della portata deflattiva del congegno, sintonico ad avvertite istanze di economia processuale, con l’esigenza di arginare l’accesso al “modulo superiore”, confezionando allo scopo appositi sbarramenti d’ordine oggettivo e soggettivo che si sono ritenute in linea con le preoccupazioni avvertite dalla coscienza sociale70». La riforma del 2003 è intervenuta anche sul regime premile modificando l’originario testo dell’art.445 del c.p.p. Il testo originario dell’art.445 c.p.p. prevedeva che la sentenza di patteggiamento non comportasse l’applicazione di misure di sicurezza, fatta eccezione per la confisca dei beni nei casi previsti dall’art.240, comma 2 del c.p. Questa scelta originaria del legislatore comportava l’impossibilità di dar luogo nei procedimenti per reati di spaccio o di sostanze stupefacenti, alla confisca del denaro ricavato dall’attività illecita, essendo quello considerato come “provento” e non come “prezzo del reato”. L’intervento legislativo di riforma ha invece previsto l’applicabilità di ogni ipotesi di confisca a seguito di sentenza ex art. 444 c.p.p., in quanto il nuovo testo dell’art.445 del c.p.p. dispone che «la

69

SCELLA A.,”Il patteggiamento «allargato» nel quadro della programmata espansione della giustizia negoziale”, cit, pag. 31. 70 Ivi, pag. 33.

27


sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, quando la pena irrogata non superi i due anni di pena detentiva soli o congiunti a pena pecuniaria, non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento né l’applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza, fatta eccezione della confisca nei casi previsti dall’articolo 240 del codice penale.». In tal modo si è posto rimedio a questa “stranezza” del sistema, prevedendo in caso di condanna la confisca anche nei casi in cu essa è facoltativa ex art.240, comma 1 c.p.p., cioè delle cose che sono servite o destinate alla commissione del reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto71. La novella legislativa introdotta al fine di decongestionare il carico giudiziario, cerca di superare la diffidenza del giurista italiano per la giustizia negoziata: «segna la caduta di un limite di timidezza legislativa nei confronti dell’istituto; crolla l’idea che il patteggiamento appartenga di necessità ad un diritto penale mite72». Il nuovo patteggiamento consente di ricomprendere fattispecie criminose in grado di dar luogo ad un accentuato allarme sociale. In seguito alla riforma del 2003, tra le fattispecie patteggiabili rientrano reati quali il tentato omicidio, la violenza sessuale, il peculato, la concussione, la rapina pluriaggravata, la bancarotta fraudolenta. Sotto questo profilo non sono mancate le critiche alla riforma alla quale è stato contestato di cozzare con i tradizionali scopi della pena. Alcuni commentatori hanno sottolineato come la disciplina del “patteggiamento allargato”, prevista dalla legge n. 34 del 2003, in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale 9 luglio 2004, n.21973, «metta in crisi la concezione del processo come luogo di accertamento del fatto, senza apportare miglioramenti sotto il profilo dell’efficienza e dei tempi del processo74». Secondo questa dottrina la nuova disciplina depotenzia la funzione giurisdizionale, per effetto della sottrazione al processo ordinario di fattispecie di reato contrassegnate da un elevato livello di disvalore. Si realizzerebbe così un sistema penale quale luogo di negoziazione.

71

Art. 240.1 c.p.: «Nel caso di condanna, il giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto». 72 BETTOL R., “Riflessioni aperte dalla legge in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti”, in “Diritto penale processuale”, 2004, pag. 228 così come richiamato da SCELLA A.,”Il patteggiamento «allargato» nel quadro della programmata espansione della giustizia negoziale”, cit. pag. 36. 73 Corte Cost., 9 luglio 2004, n.219, in “Guida al diritto”, 2004. 74 LORUSSO S., “Arriva dalla Corte Costituzionale il placet alla giurisdizione penale acognitiva”, in “Diritto penale e processo”, 2005, pag.627.

28


4.

UNA RINNOVATA LOTTA AL FENOMENO CORRUTTIVO DISINCENTIVA IL PATTEGGIAMENTO: DALLA LEGGE SEVERINO ALLA LEGGE “SPAZZACORROTTI”.

Nell’ultimo decennio il legislatore ha intrapreso un percorso di rinnovamento normativo che affonda le proprie radici, a partire dalla fine degli anni novanta, in un clima di particolare fermento registratosi, a livello internazionale, sul tema della repressione al fenomeno della corruzione, sulla spinta della stipula, in materia, di tre Convenzioni internazionali. La c.d. “legge Severino75” prima, la c.d. “legge Grasso76” dopo, e da ultimo la c.d. “legge Spazzacorrotti77” hanno dato attuazioni agli imput provenienti dall’ordinamento interazionale, con riflessi sui procedimenti speciali, ed in particolare sull’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, andando ad incidere sulla sua fisionomia finendo per disincentivarne il ricorso al rito de quo. La legge n. 69 del 2015, in particolare, è intervenuta subordinandone l’accesso al rito ad un esborso economico da parte dell’imputato pari nell’ammontare al profitto o al prezzo del reato. Nell’ambito delle riforma volta a dare un risposta concreta al fenomeno corruttivo in Italia, realizzata con la legge 9 gennaio 2019, n.378, rubricata “Misure per il contrasto dei reati contro la Pubblica Amministrazione, nonché in materia di prevenzione del reato e di trasparenza dei partiti e movimenti politici”, nota come “legge spazzacorrotti”, si sono inserite una serie di disposizioni processuali, che nella sostanza renderanno più difficile l’accesso al rito dell’applicazione della pena su richiesta delle parti con riferimento a questa tipologia di reati. Con la riforma del 2019 è stato detto che «il patteggiamento vive una sorta di contraddizione interna: allarga gli spazi di discrezionalità giurisdizionale non già con riferimento al giudizio di cognizione ordinario, bensì con riguardo ad un rito speciale nella quale l’accertamento è estremamente contratto79». È stato, infatti, aggiunto un comma 1-ter all’art. 445 c.p.p. dal quale si evince

75

Legge 6 novembre 2012, n.190. Legge 27 maggio 2015, n.69. 77 Legge 9 gennaio 2019, n.3. 78 La legge 3 gennaio 2019, n.3, è stata pubblicata in G.U., n.13 del 16 gennaio 2019. È entrata in vigore il 31 gennaio 2019; mentre per alcune disposizioni in materia di processo penale e prescrizione, come previsto dalla stessa, sono entrate in vigore dal 1 gennaio 2020. 79 CAMON A., “Disegno di legge spazzacorrotti e processo penale. Osservazioni di prima lettura”, in “Archivio penale”, 2018, n.3, pagg. 10-11. 76

29


che nel caso di sentenza ex art.444 c.p.p. «può» applicare le sanzioni di cui all’art.317bis c.p. Gli interventi compiuti con la legge n. 3 del 201980, contribuiscono a rendere meno appetibile il rito in quanto ne condizionano l’accesso alle restituzioni integrali, rafforzandone la connotazione di condanna. L’intento della riforma è quello di vietare forme di premialità per alcune fattispecie criminose connotate da un maggiore disvalore. Il pericolo è quello di un sistema penale poco efficiente: è stato evidenziato come in riferimento a questi reati, le sentenze di patteggiamento costituiscono una porzione molto praticata di definizione della controversia. La scelta di rendere più difficoltoso l’acceso a questo rito deflattivo rischierà di ingolfare la macchina giudiziaria. La riforma ha aggiunto un comma 3-bis all’art. 444 c.p.p., il quale statuisce che « nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis e 346 bis del codice penale, la parte, nel formulare la richiesta, può subordinarne l'efficacia all'esenzione dalle pene accessorie previste dall'articolo 317 bis del codice penale ovvero all'estensione degli effetti della sospensione condizionale anche a tali pene accessorie». Qualora il giudice ritenesse di non accogliere la richiesta in punto di pene accessorie, la stessa richiesta di patteggiamento sarebbe rigettata. Il pericolo che potrebbe nascere da questo nuovo quadro normativo, tuttavia, è quello che l’imputato non consideri “conveniente” il ricorso all’istituto. È stato sottolineato come «il legislatore preoccupato di individuare fonti di contrasto a taluni reati che offendono la p.a., abbia mancato di coordinarsi con la ratio deflattiva sottesa al rito alternativo che potrebbe risultare, infatti, non appetibile. Con la conseguenza che proprio laddove vi è un’alta esigenza di definizione celere del procedimento, si preferisca accedere al rito ordinario, con aggravio dei tempi del processo e, specularmente, di ritardo nella recisione del contatto fra il pubblico ufficiale, che ha delinquito e l’amministrazione offesa81». Il legislatore ha, quindi, ritenuto di controbilanciare queste

80

Art. 1, comma 4,̊ lett.d) legge n. 3/2019 ha aggiunto all'articolo 444, dopo il comma 3 il seguente: «3-bis. Nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis del codice penale, la parte, nel formulare la richiesta, può subordinarne l'efficacia all'esenzione dalle pene accessorie previste dall'articolo 317-bis del codice penale ovvero all'estensione degli effetti della sospensione condizionale anche a tali pene accessorie. In questi casi il giudice, se ritiene di applicare le pene accessorie o ritiene che l'estensione della sospensione condizionale non possa essere concessa, rigetta la richiesta». 81 VISCOMI G., “«Spazzacorrotti», cosa cambia?”, tratta dal testo della Relazione all’incontro di studio organizzato dalla Formazione Decentrata del Distretto di Catanzaro tenutosi presso la Corte d’Appello di Catanzaro il 14 febbraio 2019.

30


modifiche con la previsione di un maggior numero di casi in cui l’imputato è abilitato a subordinare condizionalmente l’efficacia della richiesta di applicazione della pena82.

82

LUDOVICI L., “Applicazione della pena su richiesta delle parti: le modifiche apportate dalla legge «spazzacorrotti»”, in “Diritto penale e processo”, 2019, 6, pag.765.

31


5.

LE ORIGINI DELLA GIUSTIZIA NEGOZIATA NEGLI STATI UNITI.

L’impostazione di fondo dell’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti trae spunto da alcuni modelli negoziali di derivazione anglosassone. Tali modelli, in particolare il plea bargaining, molto diffuso nell’ordinamento nordamericano, ma anche in quello inglese, hanno ispirato e influenzato le scelte del nostro legislatore. Nella Relazione programmatica preliminare al codice di procedura penale83, infatti, il legislatore delegante ammetteva espressamente di essersi ispirato all’istituto della tradizione nordamericana per presentare le finalità dei procedimenti special ed in particolare dell’applicazione della pena su richiesta delle parti. In dottrina è stato sottolineato come «l’entusiasmo per il nuovo istituto si è accompagnato ad un’insufficiente conoscenza delle effettive modalità di funzionamento del fenomeno made in U.S.A., ma soprattutto dello specifico contesto processuale, ordinamentale e costituzionale, nel quale esso opera indisturbato da oltre un secolo84». Il plea bargaining di matrice anglosassone apparve al legislatore della riforma come il miglior equivalente funzionale per motivare le sue scelte in materia di giustizia negoziale. Tuttavia, si è sottolineato, come «quell’etichetta e quel richiamo comparatistico hanno costituito il maggior impaccio per la messa a punto dei poteri del giudice in materia di patteggiamento e per convincere che la sentenza che lo applica è vera e propria forma di giudizio; anche se tale consapevolezza era in parte affievolita dallo stesso linguaggio codicistico85». Il plea bargaining funge da contrappeso alle complessità delle forme procedimentali, specificamente alla law of evidence ed al macchinoso jury trial, oltre che all’eccessiva severità del regime sanzionatorio, e viene ad essere considerato come un “male necessario86”. Negli U.S.A. il plea bargaining, inizialmente costituì uno strumento clandestino, che trovaVA collocazione nell’ambito della prassi di polizia, quale accordo informale, “sottobanco”, viene poi riconosciuto negli anni ’70 dalla giurisprudenza della Suprema Corte Federale, e non sono mancati i tentativi di disciplinarlo ed innovarlo. 83

Si veda Rel. prog. prel. c.p.p., in G.U. del 24 ottobre 1988, n.250. suppl.ord. n.2, 122. FANCHIOTTI V., “Il patteggiamento allargato nella prospettiva comparata”, in “Patteggiamento allargato e giustizia penale” a cura di Francesco Peroni, Torino, 2004, pag.130. 85 RICCIO G., “Presentazione”, in “Patteggiamento allargato e sistema penale” a cura di Agostino De Caro, Milano, 2004, pag. 7. 86 VIGONI D.,”L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, cit., pag.7. 84

32


La ricostruzione dottrinale che è stata fatta sulla nascita dell’istituto la fa datare intorno agli ultimi decenni del XVIII secolo. Gli studi storici hanno rinvenuto solo un’ipotesi anteriore a questa data convenzionale: si fa riferimento ad un caso risalente al 1749, verificatesi nel Massachusetts. L’occasione che ha dato l’inizio ai primi studi approfonditi sulla nascita del plea bargaining, è il convegno tenutosi a French Lick, nello stato dell’Indiana, nel 1978 da parte della Law & Society Association. Il primo caso di cui si ha traccia di guilty plea nei repertori giurisprudenziali si ha nel 1804. Si tratta di un caso87, in cui l’imputato si dichiara colpevole, e la Corte lo invita a riflettere sulla sua dichiarazione, rinviando il dibattimento. Tuttavia, solo dopo la guerra civile iniziano ad apparire i primi patteggiamenti tra accusa e difesa. I giudici statali cosi come la Corte Suprema mostrano un atteggiamento non di favore nei confronti di queste pratiche. I fattori che hanno determinato lo sviluppo dell’istituto negli ultimi decenni del XIX secolo sono molteplici. È in questo periodo che muta la struttura socio-economica degli Stati Uniti. Lo sviluppo di metropoli industriali richiede un’adeguata organizzazione giudiziaria. L’intensificarsi dei rapporti interpersonali, la nascita di nuovi interessi collegati allo sviluppo economico moltiplicano le occasioni di conflitti, determinando anche nel settore penale il sorgere di una ingente produzione normativa88. Il moltiplicarsi delle norme penali provoca un aumento del carico giudiziario, spingendo così alla ricerca di procedure semplificate, e che consentano di definire celermente i processi penali. A questa esigenza ben risponde il plea bargaining. Altri fattori che agevolano il diffondersi di questo meccanismo sono state le trasformazioni che hanno riguardato la procedura penale e l’organizzazione giudizaria. Tra il 1920 ed il 1930 avviene la “scoperta” del plea bargaining. In questi anni vi è una profonda crisi della macchina giudiziaria conseguente ad un aumento della criminalità alla fine del primo conflitto mondiale. Le Commissioni d’indagine sul funzionamento della giustizia penale istituite per apportare rimedi a questa situazione, notano come solo una minima parte dei procedimenti penali sono definiti con il jury trial; mentre nella stragrande maggioranza dei casi si ricorre al meccanismo del guilty plea o dichiarazione di colpevolezza da parte dell’imputato evitando di raggiungere la fase dibattimentale di competenza della giuria. Il ricorso al meccanismo del guilty plea è strettamente connessa con la diffusione della pratica del plea bargaining. Preso atto, che nella prassi, c’è stato un accantonamento del processo davanti alla giuria, si sono sollevarono voci molto critiche nei confronti di questi meccanismi di giustizia contrattata. Il fenomeno venne definito con delle espressioni molto eloquenti: “paltering 87

Commonwealth v. Battis, 1 Mass. 95 (1804), così come richiamata da FANCHIOTTI V., “Origini e sviluppo della «giustizia contrattata» nell’ordinamento statunitense”, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 1984, fasc.1, pag.66. 88 FANCHIOTTI V., “Origini e sviluppo della «giustizia contrattata» nell’ordinamento statunitense”, cit. pag.70.

33


with crime”, “pretty direct encouragement to crime”, “licence to violate the law”, “abuse”. Queste espressioni mostrano come il plea bargaining fosse visto come «sintomo eloquente dello stato di inefficienza, corruzione e lassismo che affligge l’apparato giudiziario89». In questo periodo, si verificano mutamenti nel sistema dell’amministrazione della giustizia, che lasciano però aperto il dibattito sui meccanismi veloci e sommari. Sul versante della legge penale sostanziale si assiste ad un ingente produzione normativa. Questo comporta un ricorso al plea bargaining, non solo da parte dei prosecutors, ma anche da parte dei giudici, che, in alcuni casi offrono pubblicamente a tutti gli imputati una pena pecuniaria in cambio di una dichiarazione di colpevolezza per un reato minore di quello commesso. Sotto il profilo processuale si assiste ad un eccessivo formalismo delle giurie e, di conseguenza, si ridimensiona la precarietà dei virdicts e la necessità dei new trials. L’accordo tra imputato ed organo dell’accusa implica un’ammissione di responsabilità, in cambio della quale è assicurato all’imputato un particolare trattamento di favore. Rispetto al rito di cui all’art.444 del nostro codice di procedura penale, il plea bargaining presuppone la confessione dell’imputato. Le differenze rispetto al patteggiamento, disciplinato nel nostro ordinamento nazionale, sono macroscopiche e riguardano il nucleo e la stessa esistenza del rito. Esse vanno dalle modalità dell’accordo, che lascia alla volontà delle parti l’intera disponibilità del processo relegando il giudice ad un ruolo prevalentemente esterno, all’oggetto dello stesso, che può avere quale contenuto l’impunità, frapporre vincoli all’esercizio dell’azione penale o incidere su materie per cui qualunque accordo al riguardo, sarebbe alla luce dei principi fondamentali del nostro ordinamento, contra legem 90 . Queste divergenze hanno indotto parte della dottrina91 a considerare quale analogo funzionale dell’applicazione della pena su richiesta delle parti la figura del nolo contendere. Con questo termine si fa riferimento alla dichiarazione dell’imputato, che senza ammettere o negare la propria colpevolezza circa i l’imputazione formulata nei suoi confronti, esprime la volontà di rinunciare al trial e di vedersi sottoposto all’applicazione della sanzione. La differenza 89

Ivi, pag.59. VIGONI D., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, cit., pag.11. 91 VITTORINI.GIULIANO S., “La richiesta di patteggiamento come espressione di un nolo contendere”, in “Cassazione penale”, 1992, pagg.89 e ss. 90

34


rispetto al plea bargaining consiste nel fatto che nel caso del nolo contendere la dichiarazione dell’imputato non può essere utilizzata in altro procedimento, ed in particolare in un’eventuale azione civile che presupponga l’accertamento degli stessi fatti. Sotto questo profilo si vede una certa somiglianza con i limiti posti dall’art.445, comma 1 c.p.p., il quale dispone che la sentenza non abbia efficacia nei giudizi civili o amministrativi.

35


CAPITOLO II IL PATTEGGIAMENTO: LA TRIADE NEGOZIALE.

SOMMARIO: 1. I soggetti nel patteggiamento. ˗ 2. Il pubblico ministero: la questione dei rapporti tra principio di obbligatorietà dell’azione penale e applicazione della pena su richiesta delle parti. ˗ 3. La rinuncia ai diritti da parte dell’imputato. ˗ 3.1. Patteggiamento “maior” e “minus”: i vantaggi derivanti dalla scelta del rito. ˗ 4. Il giudice e il suo ruolo nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. ˗ 5. La vanificazione del ruolo della vittima nel patteggiamento. ˗ 6. La pubblica amministrazione quale “danneggiato privilegiato”.

36


1.

I SOGGETTI NEL PATTEGGIAMENTO.

Soggetti indefettibili, necessari ed esclusivi del meccanismo negoziale sono: l’’accusato92” (ovvero l’indagato/imputato) ed il pubblico ministero. La necessità di un accertamento contratto della responsabilità penale e il l’impostazione deflattiva del rito giustificano la scelta di impedire l’ingresso della parte civile. In questo capitolo esamineremo in primis il ruolo del giudice, cercando di capire se egli svolga un ruolo meramente “notarile” oppure eserciti una funzione giurisdizionale, verificando se e quanto possa incidere sull’accordo tra le parti. In seguito, esaminati anche gli altri soggetti che formano la “triade negoziale”, occorrerà verificare quale sia il reale coinvolgimento della vittima nel rito dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, e se si assiste ad una vanificazione del suo ruolo. Per determinare i poteri delle parti nel patteggiamento appare prioritario compiere una distinzione tra le facoltà in punto di determinazione della pena ed i poteri di scelta del rito speciale a queste riconosciuta93. È su questi due aspetti che si articola un controllo da parte del giudice. Sotto il primo profilo, le parti non hanno alcun potere dispositivo in proposito, in quanto esigenze di rispetto del principio di legalità, che governa la sanzione penale, hanno imposto di estendere il controllo del giudice alla congruità della pena. La previsione di questo tipo di controllo da parte del giudice, il quale non si limita ad effettuare un mero controllo di legittimità, ma sindaca l’entità della pena, che rappresenta il “merito” dell’accordo, ha indotto a parlare dell’istituto in esame come di un “actum trium personarum94”, ossia come un negozio giuridico processuale plurilaterale. Per quanto riguarda i poteri di scelta del rito, questi sono rimessi alla volontà delle parti. L’imputato ed il pubblico ministero possono infatti chiedere al giudice, nella 92

Nella terminologia usata dalle fonti sovrannazionali, con il termine accusato si intende «la persona contro cui è elevata un’accusa di natura pena». Si fa riferimento in particolare all’art. 14 del “Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici”, ed all’art. 6 della “Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. In Italia il termine «appare comprensivo tanto della figura sottoposta alle indagini quanto all’imputato». Così MARCOLINI S., “Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale negoziata”, cit., pag.5. 93 BONINI V., “Imputato e pubblico ministero nella scelta del rito «patteggiato»”, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, fasc. 4, 1997, pag. 1183. 94 CONFALONIERI A., “Volontà delle parti e controlli del giudice nel patteggiamento”, in “Cassazione penale”, 1994, pag. 1000.

37


specie e nella misura indicata, l’applicazione di una sanzione sostitutiva95 o di una pena pecuniaria diminuita fino ad un terzo o di una pena detentiva, quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino ad un terzo, non supera i limiti di cinque anni, solo o congiunti a pena pecuniaria.96 La richiesta può essere formulata congiuntamente da imputato e pubblico ministero, anche se la prassi dei Tribunali mostra che generalmente essa proviene dall’imputato97. Essa peraltro può essere formulata o dal solo imputato o dal solo pubblico ministero, che dovranno acquisire il consenso della parte non proponente. Nell’ipotesi in cui il consenso della parte non proponente sia stato acquisito, la richiesta di pena patteggiata viene sottoposta al giudice competente. Nel caso in cui invece la parte non richiedente non abbia prestato il consenso, le conseguenze sono diverse a seconda di quale sia la parte dissenziente. Nel caso in cui il dissenso provenga dall’imputato, la richiesta non potrà essere sottoposta al giudice, e dunque è inibita la prosecuzione del rito speciale. Invece nel caso in cui il dissenso provenga dal pubblico ministero, secondo quanto disposto dall’art. 446, comma 6 c.p.p., la richiesta potrà essere ugualmente presentata al giudice.98 Le attività delle parti trovano il proprio fondamento ed i propri limiti da un lato nel diritto difesa e dall’altro nei poteri inerenti all’esercizio e lo svolgimento dell’azione penale. Il diritto di difesa «attribuisce alla parte privata una libertà di manovra e di

95

La disciplina delle sanzioni sostitutive è contenuta nella legge 24 novembre 1981, n.689 e successive modifiche. Le sanzioni sostitutive previste dalla legge generale sono tre: la semidetenzione che può sostituire pene detentive fino a due anni, consiste sostanzialmente nell’obbligo di trascorrere almeno 10 ore al giorno in un istituto penitenziario, cui si aggiungono altri divieti come il divieto di detenzione di armi e munizioni, sospensione della patente di guida, ritiro del passaporto (art.55 legge 689/1981). La libertà controllata, che può sostituire pene detentive fino a due mesi, consiste principalmente nel divieto di allontanarsi dal comune di residenza e nell’obbligo di presentarsi almeno una volta al giorno presso il locale ufficio di pubblica sicurezza; il divieto di detenere a qualsiasi titolo armi, munizioni ed esplosivi; la sospensione della patente di guida; il ritiro del passaporto (art.56 legge 689/1981). La pena pecuniaria che può sostituire pene detentive fino a 6 mesi, viene disposta nella specie corrispondente alla pena detentiva sostituita; cioè multa al posto della reclusione, ammenda al posto dell’arresto. Altra sanzione sostitutiva è l’espulsione dello straniero, prevista per il soggetto extracomunitario irregolare; responsabile di reati non colposi ovvero del reato di ingresso o trattenimento illegali. Tale previsione è stata introdotta dal “Testo Unico in materia di immigrazione”, d.lgs 286 del 1988). Per un’accurata analisi del tema delle sanzioni sostitutive PALAZZO F., “Corso di diritto penale”, cit., pag. 597 e ss. 96 ARRU A.A., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, cit., pag. 16. 97 STORELLI F., “I riti alternativi al processo penale, alla luce della più recente giurisprudenza”, cit., pag. 94. 98 In questo caso il g.i.p. o il g.u.p. si limitano a prendere atto della tempestività della richiesta che sarà vagliata dal giudice del dibattimento.

38


scelta che non può caratterizzare la figura del pubblico ministero99», il quale è vincolato nelle proprie scelte al rispetto del principio di legalità che ne domina l’azione in forza dell’art.112 Cost100. I limiti al diritto di difesa, nel rispetto dei principi costituzionali di cui agli artt. 13101, 24, secondo comma102, 27 secondo comma103, Cost., non possono che essere quelli indispensabili al funzionamento della macchina giudiziaria. Nel patteggiamento si assiste alla massima estensione possibile delle rinunce cui le parti possono giungere: immediatezza, oralità, contraddittorio, dibattimento, impugnazione di merito. Si è detto che con tali rinunce le parti «finiscono con il rinnegare la loro stessa essenza104».

99

BONINI V., “Imputato e pubblico ministero nella scelta del rito «patteggiato”, cit., pag.1188. Art. 112 Cost.: «Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale». 101 Art. 13 Cost.: «La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». 102 Art.24, secondo comma Cost.: «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento».». Il diritto di difesa è inoltre riconosciuto da diversi documenti sovrannazionali: in particolare si fa riferimento all’art.14 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici; dall’art.47, comma 2, ultimo periodo, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza); infine dall’art. 6 della CEDU. 103 Art. 27, secondo comma Cost.: «L’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva». 104 MARCOLINI S., “Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale negoziata”, cit., pag.110. 100

39


2.

IL PUBBLICO MINISTERO: LA QUESTIONE DEI RAPPORTI TRA PRINCIPIO DI OBBLIGATORIETÀ DELL’AZIONE PENALE E APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA DELLE PARTI.

Il pubblico ministero è la parte pubblica che ha il compito di esercitare l’azione penale, ossia di formulare al giudice una domanda sulla quale quest’ultimo dovrà pronunciarsi105. Questo compito gli è attribuito dall’art.112 Cost. L’esercizio dell’azione penale106 rappresenta la linea di demarcazione tra il procedimento in senso stretto, che comprende anche la fase delle indagini preliminari, ed il processo, che annovera le fasi dell’udienza preliminare e del dibattimento. Il pubblico ministero, in quanto portatore di un interesse pubblico è vincolato in ordine alle proprie scelte dal principio di legalità che ne domina l’azione in forza del disposto dell’art.112 Cost. Contrattare con l’imputato sarebbe di per sé «in contrasto con l’art. 112 Cost., in quanto la componente “negoziale” che vi è implicita introduce un fattore di palese inquinamento, rispetto alla rigorosa osservanza del principio di legalità cui deve uniformarsi l’iniziativa del pubblico ministero107». La predeterminazione, rigorosa e non arbitraria, dei presupposti di accesso al rito e la previsione che gli atti della pubblica accusa siano sottoposti al vaglio giurisdizionale sono i paradigmi per un effettivo esercizio del principio di legalità108. Inoltre il pubblico ministero è limitato nelle proprie attività dal bilanciamento tra il diritto di difesa dell’imputato ed il potere di azione di cui è titolare. Il principio di obbligatorietà dell’azione penale, oltre ad essere un corollario del principio di legalità, fissato dagli articoli 25, secondo comma, e 101, secondo comma Cost., è volto anche ad assicurare l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, ponendosi in alternativa al principio di discrezionalità nella persecuzione penale, che caratterizza diversi sistemi di common law.

105

MAZZA O., “I protagonisti del processo” in “Procedura penale” a cura di DOMINIONI O., CORSO P., GAITO A., SPANGHER G., GALANTINI N., FILIPPI L., GARUTI G., MAZZA O., VARRASO G., VIGONI D., Torino, 2017, pag. 115. 106 L’azione penale è caratterizzata da alcuni principi: obbligatorietà, irretrattabilità, indivisibilità, pubblicità ed officialità. v. MAZZA O., “I protagonisti del processo”, cit., pag. 116. 107 GREVI V., “Riflessioni e suggestioni in margine all’esperienza nordamericana del «plea bargaining»”, in “Il processo penale negli Stati Uniti d’America”, cit., pag. 300. 108 MARCOLINI S., “Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale negoziata”, cit., pag.143.

40


La Corte Costituzionale nella sentenza 15 febbraio 1991, n.88, ha affermato che «il principio di legalità, che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna per la sua concretizzazione, della legalità nel procedere, e questa, in un sistema, come il nostro, fondato sul principio di uguaglianza di tutti i cittadini non può essere salvaguardata che attraverso la legge109». Ciò non vuol dire che l’art.112 Cost. escluda totalmente un margine di discrezionalità del pubblico ministero nell’esercizio del compito affidatogli dalla Carta fondamentale. È riconosciuta al pubblico ministero una discrezionalità c.d. tecnica110, mentre gli è preclusa una discrezionalità c.d. politica. Si può definire discrezionalità c.d. tecnica «l’attività di naturale “sfoltimento” delle notizie di reato resa necessaria dall’esaustività del materiale probatorio reperito ai fini dell’avanzamento del procedimento nell’ulteriore fase dibattimentale111». Autorevole dottrina ha sottolineato come «concluso con esito positivo l’accertamento tecnico sulla sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’azione penale, non è più ammessa da parte del pubblico ministero alcuna valutazione estranea al principio di legalità in ordine all’an del relativo esercizio112». Dunque, nell’ambito del patteggiamento, le richieste da sottoporsi al giudice, non possono derivare da scelte di discrezionalità politica, come avviene negli ordinamenti nordamericani, ma da una discrezionalità tecnica, ancorata al rispetto del principio di legalità. Si può presentare il caso in cui il principio di obbligatorietà dell’azione penale possa venire leso attraverso accordi solo formalmente diretti applicazione della pena. Si è fatto riferimento all’ipotesi in cui la difesa solleciti la pubblica accusa a prestare il consenso all’accordo sulla pena con l’intento di ottenere un proscioglimento ex art. 129 c.p.p., nel caso di un quadro probatorio ancora incompleto113. L’obbligo di esercizio dell’azione penale deve essere inteso in concreto, ossia quando la notitia criminis, all’esito delle indagini preliminari non appaia infondata. Si tratta dunque di esercizio dell’azione penale in astratto, espressione con la quale si fa riferimento ad un esercizio dell’azione penale a fronte di una qualsiasi notizia di reato114. Appurato che il principio di obbligatorietà dell’azione penale costituisca un limite per il P.M. nella scelta della procedura semplificata, occorre valutare la compatibilità del patteggiamento con lo stesso. Il principio di doverosità dell’azione penale deve rela-

109

Corte Cost. sentenza 15 febbraio 1991, n.88, in w.w.w.giurcost.org. GREVI V., “Riflessioni e suggestioni in margine all’esperienza nordamericana del «plea bargaining»”, in “Il processo penale negli Stati Uniti d’America”, cit., pag. 303. 111 GAMBINI MUSSO R., “Il processo penale statunitense”, cit. pag.43. 112 GREVI V., “Riflessioni e suggestioni in margine all’esperienza nordamericana del «plea bargaining»”, in “Il processo penale negli Stati Uniti d’America”, cit., pag. 301 e ss. 113 SANNA A., “Il «patteggiamento» tra prassi e novelle legislative”, cit., pag. 102. 114 MAZZA O., “I protagonisti del processo”, cit., pag. 116. 110

41


zionarsi con altri valori di rango costituzionale dinanzi ai quali deve a volte “cedere”115. Si deve dunque operare un bilanciamento tra i contrapposti interessi di rango costituzionale: da un lato l’interesse alla repressione penale, dall’altro interessi come l’efficienza giudiziaria (art.97, secondo comma Cost.), il buon andamento della pubblica amministrazione, nonché il principio della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma Cost.116). È da questo bilanciamento tra differenti valori che si deve valutare quale sia l’oggetto di tutela da far prevalere. Bilanciamento che deve essere effettuato tenendo in considerazione il diritto di difesa, sancito dall’art. 24, secondo comma, Cost. Più volte la Corte Costituzionale ha sottolineato, come la richiesta di riti speciali «costituisce una modalità tra le più qualificanti di esercizio del diritto di difesa117». Il pubblico ministero, seppur legittimato a presentare la richiesta di applicazione della pena, non ha generalmente motivi per addivenire all’accordo. Infatti nel caso in cui il quadro probatorio sia debole, l’imputato non avrebbe interesse ad accettare; se al contrario al pubblico ministero appaia un quadro probatorio forte, che gli consenta di sostenere l’accusa in dibattimento, e gli offra buone chances di vittoria, non ha interesse ad imboccare la strada del procedimento speciale118. Nel caso in cui il P.M. intenda azionare il rito la scelta non dovrà essere motivata; tuttavia egli non è legittimato a «mosse improntate ad incontrollabili criteri di opportunità119». Vi è, però, in dottrina chi sostiene che la scelta del titolare dell’organo

115

GALANTINI N., “Il principio di obbligatorietà dell’azione penale tra interesse alla persecuzione penale e interesse all’efficienza giudiziaria” in “diritto penale contemporaneo”, 23 settembre 2019. 116 Il principio della ragionevole durata del processo gli è stata attribuita rilevanza costituzionale dall’art.1 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n.2. 117 Corte Costituzionale 22 giugno 2004, n.184 in “w.w.w.giurcost.org”. In molte altre sue pronunce la Consulta ha ribadito questo concetto. Tra le quali v. Corte Cost. 9 luglio 2004, n. 219 in “w.w.w.giurcost.org”, Corte Cost. 15 marzo 1996 n.70 in “w.w.w.giurcost.org”, Corte Cost. 11 dicembre 1995, n. 497 in “w.w.w.giurcost.org”, Corte Cost. 26 ottobre 2012, n. 237 in “w.w.w.giurcost.org”, e da ultimo Corte Cost. 29 maggio 2019 n.131 in “w.w.w.giurcost.org”. 118 STORELLI F., “I riti alternativi al processo penale, alla luce della più recente giurisprudenza”, cit., pag.94. 119 SANNA A., “Il «patteggiamento» tra prassi e novelle legislative”, cit., pag. 38.

42


dell’accusa «possa trovare le sue ragioni ultime in valutazioni di mera opportunità120, quali l’esigenza di funzionalità dell’ufficio o considerazioni di ordine probatorio121». La richiesta di applicazione della pena ex art.447, primo comma, c.p.p., ossia nel corso delle indagini preliminari, costituisce una modalità di esercizio dell’azione penale122 e fa assumere all’indagato la qualità di imputato, a norma dell’art.60 c.p.p.123 La scelta del pubblico ministero di patteggiare non deve essere motivata, obbligo che invece deve essere assolto solo nel caso in cui il titolare dell’organo dell’accusa esprima il dissenso alla proposta avanzata dall’accusato. Nel caso di patteggiamento il pubblico ministero rinuncia alla possibilità di controvertere di fatto e di diritto collegate all’imputazione. Il principio di obbligatorietà, posto anche a tutela di fenomeni «mercanteggianti124», gli preclude uno di quegli elementi che caratterizza la procedura di plea bargaining, cioè la possibilità di derubricare l’accusa, ovvero di far cadere alcune imputazioni per indurre l’accusato a patteggiare. L’adesione del pubblico ministero al patteggiamento potrà avvenire solo dopo aver verificato che il materiale d’indagine è sufficiente per applicare la pena richiesta. Infatti se è vero che non vi sia una disciplina delle ragioni che lo devono guidare nella scelta del rito negoziato, e non è previsto un onere motivazionale nel caso di assenso alla richiesta dell’imputato, egli è comunque tenuto al rispetto di quelle condizioni che governano l’esercizio dell’azione penale. Ci si riferisce all’art.125 disp. att. c.p.p. che impone «la richiesta di archiviazione ogni qual volta ritiene l’infondatezza della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei

120

Non si può negare, che nella scelta sulle forme di esercizio dell’azione penale vi sia una componente discrezionale, tanto da indurre alcuni ad auspicare delle linee di condotta uniformi negli uffici giudiziari delle Procure. Così MADDALENA M. “Il punto di vista del pubblico ministero”, in “Patteggiamento «allargato» e giustizia penale”, cit., pag.204. 121 GIALUZ M., “Applicazione della pena su richiesta delle parti”, in “Enciclopedia del diritto, Annali”, I, Milano, 2008, pag. 24. 122 Si ritiene che «l’iniziativa del pubblico ministero rappresenti una sorta di progetto di azione penale, e che, qualora emergessero successivamente elementi nel senso dell’infondatezza della notizia di reato, non sia preclusa la richiesta di archiviazione: non si potrebbe ritenere scalfito il principio di irretrattabilità dell’azione penale, proprio in quanto la mancata adesione non realizza il perfezionamento dell’accordo». Cosi testualmente VIGONI D. “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, cit., pag.163. 123 Art. 60 c.p.p. «Assume la qualità di imputato la persona alla quale è attribuito il reato nella richiesta di rinvio a giudizio, di giudizio immediato, di decreto penale di condanna, di applicazione della pena a norma dell’art. 447, comma 1, nel decreto di citazione diretta a giudizio, e nel giudizio direttissimo.» 124 MARCOLINI S., “Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale negoziata”, cit., pag.143.

43


a sostenere l’accusa in giudizioÂť. Tale regola, che esige una completezza, almeno tendenziale, delle indagini preliminari, deve trovare applicazione anche nel rito de quo, dal momento che non vi è alcun dato normativo che ne consenta il superamento.

44Â


3.

LA RINUNCIA AI DIRITTI DA PARTE DELL’IMPUTATO.

Il patteggiamento è uno strumento idoneo a produrre conseguenze di non poco conto nella sfera dell’indagato/imputato in ordine a garanzie e metodi costituzionalmente imposti. Il rito dell’applicazione della pena su richiesta delle parti comporta infatti una rinuncia alle garanzie del metodo del contraddittorio poste a tutela dell’imputato. Egli decidendo di definire la vicenda processuale con il rito dell’applicazione della pena a richiesta delle parti rinuncia: al diritto alla prova; a controvertere sul fatto e sulla sua qualificazione giuridica; inoltre rinuncia al diritto a controvertere sulla specie e sulla misura della pena da applicare. In particolare, l’accusato optando per il rito speciale dispone del contraddittorio, diritto costituzionalmente garantito dall’art.111, secondo comma Cost., il quale sancisce che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, davanti ad un giudice terzo ed imparziale». La deroga alla regola del contraddittorio trova oggi, in seguito alla legge costituzionale 23 novembre 1999, n.2, copertura costituzionale. Il nuovo articolo 111, quinto comma Cost. statuisce che «la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio tra le parti per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita». Mentre nei sistemi di common law, l’accordo tra defendant e prosecutor, postula il guily plea del primo, le norme del codice di rito non impongono all’imputato di riconoscere espressamente la propria responsabilità nel momento in cui si chiede l’applicazione della pena o stipula l’accordo con il pubblico ministero. La richiesta di patteggiamento non equivale ad una confessione da parte dell’accusato. Consenso, vantaggi premiali, la ricerca di una soluzione che individua la sanzione applicabile costituiscono gli elementi che caratterizzano il rito125. L’accertamento del consenso e della sua libera determinazione da parte dell’imputato rappresenta una necessità irrinunciabile, in quanto l’accordo, sostituendo la fase del giudizio con notevoli rinunce, è in grado di incidere su uno dei beni fondamentali di cui è titolare l’accusato, il bene più prezioso, la libertà personale, sancita dall’art.13 Cost126.

125

LA ROCCA N., “La scelta del rito da parte dell’imputato: sopravvenienze e vizi della volontà”, in “Archivio penale, 2012, fasc.2, pag. 25. 126 I dubbi di legittimità costituzionali del rito ex art. 444 c.p.p. con il principio dell’inviolabilità personale di cui all’art.13 Cost. sono stati superati dalla Corte Costituzionale nella storica

45


Nell’analisi della figura di colui che opta per il rito negoziato, dobbiamo da un lato tenere in considerazione il fatto che la scelta per tale procedura è espressione del «difendersi negoziando127», ossia rappresenta una delle possibili modalità di esercizio del diritto difesa, dall’altro occorre considerarlo come «parte debole del rapporto negoziale128». A questa seconda prospettiva risponde la disciplina dettata dal legislatore nell’art.446. quarto comma, c.p.p., che attribuisce al giudice una facoltà, ma non un dovere di verificare la volontarietà della richiesta e del consenso. Stabilisce infatti la suddetta norma che «il giudice, se ritiene opportuno, verificare la volontarietà della richiesta dispone la comparizione dell’imputato». Le particolari cautele dalle quali è contrassegnata la richiesta di patteggiamento si rendono necessarie dal momento che la stessa determina una rinuncia diritti fondamentali e comporta l’immediata applicazione della pena. Infatti l’atto dispositivo dell’imputato è un atto volontario e personale, anzi lo si considera, sia in dottrina, che in giurisprudenza come un atto “personalissimo”129. L’art. 446, terzo comma c.p.p. contiene, infatti, la previsione che la volontà dell’imputato «venga espressa personalmente o a mezzo di procuratore speciale130». In tal modo si esclude in capo al difensore una legittimazione autonoma, esercitabile in virtù della sola nomina. Il difensore, pertanto potrà «consigliare e guidare l’imputato circa la convenienza e l’opportunità

sentenza 313 del 1990, la quale ha dichiarato infondata la questione sollevata dal giudice a quo. La Corte, contesta il postulato del giudice remittente, secondo il quale, attraverso la richiesta di pena patteggiata l’indagato/imputato “disponga” della libertà personale per autolimitarla. Secondo la Consulta «in realtà l'imputato, quando chiede l'applicazione di una pena lo fa soltanto per ridurre al minimo quel maggior sacrificio della sua libertà, che egli prevede all'esito del giudizio ordinario. E quanto alla difesa, è proprio suo efficiente strumento la possibilità che la legge offre all'imputato di acquisire con sicurezza una pena minima sottraendosi al rischio di più gravi inflizioni, persino beneficiando della sospensione condizionale» Così Corte Cost., 2 luglio 1990, n.313, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale” 127 PISANI V., “Il diritto di difendersi negoziando”, in “Indice penale”, 1989, pag. 822. 128 LA ROCCA N., “La scelta del rito da parte dell’imputato: sopravvenienze e vizi della volontà”, cit., pag. 24. 129 Cass., Sez. VI, 17, giugno 1991, Signorini, in “Cassazione penale”, 1993; nonché Corte Cost., 6 aprile 1993, n.143, in “Giurisprudenza Costituzionale”, 1993 130 La procura ex art.122 c.p.p. deve essere conferita con atto scritto, più precisamente con atto pubblico o scrittura privata autenticata, dovrà indicare sia l’oggetto che i fatti per cui è rilasciata. Per quanto riguarda la sottoscrizione e la sua autenticazione, tra i soggetti legittimati a tale compito vi è, oltre il notaio o altra persona a ciò autorizzata, anche il difensore. L’atto non richiede alcuna forma sacramentale, ma deve manifestare la chiara ed univoca volontà di conferire l’incarico di chiedere il patteggiamento. Così VIGONI D. “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, cit., pag.140.

46


di prendere l’iniziativa o aderire alla richiesta del pubblico ministero131», ma la possibilità di concludere l’accordo non rientra nel mandato difensivo e nei poteri di rappresentanza spettanti al legale. Nella stessa Relazione al progetto definitivo del c.p.p. si chiarisce come il comma quinto dell’art.446 c.p.p. sia stato inserito con l’intento di scongiurare il rischio di indebite pressioni. In dottrina si è sostenuto che «il potere del giudice di disporre la comparizione sia opportuno soprattutto quando il patteggiamento comporti l’applicazione di una pena detentiva132». In tale ipotesi «il ruolo del giudice si mostra fondamentale, non dovendo la sua verifica, rappresentare un controllo superficiale sui dati esterni di un accordo che, in realtà, potrebbe non corrispondere all’epilogo prospettato da una delle parti133».

131

VIGONI D. “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, cit., pag.141. Ivi, pag. 145. 133 LA ROCCA N., “La scelta del rito da parte dell’imputato: sopravvenienze e vizi della volontà”, cit., pag. 27. 132

47


3.1.

PATTEGGIAMENTO “MAIOR” E “MINUS”: I VANTAGGI DERIVANTI DALLA SCELTA DEL RITO.

Attraverso il patteggiamento l’imputato evita il giudizio dibattimentale e, nella reciprocità di concessioni, ottiene in cambio una diminuzione di pena ed altri benefici connessi all’applicazione della stessa. Seppur la richiesta di pena patteggiata può provenire anche dal pubblico ministero, generalmente è l’imputato a formularla. L’imputato «dinanzi ad un quadro probatorio chiaro, che lascia scarsi margini di manovra difensiva, volentieri accetta di non sottoporsi al dibattimento, rinunciando sì alle garanzie proprie di esso, ma godendo dello sconto di pena e degli altri benefici premiali connessi al rito134». Si sostiene in dottrina che la richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato costituisca l’esercizio di un vero e proprio «diritto potestativo processuale135», a fronte della quale la posizione della pubblica accusa degraderebbe a mero interesse legittimo alla verifica della correttezza e della congruità della pena. La componente premiale rappresenta un incentivo all’accordo sulla pena che si manifesta tramite una serie di benefici dalla consistenza variabile secondo il modello di rito prescelto. Diversi sono i benefici e gli effetti penali della sentenza ex art. 444 c.p.p., a seconda che si prescelga l’editio minor o edito maior del rito136. Nel caso di “patteggiamento tradizionale” si producono una serie di effetti favorevoli, di tipo preclusivo o negativo, nonché effetti di tipo estintivo che si producono ope legis, in quanto sono sottratte sia al potere dispositivo delle parti, sia alla valutazione del giudice. Nel caso in cui si addivenga al c.d. “patteggiamento allargato”, ossia nell’ipotesi in cui la pena superi i due anni non si applica né la particolare disciplina premiale, né quella relativa agli effetti estintivi, cosi come delineati nell’art.445 c.p.p.137

134

STORELLI F., “I riti alternativi al processo penale, alla luce della più recente giurisprudenza”, cit., pag. 94. 135 Ivi, pag. 95. 136 Cass., Sez. Un., 29 novembre 2005, Diop Oumar, in “Diritto penale e procedura”, 2006. Le Sezioni Unite, nel 2005, nel delineare una struttura unitaria del rito, all’indomani della riforma del c.d. “patteggiamento allargato”, nel sottolineare come la novella normativa non incida sulla struttura negoziale e sui modelli di controllo, denomina “editio minor” ed “editio maior” i due schemi negoziali. 137 VIGONI D. “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, cit., pag. 217.

48


Nel caso in cui la pena rientri nei due anni, ossia nel caso di “patteggiamento ordinario”, i vantaggi per l’imputato che sceglie la pena negoziata sono: lo sconto di pena «fino ad un terzo»; l’esonero dalle spese del procedimento; la non applicazione delle pene accessorie; la non applicazione delle misure di sicurezza, salvo la confisca nei casi previsti dalll’art.240 c.p.; l’estinzione del reato e di ogni effetto penale alle condizioni previste; la non menzione della condanna nel certificato del casellario richiesto dall’interessato; l’inefficacia nei giudizi civili e amministrativi; l’efficacia nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità, quanto alla sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione della responsabilità dell’imputato; l’assenza di pubblicità, Si ritiene che questi effetti abbiano carattere tassativo, a cui non sono applicabili interpretazioni estensive. Ciò discende dal loro carattere di «eccezionalità e specialità138» rispetto al regime ordinario. Per quanto riguarda la riduzione di pena «fino ad un terzo», la Corte di Cassazione ha chiarito che un terzo è la diminuzione e non il risultato della diminuzione139. In una sua successiva pronuncia la stessa Corte, ha specificato come la riduzione ex art.444, primo comma, c.p.p. si applichi sulla pena concretamente determinata con il ricorso ai metodi ordinari140. L’esonero delle spese processuali rappresenta una deroga alla regola fissata dall’art.535 c.p.p. che pone in capo al condannato il pagamento delle spese del procedimento141. Dalla deroga alla regola generale non sono però ricomprese le spese processuali in favore della parte civile che, secondo l’art.444, secondo comma c.p.p., il quale ha recepito l’orientamento della Corte Costituzionale, espresso nella sentenza 443 del 1990, sono a carico del patteggiante salvo che non operi la compensazione. Dibattuta è la questione se tra le spese processuali cui va esente il patteggiante siano ricomprese quelle per il suo mantenimento in carcere durante la custodia cautelare. In giurisprudenza si contrappongono due tesi: la prima, ritiene che il principio di irripetibilità fissato dall’art.445, primo comma c.p.p. non si applichi alle spese di mantenimento in carcere dell’imputato durante la custodia cautelare. La locuzione si riferisce «agli esborsi correlati all’attività dell’autorità giudiziaria e non si estende ai costi di

138

VIGONI D. “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, cit., pag.218. Cass., Sez. Unite, 24 marzo 1990, Borzaghini, in “Giustizia penale”, 1990 140 ARRU A.A., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, cit., pag.15. richiama la sentenza Cass., Sez. Unite, 1 ottobre 1991, in “Foro italiano”, 1992. 141 Art. 535, primo comma c.p.p.: «La sentenza di condanna pone a carico del condannato il pagamento delle spese processuali». 139

49


differente natura costituiti dagli esborsi sostenuti dall’amministrazione penitenziaria142». Una seconda tesi, è quella che invece intende la locuzione «spese del procedimento» comprensiva anche delle spese di mantenimento in carcere durante la custodia cautelare143. Il più recente orientamento della Cassazione propende per la prima tesi. La Corte fa leva su argomentazioni sistematiche, in particolar modo all’art.5 (L), comma 1, lett.i) del “Testo Unico in materia di spese di giustizia”, d.p.R. 30 maggio 2002, n.115, che annovera tra le spese ripetibili da parte dello Stato le spese di mantenimento dei detenuti. Distingue poi il successivo art.200 (L) del “T.U. in materia di spese di giustizia” tra spese processuali penali e spese del mantenimento dei detenuti, facendo intendere che si tratti di due cose differenti. Infine l’art.204 (L), 3 comma, stabilisce che «si procede al recupero delle spese per la custodia dei beni sequestrati e delle spese di mantenimento dei detenuti» anche nel caso di sentenza a pena patteggiata. Dal combinato disposto di queste tre norme la Corte di Cassazione, ritiene che «gli oneri per il mantenimento in carcere non rientrino nel novero delle esenzione previsto dalla disciplina premiale in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti, che è limitato ai soli esborsi sostenuti per lo sviluppo dell’iter processuale144». Altro beneficio per l’imputato che patteggia una pena non superiore a due anni è costituto dalla non applicazione delle pene accessorie. Questa regola ha nel corso del tempo subito delle erosioni. Tra le modifiche apportate dalla legge n.3 del 2019, vi è la previsione che affida al giudice la possibilità di applicare le pene accessorie anche nel contesto del c.d. patteggiamento semplice. Con l’art. 1, lett. d) ed e) nn.1 e 2, il legislatore ha inserito nell’art.444, il comma 3-bis, ed ha modificato il comma 1 dell’art.445 c.p.p., nonché inserito nella suddetta disposizione un comma 1-ter. Quest’ultima attribuisce al giudice nel caso, in cui si proceda per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione145, la possibilità di applicare le pene accessorie previste dall’art.317-bis c.p. Inoltre sempre per questa categoria di delitti è stata introdotta la possibilità per il giudice nel disporre la sospensione condizionale che la stessa non dispieghi i suoi effetti alle pene accessorie dell’interdizione dei pubblici uffici e dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione (art.166, primo comma c.p.). Viene dunque ridimensionato uno di quei profili di premialità che da sempre caratterizza il patteggiamento semplice. Si è osservato infatti come, seppur per alcune categorie di reati, «la non applicazione delle pene accessorie, da oggetto di un rigido 142

Cass., Sez. III, 11 novembre 2015, n.505461, Giordano, cosi come richiamata da Corte Cass., Sez. IV, 7 novembre 2018, n.50314 in “w.w.w.cortedicassazione.it” 143 Cass., Sez. V., 1 ottobre 2014, n.6787, Hysa, in “w.w.w.cortedicassazione.it”. 144 Corte Cass., Sez. IV, 7 novembre 2018, n.50314, cit. 145 Si riferisce ai procedimenti per i delitti previsti dagli articoli, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis del codice penale

50


divieto, degrada al livello di mera opzione decisoria rimessa alla valutazione discrezionale delle parti146». Nel caso di editio maior di patteggiamento si prospettano limitati premi-incentivi. In tal caso la sentenza ex art.444 c.p.p. determina una riduzione di pena, ma non impedisce l’applicazione di pene accessorie; di misure di sicurezza, il pagamento delle spese processuali; l’estinzione del reato connessa al decorso del tempo. La legge di riforma del 2003 ha equiparato la sentenza di ”patteggiamento allargato” a quelle di condanna. La legge n. 97 del 2001, ha introdotto un comma 1-bis all’art.445 c.p.p., sancendone l’effetto vincolante nell’ambito del procedimento disciplinare. È stato evidenziato in dottrina come sia stata dovuta «ad eccessi registratisi nella prassi per cui pubblici amministratori, dopo aver definito ai sensi dell’art.444 e ss. procedimenti nei quali erano imputati per reati di concussione e corruzione, ottenevano di essere reintegrati nel posto di lavoro147»

146

LUDOVICI L., “Applicazione della pena su richiesta delle parti: le modifiche apportate dalla legge «spazzacorrotti»”, cit., pag.764. 147 FIORIO C., “La strategia autoritativa”, cit., pag.331.

51


4.

IL GIUDICE E IL SUO RUOLO NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

L’accordo raggiunto tra le parti necessità dell’avallo da parte del giudice. Occorre pertanto esaminare quale sia il ruolo del giudice ed i relativi poteri. La natura negoziale del rito impone la definizione del suo ruolo in connessione con il potere dispositivo delle parti148. Ci si interroga se il giudice nel rito in esame svolga una mera funzione notarile149, oppure una funzione propriamente giurisdizionale. All’indomani dell’entrata del codice del 1988 non mancarono ricostruzioni volte a circoscrivere il ruolo del giudice. La stessa Relazione al Progetto preliminare, stabilisce «che al giudice non va riconosciuto alcun sindacato sulla congruità della pena richiesta, trattandosi di materia riservata alla determinazione esclusiva delle parti150». Sulla base di questo enunciato «si poteva facilmente giungere a ritenere che con tale rito nasce il negozio giuridico-penale e, correlativamente regredisce l’oracolo giusdicente, divenendo imputato e pubblico ministero delle leve di comando dei congegni del processo151». Questa tesi ben presto fu suffragata dalla Corte Costituzionale nella storica sentenza 2 luglio 1990, n.313, nella quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 444, secondo c.p.p. «nella parte in cui non prevede, che ai fini e nei limiti di cui all’art.27, terzo comma Cost., il giudice possa valutare la congruità della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione152». Tale potere compare oggi espressamente nel corpo del testo dell’art.444 c.p.p., per effetto dell’art. 32 della legge n.479 del 1999 (c.d. legge Carotti). La Corte ha sottolineato come il giudice trae il suo convincimento proprio dalle risultanze degli atti, e non dal modo in cui le parti le hanno valutate. Dunque il giudice non si limita ad effettuare un controllo di legittimità, e pertanto va respinta l’idea che «nell’ipotesi di

148

MARCOLINI S., “Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale negoziata”, cit., pag.113. In dottrina si è sottolineato come «gli accordi sulla pena non sono dei plea bargaining davanti a cui il giudice funga da notaio; né configurano negozi da omologare; siamo davanti a dei petita accoglibili o no». v. F. CORDERO, “Procedura penale”, IX ed., Milano, 2012, p. 1037. 150 Relazione preliminare al codice di procedura penale, in G.U., Serie gen., 24 ottobre 1988, n.250, Suppl. ord. n.2, pag.107. 151 CALLARI F., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti: uno “speciale” paradigma processuale cognitivo”, in “Archivio penale”, 2012, n.3, pag. 2. 152 Corte cost., sent. 2 luglio 1990, n.313, cit. 149

52


cui all’art.444 c.p.p. il giudice non eserciti una funzione giurisdizionale». In tale contesto il giudice non si limita a recepire la volontà dei soggetti coinvolti nel processo negoziale, ma svolge una vera e propria «funzione determinate, dato che senza di essa le parti non avrebbero alcuna possibilità di definire il giudizio153». Le suddette affermazioni, volte ad affermare il ruolo giurisdizionale del giudice nel procedimento in esame, sono state compiute nella parte della sentenza n.313 del 1990, per contrastare le censure del giudice a quo ed escludere l’illegittimità costituzionale del rito. Ciò significa che hanno una valenza interpretativa di rigetto e non dispiegano efficacia erga omnes. Ciò ha consentito alla giurisprudenza ordinaria di sconfessare l’orientamento della Consulta. Nella sua successiva giurisprudenza la stessa Corte Costituzionale sembra aver compiuto un revirement, sostenendo dapprima che il rito trova «il suo fondamento primario nell’accordo tra pubblico ministero ed imputato sul merito dell’imputazione154» (dal momento che chi chiede la pena pattuita rinuncia ad avvalersi delle facoltà di contestare l’accusa) e non comporta invece un pieno accertamento di responsabilità, basato sul contraddittorio tra le parti. Ancora la Corte ha contribuito ad erodere il ruolo del giudice, attenuando la prospettiva giudiziale, in altre occasioni, considerando il patteggiamento come «modalità di esercizio del diritto di difesa155» con cui l’accusato mira ad ottenere una sanzione ridotta e sottrarsi al rischio del patteggiamento. Il controllo giudiziale ex art.129 c.p.p., in questa pronuncia, ne esce ridimensionato156. In una successiva pronuncia la Corte Costituzionale ha affermato come «il patteggiamento più che essere un rito speciale, è una forma di definizione pattizia del contenuto della sentenza157». Con queste pronunce la Corte sembra aver ristretto il ruolo del giudice nella procedura negoziata, a vantaggio delle altre parti, pubblica e privata.

153

Ibidem Corte Cost., 6 giugno 1991, n.251 in “Giurisprudenza costituzionale”, 1991. 155 Corte Cost., ordinanza 19 marzo 1992, n. 116, in “Giurisprudenza Costituzionale”, 1992. 156 MARCOLINI S., “Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale negoziata”, cit., pag.132. 157 Corte Cost., 30 giugno 1994, n.265 in “w.w.w.giurisprudenzacostituzionale.org”. 154

53


Il ruolo del giudice, tanto nella giurisprudenza ordinaria, che in dottrina tende ad essere circoscritto. La dimensione dei poteri cognitivi del giudice nel rito de quo risente inevitabilmente della natura che si vuole assegnare all’atipico provvedimento che conclude questo tipo di procedimento158. La giurisprudenza ordinaria in più pronunce ha negato che il giudice svolge un ruolo accertativo della responsabilità dell’accusato. Per la Suprema Corte di Cassazione, il controllo del giudice è “bifasico”: egli compie un “accertamento in negativo” ed un “accertamento in positivo”159. Il controllo in positivo attiene agli aspetti formali e sostanziali dell’accordo, quali la qualificazione giuridica e la congruità della pena pattuita, mentre quello in negativo riguarda l’applicabilità dell’art. 129 c.p.p. Dunque conseguenza di questo orientamento è che l’adozione di una sentenza ex art. 444 c.p.p. un accertamento in positivo della responsabilità dell’accusato patteggiante, ma che non «vi siano macroscopiche ragioni di proscioglimento160». Nonostante la norma dell’art.129 c.p.p. sembri diretta, in ottica più garantista, a consentire al giudice di prosciogliere l’imputato nonostante la richiesta, la giurisprudenza della Cassazione ha teso a svilirlo. Il giudice può accogliere o rigettare la richiesta presentata dalle parti, senza possibilità di modificare il contenuto dell’accordo, ovvero di proporre una diversa definizione, anche più favorevole. Le determinazioni del giudice all’esito dell’esame della richiesta possono essere di tre ordini: potrà emettere una sentenza ex art. 444 c.p.p. che applichi la pena concordata; potrà emettere una sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.; potrà emanare un’ordinanza di rigetto161. In giurisprudenza si è specificato come il giudice non possa procedere ad una derubricazione del fatto, dovendo rigettare la richiesta in caso ritenga necessaria una diversa qualificazione del fatto162. Inoltre egli non può sostituire d’ufficio una pena detentiva con una sanzione sostitutiva163. Il giudice dovrà preliminarmente esaminare la sussistenza delle condizioni di ammissibilità del procedimento, e poi passare all’esame sul merito. Si può distinguere tra condizioni di ammissibilità del rito e condizioni per l’accoglimento dell’accordo164.

158

DI DEDDA E., “Il consenso delle parti nel processo penale, Padova, 2002, pag.137. Cass., Sez, Un., 21 giugno 2000, Franzo, in “Diritto e giustizia”, 2000. 160 MARCOLINI S., “Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale negoziata”, cit., pag.119. 161 Anche se non vi è alcuna indicazione circa il provvedimento da adottare nel caso in cui il giudice rigetti la richiesta, si ritiene che debba trattarsi di ordinanza. La giurisprudenza ha anche ammesso che vi possa essere reiezione orale della richiesta senza un formale provvedimento di rigetto. Così VIGONI D., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, cit., pag. 280-281. 162 Cass., Sez. I, 15 luglio 1993, Zaccogna, in “Archivio n. proc. pen.”, 1994, pag. 93. 163 Cass., Sez. V, 24 aprile 1992, Mocellini, in “Rivista penale”, 1993, pag. 625. 164 NAPPI A., “Guida al codice di procedura penale”, Milano, 2007, pag. 599 e ss. 159

54


Per quanto riguarda le condizioni di ammissibilità del rito, il giudice deve verificare il rispetto dei limiti soggettivi e oggettivi di accesso al rito previsti per l’ipotesi in cui la pena concordata superi i due anni. Per quanto riguarda i limiti soggettivi, l’art.444, comma 1-bis c.p.p. prevede l’esclusione di alcune categorie di accusati dall’applicazione della forma maius del rito. Sono esclusi coloro che sono stati dichiarati: delinquenti abituali ex art. 102-104 c.p.; delinquenti professionali, ex art. 105 c.p., delinquenti per tendenza ex art. 108 c.p.; i recidivi reiterati, ex art. 99, comma 4, c.p.p.165 Per quanto riguarda i requisiti oggettivi il giudice deve verificare che non si tratti si tratti di procedimenti per reati di: delitti, tentati o consumati di associazione mafiosa; sequestro di persona a scopo di estorsione; tratta di persone; delitti commessi avvalendosi delle condizioni dell’associazione mafiosa o per agevolare tale associazione; delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo; prostituzione minorile, pornografia minorile aggravata, pornografia virtuale aggravata; detenzione materiale pornografico aggravata; iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile; atti sessuali con minori; violenza sessuale; violenza sessuale di gruppo.166 L’ultimo catalogo di condizioni oggettive di cui il giudice deve verificare la sussistenza prima di passare ad esaminare il merito della richiesta riguarda procedimenti per alcuni reati contro la Pubblica Amministrazione, laddove l’art. 444, comma 1-ter c.p.p. dispone che la stessa «è subordinata alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato». La previsione del nuovo art.445, comma 1-ter, del c.p.p. che attribuisce al giudice la possibilità, seppure limitatamente ad alcune fattispecie di reato contro la pubblica amministrazione, di valutare l’applicazione delle pene accessorie, laddove, in precedenza, per il caso di patteggiamento tradizionale si prevedeva un effetto ex lege di esclusione delle stesse, ci induce a considerare non «un mero veicolo di decisioni, ma assurge al ruolo di organo chiamato a decidere, su base discrezionale non solo sull’entità e sulla loro immediata esecutività, ma anche sull’an delle pene accessorie167»; ciò incidendo anche sul rapporto triadico con accusato e organo dell’accusa.

165

La giurisprudenza dopo qualche incertezza, si è orientata per una soluzione più garantista, subordinando ad un’apposita declaratoria giudiziale, antecedente lo svolgersi del rito speciale, l’operatività dei vincoli soggettivi legati al riconoscimento di specifici status. v. Cass., Sez. unite., 27 maggio 2010, Calibè, in “Cassazione penale”, 2011, pag. 2904. SANNA A., “Il «patteggiamento» tra prassi e novelle legislative”, cit., pag. 59. 166 Art, 444, comma 1-bis c.p.p. che opera rinvii ad alle norme ed c.p. ovvero del c.p.p. 167 LUDOVICI L., “Applicazione della pena su richiesta delle parti: le modifiche apportate dalla legge «spazzacorrotti»”, cit., pag.765.

55


5.

LA VANIFICAZIONE DEL RUOLO DELLA VITTIMA NEL PATTEGGIAMENTO.

Il termine vittima non compare né nel codice penale168 né in quello di rito, dove si parla di “offeso”, di “persona offesa”, di “persona offesa del reato”. Di “vittima” si parla invece nelle scienze criminologiche dove si definisce vittima «qualsiasi soggetto danneggiato o che abbia avuto un torto da altri, che condivide l’esperienza con altri cercando aiuto, assistenza e riparazione, che è riconosciuto come vittima e che presumibilmente è assistito da agenzie o strutture pubbliche, private o collettive169». Il termine “vittima” viene utilizzato anche in numerosi documenti internazionali, che contengono diverse definizioni di vittima, anche al fine di superare le differenze tra i diversi ordinamenti: si tratta di atti provenienti dall’ Organizzazione delle Nazioni Unite170 (Onu), sia dagli organi dell’Unione Europea171.

168

Il termine “vittima” non viene utilizzato nemmeno dalla dottrina penalistica, la quale preferisce parlare di soggetto passivo del reato, per far riferimento al titolare al titolare del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice violata ed offeso dalla condotta criminosa. 169 BALLONI E., VIANO C., “IV Congresso Mondiale di vittimologia, Atti della giornata bolognese”, Bologna, 1986, pag.126. 170 L’Onu ha elaborato una serie di testi in materia di protezione delle vittime, tra i quali possiamo ricordare la risoluzione n.40/34, “Dichiarazione dei principi fondamentali di giustizia per le vittime del crimine e dell’abuso di potere”, approvata il 29 novembre 1985 dall’Assemblea generale dell’Onu, con cui si raccomanda agli Stati l’adozione di misure volte al riconoscimento e all’effettività del diritto dei diritti delle vittime. La risoluzione riconosce alle vittime cinque diritti fondamentali: il diritto di accesso alla giustizia, comprensivo del diritto a partecipare al processo e all’informazione; il diritto al risarcimento del danno; il diritto all’assistenza a carico delle strutture pubbliche o di volontariato; il diritto ad un trattamento rispettoso della dignità della persona; il diritto alla protezione. Altri documenti da parte dell’Onu in materia di protezione della vittima sono la risoluzione n.1977/33 del 21 luglio 1997; la risoluzione 1998/23 del 28 luglio 1988; la risoluzione n.1996/26 del 28 luglio 1999, approvata dall’Economics and Social Concil dell’Onu; la Dichiarazione di Vienna su “criminalità e giustizia” del 2000. Per un’accurata analisi sulla vittima nel diritto internazionale v. VENTUROLI M., “La vittima nel sistema penale: dall’oblio al protagonismo”, Napoli, 2015, pagg. 83 e ss. 171 Per un’attenta analisi sul concetto di vittima e sulla normativa adottata dall’Unione Europea a tutela della vittima v. VENTUROLI M., “La vittima nel sistema penale: dall’oblio al protagonismo”, cit., pag. 86 e ss.

56


Nei primi codici unitari, il codice di procedura del 1865 e il codice Zanardelli del 1889, emerge senza dubbio il ruolo marginale della persona offesa dal reato. L’atteggiamento di indifferenza verso la vittima del reato rappresenta la proiezione dell’idea liberale secondo cui il diritto penale rappresenta l’extrema ratio per assicurare una pacifica convivenza tra gli individui e non anche il mezzo per la realizzazione di istanze solidaristiche. In tal modo si «realizza una tutela penale spersonalizzata, ancorata all’idea di reato, quale lesione di un bene giuridico oggettivamente considerato172». L’attenzione verso la vittima da parte della Scuola positiva ha influenzato i successivi codici, quello di procedura penale del 1913 e soprattutto il codice penale del 1930: la vittima emerge come protagonista della giustizia penale accanto allo Stato ed al reo. Nel codice di procedura penale, invece, accanto alla persona offesa del reato compare il danneggiato. La persona offesa dal reato è il soggetto titolare del bene giuridico protetto dalla norma penale che si assume violata. La persona offesa non è “parte” del processo, ma agisce nella fase delle indagini preliminari in qualità di soggetto, che avendo l’interesse al rinvio a giudizio dell’imputato, si affianca al pubblico ministero. Per svolgere questo ruolo all’offeso sono attribuiti una serie di poteri173. Il reato è portatore di un disvalore, che costituisce la ragione per cui lo Stato, ritenendo una condotta illecita e socialmente pericolosa, ricorre alla sanzione penale. L’illecito penale oltre ad offendere o mettere in pericolo il bene della vita protetto dalla norma penale sostanziale, fa sorgere l’obbligo nei confronti di chi l’ha commesso di risarcire il danno come previsto dall’art.185 c.p.174 Pertanto il danneggiato è il soggetto titolare del diritto, di natura civilistica, alle restituzioni ed al risarcimento del danno. Tale diritto può essere esperito dopo l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero attraverso la costituzione di parte civile175. La costituzione di parte civile non 172

VENTUROLI M., “La vittima nel sistema penale: dall’oblio al protagonismo”, cit., pag. 136. Alla persona offesa è riconosciuto il potere di partecipare ad alcuni atti del procedimento: ai sensi dell’art.360 c.p.p. può partecipare agli accertamenti tecnici non ripetibili; o ancora ex art. 401, comma 5, può partecipare nell’ambito dell’incidente probatorio. Può presentare memorie ed elementi di presentare memorie, e con esclusione del giudizio in Cassazione, può indicare elementi di prova (art.90, comma 1). Può ancora essere informato della pendenza del procedimento, dello svolgimento dell’udienza preliminare e del decreto che dispone il giudizio. 174 Art. 185 c.p.: “Ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili. Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il comportamento di lui.” 175 Dal combinato disposto degli articoli 78 e 79 del c.p.p. si evince che la costituzione di parte civile può avvenire all’apertura dell’udienza, sia essa preliminare o dibattimentale. L’atto di costituzione consiste in una dichiarazione scritta, resa a mezzo di procuratore speciale, e deve contenere le generalità del soggetto che si costituisce, le generalità dell’imputato nei 173

57


è altro che l’esercizio dell’azione civile nel processo penale. Un discorso a parte deve essere fatto con riferimento al ruolo della persona offesa nel caso in cui si proceda al rito dell’applicazione della pena su richiesta delle parti. Nel patteggiamento il ruolo della vittima, il cui coinvolgimento comporterebbe l’allungamento dei tempi processuali, e dunque cozzerebbe con le esigenze di semplificazione e rapidità cui si ispira il rito semplificato, è limitato. Occorre analizzare quale sia il margine di intervento della stessa nell’ambito del procedimento. È stato sottolineato come «la procedura negoziata si chiude drasticamente alle istanze della vittima176». Si è anche detto che nel patteggiamento si assiste alla «mortificazione degli interessi del danneggiato177». La persona offesa non può influire né sul contenuto del progetto di sentenza, né porre un potere di veto all’instaurazione dello schema negoziale. Tuttavia il danneggiato può indirettamente rientrare tra i soggetti del patto, condizionandone an e quomodo178. L’art. 62 n.6 c.p179. prevede tra le circostanze attenuanti la riparazione integrale del danno tramite restituzioni o risarcimento per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato. L’applicazione della circostanza attenuante prevista dall’art.62 n. 6 c.p. può risultare determinante per mantenere il quantum di pena entro i limiti richiesti per l’ammissibilità del rito. Ancora l’instaurazione del rito negoziale, secondo quanto disposto dall’art.444, secondo comma c.p.p., preclude al danneggiato la possibilità di esperire l’azione civile nell’ambito del processo penale180. La Corte Costituzionale, chiamata a vagliare la

cui confronti l’azione viene esercitata, la causa petendi, l’indicazione del difensore, munito di procura ad litem, che dovrà sottoscrivere l’atto. L’atto di costituzione può essere presentato in udienza al giudice, oppure fuori udienza mediante deposito presso la cancelleria del giudice e notifica al pubblico ministero. Il primo momento utile è l’udienza preliminare, mentre l’ultimo momento è “fino agli atti introduttivi del dibattimento” (art. 468 c.p.p.). I termini sono previsti a pena di decadenza. 176 RISICATO L., “I riflessi sostanziali del c.d. patteggiamento allargato: l’irriducibile attrito tra giustizia penale negoziale, funzioni della pena e tutela della vittima”, in “La Legislazione penale”, 2004, fasc. 4, pt. 6, pp. 871-879 177 GIALUZ M., “Applicazione della pena su richiesta delle parti”, in “Enciclopedia diritto”, Annali, II, 2008, vol.1, pag. 37. 178 SANNA A. “Il «patteggiamento» tra prassi e novelle legislative”, Milano, 2018, pag. 45. 179 Art. 62 n.6 c.p.: «l'avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l'essersi, prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell'ultimo capoverso dell'articolo 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato» 180 Non trova applicazione la regola prevista dall’art.75, terzo comma c.p.p., che dispone che: «se l’azione è proposta in sede civile nei confronti dell’imputato dopo la costituzione di parte

58


compatibilità dell’art.444, secondo comma Cost. ha dichiarato non fondate le questioni con riferimento agli artt. 25, primo comma e 3 della Costituzione181. Non si ha violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge (art.25, primo comma Cost.), in quanto, secondo le argomentazione della Corte, «non comporta violazione di tale parametro costituzionale il venir meno della competenza di un’autorità giudiziaria in seguito al verificarsi di una determinata condizione espressamente prevista in via generale dalla legge182». Secondo le argomentazioni della Consulta non si ha violazione del principio di uguaglianza (art.3 Cost.) in quanto detta previsione normativa trova la sua motivazione nella «diversa posizione dell’imputato rispetto alla parte civile», nonché nella scelta discrezionale del legislatore di far prevalere l’interesse pubblico e dell’imputato ad una celere definizione del procedimento. Non si ha per la Corte una vanificazione del ruolo della parte civile, ma solo una limitazione della sfera di tutela del danneggiato del reato, che potrà agire in altra sede per poter vedere soddisfatte le sue pretese risarcitorie183. Si ha qui la massima compressione del ruolo dell’offeso: si assiste ad una sorta di vanificazione del ruolo della vittima. Tuttavia l’art. 444, secondo comma c.p.p. prevede a favore della parte civile il risarcimento delle spese dalla stessa sostenute, a meno che non ricorrano giusti motivi per la compensazione totale o parziale. Questa previsione è il risultato delle modifiche introdotte dall’art.32 della legge 16 dicembre 1999, n.479, che ha recepito l’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza 12 ottobre 1990, n.443. Il giudice remittente aveva sottoposto al vaglio della Corte, in riferimento agli artt. 3 e 24 e 25 Cost. la legittimità costituzionale dell’art. 444, secondo comma c.p.p., laddove prevedeva che il giudice se vi è costituzione di parte civile, non debba decidere sulla relativa domanda. Il giudice a quo nell’ordinanza di remissione evidenziava come la previsione codicistica che preclude al giudice penale di decidere sulla “domanda” formulata dalla parte civile, violerebbe il diritto d’azione, assicurato dagli artt. 74 e ss. del c.p.p., come espressione primaria dell’art.24, primo comma Costituzione. L’art. 444, secondo comma c.p.p. con il precludere al giudice ogni decisione sulla domanda della parte civile in caso di applicazione della pena su richiesta, importerebbe "una ingiustificata limitazione" del precetto costituzionale che "assicura ad ogni cittadino

civile o dopo la sentenza penale di primo grado, il processo civile è sospeso fino alla pronuncia della sentenza penale non più soggetta ad impugnazione». Stabilisce, infatti, l’art. 88, terzo comma c.p.p.: «Nel caso di esclusione della parte civile non si applica la disposizione dell’art. 75, terzo comma». 181 Corte Cost., 12 ottobre 1990, n.443 in “Cassazione penale”, II, 372. 182 Ibidem 183 Per una critica alla sentenza della Corte Costituzionale n.443 del 1990 v. QUAGLIERINI C., “Procedimenti speciali e tutela del danneggiato del reato”, in “Cassazione penale”, 1991, pt.1, pag.2118 e ss.

59


la tutela giudiziaria dei propri diritti", in quanto "vanificherebbe" la tutela giudiziaria riconosciuta in sede penale al soggetto al quale il reato ha recato danno. La Corte, ha dapprima sottolineato come la circostanza che il danneggiato non possa partecipare al processo penale non viola il diritto della difesa costituzionalmente garantito, né il diritto di agire in giudizio, in quanto resta ferma la possibilità di agire in sede civile. L’esclusione dell’esercizio dell’azione risarcitoria all’interno del processo penale non può essere considerata «menomazione o esclusione del diritto di tutela giurisdizionale». Essa costituisce una modalità di detta tutela, che generalmente è alternativa, ma che il legislatore nell’ambito del suo potere discrezionale, può scegliere come esclusiva in presenza di altri interessi da tutelare, come quello alla speditezza del processo penale. Invece la Corte ha considerato privo di qualsiasi giustificazione il divieto al giudice penale di condannare l’imputato alla refusione delle spese processuali sostenute dalla parte civile per la costituzione nel processo penale. La mancata decisione sulla “domanda” risarcitoria non può essere collegata né ad una decisione del danneggiato, né a qualcosa a lui addebitabile, ma soltanto ad una decisione tra le parti del processo di addivenire alla pena negoziata. Pertanto la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale184 dell’art.444, secondo comma c.p.p. per violazione dell’art.24, secondo comma Cost. «nella parte in cui non prevede che il giudice condanni l’imputato al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile, salvo che ritenga di disporne, per giustificati motivi, la compensazione totale o parziale185». Un rischio che potrebbe derivare da una costituzione di parte civile, quando l’accordo è quasi perfezionato, è che tale costituzione «potrebbe avere natura “pretestuosa”, costituire spesa inutile e giustificare o la compensazione delle spese o l’impugnazione della relativa liquidazione, anche per guadagnare tempo186».

184

QUAGLIERINI C., “Procedimenti speciali e tutela del danneggiato del reato”, cit., pag.2120. L’autore proponeva come soluzione per ovviare sul piano legislativo al vulnus di tutela nei confronti del danneggiato, introducendo un istituto simile a quello disciplinato dall’art.24 della l.24 dicembre 1969, n.990, in materia di assicurazione obbligatoria. Sarebbe potuta essere, secondo Quaglierini una soluzione in grado di bilanciare le contrapposte esigenze: da un lato le istanze del danneggiato al risarcimento del danno, dall’altro gli obiettivi di semplificazione e deflazione processuale, a cui è diretto il patteggiamento. Si tratta di «un istituto che legittima gli aventi diritto, che a seguito del sinistro vengano a trovarsi in stato di bisogno di richiedere nel corso del giudizio di primo grado l’assegnazione di una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva del danno. Il giudice, sentite le parti, con ordinanza immediatamente esecutiva provvede all’assegnazione della somma, nei limiti dei quattro quinti della presumibile entità del risarcimento che sarà liquidato con sentenza. Tale ordinanza può essere revocata con la decisione di merito». 185 Corte Cost., 12 ottobre 1990, n.443, cit. 186 BOVIO C., “Il punto di vista del difensore”, in “Patteggiamento «allargato» e giustizia penale a cura di Peroni F., Torino, 2004, pag. 224.

60


È stato sottolineato come tale vanificazione, sia dal punto di vista vittimologico, in contrasto con quanto prescritto da quelle fonti sovrannazionali, come la Decisione quadro 2001/220/GAI, oggi sostituita dalla direttiva UE 2012/29 del Parlamento Europeo e del Consiglio, volte ad accrescere il ruolo della vittima nell’ambito del processo penale. Tuttavia il restringimento dell’area di intervento della vittima nel patteggiamento è una conseguenza della mancata possibilità di esperire l’azione di risarcimento nel processo penale nel suddetto rito. Una volta esclusa la via risarcitoria, «l’offeso può perseguire una propria personale brama punitiva187» la quale non costituisce alcun interesse giuridicamente rilevante e meritevole di tutela, in quanto non esiste un interesse della persona offesa ad ottenere una condanna penale. La Corte europea dei diritti dell’uomo (EDU), nelle sentenza “Mihova contro Italia”,188 ha escluso che l’emarginazione della vittima dal negoziato sulla pena costituisca una violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Per la Corte di Strasburgo il fatto che il diritto nazionale non consentisse alla parte lesa di intervenire nel patteggiamento tra accusato e l’accusa e di chiedere una pena più grave non poteva di per sé essere considerato contrario alla Convenzione, e nello specifico all’art 6, primo paragrafo, CEDU189. Inoltre la possibilità che la ricorrente avesse potuto esperire un’azione di risarcimento in sede civile contro l’autore del reato, aveva visto realizzato il suo diritto di avere accesso ad un giudice competente per la tutela del suo diritto. Se è vero che la posizione del danneggiato resta marginale, un ruolo attivo può risultare solo di «contrasto esterno190», volto ad impedire che il giudice accolga la richiesta di pena negoziata. Infatti, solo nel caso in cui il controllo del giudice sulla richiesta ha un esito positivo si riproducono gli effetti che si ricollegano alla sentenza ex art.444 c.p.p., cioè il divieto per il giudice di decidere sulla domanda della parte civile e la conseguente estromissione della parte civile dal processo penale191. La parte civile ha l’interesse a mettere in luce l’assenza dei presupposti applicativi del patteggiamento, al fine di ottenere il rigetto della richiesta, e poter pertanto esperire la propria pretesa

187

ORLANDI R., “I diritti della vittima in particolari definizioni del rito”, in “Vittime di reato e sistema penale. La ricerca di nuovi equilibri”, a cura di Bargis M. e Belluta H., Torino, 2017, pag.170. 188 Corte EDU, Sez.II, 30 marzo 2010, MIhova contro Italia, in www.hudoc.echr.coe.int. 189 Art 6, paragrafo 1, C.E.D.U., “Diritto ad un equo processo”: «Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente ed in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente ed imparziale, costituito dalla legge, che deciderà sia in ordine alle controversie sui suoi diritti ed obbligazioni di natura civile, sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale elevata contro di lei.» 190 VIGONI D., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, cit., pag.209. 191 QUAGLIERINI C., “Procedimenti speciali e tutela del danneggiato del reato”, cit., pag.2117.

61


risarcitoria in sede penale. La parte civile è portatrice di un “interesse ad interloquire192”, al fine di ottenere il rigetto della richiesta da parte del giudice. Si può dire che indirettamente il danneggiato può esercitare un’incidenza nella scelta del rito, nel caso in cui riesca a convincere il giudice a non accogliere la richiesta. Al fine di persuadere il giudice all’inammissibilità della richiesta ex art.444 c.p.p., la parte civile «può interloquire nell’udienza di patteggiamento per proporre questioni processuali o di legittimità costituzionale e per esprimere il proprio parere sull’applicabilità del procedimento speciale193». Secondo autorevole dottrina, non è corretto parlare di “estromissione” della parte civile dal rito de quo, in quanto la parte civile «mantiene la qualità di parte e potrà agire, esprimere il proprio parere, far valere le proprie ragioni affinché il procedimento prosegua in altra forma194». Come conseguenza della particolare fisionomia del rito le è solo preclusa una decisione sulle questioni civili.

192

Cass., Sez. II, 21 ottobre 1999, Tallia, in CED n. 215298. La Suprema Corte di Cassazione, in questa pronuncia, riconosce alla parte civile «un interesse ad interloquire su ogni questione affidata alla valutazione del giudice dalla quale possa derivare un pregiudizio al proprio diritto al risarcimento del danno, sia pur da far valere in altra sede». 193 Cass., Sez III, 20 novembre 1991, Genvaldo, in “Cassazione penale”, 1993, pag. 2064. 194 VIGONI D., “L’applicazione della pena su richiesta delle parti”, cit., pag.212.

62


6.

LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE QUALE “DANNEGGIATO PRIVILEGIATO”.

Una tutela maggiore nell’ambito del rito dell’applicazione della pena su richiesta delle parti è riconosciuta alla vittima nel caso in cui sia una Pubblica Amministrazione, qualora l’autore del reato commetta determinati reati corruttivi195. L’art.6 della legge 27 maggio 2015, n.69, ha inciso sull’art.444 c.p.p., introducendo un comma 1-ter, che introduce per l’imputato che voglia accedere al patteggiamento per i delitti ex artt. 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, e 322-bis, l’obbligo di restituzione del prezzo o del profitto del reato. L’art.6 della legge n.69 del 2015, intesa a contrastare il dilagante fenomeno della corruzione «non vuole diminuire il sovraffollamento carcerario o alleggerire il carico degli uffici giudiziari, intende piuttosto rimediare ai danni cagionati alla cosa pubblica dalla corruzione196». Si assiste ad una sorta di «investitura della pubblica amministrazione a vittima privilegiata197», derogando al modello tradizionale che vieta al giudice del patteggiamento di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria. Per questa categoria di delitti l’assolvimento dell’obbligo risarcitorio costituisce una condizione per l’accessibilità al rito. Si pone la questione se la norma in esame realizzi una violazione del principio di uguaglianza sancito dall’art 3 Cost., in quanto se la vittima del reato è un cittadino, il reo può usufruire del rito semplificato anche se non restituisce la cosa sottratta, a differenza del caso in cui sia una P.A. Si profilano dubbi di incostituzionalità della norma, nella misura in cui non estende il suddetto meccanismo restitutorio ai delitti contro il privato patrimonio. Si tenga in considerazione che i reati ex art.314 e ss. del c.p. sono plurioffensivi: in queste ipotesi soggetto passivo del reato accanto alla pubblica amministrazione può essere un cittadino.

195

Il riferimento è ai delitti di peculato (art. 314 c.p.), concussione (art. 317 c.p.), concussione per l’esercizio della funzione (art.318 c.p.), corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.), corruzione in atti giudiziari (art. 319- ter c.p.), induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319- quater c.p.). L’art. 322-bis c.p. prevede le ipotesi in cui i reati di peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, e corruzione siano commessi nei confronti di membri della Corte penale internazionale o degli organi delle autorità europee e di funzionari degli organi delle Comunità europee e di Stati esteri. 196 TRAPELLA F., “Il patteggiamento nei giudizi per reati corruttivi”, in “Processo penale e Giustizia”, 2016, fasc.1, pag.1. 197 Ibidem

63


Con riferimento a questi soggetti si parla di “danneggiati secondari”, e ancora più si lamenta un trattamento discriminatorio e la violazione del principio di uguaglianza. Tuttavia in dottrina, in attesa di pronunce della Corte Costituzionale, si sostiene che non vi sia alcuna violazione dell’art.3 Cost. in quanto si tratterebbe di una «questione di discrezionalità legislativa198, facendo leva sul fatto che il legislatore abbia operato un bilanciamento tra le esigenze, di chi genericamente, lamenta un danno da reato, con l’interesse della P.A199 ». La scelta del legislatore si giustifica per l’elevato interesse, quello della P.A., che tutela. Il vantaggio accordato alla pubblica amministrazione rispetto alla generalità dei danneggiati da reato supera le critiche di irragionevolezza: «l’allarme sociale originato dalla categoria di reati corruttivi giustifica condizioni più severe di accesso alla giustizia negoziata200». La tutela dell’interesse pubblico, minacciato dal proliferare dei reati corruttivi, passa anche attraverso la predisposizione di strumenti processuali, e giustifica interventi settoriali.201 Questa intervento normativo, se sicuramente risponde ad esigenze di contrasto ad i fenomeni corruttivi, sembra ancorata a quella concezione tradizionale, che concepisce lo Stato, come un’entità collocata in una posizione sovraordinazione istituzionale rispetto ai soggetti privati. Si deve osservare come intervento del legislatore si discosti dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità, la quale non era favorevole ad individuare nel risarcimento del danno da reato la condizione per l’accesso al patteggiamento. La Suprema Corte di Cassazione in una sua sentenza afferma come «non costituisce legittima motivazione idonea a supportare la decisione di giustificazione del dissenso del pubblico ministero, la circostanza che l’imputato non abbia risarcito alla parte civile il danno prodotto dal reato202».

198

Secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale la selezione dei da includere nel regime differenziato, in quanto basata su apprezzamenti di politica criminale non può essere oggetto di sindacato della Corte, fatta eccezione per il caso in cui la discrezionalità del legislatore assuma dimensioni tali da non potere essere sorretta da alcuna ragionevole giustificazione. Sent. Corte Cost. 455 del 2006, cosi come richiamata da SANNA A. “Il «patteggiamento» tra prassi e novelle legislative”, cit., pag. 61 199 SANNA A. “Il «patteggiamento» tra prassi e novelle legislative”, cit., pag. 60. 200 Ibidem. 201 TRAPELLA F. “Il patteggiamento nei giudizi per reati corruttivi”, cit., pag.4. 202 Cass., sez. IV, 22 giugno 2000, n.10393, in “Rivista penale”, 2001, pag. 415.

64


CAPITOLO III IL PLEA BARGAINING NEL SISTEMA NORDAMERICANO.

SOMMARIO: 1. Il processo penale negli Stati Uniti d’America: la c.d. bifurcation. ”Jury trial” e “bench trial”.˗ 2. La disciplina del “plea bargaining”: “sentence bargaining”, “charge bargaining” e la c.d. “forma mista”. ˗ 3. Dal plea bargainig «under the table» alla verbalizzazione dell’accordo. ˗ 3.1. I requisiti del dell’istituto. ˗ 4. L’accusa: il prosecutor. ˗ 4.1. La discrezionalità dell’azione penale. ˗ 5. La difesa. ˗ 5.1. La rinuncia ai diritti costituzionali. ˗ 5.2. Il rapporto defendant-attorney. ˗ 6. Gli strumenti a tutela dell’imputato nel plea process. Direct appeal e collateral attacks. ˗ 7. Il judge

65


1.

IL PROCESSO PENALE NEGLI STATI UNITI D’AMERICA: LA C.D. BIFURCATION, “JURY TRIAL” E “BENCH TRIAL”.

Il processo penale statunitense si caratterizza per essere bifasico (c.d. bifurcation), cioè per lo sdoppiamento del giudizio in due fasi: la prima fase, detta “guilt fact-finding” (c.d. giudizio sul fatto) è dedicata all’accertamento del fatto criminoso e all’ascrizione dello stesso all’imputato (defendant) e termina con un provvedimento di condanna (convinction) o di assoluzione (acquittal). La seconda fase, c.d. di sentencing, è indirizzata allo studio della personalità del condannato, alla valutazione di eventuali circostanze attenuanti o aggravanti, ai fini della determinazione della pena ritenuta più idonea203. Tuttavia, il più delle volte il processo bifasico si trasforma in monofasico, venendo meno la fase del giudizio sul fatto, come nell’ipotesi di plea bargaining. Il “jury trial” è connotato dal fatto che il dibattimento avviene dinanzi ad una giuria. Il diritto al jury trial, cioè il diritto ad essere giudicati da una giuria è previsto dal VI Emendamento della Costituzione Federale. L’inizio del dibattimento vero e proprio è proceduto dalla formazione della giuria204, il cui numero di membri è variabile da dodici, come nel caso del sistema federale e della maggioranza di quelli statali, a sei, che è il numero minimo “costituzionale” di giurati (c.d. veniremen). I compiti della stessa consistono nel factfinding, cioè nell’accertamento dei fatti e nella deliberazione del verdetto sulla colpevolezza. Il virdict della giuria può essere “guilty” (di colpevolezza) o ”not guilty” (di assoluzione). Nel caso di virdict di non colpevolezza, il procedimento termina definitivamente, in quanto l’imputato (defendant) non ha interesse ad impugnare, il prosecutor (la pubblica accusa) non può farlo per il divieto del double

203

Il processo penale, sia negli ordinamenti statali che in quello federale, si snoda di regola in un solo grado di cognizione di merito a cui segue un grado di appello limitato alle questioni di diritto. Ogni grado ha i suoi rispettivi giudici, la trial court per il primo e l'appellate court per l'appello 204 La lista dei potenziali giurati è scelta con criteri casuali (“at random”) tra elenchi di cittadini che rispecchiano uno spaccato della composizione sociale della collettività. I venirenem sono convocati per periodo di due o più settimane presso gli uffici giudiziari, ove restano in attesa di essere ulteriormente sorteggiati. La selezione dei giurati avviene con il procedimento c.d. voir dire (“dire la verità), con la possibilità da parte di difesa ed accusa di ricusare gli stessi.

66


jeopary, cioè il divieto di un secondo processo per lo stesso reato (V Emendamento). Se invece il verdetto è di colpevolezza si passa alla fase del sentencing. Il “bench205 trial”, detto anche “non-jury trial” o “jury waived trial”, si caratterizza per il fatto che si ha un dibattimento senza giuria, davanti ad un giudice togato monocratico. In alcune giurisdizioni, compresa quella federale, la scelta di questo rito processuale è condizionato dall’assenso del prosecutor (pubblica accusa) e all’approvazione del judge (giudice)206. Si fa ricorso a questo modulo processuale se il defendant (imputato) rinuncia al jury trial. Nella prassi il bench trial vede l’attenuarsi delle regole probatorie previste per il jury trial. La semplificazione delle regole sulla prova e l’assenza dei complessi adempimenti necessari nel dibattimento davanti alla giuria rendono il rito de quo come un procedimento «snello e rapido», in grado di realizzare un gran risparmio di tempo e di risorse. La rinuncia al dibattimento, ad un diritto costituzionale, viene “premiata” con un trattamento in fase di sentencing meno severo rispetto al condannato in seguito al jury trial (a differenza del plea bargaining qui non si ha una contrattazione sulla colpevolezza, quindi vi è la possibilità di essere assolti). Tuttavia la scelta per il bench trial da parte dell’imputato non è tanto legata agli effetti premiali, ma piuttosto alla paura che un particolare reato oppure l’avere precedenti penali susciti un’istintiva ostilità nella giuria.

205

Il vocabolo “bench” «indica la magistratura togata: letteralmente bench è lo scanno occupato dal giudice nell’aula d’udienza». FANCHIOTTI V., “Lineamenti del processo penale statunitense”, Torino, 1987, pag. 146 206 Ivi, pagg. 146 e ss.

67


2.

LA DISCIPLINA DEL “PLEA BARGAINING”: “SENTENCE BARGAINING”, “CHARGE BARGAINING” E LA C.D. “FORMA MISTA”.

Nel processo penale statunitense il plea bargaining è lo strumento maggiormente utilizzato per definire i giudizi penali: statisticamente vi si fa ricorso nel 90% dei casi207. Si tratta di una procedura in cui l’imputato (defendant) negozia la sua ammissione di colpevolezza (guilty plea) con una concessione o una promessa di clemenza, da parte del giudice (judge) o della pubblica accusa (prosecutor). “Bargaining” significa “barattare”, “scambiare”, dal francese arcaico “Barguigner”208. L’espressione plea bargainig si è ormai imposta nel linguaggio comune, sebbene l’elemento delle reciproche concessioni non sia affatto necessario.209 In particolare, l’istituto, dapprima nato come contrattazione clandestina cara tanto alla pubblica accusa quanto agli imputati, successivamente, viene formalizzato nell’undicesima Regola federale, introdotta nel 1974210, e dalla giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti. La maggior parte dei processi penali viene definita mediante questa procedura: solo per gli illeciti più gravi il plea bargaining è escluso, perché il prosecutor ha interesse a mostrare all’opinione pubblica un atteggiamento forte, soprattutto nei sistemi statali dove l’incarico è conferito a seguito di un mandato elettivo, ed anche perché il ricoprire tale incarico costituisce un gradino (intermedio) nella carriera pubblica. La fase pretrial211 è quella generalmente deputata alle contrattazioni. Tuttavia per i reati minori può non esserci alcuna negoziazione tra accusa e difesa anteriormente al guilty plea. Sostanzialmente ci si trova dinanzi ad un “contratto per adesione”212, nel

207

MANNOZZI G., “Razionalità e Giustizia nella commisurazione della pena, il Just Desert Model e la riforma del Sentencing nordamericano”, Padova, 1996, pag. 93 e ss. 208 “Digesto delle discipline penalistiche”, 1995, vol. IX, pag. 413. 209 Il procedimento con cui si giunge al plea agreement (accordo sulla dichiarazione di colpevolezza) viene anche indicato con le espressioni “plea discussion” o “plea conference”. 210 Rule 11, “Federal Rule of Criminal Procedure” 211 La fase pretrial, ossia la fase predibattimentale, generalmente ha inizio con l’arresto. Per un’approfondita analisi sulla fase pretrial: FANCHIOTTI V., “Lineamenti del processo penale statunitense”, Torino, 1987 pag. 75 e ss. 212 FANCHIOTTI V., “Spunti per un dibattito sul plea bargaining”, in “Il processo penale negli Stati Uniti d’America”, a cura di Amodio E. - Cherif Bassiouni M., Napoli, 1988 pag. 282.

68


quale l’imputato si dichiara responsabile, sapendo che è prassi costante presso un determinato ufficio giudiziario rimodulare la pena in termini più favorevoli in caso di rinuncia al jury trial. La dichiarazione di colpevolezza deve essere presentata durante l’arraingment (udienza predibattimentale), ove il giudice, dopo aver dato una lettura delle imputazioni, invita il defendant al pleading. Se l’imputato si professa not guilty oppure rimane in silenzio o non manifesta nulla, si passa alla fase dibattimentale vera e propria, mettendo in moto il meccanismo di costituzione dei panels (giuria), salvo il caso in cui venga scelto il brench trial. Se, invece, c’è l’affermazione di colpevolezza il giudice, dopo una verifica sulla intelligence (consapevolezza), voluntariness (volontà) e sui factual basis della dichiarazione (elementi di colpevolezza), fissa la data dell’udienza denominata sentencing, passando alla fase di quantificazione della pena da applicare. Si possono individuare tre diverse forme di plea bargaining: il sentence bargaining, il charge bargaining, e la forma mista tra l’uno e l’altro tipo213. Con l’assunzione di responsabilità l’accusato rinuncia al dibattimento pubblico dinanzi ad una giuria (jury trial)214. Per sentence bargaining si intende l’accordo fra l’imputato ed il giudice e/o il prosecutor in cui, a fronte dell’ammissione di colpevolezza (guilty) del primo, viene promessa l’applicazione di una pena specificamente indicata o determinata entro un certo ventaglio di soluzioni, previamente stabilite.215 Per charge bargaining si fa riferimento all’ipotesi in cui l’imputato si dichiara colpevole di uno o più reati in cambio della promessa che non verrà esercitata l’azione penale per altri reati che gli sono contestati.216 Con questa tipologia di plea bargaining non si promette all’imputato l’applicazione di una determinata pena in cambio della dichiarazione di colpevolezza, ma la rinuncia a procedere per alcuni dei reati contestati. 213

BROWN J. “Meriti e limiti del patteggiamento”, in “Il processo penale negli Stati Uniti d’America”, cit., pag. 132. 214 MARCOLINI S., “Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale negoziata”, Milano, 2005, pag. 78. 215 Per un esempio di sentence bargaing v. BROWN J., “Meriti e limiti del patteggiamento”, in “Il processo penale negli Stati Uniti d’America”, cit. pag. 133: esempio: «l’imputato di un reato per cui è prevista nel massimo la pena di quattro anni di reclusione si dichiara colpevole a seguito dell’accordo secondo cui egli verrà condannato alla reclusione da uno a tre anni, pena che la corte determinerà dopo aver letto il probation report; la corte condanna l’imputato a tre anni di reclusione.» 216 Per un esempio di charge bargaing v. ivi pag 134: «Una persona accusata di sette rapine riconosce la propria colpevolezza per tre dei sette capi d’imputazione e, in cambio, il district attorney si impegna a non formulare l’accusa per gli altri quattro capi d’imputazione.»

69


In molti ordinamenti processuali, si applica una forma mista tra il sentence bargaining ed il charge bargaing. In sostanza si consente di adattare il plea bargaining alle varie situazioni concrete. E così può accadere che l’imputato di tre rapine si dichiara colpevole per un solo capo d’imputazione a fronte della promessa che gli sarà applicata una pena non superiore a due anni di reclusione. Può essere stabilito che l’imputato sia affidato ad un istituto di cura; oppure, ancora, il prosecutor può offrire il suo appoggio per la concessione della libertà sulla parola o garantire l’immunità per altri reati, diversi da quelli contestati. In altri casi può succedere che il defendant si dichiari colpevole per l’illecito originariamente contestato e l’offerta del prosecutor non riguardi la recommendation, ma la rinuncia ad esercitare l’azione penale nei confronti di un coimputato. Il plea of guilty non è l’unico strumento che consente di saltare il dibattimento. Può essere concordata con il prosecutor la dichiarazione di nolo contendere, che non è un’assunzione di responsabilità, e che quindi non può essere utilizzata in altri giudizi penali o in questioni civili. In questo caso l’imputato subisce una sanzione penale senza essere considerato colpevole del fatto contestato. Per questo motivo non è necessario che il giudice accerti l’esistenza dei factual basis che costituiscono il fondamento dell’addebito, non essendo la persona considerata colpevole. Si tratta di un istituto che esiste sia nelle corti federali, sia in quelle statali, specificamente in Alaska, Florida, Michigan, California, Texas, Virginia. Il ricorso a questa figura processuale richiede l’autorizzazione da parte del giudice che procede.

70


3.

DAL PLEA BARGAINIG «UNDER THE TABLE» ALLA VERBALIZZAZIONE DELL’ACCORDO

La procedura di plea bargaining, «in un certo senso altera la natura del processo accusatorio, trasformandolo in amministrativo»217. Fino al 1968 si parlava di «plea bargaining under the table», cioè di plea bargaining occulto, per indicare il fatto che la maggior parte dei patteggiamenti non veniva verbalizzata: poteva quindi accadere che imputati che si erano dichiarati colpevoli al fine di usufruire di uno sconto di pena, potevano trovarsi condannati ad una sanzione molto più severa di quella concordata, perché il prosecutor non aveva rispettato gli accordi, oppure perché il difensore non aveva ben compreso i termini dell’accordo, o ancora perché il giudice aveva cambiato parere. Tutto ciò poteva essere fonte di gravi ingiustizie. Per far fronte a questo fenomeno la Corte Suprema Federale nel caso Boykin v. Alabama ha stabilito che «quando un imputato rischia la pena di morte o la reclusione bisogna essere sicuri che egli ha piena consapevolezza di quei capi d’imputazione e delle conseguenze della dichiarazione relativa a quei capi d’imputazione che sono destinati ad essere oggetto di patteggiamento. A tal fine il giudice forma un verbale idoneo a rendere possibile un successivo controllo218». Questa sentenza è di fondamentale importanza per una pluralità di motivi: l’obbligo di verbalizzare tutte le conseguenze che derivano dalla dichiarazione di colpevolezza, l’obbligo di verbalizzare la circostanza che l’imputato è stato avvertito, che egli rinuncia al suo diritto costituzionale di essere giudicato davanti ad una giuria. Inoltre dal verbale deve emergere che la dichiarazione è stata resa in maniera volontaria, libera e con la consapevolezza di tutte le conseguenze. A partire da questa sentenza, le Corti statali e quelle federali hanno elaborato regole generali che disciplinano la formazione del guilty plea. Ad esempio si richiede che le parti devono redigere un atto scritto nel quale sono indicati i termini dell’accordo oppure che l’accordo deve essere riprodotto nei verbali ufficiali dell’ufficio giudiziario.

217

CHERIF BASSIOUNI M., “Lineamenti del processo penale”, in “Il processo penale negli Stati Uniti d’America”, cit., pag. 68. 218 Boykin v. Alabama 238 U.S. 395 (1969)

71


3.1.

I REQUISITI DELL’ISTITUTO.

Il plea per essere valido deve rispettare alcuni requisiti (costituzionali), elaborati dalla Corte Suprema Federale, per rendere uniforme nelle applicazioni pratiche il plea bargaining, tutelando il defendant affinché non concluda (subisca) accordi iniqui. I tre requisiti elaborati dalla giurisprudenza della Corte Suprema Federale sono: intelligently and understandly, voluntariness ed i factual basis (Brady Trilogy). Il primo requisito è che l’imputato accetti la proposta, essendo consapevole di ciò a cui rinuncia. Il giudice deve avvisare il defendant ed assicurarsi che comprenda la natura dell’accusa, che conosca il minimo ed il massimo edittale della pena che può essere irrogata a seguito del guilty plea, che sia informato degli altri effetti accessori conseguenti alla sentenza e, infine, che sappia di avere il diritto di stare in silenzio e di dichiararsi not guilty. Il defendant deve essere avvertito delle conseguenze sanzionatorie cui andrebbe incontro, in quanto la dichiarazione di responsabilità non implica la determinazione della pena, che è rimessa alla decisione del giudice nella successiva fase del sentencing (post trial). Inoltre deve essere avvisato dei diritti costituzionali cui rinuncia dal sacrificio del diritto al jury trial, riconosciuto dal VI e dal XIV Emendamento della Costituzione Federale219, alla rinuncia al privilege against self-incrimination220, ovvero il privilegio contro l’autoincriminazione, prevista dal V Emendamento. Il secondo dei requisiti per la validità del guilty plea è la voluntariness determinata dall’assenza di coercizioni e di minacce. La volontarietà della dichiarazione di colpevolezza si ricollega alla rinuncia ad essere giudicato pubblicamente da una giuria221; alla rinuncia a controesaminare i testimoni222, alla rinuncia ad autoincriminarsi223. Il terzo requisito è costituito dai factual basis, espressamente previsto dalle Federal Rules of Criminal Procedure. Il judge deve verificare che il plea sia supportato da fatti

219

United States v. Jackson, 390 U.S. 570 (1968) V Emendamento Cost. Federale:” nor shall be compelled in any criminal case to be a witness against himself”. 221 VI Emendamento Cost. Federale così dispone “right to jury trial and public trial cause”. 222 VI Emendamento Cost. Federale recita così “confrontation clause and compulsory process clause”. 223 V Emendamento Cost. Federale statuisce: “privilege against self incrimination”. 220

72


ed elementi che provino la colpevolezza dell’imputato, anche quando non venga sollevata alcuna contestazione sulla responsabilità del reato. Se il giudice è soddisfatto, per l’esistenza di elementi che sostengono il plea bargaining, la dichiarazione di colpevolezza non deve essere rifiutata perché l’imputato davanti all’opinione pubblica rifiuta di ammettere la propria responsabilità. È stato sottolineato da autorevole dottrina come si tratti di «un requisito assai vago e nebuloso, che non chiarisce i fini e l’oggetto dell’indagine deferita al giudice e, nella prassi, l’indagine sulla factual basis, come del resto quella sulle altre condizioni di ammissibilità della dichiarazione di colpevolezza, è stata spogliata dei suoi contenuti sostanziali-garantistici per ridursi a momento di riscontro meramente formale e superficiale224»

224

FANCHIOTTI V., “Lineamenti del processo penale statunitense”, cit., pag. 55 e ss.

73


4.

L’ACCUSA: IL PROSECUTOR.

L’attività dell’organo dell’accusa (prosecutor) è forse l’aspetto più controverso di tutta la procedura di plea bargaining. Dunque per un’analisi di quest’organo è utile preliminarmente approfondire le sue caratteristiche di struttura e di funzionamento. È con l’indipendenza che si consolida il sistema dell’accusa pubblica225. Il Judiciary Act del 1789 istituì due diversi uffici dell’accusa, situati a livelli differenti: a livello periferico troviamo gli U.S. Discrict Attorneys226, che hanno il compito “di promuovere l’azione penale in ogni distretto per reati rientranti nella giurisdizione degli Stati Uniti e di rappresentare gli Stati Uniti in tutte le cause civili che li riguardano227”. Invece a livello centrale troviamo l’U.S. Attorney General, con compito di rappresentare gli Stati Uniti presso le appellate courts e con l’ulteriore funzione di “sovraintendenza e direzione” (“superintendence and direction”), in ordine all’attività svolta dagli uffici distrettuali. L’ U.S. Attorney General è posto al vertice del Departement of Justice, una sorta di Ministero di Grazia e Giustizia, con la responsabilità della gestione dell’attività accusatoria a livello nazionale. L’ampia autonomia di cui godono le procure federali è resa possibile vuoi dal sistema di nomina degli U.S. Attorney, che affida l’assegnazione all’ufficio e l’eventuale rimozione ad un soggetto (il Presidente) diverso dal titolare del Departement of Justice, vuoi dal carattere comunque temporaneo dell’incarico.

225

In origine le funzioni del public prosecutor sono essenzialmente consultive; egli sostanzialmente può porre termine al procedimento avviato dal privato cittadino. Il sistema tradizionale di common law, infatti, era contrassegnato dalla natura privata dell’accusa. Per ulteriori approfondimenti si veda GAMBINI MUSSO R., “Il processo penale statunitense”, Torino, 2009, pagg.43 e ss. 226 1 Stat.92 sect. 35 (The Judiciary Act; September 24, 1789) : « And there shall be appointed in each district a meet person learned in the law to act as attorney for the United States in such district, who shall be sworn or affirmed to the faithful execution of his office, whose duty it shall be to prosecute in such district all delinquents for crimes and offences, cognizable under the authority of the United States, and all civil actions in which the United States shall be concerned, except before the supreme court in the district in which that court shall be holden. » 227 FANCHIOTTI V., “Lineamenti del processo penale statunitense”, cit., pag. 78.

74


Una prima caratterizzazione è dunque costituita dall’inserimento della funzione d’accusa nell’ambito delle responsabilità, anche politiche, del potere esecutivo. Il reclutamento dei public prosecutors avviene, nell’ordinamento federale, mediante nomina presidenziale e previa ratifica (advice and consent) del Senato228. Le proposte formalmente provengono dall’U.S. Attorney General, tra gli appartenenti al partito del Presidente. L’organizzazione degli uffici dell’accusa è piramidale. Al vertice si colloca l’U.S. Attorney General, al quale spetta di definire ed armonizzare le politiche criminali nazionali. A capo dell’ufficio periferico, coincidente con ciascun distretto, vi è un U.S. Attorney, coadiuvato da un numero variabile di assistants prosecutors. La struttura degli uffici statali è simile a quella federale, con un Chief Public Prosecutor a capo di un ufficio centrale ed un district attorney, a capo dell’ufficio locale, con un rapporto gerarchico molto debole. Anche se il modo in cui i prosecutors vengono “reclutati” varia a seconda che ci si collochi a livello centrale o periferico, tuttavia, la scelta in entrambi i casi ricade su soggetti che non fanno parte dell’autorità giudiziaria, ma che sono membri attivi della professione forense, i quali vengono nominati per un periodo di tempo limitato, 4 anni, trascorso il quale sono liberi di scegliere se tornare alla libera professione o continuare la carriera politica. Perciò, il prosecutor non è un membro del potere giudiziario, non svolge una carriera parallela a quella dei magistrati, né tantomeno è un funzionario statale o federale. Il prosecutor statunitense, si differenzia non solo dal corrispondente organo di Civil Law, ma anche dal Crown Counsel inglese, poiché il prosecutor americano è chiamato a svolgere le sue funzioni in modo “ragionevolmente permanente”, e non per i singoli casi come è tipico del processo inglese.229

228

Art.II, sec.2 Costituzione degli Stati Uniti d’America: « Egli avrà il potere, con il parere ed il consenso del Senato, di stipulare trattati, purché vi concorrano i due terzi dei Senatori presenti; e con il parere ed il consenso del Senato nominerà gli Ambasciatori, gli altri Rappresentanti pubblici ed i Consoli, i Giudici della Corte Suprema e tutti gli altri funzionari degli Stati Uniti la cui nomina non sia qui altrimenti disciplinata, e che sarà stabilita con legge: ma il Congresso può con legge attribuire la nomina di questi funzionari inferiori, come riterrà conveniente, al solo Presidente o alle Corti giudiziarie o ai capi dei Dipartimenti » 229 MONTAGNA M., “Il pubblico ministero negli Stati Uniti d’America”, in “Il giusto processo”, 1992, cit., pag.333.

75


4.1.

LA DISCREZIONALITÀ DELL’AZIONE PENALE.

La struttura dell’organo dell’accusa ci aiuta meglio a comprendere uno degli aspetti più interessanti della funzione dell’accusa nell’ordinamento nordamericano, ossia la tematica della discrezionalità dell’azione penale. Nella dottrina d’oltreoceano è piuttosto diffusa l’affermazione secondo la quale «il plea bargaining non è che un aspetto, una conseguenza pratica ed inevitabile del principio della discrezionalità dell’azione penale»230. La letteratura processualpenalistica nordamericana suole parlare di prosecutorial discretion per indicare come la decisone sull’esercizio o meno dell’azione penale sia affidata a scelte libere e sostanzialmente insindacabili del prosecutor: egli infatti ha facoltà di decidere se esercitarla o meno, per quali reati esercitarla, se abbandonare o meno un’accusa già iniziata, se negoziare o meno con l’imputato le contrattazioni sulla dichiarazione di colpevolezza (plea bargaining). Negli Stati Uniti «la discrezionalità appare come connaturale all’organo dell’accusa, soprattutto in un Paese dove gli indici di delinquenza e criminalità richiedono necessariamente una selezione, comportando, altrimenti, l’obbligatorietà, l’esplosione del sistema giudiziario. La discrezionalità in questo senso si pone come strumento di deflazione processuale231». Autorevole dottrina232 afferma come «se è vero che l’organo dell’accusa statunitense assume una netta connotazione politica, occorre tuttavia guardarsi dalla tentazione di inquadrare la discrezionalità della funzione dell’accusa in una chiave di lettura eminentemente “politica”. È fuori dubbio che porzioni considerevoli delle opzioni di promovimento dell’azione penale si adagia sul diverso piano della discrezionalità c.d. “tecnica”233. La prosecutorial discretion risponde a molteplici finalità. Vi è anzitutto un’esigenza di snellimento del carico giudiziario per far fronte alla ristrettezza di strutture, mezzi 230

GIUNTA F., “Qualche appunto su plea bargaining, funzioni della pena e categorie penalistiche”, in Cassazione penale, cit., 1987, p. 1047 231 MONTAGNA M., “Il pubblico ministero negli Stati Uniti d’America”, cit., pag.333. 232 Così GAMBINI MUSSO R., “Il processo penale statunitense”, cit., pag. 43 233 La discrezionalità c.d. “tecnica” è l’attività naturale di selezione delle notizie di reato resa necessaria dalla valutazione dell’esaustività del materiale probatorio reperito ai fini dell’avanzamento del procedimento nell’ulteriore fase dibattimentale.

76


e personale che affliggono gli uffici della pubblica accusa. Inoltre la discrezionalità lasciata all’organo dell’accusa se iniziare o meno l’azione penale è avvertita come espressione di un potere “depenalizzatorio”, in relazione alla permanenza in vigore di norme penale vecchie o cadute in desuetudine. L’ampia discrezionalità di cui gode il prosecutor può sembrare senza limiti, ma in realtà la discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale è stata più controllata di quanto potesse sembrare grazie alla presenza di controlli ed equilibri informali, che tenevano tale discrezionalità entro limiti determinati. Un primo controllo sul potere del prosecutor è stato rappresentato dalla possibilità per l’imputato di spingere verso il dibattimento affinché l’organo dell’accusa fosse realistico nel decidere circa la formulazione di un’accusa penale. Anche il giudice tradizionalmente ha avuto un’ampia discrezionalità nella fase di sentencing ed anche tale fattore ha svolto una funzione di controllo e di limitazione sul potere del prosecutor. Tuttavia questi controlli si sono progressivamente indeboliti al punto che manca in concreto un modo idoneo a bilanciare un prosecutor che si riveli molto aggressivo nel formulare le accuse penali. In proposito si è parlato di “perfect storm234” (tempesta perfetta), per indicare tutti quei fattori che hanno contribuito a determinare un maggiore potere in capo al prosecutor: «l’erosione di fiducia verso il judical sentencing, l’ampia accettazione dell’operare quasi illimitato del plea bargaining, l’intensificarsi di leggi che prevedono pene molto severe ed “obbligatorie” in caso di condanna, e l’accettazione da parte del sistema di una forma particolarmente aggressiva di punizioni deterrenti che minaccia i trasgressori con pene “vincolanti” per il giudice e molto severe in caso di condanna per alcuni determinati reati235.» Tra questi l’elemento che forse più degli altri ha contribuito a generare la c.d. “tempesta perfetta” è l’emanazione di leggi penali concernenti determinati effetti in sede di sentencing. La previsione di pene sempre più elevate negli Stati Uniti, risponde all’idea secondo cui punizioni severe, predeterminate dal legislatore e vincolanti per il giudice, possono svolgere una funzione deterrente verso particolari forme di comportamento sociale. Gli Stati Uniti hanno fatto propria un’idea della prevenzione che non pone alcun limite alle pene che potrebbero essere imposte in relazione ad un determinato crimine, una concezione di prevenzione che tiene poco conto del principio di proporzionalità. La previsione di sanzioni molto severe divengono degli strumenti molto forti per indurre 234

PIZZI W.T. “"A perfect storm: prosecutorial discretion in the United States", in “The prosecutor in the transnational prospective” a cura di WADE M. e LUNA E., Oxford, 2012 235 PIZZI W.T. “"A perfect storm: prosecutorial discretion in the United States", in “The prosecutor in the transnational prospective” a cura di WADE M. e LUNA E., Oxford, 2012. La traduzione del saggio è a cura di MONTAGNA M., “Una tempesta perfetta: la discrezionalità del prosecutor negli Stati Uniti d’America”, in “Archivio penale, 2012, pag. 566.

77


gli imputati ad accettare l’accettare il plea bargaining. Dunque spesso accade che gli imputati, anche se hanno una difesa attendibile, si dichiarano colpevoli. Il caso Bordenkircher v. Hayes236, deciso dalla Corte Suprema Federale ci offre un esempio del perché spesso il defendant preferisce ad addivenire ad un accordo con l’accusa. Hayes era stato accusato di aver contraffatto ed emesso un assegno per l’ammontare di $ 88,30, illecito penale per il quale la cornice edittale va dai 2 ai 10 anni. Il prosecutor propose una pena di cinque anni di reclusione se Heyes si fosse dichiarato colpevole per il reato contestato. Il prosecutor però avvertì che se l’imputato avesse rifiutato l’offerta, sarebbe stata elevata a suo carico un’imputazione quale delinquente abituale237, ed in caso di condanna, gli sarebbe stata inflitta la pena dell’ergastolo. Heyes scelse di andare a dibattimento, fu dichiarato colpevole di contraffazione, riconosciuto come delinquente abituale e condannato alla pena dell’ergastolo. La Corte Suprema dichiarò che quanto accaduto era una manifestazione del plea bargaining negli Stati Uniti. Un meccanismo di controllo esterno, per assicurare la compatibilità di una discrezionalità così ampia con l’assetto democratico dello Stato, che si affianca ai meccanismi di controllo interni al processo e all’organizzazione giudiziaria è quello esercitato dai mass-media. Il controllo esercitato dall’opinione pubblica sull’amministrazione della giustizia e sulle scelte operate di volta in volta dai suoi protagonisti è funzionale all’esigenze di consentire ai cittadini, in quanto membri del corpo elettorale del potere giudiziario, di quello legislativo e del vertice di quello esecutivo, di verificare il modo in cui i propri rappresentanti amministrano la giustizia, e se realizzano i loro programmi di “politica criminale”. Infatti, il controllo dei mass-media serve soprattutto a consentire ai cittadini di orientare in maniera informata le proprie future scelte elettorali circa i candidati alle cariche giudiziarie238. Questa forma di controllo serve anche a “supervisionare” il modo in cui il denaro pubblico viene investito nell’apparato giudiziario. In relazione al plea bargaining, alcuni239 hanno colto un pericolo per i diritti dell’imputato ed il patteggiamento, sotto questo profilo, è stato oggetto di molteplici critiche. Essi lamentano soprattutto il fatto che, sul piano dei rimedi costituzionali, non esiste alcun rimedio in grado di impedire all’accusa di porre più gravi incriminazioni qualora

236

CASO Bordenkircher v. Heyes, 434 U.S. 357 (1978). Negli Stati Uniti, anche se con qualche variazione da uno Stato all’altro, solitamente si prevede una pena obbligatoria per l’imputato se egli è condannato per il crimine che gli viene contestato ed ha precedenti condanne, spesso tre precedenti condanne per delitti. 238 FANCHIOTTI V., “Riflessioni sulla giustizia penale in U.S.A.”, in “L’indice penale”, 2007, fasc.1, cit., pag.327. 239 GIFFORD, “Meaningful Reform of Plea bargainig: The Control of Prosecutorial Discretion”, in “University of Illinois Law Review”, n.1,1983. 237

78


questi rifiuti il guilty plea, poiché è impossibile dar prova di un atteggiamento intimidatorio da parte della parte pubblica. La Corte Suprema degli Stati Uniti, nella decisione di un caso240, scongiurò un simile pericolo, affermando che «non vi sono possibili inquinamenti dovuti a propositi di vendetta o ritorsione nella misura in cui l’imputato è libero di accettare o meno l’offerta dell’accusa241». Al fine difendere l’imputato dai rischi connessi alla discrezionalità del potere dell’accusa alcuni Stati hanno adottato delle contromisure242; inoltre alcune sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti e, nei processi in cui sono applicabili, le Federal Rules of Criminal Procedure , richiedono che il giudice del dibattimento sottoponga l’imputato ad una serie di brevi domande standard al fine di verificare spontaneità e consapevolezza della sua dichiarazione di colpevolezza, l’esistenza di elementi idonei a dar fondamento alla stessa (factual basis 243 ) e l’incontestabile esattezza delle ammissioni fatte dall’imputato. L’inosservanza di tali direttive può dar luogo all’annullamento della sentenza di condanna o alla perdita di efficacia della dichiarazione di colpevolezza. Si è evidenziato come i plea agreements non costituiscano veri e propri accordi in cui il consenso delle parti si forma e si manifesta a seguito di una discussione tra le parti sul piano della parità, ma sia, invece, il prosecutor a decidere sostanzialmente i termini dell’accordo in quanto spetta a lui la decisione sulla determinazione delle conseguenze penali dell’accertamento della colpevolezza. Inoltre con il plea guilty, gli imputati rinunciano a tutti i diritti connessi al trial. Può accadere che gli imputati si dichiarino colpevoli per non affrontare nel dibattimento il rischio di vedersi infliggere una pena più severa di quella ottenibile mediante negoziazione. Altra parte della dottrina244 critica il fatto che la discrezionalità dell’azione penale accordata al prosecutor può comportare una sostanziale negazione delle esigenze di tutela della collettività, in quanto la riduzione dei capi d’imputazione o della pena rappresenterebbe una forma eccessiva di clemenza.

240

Caso Bordneinkircher v. Hayes, 434 S.U.357, 1978. In questo caso la Supreme Court ha dichiarato costituzionalmente legittimo il comportamento di un prosecutor che aveva causato il rinvio a giudizio di un imputato per reati molto più gravi di quelli a lui addebitati in un primo tempo, perché il defendant si era rifiutato di dichiararsi colpevole dei reati originariamente contestati. La Corte motivò la sua decisione, affermando che l’imputato era pienamente informato delle decisioni del prosecutor quando, di fronte all’offerta di quest’ultimo, aveva deciso di dichiararsi not guilty. 241 434 S.U.357, 1978. 242 Ad esempio nelle Illinois Supreme Court Rules è stato previsto che il prosecutor prima di sottoporre al giudice un plea of guilty, deve accertare in una pubblica udienza che l’imputato abbia pienamente compreso ed accettato le modalità dell’accordo 243 Rule 11, “Federal Rule of Criminal Procedure” 244 BOLAND e FORST, “The Prevalence of Guilty Pleas”, in “Bureau of Justice Statistics”, Washington D.C., 1984

79


5.

LA DIFESA.

Il plea bargaining, da un lato, incide sul piano delle garanzie procedurali, dall’altro fa assumere un ruolo particolare al difensore il quale, trasformandosi in una sorta di stabile intermediario tra Corte ed imputato, incontra difficoltà sempre maggiori ad adempiere gli obblighi derivanti dal mandato professionale.

80Â


5.1.

LA RINUNCIA AI DIRITTI COSTITUZIONALI.

L’imputato, optando per il guilty plea, rinuncia ad una serie di garanzie di rango costituzionale. Innanzitutto egli rinuncia al jury trial, al diritto ad essere giudicato davanti ad una giuria, diritto riconosciuto dal VI Emendamento per quanto riguarda l’ordinamento federale, e dal XIV Emendamento per quanto concerne l’ordinamento dei singoli Stati. Con la rinuncia al trial consegue, altresì, la rinuncia alle altre garanzie che si ricollegano alla fase dibattimentale, tra cui il diritto, previsto dal VI Emendamento a confrontarsi con i testimoni dell’accusa attraverso la cross-examination. Con il ricorso alla procedura in esame viene meno il principio dell’onere della prova in capo al prosecutor e cade nel nulla il canone fondamentale che prevede che si debba dare la prova della colpevolezza «beyond any reasonable doubt», cioè ogni oltre ragionevole dubbio, facendo cadere in questo modo la presunzione di innocenza che a questo stesso si ricollega. Con la dichiarazione di colpevolezza, l’imputato rinuncia a far valere le violazioni dei principi costituzionali verificatesi nella raccolta del materiale probatorio. Si assiste ad una specie di deroga al IV Emendamento, secondo il quale perquisizioni, sequestri ed arresti effettuati senza rispettare le garanzie previste dalla suddetta norma costituzionale, nonché le confessioni ottenute in violazione del V Emendamento sono utilizzate dall’imputato per ottenere uno sconto di pena. Tuttavia la Rule 11 (a)(2) delle Federal Rules of Criminal Procedure prevedono che il defendant che si sia visto rigettare una motion to suppress, possa conservare il diritto a riproporla in sede di impugnazione, purché ne faccia espressa riserva scritta nell’atto di dichiararsi colpevole. Nel caso in cui il processo d’impugnazione abbia un esito favorevole per l’imputato, questi può ritirare la precedente dichiarazione di colpevolezza. Questo fenomeno prende il nome di “conditional plea”, il quale però richiede il consenso di judge e prosecutor. Infine con la plea of guilty vi è la rinuncia al c.d. “privilege against self-incrimination”, previsto dal V Emendamento.

81


5.2.

IL RAPPORTO DEFENDANT-ATTORNEY.

Il diritto al difensore è sancito dal VI Emendamento dove si stabilisce che «ogni imputato avrà diritto a farsi assistere da un avvocato per la sua difesa». In un sistema adversary di giustizia penale per l’imputato il diritto all’assistenza difensiva è il più importante in quanto il suo esercizio nel processo penale consente l’esercizio degli altri diritti costituzionalmente protetti. La giurisprudenza della Corte Suprema Federale ha specificato che «l’assistenza difensiva deve essere intesa come comprensiva del diritto alla libera scelta, presuntivamente incondizionata, del proprio difensore245». Mentre con riferimento agli altri procedimenti penali trova operatività il principio di autonomia del defendant, nel caso di plea bargaining la Corte Suprema, dati i riflessi del plea of guilty, considera addirittura obbligatoria la presenza del difensore246. Anche se è vero che il consenso dell’imputato costituisce un momento fondamentale e problematico di tutta la procedura di plea bargaining, generalmente il patteggiamento viene avviato e perfezionato tra il defense attorney (difensore) e prosecutor. Essi una volta raggiunto un accordo lo sottoporranno all’approvazione del giudice. Nel plea bargaining la generale funzione dell’avvocato di fornire al cliente consigli e suggerimenti circa la strada da seguire, può risultare alterata. L’obiettiva convergenza di interessi che si è venuta a creare tra accusa e difesa ha finito per ripercuotersi sul piano difensivo, spingendo gli avvocati a compiere scelte non sempre rispettose degli interessi del loro assistito. Gli attorneys, spinti spesso da istanze economiche e dalla volontà di instaurare una “good working relationship” con judge e defendant hanno finito nel vedere nel gulty plea degli strumenti per incrementare le loro entrate e tessere una rete di rapporti con le istituzioni. «Il cliente-imputato viene percepito anche dal legale come un outsider, un estraneo che entra ed esce dal sistema, senza appartenervi mai stabilmente. Egli può quindi diventare una pedina di scambio sull’altare di un “baratto” di lungo termine tra avvocato, corti e prosecutors247». Un indizio della snaturalizzazione del rapporto defendant-attorney è l’altissimo numero dei casi in cui il

245

U.S. v. Gonzales, 548 U.S. 140 (2006) Nel nostro ordinamento la difesa tecnica è una garanzia indisponibile, ossia irrinunciabile. Non è prevista l’autodifesa neanche quando l’imputato abbia sufficiente preparazione giuridica. 247 GAMBINI MUSSO R., “Diritto di difesa e difensore negli U.S.A.”, Torino, 1999, pag.12 246

82


primo viene sospinto dal suo difensore a rinunciare al giudizio, dichiarandosi colpevole.

83Â


6.

GLI STRUMENTI A TUTELA DELL’IMPUTATO NEL PLEA PROCESS. DIRECT APPEAL E COLLATERAL ATTACKS.

Evidenziata la circostanza che all’interno del sistema statunitense la presenza del difensore non è sempre in grado di assicurare un’effettiva assistenza all’imputato, occorre ora soffermarsi ad analizzare gli strumenti procedurali che quest’ultimo ha a disposizione per il caso in cui fosse stato indotto alla dichiarazione in forza di errore, ancorché non voluto, riconducibile all’attività dell’avvocato. In questa ipotesi si dovrebbe considerare la volontà del dichiarante viziata e che tale elemento abbia efficacia determinante nell’orientare il processo formativo del volere individuale248. Dunque sembrerebbe utilizzabile il meccanismo risultante dal combinato disposto della Rule 11 e della Rule 32 (d). La prima norma dispone che il giudice prima di accogliere la dichiarazione di colpevolezza dell’imputato, deve accertare che la stessa sia resa «volutarily and with an understanding of the nature of the charge». Mentre la seconda statuisce che il giudice può statuire la revoca della plea of guilty «upon a showing by the defendant of any fair and just reason», cioè quando l’imputato dimostri che sussista una giusta causa. Tuttavia la possibilità di utilizzare nell’ipotesi di “cattiva assistenza del difensore” il meccanismo tratteggiato dalla Rule 32 (d), è stato ridimensionato dalla riforma del 1983 con la quale si è esclusa l’esperibilità della motion to withdraw allorché il procedimento sia pervenuto alla fase del sentencing. Risulta, infatti, difficile per l’imputato dare la prova di essere stato erroneamente o mal consigliato dal suo legale arrivati alla fase anteriore all’emanazione della condanna. Sul punto si è espressa la giurisprudenza della Corte d’Appello del II circuito, affermando che «ove l’attività di supporto legale non fosse riconducibile ad un’ipotesi di unprofessional conduct, l’erroneus advise, se pure aveva avuto un’efficacia causale decisiva sul volere del dichiarante, non giustificava la revoca249». I rimedi, diversi dalla revoca, che può esperire il condannato a seguito del plea process per lamentare la condotta «unprofessional» del suo difensore sono essenzialmente due: il direct appeal ed i collateral attacks. Il direct appeal o appeal è previsto dallo statute law come un vero e proprio diritto (“as a matter of right”). La Corte Suprema «ha stabilito che esso non costituisce un 248

Ivi, pag.21. Caso Parrino corte d’appello secondo circuito

249

84


diritto di rango costituzionale250», ma «dove è previsto per legge, il suo esercizio deve essere garantito a tutti gli imputati, indipendentemente dalle loro condizioni economiche251». Esso è consentito da alcuni ordinamenti statali, mentre è vietato da quello federale in cui una delle conseguenze discendenti dalla dichiarazione di colpevolezza consiste nel divieto di far appello, salvo che per i jurisdictional errors. Il principio che più incide in materia di impugnazioni è il double jeopardy, previsto dal V Emendamento e corrispondente a quello che nel nostro ordinamento è il principio del ne bis in idem. Il double jeopardy vuole evitare che un accusato sia chiamato a rispondere due volte dello stesso reato. I jurisdictional errors sono le violazioni del double jeopardy, degli Statutes of limitations, l’incompetence to stand trial e secondo la giurisprudenza anche le eccezioni di illegittimità costituzionali riferite a norme penali incriminatrici. Anche se ammesso da alcuni Stati, nella realtà è difficile che chi abbia optato per la plea of guilty impugni la sentenza del giudice. Con collateral attacks si fa riferimento ad una serie di strumenti che consentono al condannato, sia o no in custody, di eccepire alla trial Court vizi di rango costituzionale (fundamental errors) verificatisi nelle fasi antecedenti, e non rilevati o non rilevabili in modo da ottenere l’annullamento della condanna o un nuovo giudizio. Si tratta, sostanzialmente, di “impugnazioni straordinarie”, utilizzabili contro le sentenze di condanna per la quale si è esaurita la fase dell’appeal. Tra questi viene annoverato l’Habeas Corpus, il procedimento ex art.2255 del titolo 28 dell’U.S. Code.

250

McKane v. Durston, 153 U.S. 684 (1894) cosi come richiamata da FANCHIOTTI V., “Lineamenti del processo penale statunitense”, cit., pag. 155. 251 Griffin v. Illinois, 351 U.S. 12 (1956) così come citata da FANCHIOTTI V., “Lineamenti del processo penale statunitense”, cit., pag. 155.

85


7.

IL JUDGE.

In un sistema di giustizia “contrattata” dove assume un ruolo centrale il prosecutor, forte è il pericolo che l’imputato sia indotto ad incolparsi falsamente. Il rischio che imputati innocenti si dichiarino colpevoli è una realtà; ciò può essere un portato della discrezionalità dell’azione penale e dal modo in cui il prosecutor esercita il suo potere di iniziativa. Questi, in ragione della sua estrazione politica, è stretto tra la necessità di amministrare il gran carico di lavoro con la massima rapidità ed il minimo dispendio di energie e quella, di soddisfare la pubblica aspirazione ad un’ampia repressione del crimine. Egli ha «interesse a fare mostra di una “good bettling average”, cioè di un alto volume di condanne, proiettando sul corpo elettorale l’immagine dell’invincibile crimefighter252». In questa direzione si spiega la prassi dell’organo dell’accusa di far ricorso al c.d. horizontal overcharging, cioè di aumentare il numero delle accuse, ovvero al c.d vertical overcharging, cioè di “sovraccaricare” l’imputazione sotto il profilo della gravità, al fine di indurre l’imputato a dichiararsi colpevole e dunque negoziare. Dunque a fronte di questa situazione ci si chiede se ed in che misura il giudice può partecipare alle trattative tra le parti; e se ed in quale misura il giudice possa sindacare l’intervenuta intesa tra le parti. Alla prima domanda molti autori253 rispondono che il diretto coinvolgimento del giudice nel plea bargaining finisce per spingerlo a sostituirsi al prosecutor e dunque egli non debba “patteggiare” direttamente con la difesa. Secondo questi, il giudice dovrebbe lasciare libere le parti di trovare un accordo, o al massimo assumere un ruolo di “negotiator” (mediatore) tra le diverse posizioni. Altri criticano un intervento diretto del giudice nella procedura, in quanto sostengono che questi si faccia guidare da considerazioni di opportunità piuttosto che da esigenze di giustizia, cioè dall’intento di sfoltire il carico di lavoro giudiziario. Altri sono contrari ad un coinvolgimento attivo del judge nella mediazione per ragioni attinenti all’imparzialità dello stesso. Egli, infatti, assumendo un ruolo attivo ai fini della mediazione, rischia di essere coinvolto

252

Così GAMBINI MUSSO R., “Il processo penale statunitense”, cit., pag. 55. BROWN J., “Meriti e limiti del patteggiamento”, in “Il processo penale negli Stati Uniti d’America”, cit., pag.135 richiama ALSCHULER, “Trial judge’s role in plea bargainig, in “Columbia Law Review “, 1976.

253

86


personalmente nella causa; ed eventualmente deluso dal fatto che non siano fissati i termini dell’accordo secondo quanto da lui prospettato, il giudice potrà infliggergli una pena eccessivamente severa, qualora nel dibattimento venga accertata la sua responsabilità. Per quanto riguarda, invece, la possibilità per il giudice di sindacare l’avvenuta intesa occorre effettuare una serie di osservazioni. Sono pochi i casi in cui i giudici rifiutano di dare approvazione all’accordo raggiunto tra le parti. Ciò avviene quando si ritenga che l’utilizzo dell’istituto comporti l’applicazione di una pena troppo mite per le parti, che non soddisfa le esigenze di difesa sociale. Nel caso in cui il giudice respinga il patteggiamento, all’imputato sono offerte due possibilità: egli può revocare il guilty plea e la stessa non può essere usata contro di lui come confessione o ammissione di responsabilità, oppure può decidere di presentarsi al giudice senza ritirare la sua dichiarazione di colpevolezza. Vi sono problemi pratici, che contribuiscono a far sì che il giudice raramente rifiuti il plea bargaining. Manca qui un fascicolo d’ufficio pari a quello che si trova nei sistemi continentali: il judge statutinitense non conosce i fatti del caso concreto così bene come li conoscono l’accusa e la difesa. Questa circostanza rende assai raro che vi sia il rifiuto del plea bargaining da parte dell’organo giudicante254. Tuttavia occorre sottolineare come il grado di coinvolgimento del giudice nella procedura varia a seconda degli ordinamenti. Tutti gli stati che hanno disciplinato legislativamente l’istituto prevedono la possibilità per il giudice di effettuare un controllo circa i contenuti dell’accordo, prima che l’imputato sia chiamato ad esprimersi in ordine al fondamento dell’accusa. Generalmente è il prosecutor a presentarsi in udienza per formulare le sue proposte, ma il giudice prima di decidere se approvare o meno l’agreement, chiede al probation officer di prestare un rapporto sulla personalità dell’imputato e sulle circostanze del delitto. Per i reati meno gravi il giudice, di solito, non richiede il probation report ed irroga la sanzione senza alcuna indagine se ritiene che il bargaining deve essere approvato. Per quanto riguarda poi l’effettiva partecipazione del giudice alle trattative la maggior parte degli stati che hanno provveduto ad una disciplina legislativa dell’istituto è divisa tra la tendenza a vietarla espressamente e l’orientamento che tende a rimanere neutrale sul punto, non disciplinandolo. Solo alcuni stati tra cui l’Illinois, il Vermont e la North Carolina, autorizzano espressamente l’intervento del giudice nel corso della trattativa. Le leggi dell’Illinois consentono al magistrato di svolgere un ruolo attivo, ma gli precludono il

254

PIZZI W.T. “"A perfect storm: prosecutorial discretion in the United States", in “The prosecutor in the transnational prospective” a cura di WADE M. e LUNA E., Oxford, 2012. Traduzione italiana MONTAGNA M., “Una tempesta perfetta: la discrezionalità del prosecutor negli Stati Uniti d’America”, in “Archivio penale, 2012, pag. 572.

87


potere di dare avvio al patteggiamento. La North Carolina è l’unico stato che riconosce ampie facoltà al giudice, autorizzandone la partecipazione in qualsiasi fase della procedura, e sancendo espressamente il suo potere di intervenire anche nella discussione preliminare tra accusa e difesa. In definitiva, spesso, il giudice finisce per svolgere un «controllo meramente notarile255». Però se è vero che la normativa federale vieta decisamente la partecipazione del giudice nella fase di formazione dell’accordo, occorre osservare come le più recenti standards 256 dell’American Bar Association (A.B.A)257, capovolgendo l’orientamento precedente, riconoscono al giudice un ruolo più dinamico, consentendogli di presiedere come moderatore alle sessioni negoziali, di indicare l’intesa più congrua qualora le parti, ne facciano richiesta, ovvero di proporre la conclusione di un accordo quando la stessa non è presa in considerazione. Il ruolo del giudice continua ad essere ancora oggi marginale nella procedura di plea bargaining, in quanto si rileva il fatto che le corti sono molto restie a svolgere un ruolo di veri e propri “patteggianti”. Ciò è dovuto anche al tradizionale rifiuto del giudice statunitense di svestirsi della terzietà.

255

Così GAMBINI MUSSO R., “Il processo penale statunitense”, cit., pag. 59. Gli standards dell’American Bar Association sono «delle direttive nelle quali sono espressi gli orientamenti dell’Association sul modo in cui il sistema penale dovrebbe trovare attuazione e sono frequentemente citati dai giudici nelle sentenze sebbene non abbiano valore di legge.» FALSGRAF W. “Iniziative ed attività delle associazioni forensi nel settore della giustizia penale”, in “Il processo penale negli Stati Uniti d’America”, cit., pag.41 257 L’American Bar Association (A.B.A.) è la più grande associazione, ad iscrizione facoltativa, costituita a livello federale tra professioni legali negli Sati Uniti (giudici, avvocati, rappresentanti dell’accusa, professori di diritto, avvocati dello stato). Per un ulteriore approfondimento sul fenomeno delle A.B.A. FALSGRAF W. “Iniziative ed attività delle associazioni forensi nel settore della giustizia penale”, in “Il processo penale negli Stati Uniti d’America”, cit., pagg.37-46. 256

88


CONCLUSIONI

Le motivazioni addotte per giustificare il gran successo dell’istituto del plea bargaining sono molteplici. Innanzitutto vi sono numerose argomentazioni di ordine pratico e giuridico. Indicazioni importanti in tal senso si trovano nella sentenza della Suprema Corte, che ha deciso il caso Santobello v. New York258 dalla quale si ricava che «la procedura di plea bargaining rappresenta una componente essenziale dell’amministrazione della giustizia. Il procedimento deve essere incoraggiato, tenuto conto, che se tutte le accuse dovessero essere portate al dibattimento, gli stati e lo stesso governo federale dovrebbero estendere all’infinito l’organico dei giudici ed il numero di corti». Dunque la Corte, in questa sentenza, intende evidenziare l’importanza del plea bargaining ai fini dello sfoltimento del carico di lavoro giudiziario. Il ricorso alla procedura viene ad essere incentivato in quanto consente una maggiore rapidità nella definizione dei processi penali: il plea process, consentendo di pervenire ad una condanna senza dibattimento, rende più spedita ed efficiente la giustizia penale, facendo sì che il giudizio venga riservato solo a quei casi in cui la responsabilità penale di un soggetto debba essere accertata dai giudici o da una giuria. Comporta anche una sorta di protezione della società, in quanto abbrevia i tempi tra accusa e sentenza; consente inoltre di dare una rapida risposta alle esigenze di giustizia. Secondo autorevole dottrina259 uno dei maggiori vantaggi della procedura è quello di limitare per le parti i rischi connessi al dibattimento. Il plea agreement può essere un “giusto compromesso”: nella stragrande maggioranza dei casi nessuno può essere certo di quello che sarà l’esito del giudizio. Al prosecutor, infatti, può accadere di vedere demolita l’accusa nel corso del dibattimento; l’imputato può andare incontro al pericolo della giuria. Il plea consente all’imputato di partecipare alla messa a punto di misure di controllo nei suoi confronti, così evitando di essere assoggettato ad una

258

Santobello v. New York 404 U.S. 259. Si è utilizzata la traduzione della sentenza compiuta da BROWN J., “Meriti e limiti del patteggiamento”, in “Il processo penale negli Stati Uniti d’America”, cit., pag.144. 259 BROWN J., “Meriti e limiti del patteggiamento”, in “Il processo penale negli Stati Uniti d’America”, cit., pag.148.

89


pena arbitraria, modellata su schemi di un’astratta legalità. Tramite il plea bargaining si permette così al defendant di “partecipare” alla procedura finalizzata alla determinazione della pena. Il plea bargaining, consentendo di svincolare la sanzione dal fatto commesso, permette di adattare la pena alle esigenze di rieducazione del singolo colpevole: sotto questo profilo viene avallato da prosecutors e giudici260. Questa prospettiva coincide con la nascita negli ultimi anni del XVIII secolo del movimento della «new penology» mirante a conseguire la rieducazione del condannato ricorrendo ad un trattamento individualizzato cui deve far da supporto un sentencing system molto flessibile. Molteplici sono anche le critiche all’istituto. Si sostiene, infatti, che il plea bargaining sia la causa di attenuazione del rigore sanzionatorio, che pregiudica tanto le esigenze della prevenzione generale261, quanto quelle della prevenzione speciale262. Parte della dottrina sostiene che con questa procedura si realizzi una forma di “degradazione” della giustizia penale nordamericana in quanto costringe giudici, rappresentanti

260

FANCHIOTTI V., “Origini e sviluppo della «giustizia contrattata» nell’ordinamento statunitense”, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 1984, fasc.1, cit., pag.73. 261 Per un’accurata analisi sulla funzione di prevenzione generale PALAZZO F., “Corso di diritto penale”, Torino,2016 pagg. 16 ess. La funzione di prevenzione generale, insieme alla connessa funzione di intimidazione speciale, costituisce storicamente il principale scopo a cui assolvono le pene. Si distingue tra funzione di prevenzione generale c.d. “negativa” (o mediante intimidazione) e funzione di prevenzione generale c.d. “positiva” (o di tipo educativo). Secondo la teoria sulla prevenzione generale c.d. “negativa” «la pena consiste in una “sofferenza” che viene minacciata dal legislatore nei confronti della generalità dei consociati come conseguenza necessaria dell’illecito a carico di chi lo abbia realizzato in concreto, così da dissuadere i consociati dalla commissione degli illeciti. L’inflizione e l’esecuzione della pena costituiscono un momento irrinunciabile al fine di mantenere efficacia intimidativa generale alla minaccia della pena». Invece, secondo la teoria sulla prevenzione generale c.d. “positiva”, «la comminatoria legislativa della pena, accanto all’effetto intimidatorio, esplica un effetto di accreditamento sociale dei valori tutelati mediante la formale stigmatizzazione dei comportamenti criminosi, così da favorire l’astensione spontanea dai comportamenti inosservanti». 262 Per un’accurata analisi sulla funzione di prevenzione speciale PALAZZO F., “Corso di diritto penale”, cit., pagg. 33 ess. La teoria della prevenzione speciale trova nella rieducazione e nell’espiazione le sue espressioni più significative. «Rieducazione ed espiazione si pongono una finalità di concreto “miglioramento” della personalità del condannato e dunque implicano che il contenuto afflittivo della pena si conformi in rapporto a tale scopo tenendo decisivo conto di quali possono essere le conseguenze di questo o di quell’altro contenuto afflittivo sulla concreta personalità del soggetto in carne ed ossa. “Prevenzione”, perché mirano al “miglioramento” della personalità del reo e si pongono così l’obiettivo della commissione di futuri reati. “Speciale”, perché sia la rieducazione che l’emenda hanno come destinatario il singolo soggetto condannato».

90


dell’accusa e difensori a stravolgere il proprio ruolo, senza peraltro riuscire a tutelare in modo corretto né gli interessi della società né i diritti dell’imputato.263 Il procedimento presenta un ulteriore aspetto critico consistente nell’incapacità di questo istituto di soddisfare le esigenze delle vittime e dei testimoni. Si evidenzia come nel processo penale statunitense, la figura della persona offesa del reato viene attribuito un ruolo marginale, a partire dalla fase iniziale del processo. Il danneggiato infatti non può assumere la posizione di parte nel processo penale: il principio di separazione della giurisdizione impedisce che l’azione civile per il risarcimento del danno derivante da reato possa essere esercitata in sede penale. Nell’ordinamento americano la sostanziale emarginazione della persona della vittima deriva dal fatto il bene giuridico leso dalla commissione di un reato è l’offesa ad un interesse proprio degli Stati Uniti, e non direttamente un bene giuridico appartenente al singolo264.

263

BROWN J., “Meriti e limiti del patteggiamento”, in “Il processo penale negli Stati Uniti d’America”, cit., pag.141 264 GAMBINI MUSSO R., “Il processo penale statunitense”, cit. pag.46.

91


BIBLIOGRAFIA

ALSCHULSER A. «Trial judge's role in plea bargaining.» in "Columbia Law Review", 1976. AMODIO, E. «Giustizia penale negoziata e ragionevole durata del processo.» in "Cassazione penale", 2006. ARRU, A. «L'applicazione della pena su richiesta delle parti.» in "Trattato di procedura penale" , di Spangher G., Milano, 2008. BALLONI E., C. VIANO. «IV Congresso mondiale di vittimologia, Atti della giornata bolognese.» Bologna, 1986. BETTOL, R. «Riflessioni aperte dalla legge in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti.» in "Diritto penale processuale", 2004. BONINI, V. «Imputato e pubblico ministero nella scelta del rito "patteggiato".» in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1997. BORTOLOTTO, T. «L'educatore penitenziario. compiti, competenze e iter formativo.» in "Proposta per un'innovazione.", Milano, 2002. BOVIO, C. «Il punto di vista del difensore.» in "Patteggiamento "allargato" e giustizia penale", di F. PERONI. Torino, 2004. BROWN, J. «Meriti e limiti del patteggiamento.» in "Il processo penale negli Stati Uniti d'America", di E. AMODIO e M. CHERIF BASSIOUNI. Napoli, 1988. CALLARI, F. «L'applicazione della pena su richiesta delle parti: uno "speciale" paradigma processuale.» in "Archivio penale", 2012. CAMON, A. «Disegno di legge spazzacorrotti e processo penale. Osservazioni di prima lettura.» in "Archivio penale", 2018. CHERIF BASSIOUNI M. «Lineamenti del processo penale.» in "Il processo penale negli Stati Uniti d'America", di E. AMODIO e M. CHERIF BASSIOUNI. Napoli, 1988. CONFALONIERI, A. «Volontà delle parti e controlli del giudice nel patteggiamento.» in "Cassazione penale", 1994. CORDERO, F. Procedura penale, Milano, 2012. DIDEDDA, E. Il consenso delle parti nel processo penale, Padova, 2002.

92


FALSGRAF, W. «Iniziative ed attività delle associazioni forensi nel settore della giustizia penale.» in "Il processo penale negli Stati Uniti d'America", di E. AMODIO e M. CHERIF BASSIOUNI. Napoli, 1988. FANCHIOTTI, V. «Il patteggiamento allargato nella prospettiva comparata.» in Patteggiamento allargato e sistema penale, di F. Peroni. Torino, 2004. FANCHIOTTI, V. Lineamenti del processo penale statunitense. Torino, 1987. FANCHIOTTI, V. «Origini e sviluppo della "giustizia contrattata" nell'ordinamento statunitense.» in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1984. FANCHIOTTI, V. «Riflessioni sulla giustizia penale in U.S.A.» L'indice penale, 2007. FANCHIOTTI, V. «Spunti per un dibattito sul plea bargaining.» In Il processo penale negli Stati Uniti d'America, di E. Amodio - M. Cherif Bassiouni. Napoli, 1988. FERRAJOLI, L. «Crisi della legalità e diritto penale minimo.» Critica del diritto, 2001. FIANDACA, G. «Pena "patteggiata" e principio rieducativo: un arduo compromesso tra logica di parte e controllo giudiziale.» Foro italiano, 1990. FIORIO, C. «La strategia autoritativa.» In Corso di procedura penale, di M. MONTAGNA, R. FONTI C. FIORIO. Milano, 2019. FORST, BOLAND E., «The prevalence of guilty pleas.» in "Bureau of justice statistics", 1984. G. DOLCINI, E. MARINUCCI. «Diritto penale minimo e nuove forme di criminalità.» in "Rivista italiaa di diritto e procedura penale", 1999. GALANTINI, N. «Il principio di obbligatorietà dell'azione penale tra interesse alla persecuzione e interesse all'efficienza giudiziaria.» in "Diritto penale contemporaneo", 2019. GAMBINI MUSSO R., Diritto di difesa e difensore negli U.S.A., Torino, 1999. GAMBINI MUSSO R., Il processo penale statunitense. ,Torino, 2009. GIALUZ, M. «Applicazione della pena su richiesta delle parti.» in "Enciclopedia del diritto", 2008.

93


GIFFORD. «Meaningful reform of plea bargaining: the control of prosecutorial discretion.» in "University of Illinois Law Review", 1983. GIUNTA, F. «Qualche appunto su plea bargaining, funzioni della pena e categorie penalistiche.» in "Cassazione penale", 1987. KERCHOVE, TULKENS-VAN DE. «La justice pénale: justice imposée, justice participative, justice consensuelle ou justice negociée.» in "Revue droit pénal et criminal", 1996. LAROCCA, N. «La scelta del rito da parte dell'imputato: sopravveninenze e vizi della volontà.» in "Archivio penale", 2012. LATTANZI, G. «Giudizio abbreviato e patteggiamento.» in "Cassazione penale", 1988. LORUSSO, S. «Arriva dalla Corte Costituzionale il placet alla giurisdizione penale "acognitiva".» in "Diritto penale e processo", 2005. LUDOVICI, L. «Applicazione delle pena su richiesta delle parti: le modifiche apportate dalla legge "spazzacorrotti".» in "Diritto penale e processo", 2019. MADDALENA, M. «Il punto di vista del pubblico ministero.» in Patteggiamento "allargato" e giustizia penale, di F. PERONI. Torino, 2004. MANNOZZI, G. Razionalità e giustizia nella commisurazione della pena, il just desert model e la riforma del sentencing nordamericano. Padova, 1996. MARAFIOTI, L. «Giustizia penale negoziata e verità processuale selettiva.» in "Cassazione penale", 2013: 2497 e ss. MARCOLINI, S. Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale negoziata. Milano, 2005. MAZZA, O. «I protagonisti del processo.» in "Procedura penale", di G. SPANGHER ed altri. Milano, 2017. MONTAGNA, M. «Il pubblico ministero negli Stati Uniti d'America.» in "Il giusto processo", 1992. MONTAGNA, M. «Una tempesta perfetta: la discrezionalità del prosecutor negli Stati Uniti d'America.» Archivio penale, 2012. NAPPI, A. Guida al codice di procedura penale. Milano, 2007. ORLANDI, R. «I diritti della vittima in particolari definzioni del rito.» in "Vittime di reato e sistema penale. La ricerca di nuovi equilibri", di H. Belluta M. Bargis. Torino, 2017.

94


ORLANDI, R. «L'insostenibile lunghezza del processo penale e le sorti progressive dei riti speciali.» in "Rivista di diritto processuale", 2012. PAGLIARO, A. «Riflessi del nuovo processo sul diritto penale sostanziale.» in "Rivista italiana diritto e procedura penale", 1990. PALAZZO, D. «Il truglio.» Giustizia e Costituzione, 1981. PALAZZO, F. Corso di diritto penale. Torino, 2016. PERONI, F. «La peripezia del patteggiamento in un trentennio di sperimentazione.» in "Archivio penale", 2019. PISANI, V. «Il diritto di difendersi negoziando.» in "Indice penale", 1989. PIZIALI, G. «Pluralità dei riti e giudice unico.» in "Rivista italiana diritto e procedura penale", 2000 QUAGLIARINI, C. «Procedimenti speciali e tutela del danneggiato del reato.» in "Cassazione penale", 1991. RICCIO, G. «Presentazione.» In Patteggiamento allargato e sistema penale, di A. De Caro. Milano, 2004. RISICATO, L. «I riflessi sostanziali del c.d. patteggiamento allargato: l'irriducibile attrito tra giustizia penal negoziale, funzioni della pena e tuela della vittima.» in "La legislazione penale", 2004. SCELLA, A. Patteggiamento "allargato" nel quadto della programmata espansione della giustizia negoziale. Torino, 2004. STORELLI, F. I riti alternativi nel processo penale alla luce della più recente giurisprudenza. Milano, 2007. TRAPELLA, F. «Il patteggiamento nei giudizi per reati corruttivi .» in "Processo penale e giustizia", 2016. VENTUROLI, M. La vittima nel sistema penale: dall'oblio al protagonismo. Napoli, 2015. VIGONI, D. L'applicazione della pena su richiesta delle parti. Milano, 2000. VIGONI, D. «L'applicazione della pena su richiesta delle parti.» in "I procedimenti speciali in materia penale", di Pisani M. Milano, 2003. VISCOMI, G. «"Spazzacorrotti", cosa cambia?» Catanzaro, 2019. VITTORINI, S. «La richiesta di patteggiamento come espressione di un nolo contendere.» in "Cassazione penale", 1992.

95


Copyright©2020 by Istituto Italiano Design S.r.l. (IID S.r.l.) Editore Stampa – Press Up, IT10922761001, V. Caduti Lavoro, 01036 Vi-

96


Istituto Italiano Design è dal 1999 un istituto accreditato per la formazione professionale artistica a Perugia e dal 2019 Editore senza scopo di lucro ai soli fini di divulgazione culturale. L’editoria costituisce un’attività marginale non principale come da Statuto Sociale.

AnnaMaria Russo Fondatrice IID Srl

97


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.