The Design Magazine

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Registrazione presso il Tribunale di Perugia n. 1720 del 2020

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PREFAZIONE

INTERVISTE

BRAND PITT

Andrea Margaritelli: tra design, storia e molto altro

Quando un logo diventa un’icona: la case history di McDonald’s

A cura di Nicola Palumbo

A cura di Elisabetta Enrietti

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PROGETTI IID

THE TEA JAM

Don't eat me di Satya Ranghiasci

The Dark Side of the Moon A cura di Simone Fucchi, Eleonora Baiocco, Giacomo Rosiello

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WINE DESIGN

ARTE

IL DESIGN DELLE EMOZIONI

Decugnano dei Barbi. Profumo di vino A cura di Elena Di Vaia

Le Stratificazioni dell’Arte A cura di Alessandra Capponi, Debora Fanini, Elisa Pietrelli

L’Associazione Prefazione: Districarsi in una società gassosa A cura di Giulia Radi

Visibilità invisibile – Autoscatti per costruire la propria identità A cura di Francesca Veccia

Popolarità a cinque stelle – Sono ciò che gradite di me A cura di Dario Maggipinto

Nell’era del non pensiero – Il fenomeno dell’odio online A cura di Emanuela Gamba

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The Design Magazine (TDM) nasce dall’obiettivo dell’Istituto Italiano Design di “divulgare la cultura del progetto” raccontando storie di personalità ispiranti del mondo dell’arte e della cultura. TDM parte da un tributo alla scuola Bauhaus, a cui dedica la copertina, e si propone di raccontare, con toni leggeri, le storie di innovatori del calibro di Castiglioni e Alessi, senza però tralasciare i piccoli artigiani locali, imprescindibili per la valorizzazione del territorio assieme aquelle aziende che su di esso hanno permesso la nascita di un tessuto produttivo e imprenditoriale. La prima parte del Magazine viene per la maggior parte estratta dai contenuti multimediali di Radio Design, web radio che dal 2018 dà voce agli studenti dell’Istituto guidati dallo Speaker e Conduttore radiofonico, con esperienza decennale, Prof. Nicola Palumbo. Interviste e rubriche condotte da questi giovanissimi professionisti, come “Brand Pitt”, “Wine Design” e “The Tea-Jam”,gridano con entusiasmo che bellezza e design contaminano ogni cosa. Ad esempio, si potrebbero esplorare le infinite declinazioni grafiche che possono vestire l’etichetta o il packaging di una © Alessandra Perna bottiglia di vino o della discografia musicale. Gli aneddoti impregnati di Design sono davvero infiniti! Dalle innovazioni nella progettazione a quelle del pensiero, come la nuova disciplina della Brand Identiy, oramai indispensabile in ogni settore, senzatrascurare la “madre” degli applicativi grafici: l’Arte Visiva,da cui tutto nasce. Chi meglio dei critici potrebbe condurci in questo mondo di colori, figure e stili diversi? Questa prima parte termina con piccoli spunti progettuali: le iniziative dei giovanissimi designer dell’Istituto, che con la loro creatività...“colorano i sensi”! La secondaparte assumeinvece un taglio introspettivo, emotivo, emozionale... Con gli psicologi della Associazione Il Sigaro di Freud si esplorano i meccanismi di funzionamento della creatività e della personalità, quelli che portano, in fin dei conti, a realizzare quella “cultura del progetto” che abbiamo tanto a cuore. Con il miglior proposito di portare un po’ di creatività, bellezza e...design nella vostra mente...vi auguriamo una buona lettura! AnnaMaria Russo Presidente IID _______________________________________________________________________________

IID

L’Istituto Italiano Design (di seguito “IID” o “Istituto”) è, da oltre 20 anni, un punto di riferimento per la formazione nei settori del design, delle arti e della moda. Guardando da vicino ricerca, tecnologia e innovazione di prodotto, IID offre una proposta di studio altamente qualificata. Favorendo un approccio interdisciplinare, IID combina teoria e pratica, aspetti culturali e tecnici, unendo alle le lezioni teoriche ad esercitazioni pratiche ed attività laboratoriali. L’obiettivo dei corsi è la acquisizione di un metodo di progettazione in grado di soddisfare sia le esigenzedel cliente sia quelle del mercato, stimolando la formazione culturale e critica necessaria per interpretare il gusto del tempo ed anticipare le tendenze. Gli istruttori sono professionisti esperti, preparati con credenziali culturali ed educative oltre ad avere il valore aggiunto del know-how della professione, riuscendo così a garantire una formazione costantemente aggiornata e creando una rete di collegamento con le aziende del settore in vista di un job placement. La connessione tra diverse esperienze e competenze professionali, la profonda relazione con la cultura del progetto e il contatto diretto con il mondo industriale delle imprese sono gli elementi che consentonoa IID di offrire una formazione completa in linea con le esigenze del mercato del lavoro. La visione e la missione di IID è quella di preparare i futuri professionisti al fine di dare loro la possibilità di consegnare progetti reali attraverso il metodo pratico di progettazione.

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Radio Design, web-radio accademica di IID fondata nel 2018 (www.radiodesign.it)

studenti di IID al lavoro 7


Gruppo lavori “comunicazione” Jacopo Cossater Giornalista enogastronomico, è Senior Editor di Intravino e collabora con Linkiesta.

Luca Garosi Giornalista professionista e Caporedattore Rai. Caporedattore Rainews24 (in Rai da 20 anni). Docente di Strategie di Comunicazione in Rete (Università di Perugia). Silvia Angelici Giornalista professionista, con esperienza pluriennale per La Nazione sezione Cultura, Arte, Spettacolo e Attualità.

Comitato Scientifico – Area Scientifica Ing. Walter Risolo Ing. Andrea Lenterna Ing. Victor Pawelski

Comitato Scientifico– Area Giuridica Avv. Benedetta Risolo Avv. Gioia Caldarelli Avv. Damiano Marinelli Adv. Erlind Kodhelaj

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Valentina Scarponi Giornalista pubblicista, collabora con La Nazione e PerugiaToday - sezione cronaca giudiziaria.

Comitato Scientifico – Area Comunicazione Dott. JacopoCossater Dott. Luca Garosi Dott.ssa Silvia Angelici Dott.ssa Valentina Scarponi


Gruppo lavori “artistico sociale”

Cristiana Pegoraro Pianista internazionale e direttore artistico Narnia Festival. Diplomata al Mozarteum di Salisburgo, alla Hochschule der Künste di Berlino e alla Manhattan School of Music di New York.

Carlo Pizzichini Professore della Cattedra di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, precedentemente presso ABA Firenze.

Alejandra Chena Responsabile dell’Ufficio Internazionale Universidad de Rosario, Argentina. Consulente indipendente in gestione delle relazioni internazionali e cooperazione e gestione dello sviluppo.

Comitato Scientifico– Area Culturale Artistica Prof. Carlo Pizzichini Dott.ssa Cristiana Pegoraro Arch. Vittorio Lauro

Comitato Scientifico – Area SocioPsicologica Dr. Alejandra Noemí Chena Dott.ssa Giulia Radi

Vittorio Lauro Archeologo Leader Rilievi Progetto Be-Archeo Okayama, Giappone con esperienza decennale, Direttore I.R.I.A.E. supervisore di diversi progetti archeologici internazionali.

________________________ Ogni edizione di “The Design Magazine” è approvata con delibera del Comitato Scientifico dell’Istituto Italiano Design. ________________________ Contributor Editoriale: Amida Agalliu Grafica: Diana Magri Uno speciale ringraziamento a Francesco Magi

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INTERVISTA

Andrea Margaritelli

Tra design, storia e molto altro

A cura di Nicola Palumbo

L’anno scorso Nicola Palumbo, docente di web marketing dell’Istituto Italiano di Design, ha intervistato su Radio Design Andrea Margaritelli, il responsabileInnovazionee Design per Listone Giordano, importantissima realtà nella produzione di parquet. Gli argomenti trattati sono molto diversi tra loro: Il salone del Mobile di Milano (tranquilli, nessuno strappo al lock-down! Ci riferiamo al festival del 2019), una ricerca di storia, una fondazioneno-profit sono solo alcuni esempi. Tu ti occupi di ricerca, sviluppo, design e innovazioneper Listone Giordano e in più sei anche il presidente della Fondazione Giordano, di cosa si occupa questa fondazione? La Fondazione Guglielmo Giordano è un’istituzione no profit che ha ormai una lunga storia. È stata fondata nel 2000 e si intitola alla memoria di una personalità straordinaria nel panorama culturale italiano, soprattutto nel mondo del legno. Guglielmo Giordano è stato un tecnologo di fama internazionale che univa una profonda conoscenza della tecnologia del legno a una grande passione per il bello, per l’arte, cosa immaginabile siccome viveva in una città come Firenze. A lui abbiamo dedicato la fondazione, che si occupa di legno negli impieghi più diversi, come valorizzazione del materiale forestale, gestione forestale sostenibile o manifestazione dell’architettura online. Poi ci siamo trovati impegnati anche in eventi culturali non necessariamente legati al legno, eventi che ci hanno visti unire gli sforzi insieme ad istituti molto prestigiosi, come l’Associazione MetaMorfosi e la Fondazione Casa Buonarroti. Abbiamo condiviso esperienze significative nella promozione di momenti d’arte legati ai grandi talenti italiani del passato e in alcuni casi del presente, quindi Raffaello, Leonardo Da Vinci e naturalmente Pinturicchio. La Fondazioneci ha molto stimolato in termini di ricerca, ci ha portato anche ad esplorare le manifestazioni contemporanee della genialità e da lì è stato molto breve il passo per toccare anche gli ambiti dell’arte contemporanea e del design, che poi in molti casi hanno delle contiguità.

Sappiamo pure che tu hai un amore per la cultura e l’arte in generalee hai scritto anche un libro, “Tadhea, la figlia segreta di Carlo V”. Di cosa parla? Beh, il libro è nato da un piccolo elemento del caso: il caso gioca sempre un ruolo importante nelle piccole e nelle grandi scoperte. In questa situazione si tratta di una scoperta piccola ma curiosa: è la storia di una bambina nata da una relazione non così conosciuta (e soprattutto non ancora consolidata o creduta da alcuni storici) di una delle più grandi personalità dell’Occidente, Carlo V, capo di un regno in cui non tramontava mai il sole. Egli ebbe una relazione con una bellissima donna perugina e da questa relazione nacque una figlia. Ciò avveniva nei primi anni del ‘500. Noi della fondazione abbiamo raccontato di questa storia curiosa, che è anche un itinerario alla scoperta della nostra Umbria. Parte vicino a Perugia, a Collazzone, dove la bimba viene nascosta nell’ultimo dei posti dove ci si aspetterebbe di trovare una principessa figlia di un grande imperatore. Poi la storia si sposta a Montefalco fino ad approdare a Roma e incontrare personaggi di grande fascino, come Giulio II e i grandi artisti della Roma del Rinascimento, e fatti che abbiamo studiato nei libri di storia, ad esempio il Sacco di Roma del 1527. Tutto ciò lo troviamo sullo sfondo di questa storia, che ha la narrativa di un romanzo ma in realtà è assolutamente documentata; a testimonianza che a volte la realtà ha la capacità di superare per fantasia il più straordinario dei romanzi. 1 0


Ma c’è stato un documento in particolare da cui hai tratto l’idea?

sull’aspetto caratteriale di questa donna, che 500 anni fa si esprime scrivendo al fratellastro minore, Felipe II (che dopo l’abdicazione di Carlo V era diventato Re di Spagna) chiamandolo con grande reverenza “Sua Maestà Cattolica” e si firma “minima, indegna e inutilissima serva Tadhea” implorando come sola e unica concezione la verità. Dice “non desidero nulla, ricchezze, onori, gloria, regni, mi accontento di mangiare erba ogni giorno ma una cosa desidero che prima o poi avvenga: che la verità possa emergere”. E gli ricorda che la verità ha una capacità di galleggiare straordinaria. Ci sono voluti 494 anni e 183 giorni perché ciò avvenisse, però si è realizzato ed è stato un piacere per la nostra fondazione, anche se questi non sono gli studi tipici della nostra fondazione.

Sì, il filo rosso iniziale nasce qui a Perugia, nell’archivio di Stato della città. Poche righe scritte a fine ‘800 in cui si segnalava l’ipotesi, da uno spoglio di documenti fatto a Roma, che Carlo V avesse avuto una relazione con una donna perugina. Io trovai sorprendente questo fatto perché sono un appassionato di storia locale, non l’avevo mai intercettato prima e allora sono andato alla ricerca di qualche precedente, non trovandolo. Ho pensato inizialmente che fosse una fantasia, d’altronde capita spesso nelle citazioni di storia locale di cercare di rendere più gloriose le proprie origini. In realtà andando alla ricerca dell’altro capo del filo siamo risaliti ad alcuni documenti di archivistica spagnola della metà dell’‘800 e da lì all’archivio generale di Simancas, che è un archivio straordinario anche dal punto di vista architettonico e di collocazione, in cui sono conservati gran parte dei documenti della Corona di Castiglia. Nel maggio del 2017 ho avuto l’opportunità di visitarlo e la fortuna che i riferimenti archivistici che avevo in mano mi abbiano condotto rapidamente alla soluzione del giallo: una cartella in cui sono contenuti dei documenti inequivocabili in cui l’imperatore scrive ad Orsolina Della Penna, bellissima donna perugina. Le scrive in francese, con piccole parti in italiano, quelle dove vuole essere assolutamente compreso da lei che evidentemente non parlava il francese, e dice “nostra figlia Tadhea” in due distinte lettere firmate. Il suo autografo toglie ogni dubbio su questa curiosa paternità, che porta una principessa d’Asburgo a essere strettamente legata alla nostra regione.

Qualche storico ti ha contattato per questo libro per farti i complimenti oppure per approfondire l’argomento? Ha suscitato molto interesse, c’è stata un’apertura generale da parte di storici professionisti. Io sono un semplice appassionato di storia, la fondazione ha delle competenze differenti dalla storiografia. Però appena la storia è stata individuata abbiamo aperto la collaborazione a storici professionisti. In questo momento c’è un team di lavoro che sta lavorando a questo argomento. Maria Grazia Nico Ottaviani ha avuto la generosità di fare la prefazione di questa piccola pubblicazione iniziale, mentre con Sonia Merli e altri collaboratori stiamo cercando di tracciare una storia e lasciare un corredo scientifico inoppugnabile con tutte le citazioni e i riferimenti bibliografici, che è quello che una ricerca storica di qualità deve fornire. Noi ci siamo impegnati a divulgarla e oggi esiste una voce su Wikipedia che ne parla. In qualche modo le abbiamo reso onore e forse esaudito quello che era il più grande desiderio di Tadhea.

Poi sappiamo che fine ha fatto questa Tadhea? Beh, la parte finale di questa storia ha una nota di malinconia, di tristezza se vogliamo, ma è anche un documento toccante

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Forse ci siamo un po’ dilungati sulla storia, che era molto interessante; ma noi siamo l’Istituto Italiano Design quindi parliamo di design. Si sta avvicinando il Salone del Mobile (ricordiamo che l’intervista è stata fatta nel 2019 n.d.r.) quindi ti chiedo, se ci puoi aggiornare su qualcosa, di anticiparci qualche novità che presenterà Listone Giordano.

geniale dimostrazione del Teorema di Pitagora a favore dei bambini: come si può spiegare a un bambino che due quadrati messi insieme possono farne ricavare un terzo? Non è così evidente e Perigal risolve questa problematica in maniera geniale. Paola Lenti parte da lì per creare un pavimento che ha innumerevoli composizioni, quindi è un tema di forma, di pattern di composizione. In più è presente la cifra stilistica di Paola Lenti sul colore, quindi è un pavimento che lavora molto sul tema della colorazione, dell’estetica, introducendo anche dei colori che non sono di consuetudine per un pavimento in legno: troveremo delle tonalità che riportano al mondo delle acque marine, molto singolari sui temi del blu e del verde, con il gusto che è riconosciuto al marchio Paola Lenti.

Volentieri Nicola. Tu sai che il Salone del Mobile è sempre una grande occasione, un momento che vede l’Italia protagonista di tutte le riflessioni in termini di progettazioni di interni ed è anche un momento di scambio sulla cultura della progettazione in genere. È un momento atteso e faticoso per tutti noi operatori e per chi, come noi, fa industria nel mondo dell’informazione. In quest’occasione Listone Giordano sarà protagonista dell’apertura di uno spazio molto singolare in una zona centrale di Milano, a San Babila, tra Santa Cecilia e San Damiano. Apriremo uno spazio che ha una caratteristica molto singolare: quella di essere uno spazio di promozione culturale, in cui l’anima della Fondazione Guglielmo Giordano si unisce a quella dell’azienda. Quindi ci sono rappresentazioni dei prodotti, è un luogo in cui Listone Giordano presenta il suo savoir faire nelle superfici in legno, però sarà anche un luogo che nei prossimi mesi e anni darà un contributo alla vita culturale di Milano anche quando i riflettori del Salone del Mobile saranno spenti. La progettazione dello spazio è prestigiosa, è quella di un grande designer, un grande architetto e, devo dire, ormai un amico della nostra azienda. Parlo di Michele De Lucchi, che ci degna veramente di un’attenzione speciale e ha realizzato per noi questo allestimento molto semplice e fatto per far emergere il luogo. L’architettura dello spazio ha una storia alle spalle estremamente curiosa, ci sono stati lì interventi di personalità come Lancia, Tomaso Buzzi, Giò Ponti. Quindi è un luogo che in qualche modo ha una sua sacralità e che torna a essere un luogo di cultura. Lo apriremo la settimana del Salone del Mobile poi continuerà la sua vita durante l’anno. In termini di novità del prodotto questo periodo è sempre l’occasione per fare sperimentazioni: la Design Week è un grande stimolo per l’innovazione delle aziende del settore. Se non ci fosse, credo che bisognerebbe inventarla. Quest’anno abbiamo diverse novità ma una su tutte è la presentazione, nella collezione Natural Genius, del prodotto Perigal, una nuova pavimentazione che porta la firma di Paola Lenti, che ha fatto un lavoro sulla geometria, sulla forma e sulla composizione con un senso molto interessante di origine dell’idea. Perigal prende il nome da un matematico che fece una

So che, oltre a Michele De Lucchi, avete collaborato anche con Patricia Urquiola e Daniele Lago. Sì, Natural Genius è una collezione ormai consolidata di Listone Giordano. Nasce come idea, come pensiero, nel lontano 2006, in un tempio unico che ricordiamo sempre con grande intensità, ossia il Solomon Guggenheim Museum di New York, dove in collaborazione con Umbria Jazz e la Regione Umbria realizzammo due eventi memorabili. Durante questi eventi abbiamo unito intorno alle due parole chiave Natural e Genius momenti di riflessione sul talento naturale, quindi ciò che l’uomo fa migliorando ciò che la natura ha già progettato molto bene. Lì parte Natural Genius come progetto naturale, poi si evolve e diventa una collezione che, come tu dicevi, ha visto cimentarsi molte personalità diverse del mondo del design: Michele De Lucchi, Matteo Nunziati, Daniele Lago, che appartiene a una generazione che ha un occhio diverso, Slide, ma anche, appunto, Patricia Urquiola, che ha introdotto un tema di grande femminilità nella progettazione di pavimenti in legno, Biscuit, con il quale in questo momento stiamo sviluppando un nuovo prodotto (ricordiamo che l’intervista è del 2019, n.d.r.) che presenteremo dopo il Salone del Mobile, e poi Matteo Thun. Sono tutte figure diverse con diverse esperienze, tutte con una grande passione per la materia legno, che hanno portato il loro occhio a interpretare un tema non facile: la pavimentazione, infatti, a differenza di un mobile, ha due dimensioni e non tre, quindi crea un vincolo in più al progettista. Non è facile introdurre novità in un materiale che esiste da sempre e in una superficie piana. È un tema che nella sua semplicità nasconde delle insidie e ciascuno di questi nomi l’ha affrontato molto bene e ha aperto una nuova via nell’innovazione dei pavimenti in legno. 1 2


Sono parole che tornano spesso: naturalezza e genio. Parliamo ora di questo documentario che è uscito su Sky Arte, “Genio e Naturalezza”.

Per chiudere: sei il nuovo presidente di IN/ ARCH (ricordiamo che l’intervista è del 2019, n.d.r.), c’è stato Guzzini e adesso c’è Andrea Margaritelli.

Sì, ci ha fatto un grande piacere il fatto che Sky Arte abbia accettato l’idea di dedicarci un capitolo significativo di una collana estremamente prestigiosa costituita dai capolavori di disegno industriale italiano, in cui sono già stati fotografati altri importanti brand italiani. L’Italia è conosciuta nel mondo per tante cose ma sicuramente oltre alla moda e al cibo, alla cultura e all’arte, figura anche la voce design. Quindi Listone Giordano è stato selezionato per essere protagonista di un documentario che dura 25 minuti il cui titolo, scelto da Sky Arte, è “Genio e Naturalezza”. Questo titolo parte da un gioco di parole perché in genere si dice “genio e sregolatezza” mentre in questo caso si ripete il concetto di ciò che ha già costruito la natura con il tocco dell’intelligenza innovativa del genere umano. Quindi non è solo talento naturale, non si può tradurre come genialità naturale come se sia una dote innata, un bernoccolo della genialità. Si scopre lavorando che la genialità ha magari una predisposizione ma è soprattutto il risultato di un grosso lavoro, di una grossa immersione culturale e di un grosso esercizio. C’è possibilità di sanare un apparente conflitto tra due parole che spesso accostate stridono tra loro: naturale e artificiale. In realtà Natural Genius li coniuga molto bene se trasformi artificiale in fatto ad arte: naturale e artificiale cozzano, naturale e fatto ad arte (che significa interpretato da quell’unione di cervello, cuore, mani, che è la base e la fine del design) sono due parole sulla stessa traiettoria, che possono unirsi e fare cose molto belle insieme. Natural Genius ricerca un po’ questa unione.

Sì, è stata una proposta che mi è stata rivolta inaspettatamente, che ho colto con entusiasmo e mi ha molto gratificato. Credo sia soprattutto un atto di attenzione importante alla storia di Listone Giordano: la nostra è un’azienda familiare, quindi non sono che uno dei protagonisti di una traiettoria che ha davanti quattro generazioni, con la quinta che si è appena affacciata. Perciò la nostra storia è profonda da un punto di vista storico e oggi larga in senso orizzontale perché siamo in diversi della famiglia a essere molto impegnati in azienda: i miei cugini Dario e Fernando, mio fratello Luca, tante cugine e altri membri della famiglia. Quindi io faccio un pezzo di questo percorso e l’IN/ARCH mi ha proposto di prendere la guida di un istituto che ha una tradizione straordinaria perché è stato fondato nel 1959 da quella personalità della critica architettonica che è stato Bruno Zevi, che chiamò a raccolta attorno alla cultura del progetto anime diverse: non solo progettisti e architetti in senso stretto, ma anche designers, ingegneri, grafici, ricordando così che la cultura della progettazione è una cosa unica. Inoltre Zevi ha voluto che al tavolo venissero anche gli artefici della messa a terra della progettazione, quindi costruttori, quindi il mondo della produzione industriale, con un’idea un po’ olivettiana. Non dimentichiamo che l’Istituto Nazionale di Architettura ha visto tra i propri soci fondatori personalità come Gianni Agnelli e Adriano Olivetti, quindi ha un trascorso significativo. Infine negli ultimi 21 anni l’IN/ARCH è stato guidato in maniera esemplare da Adolfo Guzzini, che l’anno scorso ha sentito la necessità di passare il testimone, rimanendo sempre attivo all’interno dell’Istituto. Così continuiamo ad essere una squadra molto efficace per essere eredi di questa tradizione.

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BRAND PITT Quando un logo diventa un’icona: la case history di McDonald’s Rubrica a cura di Elisabetta Enrietti; tratta dall’omonimo programma radio dedicato ai brand più famosi: la ragione del loro successo, e curiosità sulla loro storia.

pagliaccio Ronald McDonald. I bambini infatti sono sempre stati uno dei core target della catena: happy meals, accordi con la Disney, parchi giochi accanto al ristorante, tutto nell’ottica di fidelizzare i piccoli clienti, che penseranno a convincere i loro genitori ad andare tutti insieme al McDonald’s e forse saranno anche dei clienti adulti molto fedeli (e con molti anni di spese davanti). Oltre a curare il rapporto con i bambini McDonald’s ha sempre investito sulla pubblicità e puntato sui rapporti fra management e franchisee (ossia gli imprenditori che fanno richiesta a McDonald’s per aprire un punto vendita) seguendo un sistema standardizzato, con tanto di manuale, su come realizzare e gestire i franchising. Questo sistema sembra essere particolarmente rigido, comprendendo il peso esatto di un hamburger, che deve essere perfettamente uguale, che sia mangiato negli Stati Uniti o in India: nulla viene lasciato al caso. Ma ancora rimane un quesito irrisolto: com’è nato il logo di McDonald’s così come lo conosciamo? All’inizio si è parlato di questi peculiari archi dorati ai lati del ristorante. Ebbene quest’ultimi diventarono un tale simbolo dell’attività da essere inseriti nel logo: oltre a comunicare eleganza, dominio e professionalità, il potenziale cliente, entrando nel ristorante, avrebbe pensato di trovare un ambiente pulito e allegro. Stando ad alcuni racconti il via definitivo al logo ad “M” sarebbe stato dato dallo psicologo e (a quanto pare) designer Louis Cheskin. Secondo lui il cliente sarebbe stato stimolato ad entrare al McDonald’s non tanto dall’idea di pulizia e cordialità ispirata dal logo bensì dall’effetto freudiano generato dalla forma dei due archi, molto simili, a suo dire, a due seni, che i passanti avrebbero associato al nutrimento materno; ciò li avrebbe resi più affamati, quindi pronti a soddisfare il loro appetito nel posto più vicino. Oltre a questi supposti seni a far venire fame al cliente ci dovrebbero pensare anche i colori del logo: la bicromia giallo-rosso infatti si associa alla vitalità e all’energia e questo dovrebbe generare un senso di fame. Invece la psicologia più spicciola di oggi oramai ci suggerisce che il giallo e il rosso messi accanto stimolino l’appetito… proprio perché associati al McDonald’s!

Esistono alcuni simboli universalmente riconosciuti che ci aiutano a trovare ciò di cui abbiamo necessità: due stickman, maschio e femmina, per indicare il bagno, una “T” per le tabaccherie, un letto e una croce in prossimità degli ospedali. Tra questi segnali istituzionalizzati ne spicca uno che tanto istituzionale non è ma ci indica dove mangiare quando abbiamo fame. Stiamo parlando della “M” arrotondata gialla in campo rosso che ci segnala la presenza di un McDonald’s nelle vicinanze. Ma come ha fatto quella grande lettera gialla a diventare un simbolo più conosciuto, stando ai dati, della croce cristiana? Che la “M” come McDonald’s? Probabilmente sì, ma quei due archi che costituiscono il celeberrimo logo non nascono con quest’idea. Dovete sapere che nel 1952 i fratelli Dick e Mac McDonald’s aprivano una seconda sede in California del ristorante che avevano creato nel 1940. Come progettare la struttura dell’edificio? I due fratelli volevano che il loro nuovo ristorante fosse ben visibile dalla strada e inducesse i passanti a fermarsi, così pensarono che costruire l’edificio aggiungendo due archi laterali dorati sarebbe stato funzionale al loro scopo. A vedere le foto del ristorante i due archi ricordano molto da vicino quelli che costituiscono la famosa “M”, che al tempo non era assolutamente presente nel logo del ristorante. Infatti il primissimo logo McDonald’s era costituito da uno chef ammiccante di nome Speedee: questo perché il servizio offerto dal ristorante mirava soprattutto alla velocità con cui far arrivare il cibo al cliente. Proprio grazie a questa costante ricerca di restringere i tempi di servizio i due fratelli incontrarono Ray Crock, colui che ha reso la McDonald’s corporation quella che conosciamo oggi, ma che al tempo era un agente di vendita di frullatori di scarso successo. I McDonald’s comprarono da lui sei frullatori, che non usavano solo per i milkshake ma anche per tritare la carne, applicando così una piccola catena di montaggio al ristorante. Crock rimase folgorato dalla loro idea, tanto che decise di mettersi in affari con loro, per poi liquidarli senza tanti complimenti nel 1961, rilevando le quote dei suoi ex soci per 2,7 milioni di dollari. Una volta “libero” Ray Crock rese McDonald’s un marchio e avviò la notissima campagna pubblicitaria con il 1 4


Š Diana Magri 1 5


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Progetti IID

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PROGETTI IID Il progetto “Don’t Eat Me”, realizzato dalla studentessa Satya Rangasci durante l’ anno accademico 2018/2019, denuncia il nostro inquinamento nel piatto: nasce infatti dall’idea di creare piatti apparentemente gustosi e gourmet ma che in realtà si rivelano tossici e non commestibili. Le “ricette” sono state ideate a seguito di una approfondita ricerca in merito ai processi di smaltimento e lavorazione di alcuni materiali inquinanti, culminata in un’analisi fisico-chimica sull’impatto ambientale di queste sostanze. Gli stessi materiali inquinanti sono stati poi utilizzati quali ingredienti per le originalissime ricette connubio tra verve culinaria e tossicità. L’obiettivo è chiaramente la sensibilizzazione all’attuale situazione della gestione dei rifiuti. Il progetto, di forte impatto sociale, è stato esibito durante il Festival di Narni (ed. 2018).

Mare morto Il viscido L’ Orticello Mousse da barba Il giardino In pasta 3 su 3 Pan di spugna

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MA RE MO RTO Secondo la ricerca condotta dalla studentessa di IID, di recente l’organizzazione no profit Healty Seas ha recuperato dal mare oltre 4 tonnellate di reti da pesca ormai abbandonate in acqua al largo delle isole Eolie. In particolare, tra il 6 e l’8 ottobre dello scorso anno, la squadra di sub volontari è riuscita anche a raccogliere una gigantesca rete da pesca, di oltre 2 tonnellate, dispersa oltre 10 anni fa durante una tempesta.

................................... INGREDIENTI 50 gr di polpo 10 gr di polistirolo 5 ml di sapone per piatti 1 gr di rete limoni 1 gr insalata

........................................... INGREDIENTI 1 pz di capitone (in via di decomposizione) 1 pz di gamberetto (in via di decomposizione) 1 pz di spugna forata 60 ml di petrolio q.b brillantini

IL VIS CIDO

Non meno preoccupante è stato l’incidente avvenuto il 14 gennaio 2018 al largo di Shanghai nel Mar Cinese, quando è affondata la petroliera iraniana Sanchi, causando la fuoriuscita di greggio e carburante, che si sarebbe estesa su una superficie di oltre 330 chilometri quadrati, a conferma l’ultima stima della State Oceanic Administration, Autorità Marittima Cinese, accrescendo il timore di un gravissimo disastro ambientale. 2 0


L’ ORT IC ELLO ........................... INGREDIENTI 10 gr di insalata 3 pz pomodorini 5 gr di calce 1 pz di rete verde 2 gr di polistirolo

Satya Rangasci ha svolto ricerche anche sulla cosiddetta “Terra dei Tuochi”, tra la provincia di Napoli e quella di Caserta. La maggior parte dei rifiuti che vengono “smaltiti” in queste zone sono rifiuti speciali. Attraverso le immagini, denuncia l’esistenza delle discariche abusive, situate prevalentemente in aperta campagna o lungo le strade, e degli incendi dolosi.

MOU SSE DA BA RBA Dall’Italia ci spostiamo nel sud dell’India, a Bangalore, dove si trova il lago Bellandur, uno dei più inquinati del paese: raccoglie le acque di scolo di buona parte della città che ha 8 milioni e mezzo di abitanti e da diversi mesi è ricoperto da uno spesso strato di schiuma bianca e olio. La schiuma si forma sulla superficie del lago per via dei prodotti chimici per la pulizia che vengono scaricati nel sistema fognario della città. 2 1

....................................... INGREDIENTI 5 ml di schiuma da barba 50 gr di terra 5 ml di plastica gialla sciolta in un pentolino 5 gr di farina q.b acqua


IN GI AR DINO ....................................... INGREDIENTI 150 gr di risotto Venere 2 gr di erbacce del giardino 5 mozziconi di sigaretta 1 ml di sapone 0,5 gr di foglia d’oro 5 gr di calcinaccio

Secondo la ricerca condotta dalla studentessa di IID, fumare in auto equivale a produrre polveri sottili in concentrazioni trenta volte superiori ai limiti di legge e una sigaretta accesa produce concentrazioni di polveri sottili di oltre 400 microgrammi per metrocubo, ovvero molto più dello smog da auto.

IN PA STA

............................... INGREDIENTI 60 gr di spaghetti 10 gr di antibiotico 0,5 gr di alluminio rosso q.b olio motore

Sono in aumento le allergie al grano, che può determinare un ampio spettro di reazioni. Da tempo è nota la malattia “asma del panettiere”, la baker-asma, dovuta all’esposizione respiratoria alla farina durante l’attività lavorativa.

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3 SU 3

................................... INGREDIENTI 3 pz di latta 1 pz capitone 1 pz schiuma da barba 1 pz spugna

Per quanto riguarda la cura personale, Satya ci fa notare che l’impiego di bisfenolo A (BPA), plastificante ubiquitario accusato di aumentare il rischio di alcuni tumori, di perturbare il sistema endocrino e riproduttivo, di causare diabete e malattie metaboliche e cardiache, tiroidee e dello sviluppo.

PAN DI SPU GNA Infine Satya ci racconta che la nuova “super spugna” non è altro che un polimero creato a partire da elementi comuni come l’olio di cottura esausto, il sale da cucina e lo zolfo. Negli esperimenti condotti in laboratorio, quando il polimero è stato riversato su alcune chiazze d’olio galleggianti su dell’acqua, in un solo minuto ha assorbito gli inquinanti.

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............................................. INGREDIENTI 1 pz di spugna 50 gr di mele a fette sottili 3 ml di plastica sciolta


A proposito di Narnia Festival... All’interno della variegata e caleidoscopica kermesse di musica, teatro, danza, con spettacoli, concerti, esposizioni, masterclass ed eventi culturali del Narnia Festival, si collocava la collettiva d’arte “Made in Umbria” dove è stato esposto il progetto "Don't Eat Me". Ideata dal Direttore Artistico del Festival Cristiana Pegoraro e realizzata in collaborazione con la pittrice Rubinia, riunisce alcuni dei più affermati artisti umbri di diversa formazione. “Made in Umbria” è un percorso che ha sottolineato quel rapporto inscindibile ed emozionante di suggestiva interdipendenza e mutua compenetrazione tra arte e musica, suono e colore, strutture musicali e forme plastiche. L’animo umano ha sfumature differenti e si esprime attraverso forme artistiche variegate. Ecco quindi che le opere selezionate comprendono quadri, ceramiche, creazioni tessili, sculture in vetro e fotografie, al fine di far conoscere ai visitatori l’eccellenza Umbra nei vari campi e offrire allo stesso tempo un’esperienza di percezione totale dell’arte. Un grande spazio a cui sono stati invitati artisti umbri di pregio, il cui talento ed arte sono stati condivisi con visitatori da tutto il mondo ma all’interno della loro stessa terra, l’Umbria: regione dall’immenso patrimonio storico e artistico, terra dove, quasi ottocento anni fa, un poverello di Assisi avrebbe composto quel meraviglioso inno alla vita che è il Cantico delle Creature. Proprio San Francesco amava affermare: “Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile.” La collettiva “Made in Umbria” è l’espressione di un affascinante percorso che, nell’ambito del Narnia Festival, trova il suo spazio ideale di realizzazione presso il Complesso del San Domenico e altre location storiche di Narni.

Cristiana Pegoraro, Direttore Artistico del Narnia Festival, si esibisce all'evento di IID "Consertum", ospitato nel 2018 alla Galleria Nazionale dell'Umbria.

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Š Narnia Arts Academy fotografia tratta da: www.narniafestival.com

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The Dark Side of the Moon Rubrica a cura di Simone Fucchi, Eleonora Baiocco e Giacomo Rosiello. Tratta dall’omonimo programma di Radio Design, che tratta della grafica delle etichette della storia della discografia.

THE TEA-JAM The Dark Side of the Moon

miliare della storia della musica è il progressive rock. Inizialmente suonano nei piccoli club londinesi, dove la loro fama cresce gradualmente, fino a farli arrivare al loro album di debutto, The Piper at the Gates of Dawn, un vero successo di critica. Il resto è storia. Una curiosità sul nome Pink Floyd: inizialmente la band avrebbe dovuto chiamarsi The Tea Set (se ve lo state chiedendo, sì, il titolo della rubrica prende spunto proprio da questo nome) ma esisteva già un altro gruppo chiamato allo stesso modo. Così Syd Barrett, il fondatore della band, unì il nome di due bluesman, ossia Pink Anderson e Floyd Council, che allora potevano ancora fregiarsi del fatto di essere più famosi dei Pink Floyd.

The Tea Jam è la fantabulosa rubrica nata per combattere la dilagante piaga della disinformazione musicale e grafica, svelandovi i retroscena delle copertine dei dischi più iconici di sempre e non solo. Parlando di copertine di album iconici è impossibile non pensare a un simbolo che compare su poster, quadretti, magliette, un po’ ovunque insomma. Si tratta dell’iconico prisma illuminato da un fascio di luce bianca che, scomponendosi al suo interno, forma un arcobaleno. Molti di voi adesso staranno facendo “aah” capendo di chi stiamo per parlare, altrettanti avranno riconosciuto il simbolo senza sapere a cosa si collega. Accorriamo in aiuto di quest’ultimi dicendo che si tratta dell’album The Dark Side of the Moon, uno dei più grandi successi dei Pink Floyd, acclamato da pubblico e critica. Sapendo che alcuni di voi conoscono i Pink Floyd solo di nome anche se non lo ammettono, prima di iniziare a parlare della famosissima copertina di The Dark Side of the Moon, faremo una breve introduzione sui suoi creatori.

L’Album The Dark Side of the Moon è stato pubblicato nel Regno Unito il 10 marzo del 1973 ed è considerato uno degli album più famosi della storia della musica, anche grazie alla sua iconica copertina. The Dark Side of the Moon fu il primo a essere creato dopo l’allontanamento dalla band di Syd Barrett per via dei suoi atteggiamenti impossibili, frutto di problemi mentali aggravati dall’uso di droghe. Si tratta di un concept album che propone canzoni con testi dal profondo contenuto filosofico, affrontando gli aspetti più brutti della vita di una persona, come morte o infermità mentale (ispirato in parte proprio alla condizione di Barrett). Da qui il nome dell’album, che in italiano significa ‘il lato oscuro della luna’.

La band I Pink Floyd sono stati un gruppo musicale inglese nato a Londra nel ‘65. Nel corso della loro carriera hanno definito le tendenze musicali della propria epoca. All’inizio della loro carriera si dedicano principalmente allo space rock e alla musica psichedelica, ma il genere che più ha contribuito a renderli una pietra

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Š Diana Magri 2 7


La copertina

appartenente al periodo Barrett. Hipgnosis così presentò alla band sette proposte, tra cui il Silver Surfer, l’omino di carta stagnola su tavola della Marvel, che con il contenuto di The Dark Side of the Moon non c’entra nulla. Fortunatamente i Pink Floyd optarono per il prisma.

Passiamo all’aspetto centrale della rubrica, parliamo della copertina di The Dark Side of the Moon, che raffigura un prisma attraversato da un raggio di luce bianca che ne esce come un arcobaleno, realizzata con l’aerografo. Nel retro della copertina, meno conosciuto, questo fascio di colori finisce in un prisma rovesciato per dare un senso di continuità al meccanismo. Il design del disco si ispira a 3 elementi fondamentali: l’illuminazione scenica della band, i testi dell’album e la richiesta di un design semplice ma audace. La luce bianca simboleggia la vita che entra e illumina l’individuo, simboleggiato dal prisma, il quale espelle idee simboleggiate dai colori. La linea verde dell’arcobaleno, inoltre, si muove come un elettrocardiogramma, siccome il suono del battito cardiaco è riprodotto in tutte le canzoni dell’album. La copertina rappresenta anche la diversità, la pulizia del suono e fa riferimento all’illuminazione presente nei concerti del Pink Floyd. Per quanto riguarda il packaging di The Dark Side of the Moon, all’interno dell’album vennero inseriti due poster e due adesivi a tema piramidale. Uno dei poster è proprio una fotografia delle piramidi di Giza scattata a infrarossi, mentre l’altro raffigura la foto della band, con lettere sparse che insieme riportano la scritta Pink Floyd. Quel che al tempo fece scalpore fu vedere per la prima volta in viso i componenti della band, cosa che, fino ad allora, non era ancora successa.

Successo Il prisma e l’arcobaleno di The Dark Side of the Moon furono accolti con entusiasmo dal pubblico, rappresentando subito un successo per la Hipgnosis, che dopo questo lavoro diventò famosissima e collaborò con band del calibro dei Led Zeppelin. Il successo della copertina è anche dovuto alla sua riconoscibilità rispetto alle altre prodotte all’epoca. Prima degli anni ‘70 infatti gli album musicali trattavano temi impegnati socialmente, ma con il “progressive rock” i temi divennero più vari e liberi, e le copertine fecero lo stesso, diventando opere d’arte fini a sé stesse che non dovevano per forza comunicare il contenuto dell’album. Ancora oggi la copertina di The Dark Side of the Moon è considerata una delle migliori di tutti i tempi, citata come esempio e stampata sulle magliette, tanto che a fine articolo è impossibile non porsi una domanda: ma se i Pink Floyd avessero scelto la copertina col Silver Surfer della Marvel la storia della musica che svolta avrebbe preso?

Creazione della copertina La copertina di The Dark Side of the Moon è stata realizzata dallo studio di grafica Hipgnosis, specializzato nella fotografia creativa volta alla creazione di copertine per album. Lo studio fu fondato nel 1968 da Storm Thorgerson e Aubrey Powell, dei rivoluzionari nel loro campo, poiché con la manipolazione fotografica creavano effetti molto psichedelici, forse un po’ inquietanti ma molto riconoscibili e d’impatto. Con i Pink Floyd i due avevano già collaborato, creando la copertina del loro secondo album, “A Saucerful of Secrets”, realizzata con uno stile psichedelico figlio del suo tempo. In questo caso però i Pink Floyd volevano avere un’immagine diversa, che si allontanasse dalla musica psichedelica,

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wine 3 0


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design 3 1

Š Decugnano de Barbi


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WINE DESIGN Rubrica sul vino a cura di Elena Di Vaia, sommelier e speaker radiofonica.

Decugnano dei Barbi. Profumo di vino. Oggi vi portiamo nella denominazione Orvieto Doc, risalente al 1971. Zona che gode di particolarissime condizioni tali da poter parlare di microclima: Orvieto, difatti, poggia su una collina di tufo e la leggenda narra che furono gli etruschi a scavare delle profonde grotte di tufo dove ancora oggi riposano le bottiglie orvietane. Ne è un esempio Decugnano dei Barbi, azienda vicinissima al lago artificiale di Corbara, che vanta una bellissima grotta lunga e profonda in cui stanziano sia i loro metodo classico sia il muffato. La vicinanza della diga ai vigneti ha permesso, con il trascorrere del tempo, la creazione di un vero e proprio microclima: l'umidità e la ventilazione diventano protagoniste del processo che interessa la Muffa Nobile che attacca l'acino, lo disidrata portando alla concentrazione zuccherina, regalando poi dei vini muffati strutturati, eleganti e da meditazione. Nei mesi autunnali Orvieto è avvolta da un'atmosfera così suggestiva che, nel contemplare il suo panorama, ci si sente quasi come il “Viandante sul mare di nebbia” di Friedrich: una fittissima, quasi tangibile, nebbia che va man mano diradandosi verso le 12, quando i raggi del sole (tempo permettendo) cominciano a “sguardiciare” la coltre di nebbia.

© Diana Magri 3 2


L’Azienda La struttura di Decugnano dei Barbi risale al 1212, secoli bui dell'alto Medioevo, ed anticamente era un convento gestito dalla chiesa Santa Maria di Decugnano. Qui veniva prodotto il vino per il Clero Orvietano, che risultava sempre dolce, poiché non portava a termine la fermentazione. Nel 1973 la struttura, ormai abbandonata, viene presa in gestione da Claudio Barbi "estimatore dello spumante, innamorato della zona" - racconta l'enologo Paolo Romaggioli. Nel 1978 esce con il primo metodo classico firmato Decugnano dei Barbi, svelando così l'arcano del nome: Decugnano per mantenere il collegamento antichissimo con la tradizione clericale di produzione del vino, e Barbi, l'innovazione e il rispetto del territorio della famiglia che ha "adottato" queste terre. Decugnano dei Barbi detiene, ad oggi, due primati: il primo metodo classico umbro del 1978 e il primo muffato italiano del 1981. I vini muffati orvietani sono famosi in tutto il mondo, più del tanto stimato e rappresentativo Sagrantino. Composizione del terreno: sabbioso e argilloso. Salinità marcata, risalente all'origine marina, pliocenica, dei terreni (infatti in azienda ci sono moltissimi ritrovamenti di ostriche e conchiglie). Densità d'impianto: 2800/4500. Altitudine: 300 m slm. Ad oggi: 32 ettari. Vitigni: Bacca Bianca: Grechetto (G109, più strutturato e minerale del G5), Procanico, Semillon, Verdello, Chardonnay, Vermentini, Sauvignon Blanc. Bacca rossa: Sangiovese, Pinot Nero, Cabernet Sauvignon, Syrah, Montepulciano.

Degustazione del Muffato Decugnano, Pourriture Noble, muffato da Grechetto, Procanico (60% i due) , Sauvignon Blanc 35% e Semillon 5%. Tiratura: 1100 bottiglie. La vigna più vecchia risale al 1975. Solo acciaio. La vivacità dell'oro liquido nel calice si sposa con il frutto e il fiore; la morbidezza del miele d'acacia incontra la mineralità salina; l'albicocca e il candito si imbattono in aromi e note quasi polverose al naso. L'assaggio pieno e morbido lascia spazio a una acidità e freschezza che lasciano una bocca pulita pronta a un nuovo assaggio.

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Elena Di Vaia si è laureata in Filosofia ma curiosa del mondo, passeggia tra l'Economia Civile ed un Master in Etica Economia e Management. Sommelier AIS per forza di gravità e con la passione per la scrittura: Blogger su Winesommelier.it e articolista freelance sul fenomeno della comunicazione web del vino. Speaker radiofonica presso Istituto Italiano Design nel Format RadioWineDesign. Elena è stata infine Co-creatrice del progetto WineErasmus e BrandAmbassador dell'azienda Nenci. 3 4


Š Decugnano de Barbi 3 5


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Š Decugnano de Barbi 3 7


Š Ludovica Cappelletti 3 8


Š Roberta Libertella 3 9


S P I G O L I V I V I

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S A C R O


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B R A C C I A A P E R T E

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6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6Arte 6 6 6 6 6

S E G N I

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S 6 A C R O Le Stratificazioni dell’Arte

ARTE

YALAIN

a cura di Alessandra Capponi

L’opera di Yalain si pone immediatamente come misteriosa e semplice allo stesso tempo. Una sequenza numerica progressiva. Un contare andando in ordine. L’artista dispone uno dopo l’altro i numeri sulla tela, rendendo visibile la composizione del tempo mentre questo si svolge, e mostrandoci la sua sedimentazione a posteriori. La stessa palette di colori usata da Yalain, composta di toni scuri e terrosi, che contrastano con il bianco che definisce i numeri, si pone in relazione con lo scorrere del tempo. Il colore, che in un certo senso ingloba i numeri, viene steso in modo da creare delle masse sfumate e sovrapposte, ed osservandolo nel suo complesso rimanda più che altro ad un’idea di residuo. Delle macchie lasciate dal tempo stesso, testimonianza informe ma significativa del momento in cui l’artista le ha dipinte, ma anche di ciò che è stato prima in una sorta di lontano passato di un tempo immaginario.

Tempo che si compone nel momento stesso in cui trascorre sovrapponendosi nel colore, ma anche allineandosi in modo consequenziale attraverso le file di cifre che ricoprono l’intera tela. I segni numerici, che costituiscono letteralmente

un livello intermedio tra lo strato di pittura sottostante e il colore steso su di essi successivamente, si articolano sulla tela, allo stesso tempo ordinati e sfuggenti, fondendosi con l’immaginario di chi guarda assumono la valenza di segno, permettendone anche una lettura estremamente soggettiva. Di fatto i numeri stessi sono compresi tra due punti di riferimento, sono degli intermedi, non solo temporali ma anche tra la loro apparenza esplicita, l’essere numeri, ed il modo in cui vengono letti da chi guarda l’opera.

Testo sacro, linguaggio arcano, od ancora qualcos’altro?

Ogni soggetto che dedicasse un po’ di tempo ad osservare quest’opera potrebbe creare nuove relazioni con il proprio bagaglio interiore. E così di nuovo l’andamento apparentemente lineare dei numeri ci fa scoprire nuove e diverse stratificazioni, quelle dell’interiorità di chi guarda andando in questo modo a svelare quelle sedimentazioni interiori che costituiscono il soggetto che osserva, quelle macchie residuo, quelle tracce, di quello che il soggetto ha esperito e che in esso restano impresse.

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Glez A cura di Deborah Fanini

B R A C C I A

Ad una prima osservazione questo dipinto di Glez attrae la nostra attenzione per i suoi forti contrasti cromatici: una predominanza di toni freddi contrapposta a macchie di tonalità calde. È un’opera astratta senza dubbio, non vi è una ricerca figurativa, ciò che interessa all’artista è il gesto pittorico, la stratificazione di pennellate e segni, ma soprattutto le emozioni che il colore trasmette. Tuttavia l’osservatore contemplando il dipinto, potrebbe riconoscere e immaginare, in quelle forme astratte, forse un paesaggio lacustre

o marino in cui la linea dell’orizzonte taglia trasversalmente la tela e fa da confine tra il paesaggio reale e quello riflesso nello specchio d’acqua. Sembra richiamarci paesaggi impressionisti, ma ancor più ci ricorda quelli di William Turner. Oppure potremmo riconoscere in quella “croce” blu un corpo umano con le braccia aperte, protese in un abbraccio verso la figura di colore contrastante che vediamo sul fondo. Qualunque sia l’interpretazione, l’opera di Glez è una magistrale composizione e stratificazione in cui il colore predomina e con tutta la sua potenza ci pervade.

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A P E R T E


S P I GV O I LV I I

ALONSO FLEITAS A cura di Elisa Pietrelli

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© Free Art Gallery, per informazioni: +39 335 833 0415

appuntite, porte, balconi, finestre, archi a sesto acuto, portici, colonne, lampioni, spigoli vivi e vertici; ritmo gotico soffocato dalle tonalità

Nel Rinascimento gli artisti sperimentano una costruzione dello spazio in base a precise regole geometriche, le figure si muovono in spazi reali, tutto risponde alla volontà comune e condivisa di rappresentare oggetti, figure e architetture nel modo più verosimile possibile. Le ambientazioni non sono più semplici sfondi ma acquistano una valenza in più, mai immaginata nei secoli precedenti. La percezione della profondità e delle giuste proporzioni nell’opera di Fleitas è solo suggerita; non è un salto indietro nella storia ma la visione tremolante di architetture impossibili. Reminiscenze di viaggi, di luoghi, stratificazione di edifici in una narrazione orizzontale: cartoline di una città. La linea nera è il perimetro di ogni cosa: facciate

arancioni e rosa. Un cielo pallido e un sole raggiante fuori misura. In primo piano le architetture sono accostate una accanto all’atra, in profondità sagome nere ci promettono ulteriori fabbricati. Tutto è immobile, una quiete notturna in pieno giorno. Forse appare un’unica presenza umana, una figura che ci spia da dietro una finestra, ci osserva, mimetizzandosi. Il figurativo si combina a pennellate astratte. Persistente accumulo di vedute urbane che si sedimentano indelebili nella memoria. 4 7


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IL DESIGN DELLE EMOZIONI

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L’ASSOCIAZIONE

Soffermarsi a pensare alla storia de "Il Sigaro di Freud" a distanza di anni è come rievocare la fondazione di una civiltà. Tutto ebbe inizio nel lontano 2014, quando tre psicologi in erba passavano amabilmente il tempo condividendo i loro pensieri, le loro impressioni e soprattutto la loro passione per il mondo della psicologia. Tutto ruotava intorno ad essa, soprattutto le loro vite “in divenire”. Come la psicologia che prende forma nella pratica del vivere, così, in quel periodo, si plasmava il loro essere persone, professionisti, amici e colleghi. Impossibile dimenticare il momento della Sua nascita, durante una pausa caffè, fra una lezione e un’altra, del primo anno di una scuola di psicoterapia. Emanuela raccontava di dover scrivere sulla dislessia, domandandosi quanto essere accademica o quanto invece mantenere uno stile divulgativo per evitare di risultare poco chiara ai “non addetti ai lavori”. Un’intuizione di Giulia diede inconsapevolmente il là al progetto: "Potremmo rendere la psicologia accessibile a tutti!”. Agli occhi pieni di entusiasmo di quei giovani psicologi, una rivista gratuita e online sembrava un ottimo modo per incanalare la passione, la voglia di fare e la bulimia di progettare; un processo di crescita verso il sentirsi sempre più rapidamente e insieme psicoterapeuti. Ed ecco il momento della “tempesta di idee” sull’identità da costruire, la pianificazione di cosa scrivere, che stile utilizzare, a chi rivolgersi (…) ma soprattutto la scelta del nome che avrebbe identificato il progetto. Doveva essere accattivante, immediato, divulgativo e anche un po'… “ruffiano”, così lo volevano. Dario propose “Il Sigaro di Freud” e la rivista venne battezzata nel tempo di un caffè. 5 0


Una volta poggiate le prime pietre, bastarono un disegnatore di un Freud simpatico in compagnia del suo sigaro (il logo), altri compagni e compagne di viaggio con le stesse passioni e le stesse bulimie e le competenze informatiche di Dario per essere pronti a partire. Un format semplice: psicologia quotidiana per tutti, somministrata due volte a settimana in forma di articoli divulgativi, per interessare, incuriosire, disambiguare le tematiche di tutti i giorni da un punto di vista "psi" e per fare compagnia. Il primo articolo pubblicato? l’articolo di Emanuela sulla dislessia, per onorare la nascita del tutto e forse, in maniera superstiziosa e ironica, nella speranza di essere letti. Passarono gli anni, aumentarono gli articoli, le rubriche di approfondimento, i follower, le visualizzazioni, le condivisioni, le interazioni, le domande, le curiosità, gli interessi e le adesioni. Alcuni ami-colleghi (così piace chiamarsi), oberati dagli impegni lavorativi e di vita, decisero di andare, altri scelsero di accettare la sfida ed entrare nella rosa dei redattori. Fino a che, nel 2018, dopo quattro lunghi anni dalla nascita della rivista e 1536 articoli pubblicati (oggi 1660), i tre precari psicologi bulimici, ormai diventati psicoterapeuti, fondarono, insieme allo zoccolo duro dei redattori, un'associazione di promozione sociale e culturale, omonima alla rivista. “Il Sigaro di Freud A.P.S.” nacque per portare avanti il loro progetto di psicologia accessibile a tutti, diffondere cultura e informazione, promuovere il benessere psicologico e sensibilizzare alle problematiche sociali non più solo nel mondo virtuale, ma nel campo di battaglia della vita quotidiana. Emanuela Gamba Dario Maggipinto Giulia Radi www.ilsigarodifreud.com ilsigarodifreud@gmail.com © Wang Haiwen 5 1


Prefazione

giungla secondo cui a vincere è il più forte, il più veloce, il più scaltro. È necessario essere aggiornati sulle nuove tendenze, essere flessibili e pronti ad un cambiamento ormai rapidissimo, essere competitivi. Il tutto in un mondo dove vige il capitalismo, dove vince chi è disposto a dare sempre più a un prezzo sempre minore.

Districarsi in una società gassosa di Giulia Radi

È a questo scenario, dove le strutture e i modelli vengono smantellati con casualità e senza preavviso, che Zigmund Bauman fa riferimento quando tratta la liquefazione della nostra società. “Lo scioglimento diventa un processo continuo, niente ha il tempo per solidificarsi; è ciò che io chiamo “modernità liquida”: la modernità odierna, come i liquidi, non può assumere una forma per un lungo tempo”, dichiarava Bauman.

Con l’avvento del world wide web (letteralmente "ragnatela globale"), la cui data di nascita viene convenzionalmente identificata con il 6 agosto 1991, giorno in cui l'informatico inglese Tim Berners-Lee pubblicò il primo sito web, il mondo così come lo conoscevamo è cambiato. Prendendo in prestito dalla fisica la metafora degli stati della materia, è possibile accostare l’ordine della società fino a quel momento conosciuta ad un corpo allo stato solido, stabile, rigido, con forma e volume propri, incomprimibile.

Va tutto molto veloce e per rivendicare la nostra esistenza dobbiamo stare al passo, essere online, tuned, “sul pezzo”. Dobbiamo fare rumore, non importa come produciamo quel rumore o con che cosa, l’importante è farsi sentire. Oscar Wilde nel 1980 scriveva «C’è solo una cosa al mondo peggiore al mondo del fatto che si parli di noi, ed è che non si parli di noi». Nella nostra società diremo “purché se ne parli” e questo sembra essere diventato il diktat delle nostre vite digitali: essere sempre online, dare sempre la propria opinione, anche se un’opinione propria non la si ha.

Il bisogno di smantellare un modello vissuto come arcaico e pachidermico si era già palesato nella seconda metà degli anni Settanta, con la nascita nell’ambiente anglosassone del cosiddetto neoliberismo. Secondo questa prospettiva, nata per difendere la libertà e i diritti dei cittadini, le istituzioni pubbliche, con il loro carico burocratico e con le loro staticità, hanno finito per comprimere lo spazio di azione degli individui, al punto di diventare soffocanti. In risposta a questo, l’homo è quindi diventato oeconomicus e il suo campo è diventato un mercato deregolamentato, libero, in cui perseguire i propri fini individuali.

Questo da una parte ci rende tutti esperti ad honorem sul dibattito del momento, svalorizzando così le competenze specifiche degli addetti ai lavori, dall’altra ci rende “prede” dei cosiddetti influencer, che diventano fari nel buio caos delle infinite informazioni e opzioni che abbiamo a disposizione. Inutile dire quanta responsabilità (ancora una volta questo termine) riveste il ruolo di influencer, assunto anche dalle testate giornalistiche. Le fake news sono infatti un altro tema bollente di questi tempi liquidi: documentarsi su fonti attendibili è diventato un atto di rivolta, dato l’immenso numero di informazioni fuorvianti che ci vengono fornite quotidianamente.

Il concetto di libertà è in realtà complesso. Libertà chiama responsabilità: la responsabilità di comprendere le conseguenze del proprio agito, autoregolandosi. La filosofia orientale usa il concetto di Karma per suggerire come ogni azione compiuta si riflette in questa vita, ed ha molteplici ripercussioni.

Ma, tornando alle opinioni: come averne una?

Oggi la liberalizzazione di informazione richiede la responsabilità del fruitore: se vi è la libertà di pubblicare informazioni vere quanto false o manipolate, allora la libertà dei fruitori e delle fruitrici di quelle informazioni diventa responsabilità: la responsabilità di informarsi e documentarsi sull’attendibilità delle fonti di informazione.

Per elaborare un pensiero è necessario sperimentare un vuoto, una mancanza, che stimolano una ricerca. Le filosofie orientali professano questo bisogno di vuoto attraverso la pratica della meditazione, la ricerca di uno stato di sospensione del giudizio, in cui non si va né indietro né avanti, ma si sta fermi nel momento presente.

La libertà dei mercati legittima la legge della 5 2


Questo stato mal si concilia con le richieste della nostra società.

È necessario accorciare la distanza tra il perfetto mondo artificiale e l’imperfetto mondo reale, così da evitare di voler rifuggire in quello più facile da controllare. Solo portando macchiando la perfezione del mondo virtuale potremmo sperimentare l’autenticità e avere meno paura di viverla.

E allora in un momento di profonda angoscia anziché fare i conti con noi stessi, ascoltare capire vivere e riorganizzarci sulla base del nostro dolore, preferiamo “scrollare” (dall’inglese to scroll) una schermata in un atto di voyeurismo in cui osserviamo le vite perfette degli altri deformate dallo schermo. Ci fotografiamo a colpi di bocche a culo di gallina e filtri in una sorta di masturbazione visiva continua (il tema viene affrontato nell’articolo “Visibilità invisibile – Autoscatti per costruire la propria identità”), con la speranza che gli altri mostrino gradimento alla nostra foto, nutrendo il nostro ego e facendoci sentire meno soli (il tema viene affrontato nell’articolo “Popolarità a cinque stelle – Sono ciò che gradite di me”).

Solo così potremmo costruire una contronarrazione del virtuale, trasformandolo nella protesi identitaria piena di opportunità che negli anni Novanta immaginavamo che sarebbe stato.

E, sotto identità di copertura, riusciamo ad augurare stupri alle nostre vicine, a offendere l’altro per il suo aspetto, la sua razza, il suo orientamento sessuale fino a segnalare le case degli ebrei come ai tempi del nazismo. Gli haters sono persone che, protette da identità fittizie, sfogano sull’altro la propria aggressività e frustrazione. Avrebbero questi stessi comportamenti nella vita reale? La risposta è, ovviamente, no. La spavalderia deriva dalla de-responsabilizzazione che i “leoni da tastiera” sperimentano (il tema è affrontato nell’articolo “Nell’era del non pensiero – Il fenomeno dell’odio online”).

Bibliografia Agostino (V sec.) De Civitate Dei Bauman Z. (2002) Modernità liquida, Edizioni Laterza Riva G. (2010) I social Network, Il Mulino Editore Wilde O. (1890) Il ritratto di Dorian Gray

Giuseppe Riva, docente di Psicologia e Nuove Tecnologie di Comunicazione presso l’Università Cattolica di Milano afferma: “Se nella vita reale abbiamo imparato a controllare le emozioni che potrebbero diventare potenzialmente distruttive, nel mondo virtuale ciò non accade perché in rete la corporeità non esiste”.

Giulia Radi – PhD, Psicologa, Psicoterapeuta

In questo mondo liquido, viviamo una scissione molto forte, troppo forte, tra vita reale e vita virtuale e la frustrazione è molto presente poiché spesso le nostre vite virtuali sono più semplici e più belle delle nostre vite reali. Proprio perché artificiali, quindi costruite ad arte, mantenendo le variabili imprevedibili del mondo esterno e dell’ “altro” meno impattanti possibili.

Psicologa e Psicoterapeuta laureata in Psicologia Clinica, titolare di un Master in Psicoterapia Multimediale, una specializzazione in Psicoterapia alla Scuola Internazionale nel Setting Istituzionale a Roma e di un Dottorato in Scienze Umane conseguito presso l'Università degli Studi di Perugia dove dal 2017 è Docente di Psicologia dello Sviluppo. Ex Coordinatrice dello Sportello di Ascolto (Croce Rossa Italiana), Operatrice del Centro Antiviolenza "Catia Doriana Bellini", CT del Tribunale di Spoleto e Referente "Codice Rosa" (Pronto Soccorso di Foligno) e Socia Fondatrice del "Sigaro di Freud". Ad oggi Programme Lead di "Save the Children".

Ed è forse questa la chiave: riportare le identità virtuali dentro le identità reali (o viceversa). Riportare il corpo solido dentro il corpo gassoso e diffuso del virtuale e farli combaciare, tornare ad avere identità reali anche nel mondo non-reale.

(+39) 349 5887485

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giulia.radi@hotmail.it


Visibilità invisibile

esibisce, meno esso esiste. Annullato, in

Autoscatti per costruire

misura direttamente proporzionale alla

la propria identità

sua esposizione”

“Questo corpo moderno, più lo si

di Francesca Veccia

da “Storia di un corpo” di Daniel Pennac

Viviamo in una società in cui il sentimento di sé si sta espandendo oltre i confini che ci erano già noti: questo sconfinamento alimenta un bisogno di visibilità sociale portando a forme di esibizionismo mediatico e favorendo atteggiamenti di sopravvalutazione del sé. Il World Wide Web è diventato per tutti un amplificatore gratuito di contenuti personali e uno strumento per guadagnare notorietà a buon mercato. Tra i fenomeni che caratterizzano l’era contemporanea, permeata di dispositivi elettronici che, negli ultimi decenni, hanno trasformato la sfera interpersonale, il selfie rappresenta il rischio di un processo di spettacolarizzazione degli individui e della società. TAG: selfie, mondo digitale, identità, identità collettiva, comunicazione, desiderabilità sociale, visibilità, esibizionismo, follower, like, Web Viviamo in una società in cui il sentimento di sé si sta espandendo oltre i confini che ci erano già noti: questo sconfinamento alimenta un bisogno di visibilità sociale portando spesso a forme di esibizionismo mediatico che favoriscono una sopravvalutazione del proprio essere persona. Per soddisfare questa aspirazione di visibilità, il singolo individuo ricorre ai social media e diffonde attraverso Internet i propri contenuti di testo, le proprie immagini o video. Il World Wide Web è diventato per tutti un amplificatore gratuito di contenuti personali e uno strumento per guadagnare notorietà a buon mercato. La comunicazione visuale sembra aver preso il sopravvento soprattutto nelle interazioni online dove le immagini hanno in molti casi sostituito il testo che ne è diventato semplice appendice(1).

che si può parlare di una società dei Selfie, inteso come sistema sociale in cui è cresciuto il bisogno di auto-affermazione, il culto di sé e della propria immagine. Il selfie rappresenta, oggi più che mai, la moderna consapevolezza della nostra essenza: è lo strumento di narrazione per eccellenza all’interno di uno spazio di comunicazione sempre più frenetico e immersivo. Le fotografie sono capaci di trasmettere emozioni in un modo più immediato e semplice del testo scritto, e hanno il potere di scatenare nell’osservatore risposte viscerali, emotive, inconsce. Il selfie fonde insieme l’estetica dell’autoritratto del passato alla funzione sociale della comunicazione online, incarnando la necessità di immediatezza e trasparenza tipiche dell’epoca contemporanea. Se la fotografia in passato era un evento particolare cui si rivolgeva attenzione solo nelle occasioni importanti e significative, oggi bisogna prendere coscienza del fatto che la fotografia è semplice vita quotidiana. La tecnologia ha trasformato il racconto di Sé in un’immagine fotografica ancora più aderente alla liquidità propria dell’identità, che viaggia su piattaforme digitali di condivisione e rappresenta non solo il soggetto protagonista del selfie ma anche la sua volontà di mostrarsi(3).

Tra i fenomeni che caratterizzano l’era contemporanea, permeata di dispositivi elettronici che, negli ultimi decenni, hanno trasformato la sfera interpersonale, il selfie simbolizza per eccellenza il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società(2). Questo bisogno di esibire la propria immagine, di lasciare una traccia visibile di sé e di condividere esperienze mediatiche con altri è diventato ormai una cifra comune della società contemporanea a livello globale, tanto 5 4


La tendenza alla vetrinizzazione, secondo Codeluppi, deriva dalla necessità dell’individuo contemporaneo di creare e gestire la propria identità: attraverso la pubblicazione del selfie in internet si cerca una certificazione pubblica della propria esistenza all’interno del web(4). Se da un lato il selfie può sembrare una risposta all’esigenza di dare consistenza a sé stessi, di non essere fantasmi, dall’altro queste immagini contribuiscono a rendere l’individuo sempre più fantasmatico.

_____________________ (1) Di Gregorio, 2017 (2) Tolve A. (rivista online) (3) Di Gregorio, 2017 (4) Codeluppo, 2015 (5) Marwick, 2013 (6) Di Gregorio, 2017 (7) Papacharissi, 2010 (8) Di Gregorio, 2017

Per dirla come Marwich(5), siamo di fronte a una tecnologia della soggettività, utilizzata per verificare la propria capacità di attrazione e per ottenere approvazione sociale. C’è la ricerca di una conferma della propria identità, c’è il bisogno di piacere agli altri e di sentirsi in qualche modo speciali, di fare parte di un mondo di eletti che fanno cose importanti per qualcuno che le commenta a distanza, perché altrimenti si avrebbe la spiacevole sensazione non solo di restare nel solito anonimato, ma soprattutto di non esistere per gli altri e per il mondo.

Bibliografia Codeluppo V., (2015) Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre “vetrinizzazioni”. Mimesis, Milano Di Gregorio L., (2017) La società dei selfie. Narcisismo e sentimento di sé nell’epoca dello smartphone. Franco Angeli, Milano Marwick A. (2013). Status Update. Celebrity, Publicity, and Branding in the Social Media Age. Yale: University press

Spesso però l’immagine che rimandiamo agli altri non è reale ma lo si fa a discapito di una vera autenticità pur di avere la tanto desiderata approvazione altrui(6) .

Papacharissi Z. (2010). A Networked self: identity, community, and culture on social network sites. Londra: Routledge

Zizi Papacharissi (7) ha coniato una definizione efficace – “Networked self” – per indicare un Sé connesso costantemente a una rete di contatti sociali, che rappresentano non soltanto un pubblico di fronte al quale mostrarsi ma anche un vero e proprio capitale sociale sul quale fare leva per affermare la nostra identità.

Tolve A. Arte e vetrinizzazione sociale, ovvero il mondo magico del selfie. Sirenesi Arte. Rivista Online

Si perde la propria individualità e si tende ad assumere un’identità collettiva, ci si omologa a una massa sociale e si adottano comportamenti imitativi che vanificano in parte lo sforzo di mostrare al mondo la presunta unicità. La vita deve essere vissuta prima che osservata, da sé stessi e dagli altri(8).

Francesca Veccia – Psicologa, Psicoterapeuta Si laurea in Psicologia Clinica presso l’Università degli studi “G. D’Annunzio” e successivamente consegue la Laurea Magistrale presso lo stesso Ateneo. Si specializza in Psicoterapia presso la Scuola Internazionale nel Setting Istituzionale a Roma. Ha lavorato come Psicologa volontaria presso il Dipartimento Dipendenze Patologiche. Lavora come operatrice antiviolenza e consulente psicologa presso il Centro Antiviolenza “Libellula” dell’Ambito Sociale di Troia e contestualmente porta avanti la libera professione. È Consulente Tecnica presso il Tribunale di Foggia.

“La generazione meglio equipaggiata tecnologicamente di tutta la storia umana è anche la generazione afflitta come nessun’altra da sensazioni di insicurezza di impotenza” Zigmund Bauman

(+39) 338 2756190

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veccia.francesca@libero.it


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Popolarità a 5 stelle Sono ciò che gradite di me di Dario Maggipinto

La ricerca spasmodica della popolarità, il voler risultare attraenti e desiderabili a tutti i costi è spesso una “copertura” più socialmente accettabile e ammissibile della sottesa ricerca di qualcuno che possa amarci incondizionatamente, accogliendoci nelle sue braccia nonostante i nostri difetti, che devono essere ben nascosti da maschere di facciata, maschere fatte di muscoli e chirurgia plastica. TAG: Psicologia, Black Mirror, Popolarità, esibizionismo, narcisismo, istrionico, insicurezza, identità, società, accettazione

Nella prima puntata della terza stagione di Black Mirror “Nosedive”(1) , la sorridente Lacie vive in un mondo in cui ogni interazione sociale è soggetta ad un’immediata e normale valutazione da parte del prossimo. Ad ogni individuo corrisponde una scala di valori che va da una a cinque stelle. La media delle valutazioni ricevute continuamente, restituisce un valore che definisce ogni persona nella società, nelle sue possibilità economiche, nel suo accesso ai servizi essenziali (sanità, professione, accesso a case in determinati quartieri, utilizzo dei trasporti pubblici e non solo). Dall’alto del suo rassicurante punteggio di 4.2, Lacie coltiva in ogni momento della giornata una certa definizione di sé rispetto al mondo che la circonda, aspirando a salire sempre più nell’indice di gradimento sociale. Emerge chiaramente, all’interno di questo episodio, la totale mancanza di spontaneità dei personaggi, focalizzati interamente nella costruzione di un Sé sociale, cioè una maschera che possa renderli popolari e desiderabili. La ricerca spasmodica della popolarità, il voler risultare attraenti e desiderabili a tutti i costi è spesso una “copertura” più socialmente accettabile e ammissibile della sottesa ricerca di qualcuno che possa amarci incondizionatamente, accogliendoci nelle sue braccia nonostante i nostri difetti, che devono essere ben nascosti da maschere di facciata, maschere fatte di muscoli e chirurgia plastica.

Ci rendiamo conto, dunque, che la narrazione presentata nell’episodio “Nosedive” non è tanto distante dalla realtà, basti pensare al sistema di “rating sociale” già utilizzato in Cina sin dal 2016: a seconda delle attività sui social network, della cronologia di navigazione, della regolarità nei pagamenti delle bollette, dell’affitto, del mutuo, delle eventuali pendenze giudiziarie e così via, si finisce in una sorta di classifica che dovrebbe distinguere i “buoni” dai “cattivi”, così da regolarne gli accessi a determinati servizi (esattamente come nell’episodio “Nosedive”). Ma la suddivisione in classi sociali tramite un sistema di “gradimento sociale” è realmente qualcosa di nuovo per noi e per la nostra società? O l’unica variabile è la modalità con cui il gradimento sociale viene espresso?

Dall’alto del suo rassicurante punteggio di 4.2, Lacie coltiva in ogni momento della giornata una certa definizione di sé rispetto al mondo che la circonda 5 8


costantemente inadeguati se raggiungiamo “tot” visualizzazioni.

Se guardiamo al nostro passato e a quanto gli occhi dei villaggi, dei paesi, o delle corti, gli uomini erano già rivolti gli uni contro gli altri, pronti ad additare chi non rispettava le norme sociali, arrivando addirittura a bruciare vivi coloro la cui “diversità”, intesa come distanza dalla norma, veniva percepita come qualcosa di demoniaco… Insomma, l’indole dell’essere umano nel collettivo non cambia. Se in passato, però, lo scopo del restrittivo conformismo a norme sociali e religiose era legato ad una profonda condivisione dei valori collettivi, talmente radicati da spegnere valori e desideri individuali, nell’epoca moderna sembra essersi strutturato uno scenario diametralmente opposto: lo sforzo spasmodico nel far emergere la propria perfetta “immagine”, seppur bidimensionale e rigida, come quella che compare sui Social Network, colloca l’impatto emotivo delle relazioni in una dimensione remota e dimenticata. La ricerca di nuove relazioni avviene sfogliando una galleria di immagini, la simpatia e l’interesse verso qualcun altro viene alimentata dalle visualizzazioni che l’utente riceve, dai post o dalle immagini che pubblica sulla di ciò che è popolare anziché da ciò che pensa e sente intimamente. È evidente come questo crei un enorme divario tra ciò che gli altri credono che noi siamo e ciò che noi siamo realmente.

non

Probabilmente, per poter uscire da questa dimensione, dovremmo iniziare a fare quella cosa che nel mondo social è percepita come “patetica”, cioè mettere un like ai nostri post, a ciò che condividiamo. Dovremmo iniziare a recensire e valutare noi stessi. In altre parole, dovremmo iniziare a vederci dal di dentro, a non cercare più le visualizzazioni altrui come approvazione del percorso che stiamo compiendo, bensì compiere dei passi nella direzione di ciò che sentiamo nostro, approvato o meno. E per poter compiere i primi passi verso se stessi, occorre porci una domanda essenziale e da quella domanda iniziare il percorso di risposta in direzione di noi stessi: “Chi sono io?”. E tu, sei pronto a convivere con la sana e luminosa angoscia che proviene da quella domanda?

Chi sono io?

Se dunque in passato avevamo a che fare con un sistema sociale “isterogeno”, dove le proprie pulsioni o desideri dovevano essere repressi a causa delle forti restrizioni sociali e delle severe punizioni, ora ci troviamo in un sistema sociale “istrionico”, dove vengono a mancare completamente i limiti e i valori interni che guidano l’individuo verso una reale definizione di Sé. Piuttosto, ci convinciamo della totale inesistenza di limiti, della possibilità di diventare chiunque noi vogliamo essere. E, dunque, chi voglio essere?

Voglio essere famoso, attraente, una persona di successo, voglio essere visto da una società specchio fatta di occhi ciechi, affamati e… invidiosi. All’interno di questo contesto, oggi più di allora diventa difficile comprendere quale possa essere il nostro percorso, quali i nostri obiettivi di vita; diventa ancora più difficile accettare i propri fallimenti nell’ottica di una vita reale, in tre dimensioni, composta quindi da luci e da ombre.

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Il divario tra ciò che sentiamo e ciò che mostriamo al mondo esterno rischia invece di diventare sempre più ampio, portando il Sé ad una profonda dissociazione, dove l’ideale dell’Io è irrealistico e ci porta a sentirci

(1) Tratto dalla puntata di Black Mirror 03x01 Nosedive. Black Mirror è una serie TV incentrata sui problemi di attualità e sulle sfide poste dall'introduzione di nuove tecnologie, in particolare nel campo dei media.

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Bibliografia Cameron P. (2007) Un giorno questo dolore ti sarà utile. Adelphi, Milano Cesareo V. (2012) L’era del narcisismo. Franco Angeli Editore, Milano Lemma A. (2011) Sotto la pelle. Psicoanalisi delle modificazioni corporee. Raffello Cortina Editore, Milano Miller A. (1985) Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé. Bollati Boringhieri Editore, Torino Winnicott D. W. (2003) Sviluppo affettivo e ambiente. Armando Editore, Roma

Dario Maggipinto – Psicologo, Psicoterapeuta Si laurea in Psicologia Clinica e della Salute presso l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti ed è iscritto all’albo degli psicologi d’Abruzzo. È specializzato presso la Scuola Internazionale di Psicoterapia nel Setting Istituzionale di Roma. Ha maturato esperienze presso il Policlinico “Agostino Gemelli” di Roma, specializzandosi nel supporto di pazienti istituzionalizzati, dei pazienti oncologici e loro familiari. Esercita la propria attività privata come Psicologo e Psicoterapeuta a Chieti. È membro della rete psicologi dell'Associazione Italiana Sclerosi Multipla, ed è lo psicologo referente della sezione AISM di Chieti. È Presidente e psicologo referente dell'associazione di promozione sociale "La Cura del Tempo" che si occupa di supporto ed assistenza alla persona anziana o disabile, e socio fondatore dell’associazione di promozione sociale TeAtelier, che si occupa di riqualificare aree del territorio Teatino attraverso progetti di inclusione sociale e di promozione del benessere psicologico. Ha maturato negli anni un expertise nell’ambito dei processi e dei contenuti onirici, sia individuali che socio-gruppali (Social Dreaming), nell’ambito dell’etnopsicologia e dello studio dei miti, nell’ambito dello studio delle modificazioni corporee (in un continuum che va dai tatuaggi all’autolesionismo). È inoltre socio fondatore e vicepresidente di “The International association for psychotherapy in institutional settings", associazione che si occupa di studiare le dinamiche psicoterapeutiche nei contesti istituzionali. È socio fondatore ed editore della rivista divulgativa online “Il Sigaro di Freud“, di cui è anche il website manager. È anche socio fondatore e vicepresidente dell'omonima associazione. (+39)3349428501 dario.maggipinto@gmail.com 6 0


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Nell’Era del Non-Pensiero

Il fenomeno dell’Odio OnLine di Emanuela Gamba

La diffusione dei Social Network ha dato voce al popolo, una voce che risuona sempre più minacciosa. Il fenomeno dell’Odio Online è oggi un’emergenza sociale. La società è in parte assuefatta all’azione e al non-pensiero di rischi e conseguenze. Contenuti discriminatori, offensivi, diffamatori e violenti vengono condivisi con estrema facilità nel cyberspazio, amplificando, rendendo virali e talvolta indelebili i messaggi d’odio veicolati. Spesso le vittime sono minorenni, personaggi famosi e perlopiù donne. Ma quali sono le dinamiche sottese a questo fenomeno e quali gli interventi possibili per contrastarlo? TAG: Psicologia Sociale, Società, Odio Online, Odio, Capro Espiatorio, Social Network, Identità, Virtuale, Misoginia, haters Negli ultimi venti anni sono notevolmente aumentate l’accessibilità alle informazioni, la diffusione e la condivisione di conoscenze e le occasioni di sperimentare il diritto alla libertà di espressione.

condizioni sociali e economiche. Colpisce non solo gli “ultimi”: anche i VIP, i politici e i giornalisti sono frequenti vittime degli haters a causa del pregiudizio insito nell’equivalenza

ricco=fortunato=diverso . È la diversità che spaventa e che spinge all’attacco.

Internet ha cambiato irrimediabilmente il nostro modo di interpretare e di interagire con il mondo.

I discorsi d’odio, dunque, sono sempre l’espressione di un pregiudizio culturale, sociale e/o religioso a cui un individuo accede come riflesso della paura di essere accomunato al diverso. Gli haters rimarcano la propria (illusoria) appartenenza ad un gruppo d’élite, quel gruppo di bianchi, uomini, sani, eterosessuali (...) che riattualizza le mai del tutto socialmente superate ideologie ariane.

I Social Network, in particolar modo, hanno offerto e offrono l’opportunità di comunicazioni differenziate e ad ampio raggio: permettono di esprimere opinioni, sperimentare nuovi comportamenti, mostrare parti di sé, come passioni e pensieri, velocemente e contemporaneamente a una moltitudine di persone.

Secondo la teoria del Capro Espiatorio di Girard (3), un gruppo sociale è coeso e forte quando trova un bersaglio comune da attaccare, quando dunque identifica una categoria di persone o situazioni come “il male” e si pone l’obiettivo di annientarla o relegarla ad uno spazio limitato per sopravviver-le. In quella lotta comune, l’appartenenza a un gruppo plasma l’identità dell’individuo e gli fornisce una ragione di esistere.

Le identità individuali e la coscienza pubblica nel mondo di oggi non vengono modellate solo in famiglia, nel gruppo di amici o a scuola, ma prendano forma, in grande misura, nella dimensione On-line. I contenuti presenti nel cyberspazio acquistano un valore elevato per l’effetto che potenzialmente hanno sul nostro vivere. L’odio online è un problema complesso e multidimensionale, caratterizzato dalla presenza crescente di messaggi discriminatori e violenti sui Social Network. La proliferazione e la fruibilità di tali contenuti è determinata dalla velocità, dal globalismo e dall’anonimato che lo strumento-internet riserva (1).

È ciò che avviene oggi nella nostra società e nello specchio virtuale di essa. I commenti d’odio sono una rappresentazione di questa dinamica arcaica in cui è l’individuo singolo che agisce, attaccando un capro espiatorio e aderendo alla lotta del gruppo da cui vuole essere desiderato: nella paura irrazionale e inconsapevole di perdere parti di sé, colpisce l’altro e si protegge dal pericolo, mantenendo al sicuro la sua identità individuale e di gruppo.

La definizione più ampia del fenomeno riguarda “ogni forma di espressione On-line contenente discriminazioni di razza, etnia, nazionalità, religione, sesso, orientamento sessuale, identità di genere, disabilità”(2) , 6 2


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La desiderabilità sociale influenza le scelte del singolo nel mondo online e viene espressa nell’aspettativa di ricevere conferme virtuali al proprio modo di pensare, i così detti “like”, espressione di una fragilità identitaria.

fenomeno violento che ha smosso l’opinione pubblica a difesa di una ragazza appena maggiorenne colpita da un’onda d’odio di dimensioni super. A difesa di Chiara sono stati inviati moltissimi commenti in risposta ai messaggi d’odio, le espressioni di non-odio che vengono definite contro-narrazioni.

Il profilo psicologico e sociale di un hater prevede una scolarità medio-bassa, una dimensione borderline di personalità e un attaccamento insicuro. L’emozione che accompagna l’odiatore è la paura e il suo meccanismo di difesa preferenziale è la proiezione: l’individuo presenta difficoltà ad entrare in contatto con suoi sentimenti aggressivi e invidiosi e ad accettarli come parti di sé.

Le contro-narrazioni sono messaggi che hanno il potere di affrontare e attaccare l’odio online senza limitare la libertà di espressione degli utenti e fornendo un punto di vista diverso alla massa di odiatori. Sono risposte all'odio inviate da altri utenti che solitamente ricevono più “like” dei discorsi di odio; per questo rappresentano interventi efficaci contro gli haters.

Le vittime sperimentano rabbia, tristezza, dolore, angoscia, umiliazione, isolamento, paura, finanche depressione e idee suicidarie. Si sentono private delle loro libertà e vittime della distruzione mediatica di parti identitarie di sé.

Ognuno di noi può generare una contronarrazione, scegliendo di condividere messaggi in difesa delle vittime, messaggi mai offensivi: non è efficace invertire l’oggetto d’odio, ma proporre messaggi di inclusione e di sostegno. Sono gratis, ma determinano un forte impatto emotivo sulle vittime e sulla società.

Sui Social Network i discorsi d’odio sono rivolti prevalentemente a soggetti di sesso femminile e rappresentano una forma subdola di violenza psicologica. È emerso che le molestie online rivolte al femminile si presentano particolarmente insidiose e qualitativamente peggiori rispetto a quelle subite da uomini e generano nelle donne un maggiore disagio emotivo (4).

La lotta contro i discorsi d’Odio Online ha coinvolto attivamente Società come Facebook, Microsoft e YouTube che hanno concordato con l’Unione Europea delle strategie di azione, stilando un Codice di Condotta per la regolamentazione dei messaggi online, prevedendo norme di segnalazione e obblighi di rimozione dei contenuti violenti, xenofobi e/o sessisti (9) .

Nella società e nel cyberspazio, il sessismo e la misoginia si presentano frequentemente anche attraverso messaggi apparentemente innocui, che nascondono la propria pericolosità dietro l’umorismo: è il caso delle barzellette o delle battute di spirito sessiste (5). Le minacce online sono spesso abbellite dall'uso di emoticon, dall'acronimo ''LOL'' (ridere ad alta voce) o da significanti simili che attribuiscono un tono ilare alla conversazione. L'umorismo sessista è un esempio di violenza simbolica che determina una dinamica di sottomissione di genere (6): le battute sessiste vengono, infatti, vissute dalle donne allo stesso modo di una molestia sessuale (7).

La questione sulla regolamentazione sull'Odio On-line è solitamente presentata come un complesso tentativo di trovare un equilibrio tra il diritto di parola ed altri altrettanto importanti diritti umani. La libertà di espressione e di informazione è un diritto che va tutelato, ma la diffusione di contenuti non può non tener conto della libertà altrui e della dignità umana. Ogni persona ha il dovere di riflettere sulle parole da diffondere sui Social Network prima di pigiare i tasti “condividi” o “pubblica” perché le parole hanno un peso e il loro effetto è incancellabile.

La misoginia rappresenta un problema concreto nel mondo online(8) e soventemente si presenta sotto forma di una doppia discriminazione, ovvero accompagnata da un altro pregiudizio di razza, religione, orientamento sessuale (…) .

“Virtuale”, inoltre, non significa “non reale”. Nella dimensione online, la possibilità di anonimato e la percezione di non essere nel mondo vero contribuiscono alla nascita e allo sviluppo dei discorsi d’odio: gli utenti si sentono maggiormente liberi di esprimere la propria opinione, non avendo consapevolezza a pieno della negatività e del valore del proprio messaggio. Ma ciò che accade online non rimane solo online: chi entra in contatto attivamente con atteggiamenti e discorsi d’odio nel cyberspazio, con più facilità li ripropone nel mondo offline;

In Italia, ricordiamo la vicenda di Chiara Bordi, partecipante a Miss Italia 2018 e portatrice di una protesi alla gamba: un triste esempio di doppia discriminazione resa pubblica attraverso il mondo Online. Una donna attaccata, denigrata, distrutta, odiata sui Social Network perché donna e perché disabile. Un 6 4


anche le vittime si trovano a rivivere le emozioni di disagio sollecitate dagli attacchi online nella vita di tutti i giorni, un condizionamento non poco significativo. La lotta contro l’Odio Online deve necessariamente passare attraverso un’educazione al pensiero e alle emozioni. Ogni qual volta ci sentiamo spinti al giudizio facile, ogni qual volta scegliamo di aderire a degli stereotipi perché ciò che conosciamo ci fa meno paura, ogni qual volta siamo spinti a sfogare le nostre frustrazioni all’esterno, ogni qual volta pensiamo che la nostra azione non determini una conseguenza abbiamo il dovere di fermarci a pensare.

Bibliografia Bemiller, M. L., & Schneider, R. Z. (2010). It's not just a joke. Sociological Spectrum Chetty N., Alathur S. (2018) Hate speech review in the context of online social networks. Aggression and Violent Behavior European Union (2016) Code of conduct on countering illegal hate speech online Ford, T. E., Boxer, C., Armstrong, J., & Edel, J. (2008). More Than "Just a Joke": The PrejudiceReleasing Function of Sexist Humor. Personality & Social Psychology Bulletin Fox, J., Cruz, C., & Lee, J. Y. (2015). Perpetuating online sexism offline: Anonymity, interactivity, and the effects of sexist hashtags on social media. Computers in Human Behavior

Pensare.

Girard R. (1982) Le bouc émissaire, Paris, Grasset; trad.it. (1987) Il Capro Espiatorio. Milano, Adelphi Editore

Pensare a quelle aree di fragilità presenti in ogni persona, nell’altro ed anche in noi, sentirle e fare pace con esse.

Massaro T.M., (1990) Equality and freedom of expression: The hate speech dilemma. Wm. & Mary

Pensare che l’impulso all’odio appartiene in primis a noi: siamo tutti ipoteticamente degli haters.

L. Rev. Worth A., Augoustinos M. & Hastie B. (2016) Playing the gender card: media representations of Julia Gillard’s sexism and misogyny speech. Feminism & Psychology. SAGE Publications

Pensare alla nostra identità, ai nostri bisogni, ai nostri desideri e alle nostre frustrazioni, spostando il focus all’interno di noi, anche se è doloroso, anche se è più faticoso. Pensare al peso delle parole, all’effetto reale che hanno anche all’interno di un contenitore online. Pensare che non possiamo permetterci di essere superficiali quando abbiamo nelle mani il potere di generare emozioni con una sola parola. Pensare. Dobbiamo imparare a pensare - forse - solo un po' di più.

Emanuela Gamba – Psicologa, Psicoterapeuta Psicologa titolare di due Mater di II livello in Scienze Forensi e Psico-Oncologia, specializzata in Psicoterapia Psicodinamica alla Scuola Internazionale nel Setting Istituzionale a Roma. Ha collaborato con il Policlinico A. Gemelli di Roma, con l'Associazione Semi di Pace di Traquinia, con il Centro Rondini e per il progetto "Noi Speriamo che ce la caviamo da soli" per la disabilità cognitiva. Presidente di I.A.P.I.S.(The International Association for Psychotherapy in Institutional Settings) con cui porta avanti progetti di ricerca e di formazione continua. Presidente di "Il Sigaro di Freud". Attualmente svolge la propria attività clinica privatamente a Roma e collabora con l’Associazione "La Cura del Tempo" di Chieti.

_________________________________________ (1) Massaro, 1990 (2) Chetty N. & Alathur S., 2018 (3) Girard R., 1982 (4) Fox, J., Cruz, C., & Lee, J. Y., 2015 (5) Worth, Augoustinos, & (5) Hastie, 2016 (6) Bemiller M.L., Schneider R.Z, 2010 (7) Ford, T. E., Boxer, C., Armstrong, J., & Edel, J., 2008 (8) Fox, J., Cruz, C., & Lee, J. Y., 2015 (9) European Union, 2016

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