TheDesignMagazine
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Registrazione presso il Tribunale di Perugia n. 1720 del 2020
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PREFAZIONE
INTERVISTE
BRAND PITT
WINE DESIGN
ARTE
IL DESIGN DELLE EMOZIONI
Chiara Alessi: Le caffettiere dei miei bisnonni. La fine delle icone nel design italiano
Netflix: una piattaforma nata giocando di anticipo
A cura di Nicola Palumbo
Cantina Scacciadiavoli. Conversazione con Liù Pampuffetti
A cura di Elisabetta Enrietti
Le Stratificazioni dell’Arte A cura di Alessandra Capponi, Debora Fanini, Elisa Pietrelli
A cura di Elena Di Vaia
L’Associazione Prefazione: Districarsi in una società gassosa A cura di Giulia Radi
Visibilità invisibile – Autoscatti per costruire la propria identità
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A cura di Francesca Veccia
Popolarità a cinque stelle – Sono ciò che gradite di me A cura di Dario Maggipinto
PROGETTI IID 3F: “Forest 4 Fashion"
THE TEA JAM
Nell’era del non pensiero – Il fenomeno dell’odio online
Beatles: la storia di una discografia
A cura di Emanuela Gamba
A cura di Simone Fucchi, Eleonora Baiocco, Giacomo Rosiello
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The Design Magazine (TDM) nasce dall’obiettivo dell’Istituto Italiano Design di “divulgare la cultura del progetto” raccontando storie di personalità ispiranti del mondo dell’arte e della cultura. TDM parte da un tributo alla scuola Bauhaus, a cui dedica la copertina, e si propone di raccontare, con toni leggeri, le storie di innovatori del calibro di Castiglioni e Alessi, senza però tralasciare i piccoli artigiani locali, imprescindibili per la valorizzazione del territorio assieme aquelle aziende che su di esso hanno permesso la nascita di un tessuto produttivo e imprenditoriale. La prima parte del Magazine viene per la maggior parte estratta dai contenuti multimediali di Radio Design, web radio che dal 2018 dà voce agli studenti dell’Istituto guidati dallo Speaker e Conduttore radiofonico, con esperienza decennale, Prof. Nicola Palumbo. Interviste e rubriche condotte da questi giovanissimi professionisti, come “Brand Pitt”, “Wine Design” e “The Tea-Jam”,gridano con entusiasmo che bellezza e design contaminano ogni cosa. Ad esempio, si potrebbero esplorare le infinite declinazioni grafiche che possono vestire l’etichetta o il packaging di una © Alessandra Perna bottiglia di vino o della discografia musicale. Gli aneddoti impregnati di Design sono davvero infiniti! Dalle innovazioni nella progettazione a quelle del pensiero, come la nuova disciplina della Brand Identiy, oramai indispensabile in ogni settore, senzatrascurare la “madre” degli applicativi grafici: l’Arte Visiva,da cui tutto nasce. Chi meglio dei critici potrebbe condurci in questo mondo di colori, figure e stili diversi? Questa prima parte termina con piccoli spunti progettuali: le iniziative dei giovanissimi designer dell’Istituto, che con la loro creatività...“colorano i sensi”! La secondaparte assumeinvece un taglio introspettivo, emotivo, emozionale... Con gli psicologi della Associazione Il Sigaro di Freud si esplorano i meccanismi di funzionamento della creatività e della personalità, quelli che portano, in fin dei conti, a realizzare quella “cultura del progetto” che abbiamo tanto a cuore. Con il miglior proposito di portare un po’ di creatività, bellezza e...design nella vostra mente...vi auguriamo una buona lettura! AnnaMaria Russo Presidente IID _______________________________________________________________________________
IID L’Istituto Italiano Design (di seguito “IID” o “Istituto”) è, da oltre 20 anni, un punto di riferimento per la formazione nei settori del design, delle arti e della moda. Guardando da vicino ricerca, tecnologia e innovazione di prodotto, IID offre una proposta di studio altamente qualificata. Favorendo un approccio interdisciplinare, IID combina teoria e pratica, aspetti culturali e tecnici, unendo alle le lezioni teoriche ad esercitazioni pratiche ed attività laboratoriali. L’obiettivo dei corsi è la acquisizione di un metodo di progettazione in grado di soddisfare sia le esigenzedel cliente sia quelle del mercato, stimolando la formazione culturale e critica necessaria per interpretare il gusto del tempo ed anticipare le tendenze. Gli istruttori sono professionisti esperti, preparati con credenziali culturali ed educative oltre ad avere il valore aggiunto del know-how della professione, riuscendo così a garantire una formazione costantemente aggiornata e creando una rete di collegamento con le aziende del settore in vista di un job placement. La connessione tra diverse esperienze e competenze professionali, la profonda relazione con la cultura del progetto e il contatto diretto con il mondo industriale delle imprese sono gli elementi che consentonoa IID di offrire una formazione completa in linea con le esigenze del mercato del lavoro. La visione e la missione di IID è quella di preparare i futuri professionisti al fine di dare loro la possibilità di consegnare progetti reali attraverso il metodo pratico di progettazione.
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Gruppo lavori “comunicazione”
Gruppo lavori “artistico sociale” Jacopo Cossater Giornalista enogastronomico, è Senior Editor di Intravino e collabora con Linkiesta.
Cristiana Pegoraro Pianista internazionale e direttore artistico Narnia Festival. Diplomata al Mozarteum di Salisburgo, alla Hochschule der Künste di Berlino e alla Manhattan School of Music di New York.
Luca Garosi Giornalista professionista e Caporedattore Rai. Caporedattore Rainews24 (in Rai da 20 anni). Docente di Strategie di Comunicazione in Rete (Università di Perugia). Silvia Angelici Giornalista professionista, con esperienza pluriennale per La Nazione sezione Cultura, Arte, Spettacolo e Attualità.
Comitato Scientifico – Area Scientifica Ing. Walter Risolo Ing. Andrea Lenterna Ing. Victor Pawelski
Comitato Scientifico– Area Giuridica Avv. Benedetta Risolo Avv. Gioia Caldarelli Avv. Damiano Marinelli Adv. Erlind Kodhelaj
Valentina Scarponi Giornalista pubblicista, collabora con La Nazione e PerugiaToday - sezione cronaca giudiziaria.
Comitato Scientifico – Area Comunicazione Dott. JacopoCossater Dott. Luca Garosi Dott.ssa Silvia Angelici Dott.ssa Valentina Scarponi
Carlo Pizzichini Professore della Cattedra di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, precedentemente presso ABA Firenze.
Alejandra Chena Responsabile dell’Ufficio Internazionale Universidad de Rosario, Argentina. Consulente indipendente in gestione delle relazioni internazionali e cooperazione e gestione dello sviluppo.
Comitato Scientifico– Area Culturale Artistica Prof. Carlo Pizzichini Dott.ssa Cristiana Pegoraro Arch. Vittorio Lauro
Comitato Scientifico – Area SocioPsicologica Dr. Alejandra Noemí Chena Dott.ssa Giulia Radi
Vittorio Lauro Archeologo Leader Rilievi Progetto Be-Archeo Okayama, Giappone con esperienza decennale, Direttore I.R.I.A.E. supervisore di diversi progetti archeologici internazionali.
________________________ Ogni edizione di “The Design Magazine” è approvata con delibera del Comitato Scientifico dell’Istituto Italiano Design. ________________________ Contributor Editoriale: Amida Agalliu Grafica: Diana Magri
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Chiara Alessi A cura di Nicola Palumbo
INTERVISTA Le caffettiere dei miei bisnonni. La fine delle icone nel design italiano
Ogni volta che diciamo una parola le accostiamo automaticamente un’immagine nella nostra mente, quella che, secondo la nostra esperienza, è la più rappresentativa di quel che stiamo dicendo. Ad esempio, cosa associamo alla parola caffè? Alcuni di voi avranno visto dei chicchi scuri che vengono macinati, altri una tazzina fumante e altri ancora una moka. Eppure quest’ultima non è nata assieme al caffè, è stato qualcuno (per l’esattezza Alfonso Bialetti) ad inventarla e a renderla così presente nella nostra quotidianità da farla comparire automaticamente nella nostra testa quando sentiamo qualcuno dire caffè. Sicuramente, per un designer, creare qualcosa di così paradigmatico, è sicuramente motivo di grande orgoglio. Ma prodotti iconici come la moka Bialetti vengono prodotti nel design italiano al giorno d’oggi? Lo abbiamo chiesto a Chiara Alessi, curatrice e saggista nell’ambito del design, docente al Politecnico di Milano nonché bisnipote del celebre inventore della moka. Chiara Alessi ha trattato proprio quest’argomento nel suo ultimo libro Le caffettiere dei miei bisnonni. La fine delle icone nel design italiano.
Anghini, fondatore dell’azienda di casalinghi di design Alessi. Questo perché mi sarebbe piaciuto parlare dei nostri bisnonni, nel senso che, secondo me, questa cultura materiale a cui loro hanno dato vita, questi archetipi e queste icone, di fatto appartengono a tutti noi, noi italiani le abbiamo un po’ nel DNA. Poi, naturalmente, c’è questo tema più biografico che parte da questa domanda che, siccome mi occupo di design, mi viene posta spesso: nel design contemporaneo quando pensiamo agli oggetti possiamo ancora parlare di icone? E quali sono queste icone? Cercando di rispondere a questa domanda che evidentemente c’è, ed è più diffusa di quanto si pensi, ho dovuto constatare che nel design e più in generale nel mondo degli oggetti di oggi è difficile, complesso, parlare di icona. Forse il termine stesso icona è da sostituire con qualcosa di aggiornato, con un nuovo vocabolario o un nuovo lessico. Insomma la mia ricerca è partita proprio da questa domanda: proviamo a capire perché non ci sono più le icone. E naturalmente agganciata a questo interrogativo c’è la definizione di cosa sia un’icona. E naturalmente agganciata a questo interrogativo c’è la definizione di cosa sia un’icona. Questo libro, anche grazie all’aiuto dell’editore di Utet libri Andrea Cane, ha assunto la forma di un pamphlet, composto da dozzina di punti. In questi punti provo a dire cos’è un’icona nel design (naturalmente non ho la pretesa di fare un trattato più esteso sul termine stesso di icona che ha un’origine di carattere religioso) cercando di definire cosa ha reso un oggetto icona e anche perché oggi ciò non è più possibile.
Chiara è autrice di molti libri, tra cui l’ultimo, Le caffettiere dei miei bisnonni. La fine delle icone nel design italiano. Proprio per l’uscita di questo libro, che tra l’altro ho letto e trovato molto bello e molto scorrevole, ti volevo chiedere com’è nata l’idea di scrivere questo libro, che include anche elementi biografici. Se vuoi partiamo proprio da questo elemento, dal tema biografico, che è presente anche nel titolo. Sono stata fortemente in dubbio riguardo l’essere così esplicita nel dichiarare che si tratta dei miei bisnonni, Alfonso Bialetti, inventore della moka e Giovanni Alessi 1 0
l’archetipo e quello che Eco definiva il tipo cognitivo.
La conclusione a cui arrivo, anche se non vorrei fare uno spoiler (ride), è che probabilmente le ragioni per cui non si producono più icone non sono tanto insite nel design stesso o nella capacità creativa degli autori e dei progettisti, quanto in una questione di carattere più sistemico, legata al tempo che viviamo: questo ci costringe a fare i conti, come dicevo prima, con un nuovo e aggiornato vocabolario. Quest’ultimo forse è uno dei temi ricorrenti nella mia ricerca, provare a spostare un po’ il fuoco rispetto ad alcuni paradigmi che abbiamo sempre dati per scontati nel design e tentare di aggiornarli con quello che sta succedendo oggi. Penso valga lo stesso anche se pensiamo ai maestri del design: il design italiano è famoso per le sue icone e per i suoi maestri e oggi forse dobbiamo trovare delle nuove ragioni per dare un senso a questa autenticità e a questa specificità della cultura italiana del progetto.
Esatto, poi, citando ancora Eco, c’è il paragone tra ipo-icone eccetera, però lì il discorso diventa molto molto complesso. Tornando al libro il mio editore mi ha dato un compito che non so fino a che punto ho rispettato: l’idea era scrivere per diciottenni intelligenti (ride). Questa secondo me è la cosa più appassionante, provare a parlare a tutti alzando un po’ l’asticella di quello che viene richiesto. Per decenni noi italiani siamo stati leader nel campo del design. Adesso invece dove sta andando il design secondo te? Quali sono i Paesi che guidano questa, diciamo, classifica? Parlare di classifiche o di trend, perlomeno per me, è sempre un po’ difficile. Poi io, anche per indole, tendo sempre a stare dalla parte dei più deboli (ride) quindi mi è difficile ragionare in questo senso. Diciamo che, secondo me, il vero problema italiano è proprio la sua storia. È una grande eredità, ma, d’altra parte, è come aver avuto un padre ingombrante. Il design italiano ha un Edipo fortissimo. Competere con quella cosa lì e rifarsi un’immagine propria, adeguata, nuova e specifica è molto complesso. Ci sono dei Paesi che non hanno una storia del design, per esempio tutti i Paesi emergenti, come l’India o la Cina non ce l’hanno. Questo riesce a liberarli molto di più da… appunto questi archetipi in questo senso però Jungani, che sono presenti.
Nel libro infatti spieghi anche la differenza tra icona e archetipo. Cos’è per te l’archetipo nel design? Secondo te negli ultimi anni siete riusciti a tirar fuori nuovi archetipi? Forse definire l’archetipo, paradossalmente, è più semplice che definire l’icona. Diciamo che entrambi fanno riferimento a qualcosa che vive soprattutto nel nostro immaginario, nella nostra testa. L’archetipo è quello a cui tu pensi quando pensi a. Per esempio se tu pensi al bicchiere l’immagine che ti viene in mente è quella che disegnerebbe un bambino, no? Certo, se avesse le competenze anche grafiche per riprodurre un bicchiere. Però ecco, quello è l’archetipo. Come dice l’origine etimologica del termine l’archetipo è il primo di una serie: ci sono alcune icone che sono degli archetipi, ad esempio la moka del bisnonno Alfonso è un archetipo perché prima di quella il caffè veniva fatto in un modo completamente diverso. Quindi è un’invenzione, perché ha portato a un nuovo modo sia di produrre, perché la moka è fatta con un sistema di stampaggio completamente rivoluzionario per il tempo, che a una nuova forma e un gesto. Questo definisce un’invenzione. Detto questo ci sono anche delle altre icone che non sono degli archetipi, non hanno creato nulla, però hanno quella che i semiologi chiamano persistenza retinica, ossia la capacità di imprimersi nella mente delle persone in modo molto vivido. Non sarà un’innovazione ma è un lavoro fatto sul segno. Se pensiamo a tutto il radical design di invenzione non ce n’è nessuna eppure quelle immagini lì sono sicuramente immagini iconiche. Forse si può anche fare un paragone tra 1 1
Hanno molta meno ansia diciamo (ride). Ho delle classi in cui ci sono studenti che vengono da tutto il mondo e tipicamente gli italiani hanno una cultura molto forte, ne sanno tantissimo, però, proprio in questo sapere ogni tanto sono bloccati nell’emulazione di un modello che ormai non è più fattibile, non è più replicabile perché rispetto a quando si muovevano i loro maestri o anche le aziende storiche tutto è cambiato. Quindi vanno davvero aggiornati un po’ questi paradigmi. Grazie, ti faccio un’ultima domanda. Stai lavorando a un nuovo progetto? Hai degli spoiler per noi? Nì (ride). Attualmente sto lavorando a un nuovo progetto di ricerca che mi appassiona molto in cui provo a raccontare il tassello che manca, o uno dei tasselli che mancano, alla mia ricerca perpetua (perché alla fine è come se io stessi scrivendo lo stesso libro (ride) da ormai sette otto anni) che è legata proprio al tema della creatività e dei maestri. Però proverò a parlare dei maestri del design da un punto di vista che credo sia inedito, cercando di recuperare informazioni sulla loro infanzia. Peraltro avendo anche due bambini piccoli e vivendo in una contemporaneità di bambini geni, ribelli, prodigio (ride) molto molto caricati, specialmente da noi adulti, sulla prestazione, sulla performance. Ecco, interessarmi invece di che cos’era il progetto nell’animo, nella passione, nelle mani di questi ragazzini, quando il progetto non esisteva, se non esisteva nel lessico non esisteva neanche il loro, mi sembra appassionante. In questo caso torno molto indietro nella storia perché queste infanzie si sono realizzate perlopiù a cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale. Il progetto dovrebbe essere anche abbastanza iconografico, quindi immagini e racconti, ma che forma avranno i racconti non lo voglio dire perché dovrebbe essere una sorpresa (ride). Bene (ride). Ma questo lavoro quando lo vedremo? Lavoro negli anni dispari e vengo pubblicata negli anni pari (ride) quindi probabilmente nel 2020. Va bene, allora nel frattempo troveremo qualcosa da fare per il prossimo anno (ride). Direi di sì, non dovrebbe essere difficile intrattenersi.
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BRAND PITT Netflix: una piattaforma nata giocando di anticipo Rubrica a cura di Elisabetta Enrietti; tratta dall’omonimo programma radio dedicato ai brand più famosi: la ragione del loro successo, e curiosità sulla loro storia.
I dualismi che possiamo usare per categorizzare la società sono infiniti: buoni/cattivi, ricchi/poveri, belli/brutti, consumatori di caffè/consumatori di tè… Un’altra contrapposizione per distinguere le persone tra loro è emersa di recente: chi è iscritto a Netflix e chi lo scrocca a qualcun altro! La fama della piattaforma, infatti, è talmente grande che in molti invece di dire “questa sera guardo un film” dicono direttamente “questa sera apro Netflix”. Ma come è riuscito questo colosso della rete a diventare tale? Qual è stata la sua idea vincente? E già che siamo nella rubrica Brand-Pitt, vogliamo parlare anche del suo logo? Il modello di business: una cassetta postale per i film Dovete sapere che il modello di business di Netflix ai suoi albori era estremamente lontano da quello attuale. Perché? Beh, al contrario di quello che si pensa la piattaforma è tutt’altro che recente: Netflix infatti nacque nel 1997 da un’idea degli americani Marc Randolph e Reed Hastings, rispettivamente (per dirla in brevissimo) un uomo di marketing e un ingegnere informatico, che già ricoprivano posizioni di un certo livello prima di investire su questo progetto. Inizialmente il modello di business di Netflix era totalmente diverso da quello attuale. Si trattava infatti di un servizio postale per la fruizione di video, praticamente un noleggio di film via posta. Il cliente si connetteva al sito internet di Netflix, selezionava i film che voleva vedere e li riceveva via posta. Una volta finito col film lo re-impacchettava e lo rimandava indietro. Questo modello non ottenne molto successo, così Randolph e Hastings proposero un abbonamento mensile: il cliente poteva scegliere tre titoli, riceverli via posta e restituirli. Una volta riconsegnati poi poteva anche prenderne altri nel corso dello stesso mese. Insomma, la propensione verso modelli di business poco convenzionali Netflix l’ha sempre avuta. E anche quella per le idee vincenti, dato che la società continuò a crescere, finché, arrivati al miliardesimo film spedito, Randolph e Hastings decisero di spostare il loro business online e iniziarono a proiettare i film in streaming. Era il 2007 e da allora la loro ascesa è stata inarrestabile. Oggi Netflix è la piattaforma leader nel suo campo, con circa 125 milioni di utenti. Se includiamo anche i parassiti che usano gli account Netflix degli altri il numero cresce sensibilmente.
successo è stato quello di anticipare cosa sarebbe successo nei successivi dieci anni, lavorando duramente ma sempre con il sorriso. Sicuramente ha ragione, ma anche il loro avanzatissimo buffering ha aiutato: per chi non lo sa il buffering è una tecnologia che permette al video online di scaricare altri segmenti del suo contenuto mentre lo stai guardando. In questo modo ti permette di vedere ancora parte del video anche se la rete viene meno. Entrambi i fondatori di Netflix hanno sempre creduto molto nel progresso della tecnologia, nei cambiamenti che essa porta nel mercato e nell’importanza del saperli prevedere con anticipo. Con talmente tanto anticipo che Hastings ha dichiarato che: “Abbiamo chiamato la compagnia Netflix (Net significa rete mentre Flix è un termine gergale americano per dire film, n.d.r.) e non DVD-perposta proprio perché sapevamo che alla fine avremmo distribuito i film direttamente via internet in un modo innovativo.” Oltre al modello di business innovativo, alla tecnologia avanzata e alle mistiche doti di chiaroveggenza, pardon all’intuito, dei suoi ideatori un’altra ragione del successo di Netflix è dovuta al suo impegno sul fronte del marketing. Impegno che si esprime con enormi quantità di denaro destinate a questo fronte, quantità che in alcune annate sono state anche il doppio di quelle investite da colossi come Apple e Facebook (cioè il doppio di un miliardo di dollari, fate voi due conti). Tra le strategie di marketing di Netflix c’è il lancio di contenuti multimediali online, specialmente trailer, largamente condivisi. I toni usati per i vari meme sono molto informali e spesso e volentieri fanno dei riferimenti all’attualità, quest’ultimi resi più efficaci dal fatto che la comunicazione è diversificata per ogni Paese: in Italia i social di Netflix sono seguiti da We are social, agenzia di comunicazione vincitrice del Festival della rete 2018.
Avanguardia tecnologica e chiaroveggenza Secondo Reed Hastings, il segreto del loro 1 4
© Diana Magri
Il logo Netflix nel corso della sua storia ha cambiato tre loghi. Già la scelta del nome fu travagliata, iniziata includendo tra le opzioni Luna o Kibble, per arrivare a quello che, stando alle dichiarazioni di Hastings, è il migliore che avrebbero potuto scegliere. Il primo logo fu utilizzato tra il ’97 e il 2000. Il rosso che immediatamente associamo a Netflix era sostituito dal viola e in mezzo alle parole Net e Flix era presente una pellicola. Dopo il 2000 il logo subì delle importanti modifiche: la pellicola scomparse e Netflix divenne una sola parola, scritta in font Graphique, di colore bianco su campo rosso. La scritta sembrava svettare verso l’esterno, come a uscire dallo schermo. Nel 2014 il logo evolse ancora e diventò quello odierno, scritta rossa su fondo nero. Il cambiamento più importante fu a livello di font, che passò da Graphique a Netflix Sans, un font derivante dal Gotham. Cosa c’è di così rilevante? Beh, oltre all’impatto estetico il Netflix Sans è un font creato appositamente da Netflix per Netflix. La scelta fa bene sia alla riconoscibilità del brand, che userà il Netflix Sans per tutti i titoli prodotti dalla piattaforma, sia alle tasche della società (probabilmente felice di versare tutto il denaro rimasto in altre campagne marketing) che così risparmia sulle licenze dei vari font. A proposito di riconoscibilità anche il rosso usato per la scritta Netflix è un nuovo colore creato dalla società; precisamente combinando molto giallo, molto rosso, poco nero e niente blu. Netflix ha anche una versione contratta del logo, la celebre N rossa su fondo nero, utile perché entra molto meglio del logo esteso nei riquadri delle app. La N è concepita per sembrare un tappeto rosso che si srotola. Il logo, sia da esteso che da contratto, segue
regole molto rigide ed è progettato perché si veda alla stessa maniera (ossia non venga compresso o ‘slargato’) sia su schermi molto estesi sia su schermi piccoli. Pertanto la società dispone di un manuale di immagini con le regole di utilizzo del logo, in cui specifica anche dove sia proibito inserirlo. Tra i posti più strani segnalati dal manuale figurano gli zerbini, il pannello per le freccette e i prodotti usa e getta, perché il logo non si veda nella spazzatura. Insomma, quella di Netflix e dei suoi creatori è soprattutto la storia vincente di chi ci ha visto lungo. L’idea di spedire i film nasce dal bisogno di non recarsi presso un esercente fisico ogni volta che si desiderava qualcosa. Un bisogno che, a quanto dice Hastings, loro avevano percepito dal momento in cui avevano deciso di chiamare la nascente società Netflix. Sicuramente la chiaroveggenza di lui e Randolph era facilitata dal fatto che entrambi lavorassero in settori ‘moderni’ come l’informatica e il marketing e dal fatto che gli Stati Uniti, sotto determinati aspetti, è già un po’ come se vivessero qualche anno avanti a noi: vi immaginate una piattaforma di streaming online in Italia nel 2007? I suoi creatori avrebbero dovuto continuare a mandare film per posta per un altro po’, perché l’ADSL, usata al tempo per accedere ad internet nel nostro Paese, non avrebbe retto i ritmi della rete. Magari Hastings dice di aver chiamato Netflix così perché aveva previsto tutto solo per fare lo splendido; anche se così fosse è innegabile che dietro alla nascita della piattaforma ci sia una visione delle future esigenze dei consumatori. Un gioco di anticipo che ha cambiato per sempre il nostro modo di guardare i film.
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Progetti IID 1 6
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3F: Forests 4 Fashion” è un progetto promosso da IID in collaborazione con PEFC che ha ad oggetto la ricerca delle innovazioni di tecnologie e materiali per un design sostenibile . Gli studenti autori della collezione sono: Marco Rossi, Valerio Mercurii, Maria Rosaria Franco, Roberta Pezzotti, Alessandra Perna . Questo progetto supporta la gestione sostenibile delle foreste e la moda etica per soddisfare i 17 obiettivi di sostenibilità che le Nazioni Unite si sono prefissate per il 2030 (ccdd. Sustainable Developement Goals, “SDG”). La collezione di abiti e accessori creati a partire da prodotti di origine forestale è stata presentata a Perugia il 23 giugno 2017 in una sfilata di moda nella prestigiosa sede della Galleria Nazionale dell’Umbria ma il messaggio di sostenibilità nell’industria del Fashion non si è fermato arrivando, in più di un’occasione, alle Nazioni Unite. I modelli creati dagli studenti di IID hanno sfilato durante la conferenza tenuta dal PEFC Internazionale in occasione dell’evento “Moda e Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile – SDG: quale ruolo per l'ONU?” il 1° marzo 2018 a Ginevra nel contesto del “Forum Regionale per lo sviluppo sostenibile dell’UNECE-FAO” , come pubblicato anche nel sito ufficiale della NGO partner “PEFC” . E dal 9 al 18 luglio 2018 hanno conquistato un posto d’onore al Palazzo di vetro di New York durante il Forum “High Level Political (HLPF) sullo Sviluppo Sostenibile”. Il progetto accademico è stato ulteriormente esposto dall’ONU in prestigiosi eventi svoltisi a Nairobi (Kenia), al Palazzo della FAO di Roma (Italia): conferenze e seminari internazionali sul tema dell’ambiente e dell’ecosostenibilità.
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PROGETTI IID 3F: “Forests 4 Fashion”
Di seguito elencati i maggiori eventi delle Nazioni Unite che hanno esibito il progetto di IID “3F”:
• Regional Forum on Sustainable Development di Ginevra; • Political Forum del Palazzo di Vetro di New York; • IV° Assemblea ONU sull’Ambiente (UNEA) di Nairobi ; 1 8
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• UNECE FAO – Sezione Forestry.
Potresti mai immaginare che i tuoi vestiti possano provenire dagli alberi? Forse non lo sappiamo, ma molti di noi indossano giĂ materiali che hanno iniziato la vita nella foresta!
Questi materiali sono molto piĂš rispettosi dell'ambiente rispetto al cotone e alle fibre sintetiche e richiedono meno acqua ed energia per la produzione. E se provengono da una foresta certificata PEFC, sappiamo che i materiali provengono da una foresta gestita in modo sostenibile che sarĂ presente per le generazioni a venire.
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Il settore della moda è un motore di sviluppo economico, ma come si allinea con lo sviluppo sostenibile? Marchi leader e consorzi di moda sono sempre più preoccupati per l'ambiente e l’impatto sociale associati all’industria del tessuto. Quasi il 65% del consumo globale di tessuto sintetico deriva da combustibili fossili, il resto è composto da cotone, coltivato alta intensità di acqua e pesticidi. RINNOVABILE E RESPONSABILE LE FIBRE DI LEGNO SOURCATE SONO LA SOLUZIONE PER TRASFORMARE LA MODA IN UN'INDUSTRIA PIÙ SOSTENIBILE. Le nuove tecnologie ci consentono di utilizzare LE fibre di legno per produrre tessuti riciclabili, rinnovabili e biodegradabili. Questi materiali sono ecologici, perché richiede considerevolmente meno energia e acqua per la produzione rispetto al cotone e alle fibre sintetiche.
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La copertina
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Revolver
la storia di una discografia Rubrica a cura di Simone Fucchi, Eleonora Baiocco e Giacomo Rosiello. Tratta dall’omonimo programma di Radio Design, che tratta della grafica delle etichette della storia della discografia.
THE TEA-JAM Revolver: l’inizio del rock psichedelico nella discografia dei Beatles Nel numero precedente della nostra rubrica abbiamo parlato della copertina molto famosa di una band altrettanto celebre. Oggi invece parleremo della cover di un album non troppo conosciuto (o meglio, non celeberrimo) di una della band più famose della storia. E già a ‘band più famose della storia’ potreste aver capito a chi ci stiamo riferendo. Stiamo parlando dei Beatles, forse il primo nome che viene in mente quando si sente la parola band e del loro settimo album, Revolver, pubblicato nel 1966. Prima di parlare dell’album però, per chi è vissuto sotto un sasso durante questi anni (ma più che altro per riempire il primo paragrafo della rubrica), spieghiamo chi sono i Beatles.
riproduzione del brano. Uno dei risultati più divertenti di questi lavori è nella canzone Yellow Submarine, dove viene registrato il suono ottenuto da John Lennon soffiando con una canna in un secchio d'acqua. Ma il loro estro creativo non si esprimeva solo nelle loro canzoni ma anche nella realizzazione delle copertine dei loro album. E una delle copertine meglio riuscite della band è quella di Revolver, settimo album della band. L’ album Revolver è stato prodotto nel 1966 da George Martin, storico produttore dei Beatles (quando non definito “il quinto Beatle”). Revolver prosegue la svolta artistica iniziata con Rubber Soul, album in cui la band ha abbandonato quasi del tutto tematiche leggere e allegre in favore di altre più complesse e cupe. In Revolver, a questo percorso, si aggiungono anche influenze esotiche e psichedeliche. L’album, infatti, fonde i diversi interessi musicali dei quattro: Paul McCartney si era tuffato alla scoperta della musica classica e nello sperimentalismo mentre George Harrison, che in seguito a una vacanza della band in India era rimasto folgorato dalla cultura del Paese, si era appassionato di musica mistica, tanto da aggiungere strumenti indiani alle composizioni della band; John Lennon non stava proprio scoprendo un nuovo genere musicale, piuttosto stava esplorando gli effetti indotti dall’LSD. Ringo Starr invece non era particolarmente coinvolto in nuovi percorsi musicali/esistenziali, tuttavia la sua presenza era essenziale, oltre che per suonare le percussioni, come trait d’union. Quanti di voi preferirebbero essere lui in un mondo di John e di Paul?
La band I Beatles sono stati una delle band più importanti della storia della musica e anche del costume, tanto da aver venduto circa 600 milioni di copie dei loro pezzi e aver reso il decennio in cui si esibirono (quello tra i ’60 e i ’70) anche l’era della Beatlemania. La band si formò a Liverpool nel 1960, composta da John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr, che però entrò nella formazione solo dal 1962 al posto del batterista Pete Best. Nel corso del loro periodo di attività esplorarono molti stili musicali, partendo dal beat dei primi tempi, quando le loro canzoni erano più orecchiabili e dai temi più leggeri, poi ispirandosi alle sonorità di molti altri generi musicali. Soprattutto però i Beatles furono abili nello sfruttare le innovazioni tecnologiche del tempo per sperimentare nuove sonorità, ad esempio riproducendo il suono di una chitarra all’indietro o raddoppiando la velocità di
La copertina dell’album fu realizzata dall’illustratore Klaus Voormann. L’ispirazione per l’artwork gli fu servita su un piatto d’argento dai Beatles stessi, che gli permisero di ascoltare l’album in fase di registrazione. A far accendere la lampadina a Klaus fu infatti l’ultima traccia del lavoro, Tomorrow never knows, una canzone frutto di sonorità indiane, sperimentazione psichedelica e per i più maliziosi (ma forse non solo secondo loro) anche dell’uso di LSD. Per realizzare la copertina Voormann disegnò i ritratti dei quattro membri della band, uno per lato della cover, utilizzando penna e inchiostro nero. Tra i visi dei Beatles inserì un collage di disegni e fotografie dei ragazzi, realizzato da Bob Whitaker. Lo scopo di Voormann, disegnando, era quello di mettere in evidenza i capelli dei quattro artisti. La copertina di Revolver è composta da due colori: il bianco dello sfondo e il nero della penna, cosa che per l’epoca era rivoluzionaria. Le mode del tempo, infatti, proponevano cover molto (troppo) colorate. Per finire il lavoro Voormann mise la sua firma e il suo volto tra i capelli di Harrison e le labbra di Lennon. Prima di arrivare a intitolare l’album Revolver molte opzioni, più o meno misticheggianti, furono considerate e poi scartate: tra queste Abracadabra, opzione rigettata perché già usata da un’altra band, Beatles on Safari e Four Sides of the Eternal Triangle. Revolver nasce da un gioco di parole di Paul McCartney che accosta revolver come tipo di pistola e il movimento rotatorio che compie un disco sul piatto di un giradischi, in inglese revolving. Successo Revolver forse non sarà il primo album a venirci in mente quando pensiamo alla vasta discografia dei Beatles. Sicuramente però ha arricchito il bagaglio musicale della band che nel comporre le canzoni ha dato prova di grande creatività. Secondo il tecnico di studio Geoff Emerick, che ebbe un ruolo rilevante nella realizzazione delle sonorità dell'album, «Dal giorno in cui uscì, Revolver cambiò per tutti il modo in cui si facevano i dischi […]. Nessuno aveva mai udito niente di simile.». Probabilmente la critica è stata d’accordo con Emerick: la rivista Rolling Stone lo ha inserito al 3º posto della lista dei 500 migliori album mentre la rivista New Musical Express lo posiziona al 2º posto nella sua analoga classifica dei migliori 500 album.
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Cantina Scacciadiavoli. Conversazione con Liù Pampuffetti Rubrica sul vino a cura di Elena Di Vaia, sommelier e speaker radiofonica.
WINE DESIGN
È nata così un’azienda costruita letteralmente dentro la collina. Come se abbracciasse a pieno regime la natura. Un concept di quattro piani più uno interrato, dove fu posizionata una cisterna in cemento nel 1909, uno dei primi esempi di cemento nel mondo del vino, costituita da due diverse vasche: una da 545 litri e l'altra da 550 litri, oggi rivestita con vetroresina alimentare ed utilizzata per l'assemblaggio del Montefalco Rosso. Il suo è un meccanismo affascinante ed ingegnoso, che funziona per gravità come una catena di montaggio. Parliamo quindi di un'autonomia gestionale della catena di produzione.
A cosa è dovuto il nome “Scacciadiavoli”?
“Si tratta di un edificio considerato moderno all’epoca, che oggi facilita la produzione. Spostandosi per gravità, a partire dai piani più alti a scendere, il vino non viene stressato ulteriormente, mantenendo un’alta qualità. Temperatura, umidità e ventilazione sono “naturalmente gestite” dalla collina”.
La cantina, antica e strettamente legata al luogo e alle sue tradizioni e origini, deve pertanto il suo nome alla sua appartenenza geografica. Questo forte legame si è tradotto poi anche nel nuovo design e packaging delle bottiglie. Quando storia e tradizioni creano uno storytelling aziendale davvero accattivante ma soprattutto di forte impatto comunicativo.
Un nome, Scacciadiavoli, che desta curiosità, particolare, che cela una famosa leggenda legata alla terra di Montefalco. Si narra, infatti, che vicino la cantina c'era un piccolo villaggio in cui viveva un esorcista che con l'ausilio del vino liberava le persone impossessate dal diavolo. Considerata la sua fama, il Borgo, ancora esistente oggi, venne rinominato per l'appunto "Scacciadiavoli".
Fondata dal Principe Ugo Boncompagni Ludovisi come “stabilimento” del vino nel 1884, la cantina Scacciadiavoli era già un complesso enologico, imponente e molto moderno. Nel 1954 Amilcare Pambuffetti, all’età di 71 anni, acquisì la tenuta. Alla sua morte nel 1977, i figli Alfio, Settimio e Mario proseguirono l’attività del padre e nel 2000 i fratelli Francesco, Carlo, e Amilcare Pambuffetti presero in mano l’attività.
“Il vino si fa in vigna e poi in cantina. Nel processo è però coinvolto anche l’edificio”. È con questa frase che Liù Pampuffetti ci apre le porte della sua azienda di famiglia: la Cantina Scacciadiavoli. Liù inizia a raccontare dalle radici partendo dalla posizione storica a Montefalco. Grazie all'ingegno pionieristico del Principe Ludovisi, sono divenuti una tra le cantine più antiche di Montefalco. “Non v’erano tecnologie e infrastrutture; la visione all’avanguardia del Principe Ludovisi è stata quella di comprendere le potenzialità e l'essenza geografiche del luogo e di costruirne una cantina che potesse facilitare i processi manuali e non solo”. ©© Decugnano Decugnano de de Barbi Barbi 3 0
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Azienda 130 ettari, di cui 40 vitati; Terreni argillosilacustre: tanta longevità; Densità: 5500 piante per ettaro. Si allevano: EA bacca rossa: Sangiovese, Sagrantino, Merlot per l'Umbria IGT e Montefalco Rosso, oltre che per il Montefalco DOCG e la versione Passita (per quanto riguarda il Sagrantino). A bacca bianca: Chardonnay, Grechetto e Trebbiano Spoletino. 60% Umbria, considerando l'azienda storica ben radicata nel territorio. 5% Italia e restante nel mondo. Per il Metdodo Classico. 80% in Umbria per il metodo classico parliamo di 15mila bottiglia per tipologia.
Elena Di Vaia si è laureata in Filosofia ma curiosa del mondo, passeggia tra l'Economia Civile ed un Master in Etica Economia e Management. Sommelier AIS per forza di gravità e con la passione per la scrittura: Blogger su Winesommelier.it e articolista freelance sul fenomeno della comunicazione web del vino. Speaker radiofonica presso Istituto Italiano Design nel Format RadioWineDesign. Elena è stata infine Co-creatrice del progetto WineErasmus e BrandAmbassador dell'azienda Nenci.
Degustazione: Parliamo del loro Metodo Classico Rosè Brut, 100% Sagrantino (etichetta nuova 2019 per farla conoscere ad un pubblico più vasto, si veste con un design fresco, avvolgente e un packaging in 3D.), in produzione dal 2005.
È nata così un’azienda costruita letteralmente dentro la collina.
Analisi Metodo Classico Rosè Brut, 100% Sagrantino, Scacciadiavoli, 2014, imbottigliamento inizio 2015, sboccatura dicembre 2018. La brillantezza visiva è d’impatto. Un rosa tenue, buccia di cipolla (qualche ora di macerazione in pressa per trarne fuori la sfumatura). Ricorda un po' un tramonto caldo. Una bollicina fine che danza nel calice. Elegantissimo a naso, tra frutta a polpa rossa piccola, croccante, varietale come una fragolina di bosco ed una mora appena colta. Un floreale che rimanda ai fiori di pesco. Note minerali speziate in maniera delicata e dolciastra, ma spiccata. Avvolgenza al palato di una bollicina fine. Un ingresso verticale, un tannino timido ma pungente. L'aspetto caratteristico del tannino, tipico del Sagrantino, è ancora vivido, rispettando in pieno regime la peculiarità ampelografica del vitigno (tra i più tannici al mondo).
“Studiando i nostri terreni, abbiamo individuato una zona più fredda, meno vocata ad un vitigno medio-tardivo come il Sagrantino. Raccogliendolo in largo anticipo (fine agosto,due mesi in anticipo) abbiamo potuto appurare che il vino base aveva proprietà organolettiche adatte a un rifermentato: grande acidità, gradazione alcolica relativamente più bassa(11°%vol), ed un colore più tenue. Abbiamo fatto successivamente delle sperimentazioni di affinamento sui lieviti, trattandosi di Metodo Classico, partendo dai 12 mesi fino ad arrivare a 7 anni per la versione Brut Bianco (Sagrantino tagliato con Chardonnay), mentre per il Rosè 3 anni". Liù Pampuffetti 3 2
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S E G N I
S 6 E G N I Le Stratificazioni dell’Arte
ARTE
ANIA
A cura di Elisa Pietrelli
L’Astrattismo è un movimento d’avanguardia nato nei primi del ‘900 che non ha fine e continua ancora a oggi ad affascinare artisti e fruitori. L’intento iniziale è quello di liberare gli autori dalla rappresentazione mimetica della realtà, che aveva per secoli ossessionato e condannato l’arte. Le opere astratte sono estremamente riconoscibili nella loro non riconoscibilità, una combinazione equilibrata di punti, trattini, forme geometriche, linee, macchie, addensamenti di colore, sfumature, campiture piatte, nero e bianco o tavolozze cromatiche. Un ampio dizionario di segni, sovrapposti e usufruibili. Nelle opere astratte c’è la libera interpretazione dello spettatore che collocandosi davanti al quadro è trascinato in una riflessione intima e profonda; un semplice colore suggerisce uno stato d’animo e una forma
custodisce un’intuizione. Nell’opera di Ania lo spazio rettangolare della tela si trasforma in un’impalcatura di segni, croci, cerchi, tasselli, reticoli e trattini punteggiati. La pittura si fa spessore ed emergono tonalità pastello troncate dal rosso vivo.
L’opera appare come una visione dall’alto: tetti, auto, recinti, strade, perimetri invalicabili e forzatamente segnati. Una mappa urbana con zone rosse accerchiate, isolate, possibili zone ad alto rischio da evitare o da tenere sotto controllo. Nell’arte astratta la decodificazione delle forme è un dialogo silenzioso, una confessione profonda tra lo spettatore e l’opera.
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Sergio Sani A cura di Deborah Fanini
Un monocromo lascia che sia solo il colore a parlare nell’opera, con tutte le sue vibrazioni, nella sua essenza più pura con tutte le sue stratificazioni non solo tonali e materiche, ma anche simboliche, culturali e percettive. La tavolozza di Sani è dominata dai colori primari, in una incessante ricerca, che in questo caso si traduce in un blu assoluto, pura
emanazione di se stesso. Il blu nella nostra cultura è associato alla sfera della spiritualità, alla dimensione dell’immateriale, è colore del sogno, della divinità e dell’infinito. Esso esprime la propensione
all’astrazione e alla sublimazione del corpo e delle forme. Percettivamente è opposto al rosso, colore che suscita agitazione, rabbia, moti emotivi, passione, al contrario il blu suscita staticità, quiete e produce un moto centripeto che ci attrae verso di se, al suo interno, in uno stato di armonia e meditazione. Di certo quest’opera potrebbe ricordarci i monocromi di Yves Klein, ma, a differenza sua, Sani fa un uso denso e materico della materia pittorica, stratificata e gestuale, applicata spesso mediante dei ramoscelli e non stesa con il pennello. Questo crea un contrasto ed un dialogo tra l’assolutezza del monocromo blu e la corporeità del gesto pittorico che esprime lo spirito inquieto dell’uomo di fronte ai suoi grandi interrogativi, la tensione ad un significato più grande attraverso gli strumenti ed il linguaggio del tutto terreno dell’uomo. Amore per la materia e ricerca di sublimazione si incontrano e si completano a vicenda.
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Quest’opera di Maikel si discosta notevolmente dal tipo di lavoro che caratterizza la sua produzione e si inserisce diversamente in un’interessante fase di sperimentazione di nuove tematiche che si è già conclusa. Dalle opere di medie dimensioni dai colori accesi si passa a piccole tele raffiguranti delle enigmatiche figure nere che si stagliano contro sfondi delineati da pennellate decise che variano dall’ocra, al giallo, al bianco fino ad arrivare al grigio. Queste figure affusolate e spigolose restano vaghe, come se ci si trovasse di fronte a delle forme nella nebbia. A primo acchito queste immagini possono ricordare dei corvi che si sono posati su di un campo di grano in una mattina brumosa,
MAIKEL a cura di Alessandra Capponi
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immagine già trattata nella storia dell’arte e che evoca immediatamente, ed in modo quasi banale, il celebre dipinto di Van Gogh “Campo di grano con corvi”. La pittura di Maikel pur non avendo nulla in comune con quella del famoso artista olandese in questo caso manifesta lo stesso senso di inquietudine e malinconia. I corvi, se sono corvi, si mostrano come figure oscure e sospese, ferme ma allo stesso tempo quasi minacciose. Ma forse le piccole tele acquistano un senso ancora più interessante ed originale se le si osserva in serie. Il piccolo formato delle opere se si pone in relazione con le altre sembra quasi un fotogramma, e così le immagini accostate
l’una all’altra danno in un certo senso l’impressione di narrare una storia nella loro non – narrazione. Una narrazione muta e angosciante proprio come quella che caratterizzava i primi esperimenti del cinema espressionista tedesco. In cui spaventose silhouette nere si muovevano lentamente contrastando con con gli sfondi chiari, e semplicemente la loro presenza era l’elemento disturbante e dissonante. Queste figure nere , proprio come quelle di Maikel, erano l’elemento fuori posto, figure umane e allo stesso tempo disumane, forme che spaventano perché invitano chi guarda ad osservare la zona d’ombra che è presente in ogni essere umano. 4 3
IL DESIGN DELLE EMOZIONI
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Una volta poggiate le prime pietre, bastarono un disegnatore di un Freud simpatico in compagnia del suo sigaro (il logo), altri compagni e compagne di viaggio con le stesse passioni e le stesse bulimie e le competenze informatiche di Dario per essere pronti a partire. Un format semplice: psicologia quotidiana per tutti, somministrata due volte a settimana in forma di articoli divulgativi, per interessare, incuriosire, disambiguare le tematiche di tutti i giorni da un punto di vista "psi" e per fare compagnia. Il primo articolo pubblicato? l’articolo di Emanuela sulla dislessia, per onorare la nascita del tutto e forse, in maniera superstiziosa e ironica, nella speranza di essere letti. Passarono gli anni, aumentarono gli articoli, le rubriche di approfondimento, i follower, le visualizzazioni, le condivisioni, le interazioni, le domande, le curiosità, gli interessi e le adesioni. Alcuni ami-colleghi (così piace chiamarsi), oberati dagli impegni lavorativi e di vita, decisero di andare, altri scelsero di accettare la sfida ed entrare nella rosa dei redattori. Fino a che, nel 2018, dopo quattro lunghi anni dalla nascita della rivista e 1536 articoli pubblicati (oggi 1660), i tre precari psicologi bulimici, ormai diventati psicoterapeuti, fondarono, insieme allo zoccolo duro dei redattori, un'associazione di promozione sociale e culturale, omonima alla rivista. “Il Sigaro di Freud A.P.S.” nacque per portare avanti il loro progetto di psicologia accessibile a tutti, diffondere cultura e informazione, promuovere il benessere psicologico e sensibilizzare alle problematiche sociali non più solo nel mondo virtuale, ma nel campo di battaglia della vita quotidiana.
L’ASSOCIAZIONE
Soffermarsi a pensare alla storia de "Il Sigaro di Freud" a distanza di anni è come rievocare la fondazione di una civiltà. Tutto ebbe inizio nel lontano 2014, quando tre psicologi in erba passavano amabilmente il tempo condividendo i loro pensieri, le loro impressioni e soprattutto la loro passione per il mondo della psicologia. Tutto ruotava intorno ad essa, soprattutto le loro vite “in divenire”. Come la psicologia che prende forma nella pratica del vivere, così, in quel periodo, si plasmava il loro essere persone, professionisti, amici e colleghi. Impossibile dimenticare il momento della Sua nascita, durante una pausa caffè, fra una lezione e un’altra, del primo anno di una scuola di psicoterapia. Emanuela raccontava di dover scrivere sulla dislessia, domandandosi quanto essere accademica o quanto invece mantenere uno stile divulgativo per evitare di risultare poco chiara ai “non addetti ai lavori”. Un’intuizione di Giulia diede inconsapevolmente il là al progetto: "Potremmo rendere la psicologia accessibile a tutti!”. Agli occhi pieni di entusiasmo di quei giovani psicologi, una rivista gratuita e online sembrava un ottimo modo per incanalare la passione, la voglia di fare e la bulimia di progettare; un processo di crescita verso il sentirsi sempre più rapidamente e insieme psicoterapeuti. Ed ecco il momento della “tempesta di idee” sull’identità da costruire, la pianificazione di cosa scrivere, che stile utilizzare, a chi rivolgersi (…) ma soprattutto la scelta del nome che avrebbe identificato il progetto. Doveva essere accattivante, immediato, divulgativo e anche un po'… “ruffiano”, così lo volevano. Dario propose “Il Sigaro di Freud” e la rivista venne battezzata nel tempo di un caffè.
Emanuela Gamba Dario Maggipinto Giulia Radi www.ilsigarodifreud.com ilsigarodifreud@gmail.com © Wang Haiwen 4 6
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Prefazione Io e l’altr*: incontro o disincontro? di della Dott.ssa Clarissa Cavallina
L’altro è il diverso da me, concetto fondamentale nello sviluppo psichico di un bambino per differenziarsi dalle figure di riferimento primarie e per iniziare a sviluppare dei confini e quindi un senso del sé, delle proprie capacità e più tardi dell’identità. Alcuni teorici dello sviluppo per far comprendere come avviene nella mente di un bambino la differenziazione spiegano che in primis vi è una percezione di fusione tra il sé e tutto il resto, in particolare tra se stessi e la madre; poi attraverso il riconoscimento dell’altro scatta la formazione di un confine e inizia un processo di percezione di sé. Si parla quindi di cogliere differenze e per sottrazione arrivare a delle considerazioni vitali: io esisto e sono definito in un modo specifico, a volte simile altre diverse dall’altro. In adolescenza si prosegue il processo di individuazione utilizzando le funzioni cognitive superiori per interrogarci sull’autonomia del nostro pensiero e questo è possibile farlo quando vi è un interlocutore stabile e presente per noi. Il primo appunto è rappresentato dalla famiglia e dalla cultura che porta. Quanto e in che cosa assomiglio a mia madre? E a mio padre? Che cosa proviene da loro e che cosa invece è mio. In cosa mi differenzio? È fondamentale sentirci appartenere al gruppo da cui proveniamo, avere delle radici forti per poter poi volare. L’esperienza dell’appartenenza negata comporta intensi vissuti depressivi o rabbiosi verso se stessi e l’altro, spesso accompagnati dalla tendenza al giudizio dell’altro e da sentimenti di invidia di chi riceve attenzioni e accoglienza. Laddove la nostra storia ci ha insegnato che è un’impresa ardua se non impossibile la sincera accoglienza e valorizzazione dei nostri pensieri e vissuti personali -in particolare di quelli non in linea con la cultura famigliare ma nuovi perché individuali- tenderemo a ripetere una simile modalità espulsiva se non accogliamo noi stessi il dolore provato per quell’appartenenza negata. In altre parole, se non c’è stato spazio per la mia unicità, è difficile riuscire ad accogliere quella dell’altro che non si allinea a me. Il diverso da me viene vissuto come una
minaccia riutilizzando quella rigidità che ha caratterizzato le nostre relazioni famigliari. Finalmente, almeno oggi adottando questa modalità, assomigliamo in qualche modo alla nostra famiglia di origine che non ha saputo regalarci delle radici solide. L’ “altro” è anche simbologia ed è quindi rappresentato nella nostra mente da gruppi socio-culturali di appartenenza come quelli politici, religiosi, artistici, sociali. È interessante osservare come di frequente le vicende sociopolitiche legate a gruppi di appartenenza siano spesso accompagnate da manifestazioni collettive di aggressività verso il gruppo in questione o verso chi lo sostiene. Che rapporto c’è tra queste reazioni e le esperienze infantili legate al senso di appartenenza famigliare? Queste emozioni rabbiose a volte possono essere comprese facendo riferimento al meccanismo psichico dello spostamento attraverso il quale i vissuti depressivi e di rabbia irrisolti legati ad esperienze particolarmente dolorose famigliari passate vengono appunto reindirizzate e finalmente espresse a persone, gruppi o situazioni nuove. Affianco alle considerazioni politiche di attualità sul caso è possibile tenere presente quella traccia nella mente che il nostro grande Altro ha lasciato in noi e che ci fa arrivare di fronte al diverso con dolorose ferite.
Io e l’altro: quanto costa un’appartenenza negata?
Clarissa Cavallina – Psicologa, Ph.D. La dott.ssa Clarissa Cavallina è psicologa, abilitata alla professione presso l’università di Roma “Sapienza”. Lavora presso la clinica Villa Giuseppina come psicologa della sezione nazionale e internazionale del Pronto Soccorso Psicologico di Roma, svolgendo psicoterapia individuale e famigliare. Inoltre, è redattrice della rivista online Il Sigaro di Freud e socia-fondatrice dell’omonima associazione. Frequenta il training di specializzazione in Psicoterapia Sistemico-Relazionale e svolge come psicologa attività di tirocinio presso il Centro Giorgio Fregosi, polo specialistico regionale per la prevenzione e il contrasto dell’abuso e del maltrattamento perpetrato sui bambini e gli adolescenti. Nutre un forte interesse per i fattori protettivi e di rischio insiti nella relazione genitore-bambino e per la ricaduta delle esperienze traumatiche sulla traiettoria di sviluppo dell’individuo e della sua famiglia. Ha ottenuto l’abilitazione internazionale per la valutazione dell’attaccamento adulto attraverso la somministrazione e la codifica dell’Adult Attachment Interview. È stata cultrice della materia in Psicologia Dinamica presso l’Università di Perugia dove ha conseguito un dottorato di ricerca nell’ambito PsicoPedagogico. È autrice e co-autrice di diversi studi pubblicati su interviste scientifiche nazionali e internazionali. Infatti, parallelamente all’attività clinica ha collaborato per lo sviluppo di ricerche sperimentali con il Laboratorio di Neuroimmagini della Fondazione Santa Lucia di Roma (IRCCS), con il Cognitive and Clinical Psychology Laboratory dell’Università Europea di Roma e con il Dipartimento di Filosofia, Scienze Sociali, Umane e della Formazione dell’Università di Perugia. (+39)3332492898 clarissa.cavallina@gmail.com
Per approfondire: Ugazio, V. (2012) Storie permesse storie proibite: polarità semantiche familiari e psicopatologie. Bollati Boringhieri 4 8
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it’s the form of reality that you perceive.
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* Shinji exploring Identity and Self-Worth. Neon Genesis Evangelion ep. 26 Illustrazione Š Diana Magri
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Migrazioni e Accoglienze Dietro le quinte del mondo migrante di Diego Bonifazi
A fasi alterne ci vengono proposte immagini di sbarchi sulle coste dell'Italia meridionale; immagini che spesso servono soltanto ad alimetare un dibattito, o meglio, uno scontro tra le varie parti politiche. Le più quotate testate giornalistiche ed I principali canali televisivi difficilmente raccontano le reali situazioni dei Paesi di provenienza dei migranti, o almeno, non le raccontano correlandole alle partenze migratorie. TAG: Migranti; Migrazione; Sbarchi; Sociale; Immigrazione; Viaggio; Politica; Accoglienza; Società Ogni grande sbarco di migranti è seguito da una tempesta mediatica, che si scatena puntualmente ogni volta, dura qualche giorno, si affievolisce sempre più e poi si riacutizza allo sbarco successivo, riattivando lo stesso processo circolare.
Dal 1993 il paese è sotto la guida del dittatore Afewerki, che ha vietato la formazione di altri partiti politici oltre all' FPDG, guidato dal dittatore stesso, che di fatto mantiene sospesi e quindi non applicati i diritti civili dei cittadini, sanciti dalla Costituzione. E' stata istituita la leva obbligatoria indefinita (può terminare all'età di 50 anni per gli uomini, e all'età di 40 per le donne) dai 17 anni, sia per gli uomini che per le donne. Fino al compimento del 60esimo anno di età i cittadini eritrei non hanno la libertà di possedere il passaporto e quindi di poter lasciare regolarmente il paese.
Ma cosa succede prima dello sbarco? Perché si decide di intraprendere questo viaggio? Dopo che le televisioni ci informano sullo smistamento o meno dei migranti, che fine fanno queste persone? Con questo articolo, prendendo come esempio lo sbarco della nave “Diciotti”, cercheremo di capire meglio cosa accade “dietro le quinte del mondo migrante”.
“L'esercizio di mettersi nei panni degli altri ci permetterebbe di avere una società migliore”
La grande maggioranza delle persone sbarcate dalla Diciotti sono di origine Eritrea, quindi per capire cosa c'è dietro la decisione di mettersi in viaggio, è doveroso conoscere l'attuale situazione del paese africano.
Provando ad indossarli i panni di un eritreo, che non ha la libertà di poter uscire dal proprio paese e di vedere un posto nuovo, non è libero di scegliere chi lo debba rappresentare, che ha come unica prospettiva di vita lo sperare che un giorno la guerra finisca, che qualcosa nel suo paese cambi e che lui non sia già morto nel frattempo; provando ad indossarli questi panni, resteremmo a "casa nostra", non rischieremmo anche noi un viaggio della speranza?
L' Eritrea vive un conflitto con l'Etiopia che dura da vent’anni per la definizione dei confini e per la contesa della città di Badme. Nonostante già nel 2000, con l'accordo di Algeri, i due paesi ratificarono ufficialmente la pace, l'esercito etiope non è mai stato ritirato dalla città di confine. In questi ultimi mesi si sta lavorando per la definitiva cessazione del conflitto, che negli anni ha portato alla morte di circa 19.000 soldati eritrei. 5 2
Sia andando indietro negli anni, sia analizzando il recente passato è facile riconoscere le grandi responsabilità sia del nostro paese, che di molti altri in Europa, rispetto agli attuali flussi migratori.
Il sistema di accoglienza in Italia è strutturato su due livelli: prima accoglienza, che prevede gli hotspot e i centri di prima accoglienza, e seconda accoglienza, lo SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).
I paesi occidentali a cavallo tra l' ‘800 e il ‘900 hanno invaso e colonizzato i paesi africani, creando nuove rotte commerciali per sfruttare le loro risorse, ed ora sfruttano queste stesse rotte per il commercio di armi.
La prima accoglienza dovrebbe servire a garantire ai migranti il primo soccorso, a procedere con la loro identificazione e ad avviare le procedure per la domanda di asilo. Dovrebbero essere procedure veloci,
Ancor di più, quindi, vanno trovate soluzioni efficaci che permettano un'accoglienza, un eventuale collocamento o un'eventuale integrazione che rispettino l'umanità delle persone.
per poi assegnare i richiedenti asilo ai progetti SPRAR, ossia alla seconda accoglienza. Ho usato il condizionale perché nell'ultimo periodo i beneficiari del sistema di accoglienza sono aumentati ed il programma SPRAR per funzionare bene deve lavorare con numeri stabiliti, in modo da poter garantire una reale accoglienza e integrazione nel territorio. Con l'aumento delle richieste il sistema non può funzionare. Troppe domande e troppi pochi posti. Aumentare i posti, di fronte alle difficoltà nel rapporto con i comuni (non tutti i comuni sono disposti ad accogliere o ad aumentare il proprio numero di accolti), è un processo lento. Quando si crea questo sovrannumero intervengono i cosiddetti CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), una soluzione che formalmente rientra nella prima accoglienza a cui si accede spesso direttamente dai porti di sbarco, ma praticamente dà ormai un’accoglienza di lungo periodo come accade nella seconda accoglienza.
Creare barriere, chiudere i porti e alzare muri non sono mai state soluzioni intelligenti e mai lo saranno. L'ex presidinte dell'Uruguay, Josè Pepe Mujica Cordano, in un recente intervento in Italia, riprendendo uno dei libri a lui ispirati “Una pecora nera al potere” ha dichiarato: “L'immigrazione massiccia che vide la zona del Rio de la Plata durante la prima parte del 900' fu dovuta principalmente alla fuga dalla guerra e dalla miseria che affliggevano l'Europa. Le nuove generazioni probabilmente non lo ricordano, visto che dopo si è sperimentato un periodo lunghissimo di pace, piuttosto insolito per un continente molto bellicoso come il vostro. L'Europa si è spartita l'Africa nell'800' e, mentre mostrava i benefici della cultura occidentale, soppiantava la cultura primitiva e tradizionale africana. In fondo l'onda migratoria africana è la conseguenza diretta del colonialismo europeo.”
Dai racconti dei migranti della Diciotti arrivati nel CAS di Milano “Casa Suraya” traspare l’enorme sofferenza di un viaggio che dura anni, che spesso passa per una sosta forzata in Libia, dove si subiscono stupri e torture; si evince la visione dell'Italia come punto di passaggio e non di un paese dove stanziarsi; la vera meta dei migranti di oggi è il Nord Europa. Il tema dei migranti dà vita ad animate discussioni che purtroppo, sempre più spesso, perdono di vista l'umanità e trattano le persone come se fossero numeri. Si monta un clima di odio e di terrore verso lo straniero e verso il diverso in generale, che porta la popolazione a sovrastimare il fenomeno migratorio. Un'analisi dell'Istituto Cattaneo ci dice che l'italiano medio dichiara che la popolazione italiana sia composta per il 25% da extracomunitari, distorcendo ampiamente il dato reale. La quota di immigrati nel nostro paese si aggira attorno all'8% e di questi, solo il 5,3% sono extracomunitari, ovvero provenienti da paesi non aderenti alla comunità europea.
Fortunatamente oggi non siamo noi a trovarci in queste situazioni, non siamo noi ad essere in guerra o a subire gravi limitazioni della nostra libertà, ma personalmente, provando anche solo a pensare di indossarli quei panni, qualche brivido lo sento e penso che cercherei anche io la salvezza in una barca, ovunque essa porti.
E cosa succede poi una volta sbarcati “in Italia”? 5 3
Bibliografia
Dal libro intervista del sociologo e filosofo polacco Zygmunt Buman, curato da Benedetto Vecchi:
Kropotkin P. (2012) Il mutuo appoggio. CreateSpace Independent Publishing Platform
In una società sempre più segnata dalla deregulation e dalla flessibilità l'individuo finisce per avere tutto il peso sulle sue spalle, vengono a mancare forme di solidarietà e punti di riferimento comunitari che in passato aiutavano a condividere il fardello. Inoltre da media ed esperti vari arriva sempre di più un incitamento generale al disimpegno, a non pensare a contratti solidi, anzi a vedere come negativa ogni forma di legame che si proietti poco più avanti del quotidiano. Ecco allora nascere quelle che il sociologo polacco chiama comunità guardaroba, che funzionano a tempo, stanno assieme fino a quando qualcuno decide di riprendersi il suo abito e andarsene. In un mondo di modernità liquida i piani a lunga scadenza diventano poco attraenti. La strategia del carpe diem diventa così la risposta più immediata a un mondo svuotato di valori che pretende di essere duraturo perché “the show must go on”, comunque e ovunque.
Bauman Z. (2011) Modernità Liquida. Editori Laterza Bauman Z. (a cura di B.Vecchi, 2011) Intervista sull'identità. Editori Laterza Hirt N. (2019) Eritrea: la strada per la pace è ancora lunga Ispi - Istituto per gli studi di politica internazionale Danza A. & Tulbovitz E. (2016) Una pecora nera al potere. Pepe Mujica, la politica della gente. Gruppo editoriale Lumi https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/eritrea-lastrada-la-pace-e-ancora-lunga-23926
«Da te la "società" vuole soltanto che non lasci il tavolo da gioco e disponga ancora di fiches sufficienti per continuare a giocare»
Diego Bonifazi – Assistente Sociale Laureato in Scienze e Tecniche del Servizio Sociale presso l'Università “La Sapienza” di Roma nel 2014 e iscritto all'albo degli assistenti sociali della Regione Lazio nell'anno 2016. Ha maturato esperienze nel pubblico e nel privato sociale, occupandosi prevalentemente di minori, disabili ed anziani. La sua passione per i viaggi e per il sociale lo ha portato ad avere esperienze significative di volontariato in Africa ed in Sud America. Attualmente è responsabile del servizio di assistenza domiciliare per Anziani e del servizio Home Care Premium per la Cooperativa sociale “Cassiavass” di Roma, collabora inoltre alla gestione del servizio di assistenza scolastica della stessa cooperativa. E' redattore per “Il Sigaro di Freud” e socio fondatore dell'omonima associazione di promozione sociale. Nutre un particolare interesse per l'integrazione dei ragazzi affetti da disabilità, che lo porta ad impegnarsi in laboratori ed attività strutturate in tal senso. E' operatore sportivo per la disabilità; collabora con il “Circolo Canottieri Tevere Remo” dove è uno dei tecnici del corso di nuoto per persone con disabilità. In collaborazione con l' ”A.s.D.Mya” organizza attività di camminata integrata tra persone con disabilità e non. Gestisce il blog online di viaggi slow www.walkmytrip.it .
dice amaro Bauman. Ecco allora che trovare un'identità, un'appartenenza diventa sempre più difficile e altrettanto più necessario. Come dice Bauman, la società moderna sta creando una vera e propria crisi identitaria e in uno scenario simile fare propaganda e trovare il capro espiatorio nel più debole e nel “diverso”, risulta fin troppo semplice. Avere un quadro generale del mondo migrante speriamo possa far riflettere e permettere di rimanere umani verso il prossimo, chiunque esso sia.
(+39) 329 6614580 5 4
Illustrazione © Gayatri Parte
diego.bonifazi@yahoo.it 5 5
Un abbraccio tra alieni L’importanza dei punti di vista di Luca Notarianni
Cosa accade quando trascorriamo troppo tempo in attesa di un nemico? Che ci dimentichiamo di noi stessi. Soffermarci soltanto sul nostro punto di vista rischia di farci perde la bussola della nostra vita, indirizzandoci verso una direzioni unica che non contempla la visione dell'altro. Per viaggiare liberi, impariamo a guardare il diverso che è dentro di noi.
TAG: Psicologia; consapevolezza; diversità; empatia; locus of control; differenze; bisogni; resilienza
“Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata subito guerra; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica. E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie. Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame, freddo e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni avamposto era vitale. Stava all'erta, il fucile pronto. Lontano 50mila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l'avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle. E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più. Il verso, la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s'erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d'un bianco nauseante e senza squame...”(1)
mondiale, un classico della fantascienza ed è stato pubblicato per la prima volta in Italia nel 1955 con il titolo “Avamposto sul pianeta X”. Il racconto gioca molto sul colpo di scena finale dove il lettore, dopo essersi immedesimato con il protagonista, scopre che in realtà si parla di un alieno che ha appena ucciso un essere umano. La storia ci suggerisce l’importanza nel dare valore ai diversi punti di vista. Proviamo empatia per la sentinella perché prova le nostre stesse sensazioni fisiche (freddo e fame) e le stesse emozioni che proveremmo al suo posto (la malinconia nello stare lontano da casa). Il tutto cambia dopo aver scoperto il finale. Quante volte ci ritroviamo in situazioni simili? Ovvero credere di stare dalla parte giusta per poi scoprire che stiamo sbagliando?
Quante volte proviamo affinità ed empatia per persone che ci sembrano così vicine a noi, per poi scoprire che in realtà sono una specie di alieni?
Questo è un estratto del racconto di fantascienza Sentinella (Sentry) di Fredric Brown del 1954. È considerato, a livello 5 6
Spesso i nostri errori di valutazione sono dettati da un nostro modo sbagliato di porci davanti a determinate situazioni, come se volgessimo lo sguardo verso dettagli che riteniamo fondamentali ma che, in realtà, non fanno altro che distrarci da un senso più profondo.
aprirci a un mondo di sorprese, soprattutto se lo sguardo è rivolto verso noi stessi. Potremmo scoprire nuovi interessi, desideri, bisogni o risorse che non immaginavamo neanche di avere. Ovviamente non è un percorso semplice, ma iniziare a mettere in discussione i propri pensieri, chiedersi realmente se quello che facciamo, in ogni campo, ci fa stare bene, aprirci alle nostre parti più oscure, è un primo passo per influenzare, positivamente, le nostre capacità di scegliere, di prendere decisioni, di decidere le persone affini di cui circondarsi.
Riprendendo il racconto di Brown possiamo leggere abbastanza facilmente la tendenza di considerare ciò che è diverso da noi il nostro nemico, dal quale dobbiamo difenderci e verso il quale provare paura e timore. Capovolgendo il punto di vista, però, possiamo vedere come i due personaggi della storia appresentino praticamente la stessa identità. Entrambi sono lontani da casa, hanno paura, vorrebbero essere da un'altra parte e stanno combattendo una guerra che ritengono giusta. A parte che per l’aspetto fisico, dunque, stiamo parlando esattamente della stessa cosa.
Riassumendo,
far si che alieno e umano, anziché combattere, posino il fucile e si abbraccino.
Sottolineo questo aspetto perché mi è d’aiuto nel riprendere il discorso sui nostri errori di valutazione. Prima di giudicare qualcuno, valutare una situazione, esprimere decisi i nostri bisogni credendoci nel giusto, imboccare una strada piuttosto che un’altra, elogiare o criticare eccessivamente una persona, prima di tutto questo, dovremmo fare i conti con il diverso che è dentro di noi.
Cosa vuol dire? _____________________
Spesso siamo orientati a rapportarci con l’esterno basandoci su quello che vediamo attraverso la nostra esperienza diretta. Questo comportamento, però, è influenzato e filtrato dal mondo interiore che abbiamo costruito nell’arco della nostra vita e, a volte, è un mondo scomodo che non vogliamo accettare fino in fondo. Spesso, infatti, al nostro interno, ci sono immagini di noi stessi, bisogni, desideri che rifiutiamo o cerchiamo di allontanare perché non li troviamo giusti, perché pensiamo possano farci del male o metterci in cattiva luce. Ovviamente, con questo, non sto dicendo che dovremmo sempre tirare fuori tutto quello che sentiamo o ci passa per la testa, sarebbe un comportamento altrettanto dannoso. Fare i conti con le parti scomode e, volendo, pericolose di noi stessi è quello che intendo quando parlo di affrontare il diverso che abbiamo dentro.
(1) Fredric Brown, Avamposto sul pianeta X (Sentry)
Accettare i propri limiti, accogliere le proprie difficoltà o non criticarsi troppo quando siamo delusi da noi stessi, è un modo per migliorarci e rafforzare la nostra persona. Dovremmo evitare, a differenza dei protagonisti del racconto, di “sparare” contro ogni cosa che non ci piace. Superare i primi giudizi può 5 7
Bibliografia
con il gioco d’azzardo, la dipendenza da sesso e dalle tecnologie. Editore e socio della rivista on line “Il Sigaro di Freud”, per la quale gestisce la rubrica “Tutta un’altra storia” nella quale propone favole, fiabe, leggende, racconti, canzoni, rivisitate in chiave psicologica. La sua grande passione per la narrazione, strumento che utilizza spesso nella sua attività clinica privata, lo ha portato a gettarsi nel mondo della scrittura creativa, realizzando numerose opere. Negli ultimi anni ha vinto diversi premi e decine di suoi racconti sono pubblicati su riviste e antologie a livello nazionale. (+39) 3804739760 luca.notarianni@alice.it
Aprile K.A., Dharani B. & Peters K. (2012). “L’impatto di Locus di aspettativa di controllo sul livello di benessere”. Rassegna di studi europei, 4(2) Bateson G. (1997) Verso un’ecologia della mente. Adelphi, Milano Brown F. (1955) Avamposto sul pianeta X (Sentry). Arnoldo Mondadori Editore, Milano Krishnananda A. (1997) A tu per tu con la paura. Feltrinelli, Milano Santandreu R. (2013) L'arte di non amareggiarsi la vita. Feltrinelli, Milano
Si Laurea in Psicologia clinica della Persona, delle Organizzazioni e della Comunità nell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”. Iscritto all’albo A degli psicologi del Lazio.” Ha svolto la scuola di counseling psicologico di Obiettivo Psicologia s.r.l. Da undici anni svolge la sua attività professionale nel settore sociale di Roma, sviluppando una profonda e matura esperienza nel campo delle dipendenze. Lavora per l’Associazione onlus “La Tenda” per la quale, negli anni, ha svolto e continua a svolgere numerose e diverse attività lavorative. Ha lavorato come operatore di strada nei contesti di prossimità di riduzione del danno e del rischio; si è occupato della gestione di un servizio di sostegno psicologico telefonico rivolto a famiglie con problemi di tossicodipendenza; ha svolto attività di formatore sul tema delle dipendenze; ha organizzato e partecipato a interventi di prevenzione sull’uso di sostanze stupefacenti rivolti a studenti delle scuole medie e superiori; lavora come psicologo nel progetto Nautilus, servizio innovativo di prevenzione, informazione, riduzione del danno e del rischio, in festival e ambienti ludici notturni legali e illegali. Ha collaborato con Medecins du Monde nella realizzazioni d’interventi educativi rivolti a rifugiati politici, sulle tematiche del gioco d’azzardo e delle dipendenze da sostanza. Ha collaborato con Obiettivo Psicologia s.r.l. come tutor d’aula., per il quale ha inoltre organizzato e condotto webinar sul gioco d’azzardo. Per il Centro Indivenire ha collaborato alla realizzazione d’interventi tematici rivolti ad alluni delle scuole elementari. Ha collaborato con SiiPac (Società Italiana Intervento Patologie Compulsive) per la quale si è occupato d’interventi psicologici rivolti al sostegno rispetto a problematiche legate prevalentemente 5 8
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Illustrazione © Gayatri Parte
Luca Notarianni – Psicologo
La Vecchiaia oggi Quando l’anziano ritorna feto di Dario Maggipinto
È sempre più comune vedere anziani stremati, senza coscienza ne stimoli, completamente inermi, mantenuti in vita solo per un proprio obbligo morale, perché ora, mediante la tecnica medica, è possibile diventare facilmente centenari, ma senza compensare il tutto con un miglioramento adeguato della qualità della vita: si perde dunque il fine, perché sono in vita? TAG: Psicologia, senilità, anziano, fetalizzazione, demenza, psicogeriatria, crisi, senex, terza età, società fetalizzata Nel corso degli ultimi decenni, la società umana economicamente avanzata ha subito un enorme salto in avanti dal punto di vista tecnologico. Ogni aspetto dell’ambito umano ha dunque goduto di questa evoluzione, dalla comunicazione ai trasporti, dall’edilizia alla sanità. Questo notevole salto in avanti pone l’essere umano dinanzi ad un quesito etico, rappresentato in molti film cinematografici, ossia come la tecnica influenzi o sovrasti l’uomo. Possiamo affermare che ad oggi non è più l’uomo che ha potere sulla tecnica. Galimberti afferma che non vi è più l’utilizzo della tecnica per i propri fini, bensì il contrario: sono gli scopi che vengono modellati intorno alle nuove tecniche(1). C’è dunque un crollo della finalità autentica dell’uomo, che comporta a livello generale una crisi identitaria, compensata dalle mille foto caricate online per modellare, attraverso la tecnica, un’identità fittizia, un falso sé virtuale: un avatar composto da come vorremmo essere percepiti dall’altro.
Questi sono quesiti etici molto importanti, quanto delicati. Senza ovviamente augurare la morte di nessun anziano, è auspicabile invece concentrarci su come questa medicalizzazione avanzata abbia portato ad un fenomeno che Giacobbi definisce “fetalizzazione” o “società fetalizzata”(3), laddove, appunto, l’anziano si ritrova a subire un sostegno e delle cure a 360 gradi, come appunto un feto o un bambino appena nato. Tale processo di fetalizzazione crea uno scenario drammatico rispetto all’avvento della morte. Mentre in passato i propri cari morivano in casa, con un tempo annunciato dal medico (il famoso “ ha un mese di vita”) e i propri familiari intorno al letto del morente ritualizzavano ed elaboravano la morte come un evento famigliare che sanciva un percorso doveroso della vita, ora la morte viene sempre più allontanata dall’idea di evento naturale che permette di creare uno spazio per nuove nascite, ed i famigliari, i cosiddetti caregiver, si ritrovano a spendere gran parte della propria vita per sostenere il proprio caro fetalizzato e, il momento del decesso viene vissuto in ospedale, privando i famigliari di ogni aspetto rituale, vivendolo talvolta come una perdita angosciante, fredda e sterile come le stanze d’ospedale.
L’avvento della veloce tecnologia ha spinto la società a concentrarsi sempre di più sulla quantità, piuttosto che sulla qualità, e, come afferma Giacobbi, anche sulla vita umana ci ritroviamo a concentrarci sul mantenere in vita il più a lungo possibile un nostro caro, tralasciando però gli aspetti riguardanti la qualità della vita(2). È sempre più comune vedere anziani stremati, senza coscienza ne stimoli, completamente inermi, mantenuti in vita solo per un proprio obbligo morale, perché ora, mediante la tecnica medica, è possibile diventare facilmente centenari, ma senza compensare il tutto con un miglioramento adeguato della qualità della vita: si perde dunque il fine, perché sono in vita?
Ovviamente non auspico di tornare al passato, dove la medicina non avanzata impediva il più delle volte di riconoscere le cause di un malanno, ma mi preme sottolineare come l’avanzamento della tecnica abbia sconvolto il nostro modo di vivere, e mettere in luce come “ossessionati” dalla quantità, perdiamo sempre più di vista la qualità della vita. L’anziano perde il suo archetipo Junghiano del “Senex”(4), il saggio, diventando un eterno giovane fino 6 0
all’arrivo di una vecchiaia fetalizzante. Dinanzi al sopraggiungere della vecchiaia, l’anziano inizia a guardare al passato, terrorizzato dal proprio futuro, con ipotetiche infermità o patologie mortali. L’anziano diviene estremamente vulnerabile allo stress, sia da cause ambientali che relazionali. Sempre in riferimento all’attenzione sulla qualità della vita, comprendiamo come nessuno dovrebbe essere lasciato da solo a fronteggiare i problemi dell’età che avanza e le tematiche riguardanti la morte. La solitudine svuota di senso le giornate - il potenziale “tempo libero” tende ad essere percepito come “vuoto” innescando o alimentando un disagio psicologico che può sfociare in ansia e depressione.
Bibliografia Cameron P. (2007) Un giorno questo dolore ti sarà utile. Adelphi, Milano Galimberti U. (2002) Psiche e Techne. L'uomo nell'età della tecnica. Feltrinelli, Milano Giacobbi S. (2013) Vecchiaia e morte nella società fetalizzata, Mimesis, Milano Guenon R. (1945) Il regno della quantità e i segni dei tempi. Adelphi, Milano Hillman J. (1990) Senex et puer. Un aspetto del presente storico e psicologico. Marsilio, Venezia Jung C.G. (1940) Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Psicologia dell’archetipo del Fanciullo. Bollati Boringhieri, Torino.
In un’ottica di resilienza, l’anziano ha bisogno di avere accanto una sorta di “tutore di resilienza”, una figura affettivamente significativa (un parente, un amico, uno psicoterapeuta, un operatore assistenziale, od un semplice volontario) - che ascolti la sua storia colmando eventualmente le lacune esistenti, o che gli rammenti il suo vissuto, tante e più volte, per mantenere viva una traccia, conservare un ricordo.
Dario Maggipinto – Psicologo, Psicoterapeuta Si Laurea in Psicologia Clinica e della Salute presso l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti e iscritto all’albo A degli psicologi d’Abruzzo. È specializzato presso la Scuola Internazionale di Psicoterapia nel Setting Istituzionale (S.I.P.S.I.) di Roma.
Si ipotizza che un ambiente a “bassa emotività espressa” dove l’atteggiamento prevalente verso l’anziano comprenda accettazione ed empatia con adattamento flessibile alle richieste ed ai bisogni espressi, direttamente o indirettamente, sia “protettivo” nei confronti della salute psicologica dell’anziano.
Ha maturato esperienze presso il Policlinico “Agostino Gemelli” di Roma, sviluppando una particolare esperienza per il supporto di pazienti oncologici e famigliari e pazienti nel setting istituzionale. Esercita la propria attività privata come Psicologo e Psicoterapeuta a Chieti. È membro della rete psicologi dell'Associazione Italiana Sclerosi Multipla, divenendo psicologo di riferimento presso l'AISM sezione di Chieti. È Presidente e psicologo di riferimento dell'associazione di promozione sociale "La Cura del Tempo" che si occupa di supporto ed assistenza alla persona anziana o disabile, ed è anche socio fondatore dell’associazione di promozione sociale TeAtelier, che si occupa di riqualificare aree del territorio Teatino attraverso progetti di inclusione sociale e di promozione del benessere psicologico. Nutre un particolare interesse per lo strutturarsi dei processi e dei contenuti onirici, sia in ambito individuale che socio-gruppale (Social Dreaming), e per l’etnopsicologia, attraverso lo studio dei miti e delle favole. Parallelamente, porta avanti l’attività di ricerca, interessandosi alla lettura psicodinamica delle modificazioni corporee e del lavoro psicoterapeutico nel setting istituzionale, in qualità di Vicepresidente e socio fondatore dell'associazione scientifica I.a.p.i.s. "The International association for psychotherapy in institutional settings". In ultimo lavora come gestore ed editore della rivista on line “Il Sigaro di Freud“ divendone Vicepresidente e socio fondatore dell'omonima associazione. (+39)3349428501 dario.maggipinto@gmail.com
Solo mediante una attenta stimolazione emotiva, mediante l’ascolto, i sorrisi e i ricordi di ciò che si è, può permettere di ridonare un colore ed una degna qualità di vita alla persona anziana, cercando di contrapporsi ad un’idea della vita basata unicamente sui numeri, la produttività e la quantità; ma se ci pensiamo bene, tutto ciò non è valido soltanto per la persona anziana, bensì per la persona umana.
____________________ (1) Tratto dal libro " Psiche e Techne. L'uomo nell'età della tecnica" (2002) di Umberto Galimberti, Feltrinelli Editore, Milano (2) Tratto dal libro "Vecchiaia e morte nella società fetalizzata. La psicoterapia dell’anziano" (2013) di Giacobbi Secondi, Mimesis Editore, Milano (3) Ibid. (4)Tratto da “Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Psicologia dell’archetipo del Fanciullo” (1940) di Jung C. G., Bollati Boringhieri, Torino.
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Illustrazione Š Gayatri Parte
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