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INCONTRI, 3
Clara Gennaro
MERCANTI E BOVATTIERI NELLA ROMA DELLA SECONDA METÀ DEL TRECENTO introdotto da Massimo Miglio
Clara Gennaro
In anni tanto difficili e singolari, dunque, un ceto cittadino pare amministrarsi da sé, alternare le cure dei propri affari a quelle della comunità, confondere i propri interessi con quelli pubblici, pare conformarsi, in una parola, come classe dirigente.
MERCANTI E BOVATTIERI NELLA ROMA DELLA SECONDA METÀ DEL TRECENTO
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istituto storico italiano per il medio evo
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INCONTRI, 3
Clara Gennaro
MERCANTI E BOVATTIERI NELLA ROMA DELLA SECONDA METÀ DEL TRECENTO introdotto da Massimo Miglio
ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO 2018
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Incontri collana diretta da Massimo Miglio
Coordinatore scientifico: Isa Lori Sanfilippo Redattore capo: Salvatore Sansone Progetto grafico copertina: Ariane Zuppante ISBN 978-88-98079-78-0
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MASSIMO MIGLIO
Incontro con Clara Gennaro
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Nota editoriale
Il saggio introduttivo e il saggio di cui si offre la ristampa seguono criteri editoriali diversi. L’idea dell’incontro voleva, infatti, essere fermata anche attraverso una restituzione editoriale che mantenesse una dialettica fra la fedeltà alle norme redazionali in auge al momento in cui il saggio era uscito a stampa la prima volta e quelle attuali. L’articolo di Clara Gennaro fu pubblicato per la prima volta nel «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano», 78 (1967), pp. 155-203.
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Il contemplativo e lo studioso vero, quello che non può nascere che nell’amore per questa inverosimile imprevedibile e amatissima umanità, sono parenti troppo stretti per cui l’uno non trapassi nell’altro. Clara Gennaro, lettera del 24 ottobre 1978
La fortuna della letteratura storiografica dedicata a Roma nel Medio Evo, non soltanto, ma anche per altri periodi, ha avuto momenti sussultori, spesso dettati da condizionamenti politici. Quando nel 1967 Clara Gennaro pubblicò l’articolo che viene stampato di nuovo in Incontri, quasi contestualmente si era parlato non a caso, a proposito di Roma, di deserto storiografico. Dopo il forte interesse per la storia della città nel periodo fascista (e i nomi da ricordare per il Medioevo – spesso con contributi importanti – sono quelli di Bertolini, Cecchelli, Dupré, Fedele, Toesca, Valentini, Zucchetti), che aveva privilegiato però l’età imperiale, il silenzio era sceso su Roma. Il contributo della Gennaro provocherà una forte ripresa di interesse; segnerà anche un modo nuovo nella sua lettura e nella sua interpretazione, lontano dai luoghi comuni tradizionali, anche per gli aspetti economici, e con integra-
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Massimo Miglio
zioni significative per la conoscenza del sui contado1. Clara Gennaro era stata allieva di Arsenio Frugoni, storico da cui aveva acquisito una forte sensibilità nella lettura delle fonti e nell’attenzione per la storia di Roma; ma i testi che sceglie di leggere per le sue ricerche sulla città non sono quelli suggeriti dal maestro; confortata in questo anche dalle indicazioni di Dupré. Per affrontare il Trecento romano, e per studiare la società romana del periodo, intuisce che deve percorrere la strada faticosa della schedatura dei protocolli notarili. Così il suo tavolo da lavoro all’Istituto, sotto la finestra di sinistra di quella che è ora la stanza della Redazione scientifica, si riempie, nel pomeriggio, di schedine bianche con i risultati del lavoro, svolto al mattino, all’Archivio Capitolino e in Archivio di Stato a corso Rinascimento. Del Trecento romano, attraversato come una stella cadente dalla figura suggestiva, ingombrante e forse deviante di Cola di Rienzo, avevano scritto anche altri, come altri avevano parlato di mercanti e bovattieri; nessuno però aveva potuto penetrare la complessità della società romana. Sarà questo il risultato più felice. Era quanto i registri notarili permettevano di fare. La scelta della fonte era stata fondamentale anche per la comprensione della storia della città. Leggiamo così una storia che indica come la caduta di Cola sia stata provocata da quegli stessi mercanti e cavallerotti che lo avevano appoggiato 8
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Incontro con Clara Gennaro
all’inizio: questo per la loro delusione nell’incertezza della sua politica antibaronale, per la loro preoccupazione nei confronti dell’avventurosa e ideologica politica italiana e per l’altrettanto forte timore dei risultati dell’opposizione pontificia: «Cavallerotti e mercanti […] cercheranno […] una loro strada diversa per realizzare quel programma, che avevano sperato di veder attuato dal Tribuno e – sostanzialmente – ci riusciranno, ponendosi alla guida della vita comunale e battendo i baroni, non più andandoli a snidare nei loro castra, ma opponendosi a loro quale forza economica e politica»2. Dall’altra parte la Gennaro è ben consapevole che: «L’assenza del papa e della sua curia comportava […] necessariamente una condizione di crisi per il ceto baronale, all’uno e all’altra unito con legami tanto stretti da parer indisgiungibili»3. Questa storia non era raccontata dall’Anonimo romano né da alcun cronista, era invece recuperata dai registri notarili e in parte dalla legislazione statutaria. Dai registri e dagli statuti emergeva un’abbastanza precisa distribuzione sociale (mercanti [commercianti agricoli, campsores, mercanti di panni], bovattieri [allevatori e proprietari agricoli] e cavallerotti) e un’altrettanto evidente accelerazione, negli anni tra il 1360 e il 1370, «del ritmo della vita economica cittadina, graduale nei primi anni e infine sempre più sicuro»4, a cui partecipano anche altre componenti, come lanaioli e macellai. 9
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Massimo Miglio
Se mercanti e bovattieri erano stati sostenitori di Cola di Rienzo, l’avevano poi abbandonato e avevano scelto di governare direttamente il Comune romano con la creazione di nuove magistrature (i Sette riformatori, 1358, e i Tre Conservatori), con la rivitalizzazione dell’antica Felix societas Pavesatorum et Banderensium (1369), a cui delegano compiti militari e civili; con il controllo inoltre dell’appalto della dogana del sale, del ripatico e dei diritti di baratteria, spesso acquisiti direttamente5. Le conclusioni erano: «In anni tanto difficili e singolari […], un ceto cittadino pare amministrarsi da sé, alternare le cure dei propri affari a quelle della comunità, confondere i propri interessi con quelli pubblici; pare confermarsi, in una parola, come classe dirigente»6. A distanza di soli due anni dall’articolo della Gennaro usciva un volume altrettanto importante per la storiografia tardomedievale romana. Nel Bonifacio IX e lo Stato della Chiesa7, tra tante altre cose, Arnold Esch dimostrava come con quel pontefice «ebbe fine per sempre il libero Comune romano»8. Esch descrive una città leonina quasi continuamente assediata dalle richieste capitoline nei confronti dei curiali, proseguite anche dopo l’accordo del settembre 1391, in cui si definivano le competenze sull’amministrazione della giustizia e sulle tasse e che il pontefice fece inserire negli Statuti del 1363. Statuti che in origine non contemplavano la presenza della Curia: su Curia 10
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Incontro con Clara Gennaro
e pontefice negli statuti romani c’era stato il silenzio totale. Il successivo accordo dell’8 agosto 1393, che presumeva il nuovo ritorno del pontefice a Roma, prevedeva anche che la nomina del Senatore fosse di competenza papale. Le tensioni tra Municipio e Curia continuarono anche dopo questi accordi, accentuate dalla volontà del Comune di estendere i propri diritti sul districtus Urbis (ad esempio per il sale, per la riscossione del focatico, per la grascia e per la nomina del podestà). Tutto era reso più complicato dal reinserimento della nobiltà nel gioco politico comunale e dalla forte divaricazione tra i due nuovi schieramenti politici romani, che si alternavano continuamente al potere, entrambi avversi al papato: i popolari (i nomi degli uni e degli altri erano solo di riferimento), alleati con gli Orsini; e i nobili, alleati con i Colonna. Era una situazione di totale conflittualità, che per circa un anno vedrà prevalere il popolare Pietro Matuzzi, rovesciato poi dai nobili e messo al bando da Roma. Il tentativo del condottiero Paolo Orsini, sempre con il Matuzzi, di riprendere il potere con le armi diede la possibilità al pontefice di intervenire nei conflitti interni e le parti rassegnarono, alla fine del giugno 1398, il plenum dominium nelle mani di Bonifacio IX. I successivi interventi del papa dimostrano il suo completo controllo sul Comune e sulla città. Vennero assolti prima i nobili, poi i popolari; venne nominato dal pontefice un cardinale vicario generale in temporalibus e come senatore Ma11
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Massimo Miglio
latesta di Galeotto Malatesta; fu riorganizzato il governo comunale ed esautorati i banderesi; accentuati i poteri del senatore, così come tutti gli ufficiali del Comune diventarono di nomina pontificia; le spese straordinarie della Camera urbis dovettero essere firmate dal camerario apostolico; i diritti sovrani nel distretto divennero di competenza pontificia. Altrettanto significativi gli interventi pontifici sulla città: la ricostruzione nel 1398 di Castel S. Angelo; la fortificazione di Palazzo Senatorio sul Campidoglio; la fortificazione del palazzo apostolico con la conseguente demolizione della via francisca per la creazione di un bastione. I tentativi di ribellione furono stroncati, ora con condanne a morte, ora con l’esilio, ora con amnistie. Il commento finale di Esch, lapidario, è: «le sollevazioni rimarranno ormai allo stadio di episodi; con Bonifacio IX ebbe fine per sempre il libero Comune romano»9. Ma le aspirazioni di mercanti e bovattieri – che erano state anche di Cola di Rienzo –, che Clara Gennaro aveva verificato nella pratica della loro affermazione sociale, continuarono a sopravvivere a lungo sotterranee, nascoste, dissimulate, sempre più difficili da realizzare. Oggi, a distanza di cinquant’anni, le ricerche della Gennaro continuano ad essere ancora valide. Hanno dimostrato che, anche se è vero che la mancanza di fonti per la storia della città «è un 12
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dato di fatto», che a Roma nel Trecento si è scritto poco, sicuramente meno che in altre realtà comunali; che poco è stato conservato e molto è andato perso10; hanno dimostrato che, come ha confermato tutta la letteratura storiografica che è venuta dopo, era necessario e opportuno allargare l’orizzonte a tipologie di fonti poco o punto utilizzate. In questo è stata un modello e basta scorrere le ricerche successive11, che crescono in maniera esponenziale con la fine degli anni Ottanta12. Il suo contributo è stato di riferimento per tutta la letteratura storiografica che è seguita ed è stato ancora ricordato in molte delle relazioni dei tre recenti Convegni che hanno posto un sigillo a questi ultimi decenni di storiografia su Roma tardomedievale13.
Nei primissimi anni Settanta Clara Gennaro ha abbandonato l’università e insieme le ricerche su Roma. Significava ora per lei l’insegnamento a scuola, stare vicino agli esclusi, l’impegno nel sindacato, qualche conferenza all’università e la ricerca scientifica, la vita in comunità; significava continuare ancora più profondamente le amicizie lasciate, alla ricerca continua della «historia hominum»14; vivere un cristianesimo di «persone che ancora credono nella vita non come un lasso qualsivoglia del tempo, ma ancora un’avventura tutta da giocare», «con la pelle scoperta». Sente «con molta forza un desiderio di vivere enorme, violento come un ciclone. Talora fa persino male un desiderio così violento». La sua 13
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Massimo Miglio
scelta è «Di vivere, cioè con serietà, con amore, con gioia, con attenzione a tutto», «per portare sempre più questa trepidante ricerca umana dentro di me, come qualcosa di sconfinatamente grande». In Piemonte anche il paesaggio è diverso: «Qui nevica, gela, il paesaggio è stupendo. Io avanzo bardata di scarponi e un po’ spaesata. Mi sento il cuore romano e napoletano: amo di più le luci rosate, che sembrano inventate per le superfici barocche delle nostre chiese e per gli angoli chiassosi di Parione, Trastevere, Arenula. Ma ognuno ama i suoi Paradisi, come sa». Il suo paradiso è Roma. Sogna la Biblioteca Vaticana, ma la sogna insieme con gli emarginati e gli esclusi: «Mi rimane viva la memoria di un paradiso – quello della Vaticana, dei silenzi delle grandi sale, di spazi ampi condotti ad un ordine che è bellezza, del mondo rinascimentale. Ho sognato – scrive – questi spazi in un sogno bellissimo, di cui era protagonista Mario, uno di quegli esclusi con cui avevo stretto amicizia». Con l’allontanamento dall’Università non ha abbandonato la ricerca, che ha però rivolto a temi religiosi, in coerenza con quella scelta di vita che l’aveva portata a vivere prima nella comunità ecumenica di Bose e poi nella comunità cristiana di Banchette d’Ivrea; i suoi temi saranno i movimenti religiosi del Duecento e del Trecento, Venturino da Bergamo, Giovanni Colombini, Giovanni Delle Celle, Francesco e Chiara d’Assisi15; tematiche di storia religiosa che erano state dell’Istituto 14
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storico e dello stesso Frugoni, che era stato il suo maestro16. Legge i classici della storiografia contemporanea, con qualche venatura polemica, più per gli emuli che per i maestri di cui riconosce la grandezza: «il rileggere certi saggi di Braudel mi ha fatto sentire la povertà di questi discorsi “alla francese” in cui le “tecniche” dovrebbero rivelarsi mondi. Anche se certe pagine del Filippo II di Braudel erano molto belle (malgrado le premesse?)»; legge Pasquali e Timpanaro (quest’ultimo con il ricordo di Frugoni). Non dimenticherà mai Frugoni e la sua individualità di uomo e di studioso. Una presenza che sarà sempre forte perché coinvolgeva tante cose, tanto da avere paura di dimenticarlo e da commuoversi per questo. Ha un ricordo di lui che sente «corposamente… non solo per quello che dava a me, ma anche per quello che dava ad altri», «qualcosa di bello e di triste, ma di morto, da conservare chiusi in sé. È così stancante ricordare veramente! Per me questo è così unito all’amor di Dio e degli altri, in un far crescere dentro di sé l’unione con lui e con tutti gli uomini». Rivive tanto profondamente il rapporto con Frugoni da far riaffiorare all’improvviso lontane conversazioni con lui, che la portano a cogliere nel profondo il rapporto del maestro con le fonti che leggeva. È un ricordo improvviso: «occasione di improvviso sussulto, di accensione e di battiti, da ragazzina… oggi ancora più intensi, per un ricordo che mi ha colto sprovveduta e disarmata di 15
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una lunga chiacchierata di Frugoni sul Verga…». Stava spiegando il verismo ai suoi studenti di scuola e improvviso le torna in mente un discorso con lui sull’argomento, ma per riflettere che, al di là di Verga, in ogni discorso di Frugoni: «non sapevi mai quanto della delicatezza e della acutezza dell’analisi fosse dovuta ad un trasferimento dell’autore a sé, o forse è difficile dire dove cominciava l’uno e dove finiva l’altro, perché era sempre e solo un discorso di umanità fino in fondo (lui o Verga, era importante?)».
Non ha dimenticato mai Roma. La città e la sua storia che continua. In un ciclo di lezioni dedicato alle città italiane nel Medioevo, il 2 marzo di quest’anno, l’ultima sua lezione era dedicata a Roma, alla città di Cola di Rienzo, la sua città. «Oggi abbiamo parlato di Roma, della mia città. Quando giovanissima studiavo e lavoravo per la mia tesi sulla Roma medievale, la Roma di Cola di Rienzo e degli anni immediatamente a lui successivi, leggendo, imparando a leggere, gli atti dei notai che riportavano contratti di vendita, contratti di lavoro, testamenti, volevo conoscere il cuore di Roma, quello dei vicoli, un po’ nascosti, quelli vicini alla sinagoga, quel brulicare di stradine che conducevano ad Agone – a piazza Navona –, quelli vicini a Campodifiori, che ancora negli anni ’60 erano abitati da piccoli artigiani, da piccole botteghe, ed era un vedere con il cuore alto, con dolci e dolenti emozioni. Roma è un mondo: c’è la Roma antica, tanto amata, venerata sognata da Cola di Rienzo, la Roma romanica 16
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dalle mille chiese splendide con affreschi di grande bellezza, chiese in cui è facile pregare, e la Roma rinascimentale che ci ha donato oltre la geniale cupola di Michelangelo, lo straordinario palazzo Farnese all’interno del quale oltre l’ambasciata francese c’era e c’è un’attrezzatissima biblioteca francese, ricca di volumi che riguardano il medioevo e io andavo lì a studiare, e come non ricordare poi le splendide chiese barocche borrominiane – tra le quali S. Ivo alla Sapienza con una cupola che s’arrampica, s’arrampica da farmi sognare e quando uscivo dall’Archivio di Stato dove andavo a leggere e a trascrivere i miei notai l’occhio saliva e godeva. Insomma Roma – come ha detto qualcuno – Roma non basta una vita. Ma noi abbiamo – da Natale in poi – attraversato cercando qualcosa della loro storia solo alcune delle nostre splendide città – solo alcune, perché ogni nostra città è ricca di storia e di bellezza – non abbiamo parlato di Lucca, e del miracolo di Venezia – ma neanche di Perugia, delle Marche e di tante altre – e sono mille facce, mille visi splendidi di questa nostra Italia e non dimentico tutto il Mezzogiorno, che come romana porto in me – ma il Sud non ha conosciuto il comune, il comune medievale. E ho un ricordo bello e mi piace ricordarlo con voi – stavo un giorno in treno e leggevo in quel tempo il grande e poco conosciuto scrittore Corrado Alvaro e lì in treno ho visto davanti a me due persone: da come parlavano, dai loro visi, erano dei meridionali. Erano gli anni quelli della trasmigrazione interna dal sud a Torino, alla Fiat a lavorare e mi sono commossa davanti a quei visi, li ho sentiti fraterni, carne della mia carne, ossa delle mie ossa – come disse Adamo quando vide uscire da lui Eva. Carne della mia carne, ossa delle mie ossa. 17
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Io amo l’Italia – come ha detto giorni fa Camilleri, grande in alcune splendide pagine – Io amo l’Italia, e ha detto queste parole, portandosi in cuore l’apprensione, il timore, un amore tormentato, in questi giorni dove il nostro paese sembra così confuso, così angustiato. Abbiamo alle spalle una lunga storia non sempre facile, non sempre felice di uomini e donne ma capaci di grandi gesti d’amore e di sacrificio, di una grande umanità che ha saputo creare bellezza, ha saputo alimentare nelle lettere e nelle arti quell’umanità profonda, splendida che fa dell’uomo qualcosa – come scriveva Pico della Mirandola, un grande umanista – qualcosa di simile a Dio. E con questo cuore che dopo domani andrò a votare. Buona serata, amici e buoni pensieri».
Note
Conclusione naturale di questa ricerca sarà il subito successivo C. GENNARO, La «Pax romana» del 1511, «Archivio della società romana di storia patria», III ser., 90/21 (1967, ma pubblicato nel 1968), pp. 1760. 2 C. GENNARO, Mercanti e bovattieri nella Roma della seconda metà del Trecento (Da una ricerca su registri notarili), «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 78 (1967), pp. 155-203: 156-157 (qui, ora, p. 25). 3 Ibid., p. 166 (qui, ora, pp. 32-33). 4 Ibid., p. 161 (qui, ora, p. 29). 5 Ibid., pp. 183-187(qui, ora, pp. 47-50). 6 Ibid., p. 186 (qui, ora, p. 49). 7 A. ESCH, Bonifaz IX. und der Kirchenstaat, Tübingen 1969. 1
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Incontro con Clara Gennaro 8 A. ESCH, Bonifacio IX, papa, in Dizionario Biografico degli Italiani, 12, Roma 1971, pp. 170-183: 171, si veda anche ESCH, La fine del libero Comune di Roma nel giudizio dei mercanti fiorentini. Lettere romane degli anni 1393-1398 nell’Archivio Datini, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 86 (1976-1977), pp. 235-277. 9 ESCH, Bonifaz IX. cit., p. 171. 10 I. LORI SANFILIPPO, La Roma dei Romani. Arti mestieri e professioni nella Roma del Trecento, Roma 2001 (Nuovi Studi Storici, 57), p. 3. 11 Esemplare nello sviluppo della linea storiografica della Gennaro è ad esempio J.-C. MAIRE VIGUEUR, Classe dominante et classes dirigeantes à Rome à la fin du Moyen Âge, «Storia della città», 1 (1976), pp. 4-26. 12 Un notevole contributo agli studi su Roma tardomedievale è stato dato dalla Associazione Roma nel Rinascimento e dalle sue attività, cfr. http://www.romanelrinascimento.it, consultato nel marzo 2018. 13 Roma 1347-1527. Linee di un’evoluzione, 13-15 novembre 2017, Istituto storico italiano per il medio evo; La linea d’ombra. Roma 1378-1417, 8 décembre 2017, Universitè de Lasanne. Faculté de Lettres; Vivere la città. Roma nel Rinascimento, 15-16 dicembre 2017, Dipartimento di Storia Culture Religioni. Sapienza, Università di Roma. 14 Tutte le citazioni sono da lettere conservate nel Fondo Miglio dell’Archivio storico dell’Istituto storico italiano per il Medio evo, in corso di inventariazione, e sono pubblicate con il consenso dell’autrice. 15 Vedi http://www.isime.it/index.php/archivio/ fondi/fondo-clara-gennaro, consultato nel marzo 2018. Mi piace isolare dall’articolo, del 1980, C. GENNARO, Chiara, Agnese e le prime consorelle: dalle “Pauperes Dominae” di San Damiano alle Clarisse, in Atti del VII convegno della Società Internazionale di studi francescani, Assisi 1980, pp. 37-55, le parole iniziali,
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Massimo Miglio
che sento in qualche modo autobiografiche: «Movimento inquieto, che preme e cerca nuove forme di espressione religiosa e non trova né spazio né voce nella ricerca più profonda che lo connota negli ordini già esistenti. Una storia … collegata indubbiamente anche ad una crescita culturale e spirituale che la donna in questi secoli cerca principalmente all’interno della vita religiosa». 16 Bibliografia degli scritti di Arsenio Frugoni, raccolta a cura di C. GENNARO, Pisa 1973; A. FRUGONI, Celestiniana, rist. anast. ediz. 1954, con introduzione di Clara Gennaro, Roma 1991 (Nuovi Studi Storici, 16); C. GENNARO, L’umanità di Arsenio Frugoni. Note e ricordi di un’allieva, in Arsenio Frugoni, cur. F. BOLGIANI - S. SETTIS, Firenze 2001 (Biblioteca della Rivista di Storia e Letteratura Religiosa. Studi, XIII), pp. 101-110.
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CLARA GENNARO
Mercanti e bovattieri nella Roma della seconda metĂ del Trecento (Da una ricerca su registri notarili)
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«Può questo adunao moiti Romani puopolari descreti, e buoni homini: ancho ’nfra questi ’nce fuoro cavallerotti, e de bono lennajo, moiti descreti et ricchi mercatanti. Habbe con essi conziglio, e rascionao dello stato della Cittate». Così l’Anonimo Romano individua, dunque, i gruppi sociali più sensibili al programma di Cola di Rienzo; l’adesione di queste forze alla politica del tribuno è colta come ben più precisa e sicura di quella generica e instabile del popolino, che pure Cola sapeva legare a sé con la sua capacità straordinaria di evocazione di una passata grandezza da far rivivere. Lo stesso discorso che Cola rivolge agli adunati sul monte Aventino, quale l’Anonimo lo riporta, denuncia con chiarezza quali siano i suoi interlocutori, dei quali egli assimila linguaggio e temi: ai ‘mercatanti’ parla di cose e numeri e spiega come condizioni economiche – notevoli disponibilità finanziaria del Comune – e politiche – appoggio del papa, come dimostra l’invio di una notevole somma di denaro – rendano possibile l’instaurazione di un nuovo ordine; ai cavallerotti – forza principale dell’esercito cittadino – egli invece prospetta una politica estera comunale più decisa, una ripresa della marcia verso il distretto, anche se questo ri23
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Clara Gennaro
mane, nel racconto dell’Anonimo Romano, motivo più accennato che sviluppato e che si esprime solo nel rimpianto per la passata «fedele subbietione delle terre circustanti». Piano che Cola prospetta nel suo discorso programmatico, i cui punti fondamentali egli riprende con una maggiore articolazione negli ‘ordinamenti dello buono stato’, è unitario, pur muovendosi in due direzioni: all’interno della città rafforzamento del Comune, raggiunto anche mediante una decisa politica fiscale, eliminazione delle forze che si pongono come concorrenti a quelle comunali, controllo della potenza baronale, non solo entro le mura, ma anche fuori e quindi – qui interviene il secondo elemento della politica del Tribuno, al primo profondamente collegato – necessità della conquista, o meglio della soggezione, del distretto. Su questo secondo punto Cola doveva raccogliere l’approvazione e dei mercanti – e vedremo che senso la parola abbia per Roma – e in particolare dei cavallerotti che, strumento essenziale e indispensabile per l’attuazione di questa politica, si vedevano riconoscere un posto di primo piano nella vita del Comune, il quale s’impegnava a garantire loro anche una retribuzione fissa. La caduta di Cola, quando non si voglia accettare la versione che l’Anonimo ne dà, tutta basata su una presunta degenerazione del Tribuno, al quale vengono attribuiti atteggiamenti tipici di ogni tiranno, è da collegare con l’abbandono di quelle forze che lo avevano dianzi sostenuto. E 24
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d’altra parte l’Anonimo lo avverte, se pure non chiaramente, ché infatti nel momento culminante della fortuna di Cola, nella lotta cioè contro il Colonnesi, questi si vedono favoriti proprio dai cavallerotti. «Li cavallerotti de Roma scrissero lettere a Missore Stefano della Colonna, che venissi con iente, che li volevano aperire le puorte». Motivi, per questo mutamento di rotta da parte di cavallerotti e mercanti, se ne possono trovare diversi: la delusione, in primo luogo, nei confronti di Cola, che sembra condurre avanti una politica anti-baronale incerta e di scarsi risultati; in secondo luogo lo stesso complicarsi della situazione per l’opposizione papale, ma, soprattutto, credo, l’avvertire come la spinta ideale della politica di Cola non aderisca più alle cose, ma si faccia astratta non tenendo più conto della realtà romana. La cosiddetta ‘politica italiana’ di Cola deve essere stata per uomini che conoscevano la potenza di quelle città, alle quali il tribuno voleva proporre Roma come guida, un vero e proprio campanello d’allarme. Cavallerotti e mercanti, abbandonato Cola, cercheranno così una loro strada diversa per realizzare quel programma, che avevano sperato di veder attuato dal Tribuno e – sostanzialmente – ci riusciranno, ponendosi alla guida della vita comunale e battendo i baroni, non più andandoli a snidare nei loro castra, ma opponendosi a loro quale forza economica e politica. Una storia, quella della formazione o meglio del consolidamento di questo ceto, che si verrà a 25
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Clara Gennaro
sostituire ai baroni in tanti punti-chiave della città, che né l’Anonimo – la sua Cronica si chiude con la morte di Cola –, né alcun altro cronista ci narra. Altra la fonte che per Roma non si è ancora sfruttata in questo senso: i minutari notarili. ***
I fondi notarili, che si trovano sia presso l’Archivio Capitolino sia presso l’Archivio di Stato di Roma offrono una documentazione notevole che si aggira intorno alle 7000 carte1. Purtroppo mancanti per la prima metà del Trecento – il primo è del 1348 – si fanno man mano che si proceda negli anni più ricchi di carte e più numerosi. I minutari che raccolgono carte per una serie di anni continui, o quasi, ci permettono di seguire attraverso gli anni lo sviluppo delle fortune di individui e famiglie, mentre quelli costituiti magari da un solo volumetto di 50-60 carte complessive, ci rendono possibile operare rapidi sondaggi in zone sia topograficamente sia socialmente differenti. Dai vari fondi emergono, infatti, volta a volta i diversi aspetti della Roma trecentesca. Dal fondo Serromani quello di una Roma mercantileartigiana: siamo nel rione Pigna uno dei più vivi sotto questa prospettiva. Dal fondo Staglia quello di una città nella quale esiste un ceto non troppo esiguo di campsores: ci troviamo nel rione Ponte, uno dei tre rioni nei quali a Roma si trovi un banco. Dal fondo Venettini e da quelli dei Capogalli è la Roma contadina, unita con saldissimi le26
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gami alla campagna quella che ci appare, ed il rione Monti è ai margini della Città. I fondi notarili non sono, in realtà, l’unica fonte per lo studio della società romana trecentesca, ad essi si affiancano gli Statuti2, siano essi quelli cittadini, siano delle corporazioni, i quali però, come tutti gli Statuti, rispecchiano solo in parte la realtà del momento in cui vengono promulgati, incorporando precedenti ordinamenti talora caduti in disuso ed esemplandosi su statuti di altre città. A cavallerotti e milites sia gli Statuti cittadini, sia quelli dei mercanti riserbano vari articoli, tra i più interessanti per la comprensione della composizione sociale della popolazione romana: «Et illi habeantur et intelligantur pro cavaleroctis in quolibet casu in hoc volumine comprehenso qui hactenus habuentur officium ut cavallarocti in Urbe vel eius districtu vel qui luderunt in ludis Testatie et Agonis», ci dice un articolo degli Statuti cittadini3, nel quale i milites vengono equiparati nella legislazione penale a «ille cuius bona valent duo milia librarum provisinarum». E non a caso ad essi doveva essere riserbato un medesimo trattamento, diverso da quello che toccava ai baroni e ai pedites, ché si trattava sostanzialmente di persone appartenenti ad un gruppo sociale omogeneo, pur se variamente differenziato all’interno. Quegli stessi cittadini, infatti, proprietari di castra e casali nella campagna romana, che godono di cospicue rendite, partecipano come cavallarocti all’esercito cittadino o pren27
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dono parte a quelle feste a carattere, direi, contadino che si celebravano a Testaccio e a piazza Navona in Carnevale4. Accanto ad essi, seppure distinti, militano e partecipano agli agoni i milites detentori delle armi per professione e per tradizione, appartenenti a famiglie baronali di nobiltà di toga5. Contro i milites, i quali dovevano sostenere un genere di vita molto spesso non adeguato alle loro possibilità, gli Statuti dei mercanti prendono misure atte a frenare la loro insolvibilità6 e, d’altra parte, i milites, lungi dall’isolarsi dalla vita economica cittadina, talora partecipano ad affari riservati alla mercatantia, se in un articolo degli stessi Statuti si dà licenza ai consoli dell’arte di: «facere iustitiam quibuslibet conquerentibus de militibus et aliis personis Urbis qui faciunt facta eorum mercatantie urbis et emunt fortes et vendunt vel mutuant vel obligant vel obligaverunt se per apodissas sicut ceteri mercatores»7. Nei minutari notarili i termini di miles e di caballeroctus non ricorrono con molta frequenza: mentre quello di caballeroctus è presente solo in vertenze di tipo penale, come nel caso di un Paloccio dei Tosci e dei suoi figli che in una causa intentata loro vengono detti caballerocti seu de genere caballeroctum8; quello di miles è più frequente, ma quasi sempre si trovava accanto a nomi dei membri di famiglie baronali. Tra i milites non baroni un Giovanni Caffarelli del rione S. Eustachio gode di una documentazione di un certo interesse: due strumenti9 ci testimoniano 28
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che egli esercitava un commercio agricolo di un qualche rilievo, se nello stesso anno – 1372 – egli riceve quietanza per il canone versato per una conduzione triennale di un casale della chiesa di S. Susanna e un’altra quietanza per l’acquisto di erba per 14 fiorini d’oro. Nello stesso anno, inoltre, Giovanni acquista da Cecco di Nucio degli Ilperini, detto Stopposo, 1/4 di Galeria, detto Lo Quarto de Sancto Savo per una somma in fiorini lasciata in bianco nello strumento di cui disponiamo10. Protagonisti principali dei minutari notarili sono, però, mercanti e bovattieri, di cui si dirà appresso, dai quali, certo, era costituito il nucleo centrale della cavalleria dell’esercito cittadino. È negli strumenti che li riguardano, più che in tutti gli altri, che si coglie negli anni tra il ’60 e il ’70 un accelerarsi del ritmo della vita economica cittadina, graduale nei primi anni e infine sempre più sicuro. Fenomeno di ripresa al quale partecipano tra i primi i mercanti, si diceva. Ma chi sono i mercatores? Nella Roma trecentesca il termine è ancora estremamente generico ed ha un arco di significati assai ampio: sta ad indicare sia i commercianti agricoli11, sia i campsores dei quali ultimi, però, si tende sempre più a precisare la particolare attività – sia, e più specificamente, mercanti di panni, per i quali frequentemente il termine veniva usato. Roma presenta in questi anni il tipico aspetto di una città, povera di capitali e di energie, ma in sviluppo, che attrae perciò gruppi di mercanti da 29
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tutte le città italiane, ma in particolare da Firenze12. L’immigrazione appare, infatti, in questi anni qualificata per l’appunto in senso mercantile-artigiano, non più caratterizzata unicamente da gruppi di contadini provenienti dalle Marche, Abruzzi e Umbria, che trovano nella campagna romana lavoro stagionale. Così nel 1371 tre fiorentini, con l’autorizzazione dei Conservatores Urbis stringono società per fondare una zecca con il versamento di 666 fiorini e 1/3 di fiorino per uno13. Negli anni 13691377 ci è testimoniato che alla Ripa Romea giungono mercanti pisani, lucchesi, astigiani e fiorentini, che si rifiutano di versare il ripatico14. Membri di famiglie fiorentine note nel settore mercantile, come quella dei Pulci, si stabiliscono a Roma, forse con l’intenzione di inserirsi nel processo produttivo della città15. Processo al quale partecipano anche elementi di altre nazioni come un miles de Anglia, Tommaso Diciandosso, il quale stringe società nel 1365 con un ex-fattore, poi mercante in proprio, Ciupo di Ser Francesco, già di Firenze, che in quell’anno dimora a Roma nel rione S. Lorenzo, per 2000 libre di sterline che si debbono investire in panni e altre mercatantie, da vendersi a Roma16. A questa ripresa economica concorrono anche mercanti romani di notevole levatura, come un Guglielmo dei Rossi e un Petruccio Sarragona, uno mercante di panni, l’altro mercante-banchiere. Guglielmo dei Rossi possiede nella contrada delle Apothecae una bottega, nella quale fa opera di sti30
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matore di mercanzia e che doveva essere una delle più fornite se nel 1379 estingue un debito di 826 fiorini d’oro con panni di tutti i colori che ivi egli serbava17. Il suo raggio d’affari si estende anche ad altre città: nel 1372 acquista, infatti, insieme ad un altro mercante, Lello Madaleno, una casa e un podere a Firenze18. Il Sarragona, a sua volta, risulta avere alle proprie dipendenze una vera e propria organizzazione, se dispone di più fattori19 e se nel 1369 Urbano V si varrà dell’opera sua per il trasferimento al Comune di Roma di 1450 fiorini d’oro per la riparazione del ponte di S. Maria20. E che dovesse avere un giro di denaro non indifferente ce lo testimonia uno strumento del 1377, nel quale Niccolò Clarelli gli stende quietanza per 1000 fiorini d’oro21. In quegli stessi anni, pur essendo lontano il pontefice, un gruppo di cambiatori vive a Roma nel rione Ponte, per la maggior parte, e nel rione Parione. Il fondo del notaio Lorenzo Staglia22 presenta a questo riguardo una documentazione di un certo interesse per l’anno 1372. Tra gennaio e marzo si susseguono una serie di depositi, fatti da un nobilis vir, Giovanni di Palmiero Quatraci a varie persone per lo più campsores23. Le somme depositate, che sono ora di 62 fiorini e 1/2, ora di 125 fiorini e una volta di 630 fiorini d’oro, farebbero pensare a quote di 50-100-500 fiorini d’oro, concesse al forte interesse del 25‰, interesse tanto più consistente quando si pensi che tali somme si dovevano restituire entro Pasqua. Potrebbe forse trattarsi di una società stretta tra vari 31
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cittadini, in prevalenza cambiatori, per un affare di cui ignoriamo la natura e la consistenza, per il quale il Quatraci avrebbe anticipato i capitali. E campsores troviamo frequentemente negli strumenti notarili: da un Nucio Negri, che nel 1360 stringe patti di fidanzamento con un Nicola di Federico per sposarne la figliola – e da essi si apprende che possiede nel rione Parione 1/3 di una casa in comune con i fratelli e 3 petie di vigna, site fuori Porta Castello24 – mentre nel 1372 prende in locazione dal monastero di S. Paolo il casale di Fiorano sito fuori P. Appia25, a un Giacomello di Pietro di Gandolfo, che negli anni intorno al ’60 vive ancora in un ambiente di tipo artigiano26 mentre nel 1390 si pone in società con Lello della Valle per investire 300 fiorini d’oro nell’arte del cambio27. Pur se mercanti e cambiatori imprimono uno slancio nuovo alla vita economica cittadina, che sarebbe inesatto trascurare, il processo di ripresa, di cui si diceva, è opera soprattutto dei bovattieri, cioè dei commercianti agricoli che sanno volgere al loro vantaggio la situazione difficile in cui Roma versava. La lontananza stessa del pontefice, piaga costantemente aperta e dolorante, se a Roma rendeva difficile ogni serio tentativo di vita mercantile, creava e provocava una serie di vuoti di potere, che chiedevano di essere colmati e modificava situazioni che parevano cristallizzate e immobili. L’assenza del papa e della sua curia comportava, infatti, necessariamente una condizione di crisi per il ceto baronale, all’uno e all’al32
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tra unito con legami tanto stretti da parer indisgiungibili28. La funzione stessa dei baroni, intermediari tra la Città e la Curia, viene a cadere e, d’altra parte, essi non trovano la forza per inserirsi autonomamente nella vita cittadina29. Perdita di potere, quella delle famiglie baronali, che si traduce anche sul piano economico: gravissima la situazione che devono affrontare in questi anni, colpite duramente dai provvedimenti di Cola e dei governi che a quello del Tribuno seguono, prive del sostegno del papa e dei privilegi che sono abituate a considerare come loro dovuti, alcune di esse saranno incapaci a resistere e crolleranno per sempre. Tale crisi si estende anche agli istituti ecclesiastico-religiosi, non più sostenuti dalle finanze pontificie, e si fa particolarmente acuta e drammatica negli anni in cui le lotte per lo scisma imponevano alla Chiesa spese tali che non potevano essere arginate se non attingendo proprio a quegli istituti, già tanto indeboliti nella loro economia. Casali, castra, pascoli che circondavano Roma – lo si è già accennato – proprietà tradizionale di baroni e di chiese mutano così in un trentennio (1360-1390) di amministratori e spesso proprietari30. Commercianti agricoli li prendono in locazione, li concedono a terzi con particolari patti agrari, li sfruttano, ponendoli parte a pascolo e parte a frumento, per acquistarli infine disponendone a proprio piacere. La terra, infatti, rimane per baroni e per chiese l’unica merce di scambio per avere quei denari che il loro sostentamento e 33
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il loro prestigio richiedono che solo i commercianti agricoli possono loro prestare. Assai difficile dire se questo passaggio di proprietà dell’amministrazione segnasse anche una trasformazione dei modi di lavorazione della terra, dei patti agrari, ché pochissimo sappiamo della storia agraria romana. Ma del preciso interesse economico dei mercanti e commercianti agricoli credo che sia avvertibile la traccia. Nei casali e nei castra di loro proprietà o presi in locazione i bovattieri sembrano, infatti, seguire certi accorgimenti e certe regole, che rivelano una preoccupazione evidente che la terra renda ogni anno nel volgersi delle stagioni. E così negli strumenti notarili di questi anni si notano precisazioni di notevole interesse: il conduttore non s’impegna solo al versamento di un certo canone, ma anche a lavorare la terra con ciclo triennale e talora, anche se assai raramente e per appezzamenti ristretti, a ciclo quadriennale, a zappare la vigna quattro, cinque, sei volte, a concimare il fondo31. I tipi stessi dei contratti più frequenti lasciano intravvedere questo più vivo interesse del proprietario al rendimento del suolo: i contratti di locazione sono stretti per un periodo assai limitato di tempo, mentre rarissimi si fanno quelli a tempo indeterminato; si fanno più frequenti viceversa, i contratti nei quali più diretta e massiccia è la partecipazione del proprietario alle spese della messa a frutto del terreno, come, ad esempio, in quella sorta di contratto mezzadrile, che è il postmedium o pomedium32. Ancora più inte34
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ressante, sotto questa prospettiva, è il cosiddetto contratto d’affittanza ad laborerium, del quale, non a caso, si valevano con particolare frequenza i bovattieri. Secondo questo contratto il proprietario concedeva ad un conduttore della terra perché la mettesse a grano, servendosi dei buoi di sua proprietà, dietro versamento, al tempo del raccolto, di un quarto dei frutti. Molto spesso il conduttore riceveva, inoltre, pro introitu una somma in fiorini non indifferente33, che variava a seconda dell’ampiezza del fondo. Un sistema analogo al quale ricorrevano i bovattieri per coltivare i fondi di loro proprietà, o da loro presi in locazione, era quello di porre come clausola del contratto di soccida dei buoi l’impegno da parte del socio di lavorare con i detti buoi nei loro casali34. Se l’interesse dei commercianti agricoli ai sistemi di lavorazione della terra si coglie – come si è visto – nei contratti agrari a breve termine, nella cura che la terra fosse coltivata secondo certe regole e, talora, anche in un più intenso sfruttamento del terreno, ben più massicciamente i bovattieri s’impegnavano in un settore dell’economia romana, che pare in questi anni avere iniziato la sua ascesa, che perdurerà per tutto il Quattrocento, quello, cioè, dell’allevamento del bestiame35. L’attività di allevatori di bestiame, si presenta estremamente articolata: i bovattieri, infatti, concedono e prendono animali in soccida, vendono e acquistano le erbe dei casali, stringono società 35
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per l’acquisto di nuovi animali da rivendere. I contratti per l’allevamento di bestiame più diffusi sono lo staglio e la miglioria. Contratti entrambi di breve durata, due anni generalmente quello di staglio, che si applicava generalmente ai bovini, dietro impegno del concessionario di versare 4 rubbi di grano per bovino e di dividere, al termine del contratto, il valore di stima dell’animale36; di un anno generalmente quello di miglioria, di cui si valevano per lo più i bovattieri per l’allevamento specialmente dei loro porci, a lucro comune, sottratto il valore dei capi versato al proprietario37. Ma il contratto senz’altro più interessante e più frequente per l’allevamento del bestiame negli strumenti di questo periodo è quello di soccida. Anche a Roma, come altrove38, esso fu uno degli strumenti migliori per la penetrazione del capitale cittadino nelle campagne, ma a Roma lo si trova accompagnato da clausole assai interessanti, che non trovo testimoniate per altre località39 e che finiscono per diventare la parte centrale dello stesso contratto. La soccida è infatti a Roma il mezzo del quale i bovattieri si valgono per far lavorare le loro terre e i loro casali, o, ancora, per procurarsi grano e altri consimili prodotti, in quantità fissata esattamente nello strumento o indicata in maniera generica (la metà dei frutti ottenuti con il lavoro dei buoi concessi). Appunto per questi impegni che il soccidario aveva con il soccidante, la divisione dei capi al 36
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termine del contratto, che durava generalmente tre o quattro anni, avveniva regolarmente non solo per gli aumenti, ma per tutto il bestiame40. I capitali che i bovattieri pongono nell’allevamento del bestiame e, generalmente, nel commercio agricolo, sono assai ingenti. Gli esempi che si potrebbero dare della natura e sopratutto del rilievo di tale commercio sono molti, basti, tuttavia, ricordare due patti di societas stretti entrambi nel 1382: nel primo Meo Sperini del rione Monti e Cecco dello Piglio del rione Campitelli nominano procuratore Antonio di Cecco di Alba perché riceva da Paolo Tornaquinci di Firenze, mercator che dimora a L’Aquila, 600 ducati d’oro che questi deve loro, come risulta da una litera pacamenti41; nello stesso giorno gli stessi stringono società con il detto Antonio, il quale dichiara di aver ricevuto da loro 600 ducati d’oro, che si impegna a investire «in animalibus et mercatantiis quibuscumque», a condurre i detti animali a Roma e a consegnarli ai suoi soci, i quali, da parte loro, promettono di risarcirlo, qualora avesse a spendere di più. Nel settembre dello stesso anno Petro Renzucoli e Pietro della Corte del rione Monti stringono società tra di loro e pongono in comune i loro beni, che vengono pertanto elencati: 100 rubbi42 di orzo, che si trovano nella casa di Giovanni Prite; 16 rubbi di farre, che si trovano nella suddetta casa; 40 rubbi più altri 120 rubbi di spelta, che si trovano nella casa di Pietro Renzucoli; 1420 pecore, 350 porci, 36 buoi e 50 rubbi di 37
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maggese (corrispondenti a circa 100 ettari)43 nel territorio del casale Ionici e nelle terre del fondo di Torre Faina, entrambi siti sulla via Latina44. Commercianti, dunque, di grosso calibro, che estendevano il raggio dei loro affari ben di là dalle mura cittadine. Talora la quantità stessa dei prodotti acquistati denuncia chiaramente che il bovattiere intendeva farne commercio in un ambito assai più vasto di quello offerto dal mercato romano, come nel caso di Lello di Petricone dei Capogalli, il quale compra a Palermo 1400 barili di zucchero prime cocte fini, in misura eccedente, certamente, il consumo di Roma45. Il mercator romano, inoltre, si occupa dell’approvvigionamento di grano per la città, resistendo alla concorrenza che gli fanno Genovesi e Toscani, che resteranno nel Cinquecento padroni di questo settore46. È il caso, ad esempio, di Cincio Catini che nel 1379 si affianca appunto a mercanti genovesi per l’acquisto di una grossa partita di grano47, o quello di un Lello Madaleno, che una lapide in S. Maria sopra Minerva celebra per aver sovvenuto alla Città, perché «cum betegra fames cuntaque a plebe timenda / segetem ad Siculam tellurem misit emptum / Romanam Patriam multa nam fruge replevit»48. Il bovattiere rappresenta veramente in questi anni l’asse intorno a cui si volge ogni attività economica romana nei suoi due poli, cittadino e ‘contadino’. I suoi centri sono il casale e il palatium: il casale non gli permette solo di poter disporre di un certo quantitativo di prodotti da 38
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consumare o da commerciare, non gli offre solo terreno sul quale far pascolare capi di bestiame suoi o d’altri, ma anche, e soprattutto, una base per intrecciare una serie di relazioni economiche con gli abitanti del luogo, che gli rendono possibile un vero e fruttuoso commercio: provvisto di capitali, sia in natura sia in denaro, al momento della semina fa prestiti favorevolissimi per lui, esperto della situazione delle singole famiglie sa dove e quando poter acquistare meglio, a chi concedere terre in laborerium, a chi negarle. Il palatium, circondato da case più modeste di sua proprietà nel cuore di una zona che dalla famiglia del bovattiere spesso ha preso il nome49, rimane però il vero centro del commerciante agricolo. E con il bovattiere hanno legami assai stretti gli artigiani più vivi di Roma: lanaioli e macellai. A questo proposito pare interessante notare come l’arte della lana negli anni ’70-’80 appare in pieno sviluppo a Roma: artigiani romani, specializzati nelle diverse funzioni richieste dall’arte e artigiani extranei si affollavano nel quartiere di S. Eustachio. Si ha, anzi, l’impressione che in questi anni ci sia un vero e proprio tentativo di allineamento dei lanaioli romani rispetto ai loro colleghi dei maggiori centri lanieri. A questo farebbe pensare, tra l’altro, il fortissimo salario, offerto ad un lanaiolo originario di Cortona, dal quale, chissà, forse ci si riprometteva di imparare alcune tecniche50. Lanaioli e operai dell’arte della lana vengono, infatti, in questi anni a Roma da Orvieto, Otricoli, L’Aquila e anche da Firenze e dalla Marca 39
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Trevigiana51. E le funzioni ricoperte dai diversi operai sono notevolmente differenziate: valcatores (o gualcatores), tintores, vascellari (ma anche vascellarie), texitores e texitrices, acconciatores pannorum sono presenti in gran numero negli strumenti notarili di questi anni. E d’altra parte la misura dell’importanza assunta dall’arte della lana in questo periodo si può cogliere agevolmente nel minutario del notaio Lorenzo Staglia52, che riporta un gruppo di strumenti che registrano il giro di affari di uno di questi lanaioli, Lorenzo di Pietro di Pietro del rione S. Eustachio. Questi tra il dicembre 1371 e il dicembre 1372 acquista ben 345 rubri di lana per una spesa complessiva, espressa in fiorini, di oltre 308 fiorini d’oro, alla quale si deve aggiungere quella per l’acquisto di 2900 velli di lana di oltre 359 fiorini d’oro. Lorenzo acquista tali partite di lana sia direttamente da uomini del distretto53, sia da bovattieri54, che, essi stessi proprietari di greggi, comprano a loro volta lana da pastori e da allevatori di bestiame locali. Se così ricca – tanto da parer completa – la documentazione si presenta per l’acquisto della lana, non tutti i punti dell’attività di Lorenzo sono egualmente documentati e chiari. Vorremmo sapere, ad esempio, se Lorenzo lavorasse tutta la lana acquistata o se ne vendesse una parte ad altri artigiani, quale fosse l’estensione dell’organizzazione che da Lorenzo dipendeva, quali fossero i possibili sbocchi commerciali della lana lavorata e dei panni. 40
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Per il primo punto posso solo constatare che in tutti gli strumenti notarili esaminati, non ce n’è alcuno che faccia pensare che Lorenzo – o alcun altro lanaiolo – fungesse da ammassatore. Quanto alla organizzazione artigiana, che da Lorenzo doveva dipendere sappiamo in realtà assai poco: un solo strumento del 1372 ci attesta che per quell’anno un tale Petruccio di Antonio del rione Ponte s’impegna a lavorare con lui ad artem lanae et ad alia bona facienda per il salario di 16 fiorini d’oro e per un paio di scarpe55. Ma probabilmente nella bottega di Lorenzo – ove egli faceva anche commercio di erbaroccia e di cenere56 – si dovevano raccogliere diversi operai, specializzati nelle diverse funzioni e al suo servizio dovevano lavorare nei loro domicili diversi tessitori e filatrici57. Il problema degli sbocchi commerciali per la lana lavorata, infine, si poneva soprattutto ai mercanti, ai quali i lanaioli vendevano le grandi partite di panni58. Comunque i tessuti romani non dovevano vendersi solo in Roma ma anche altrove se gli Statuti delle Gabelle prevedono che si imponga una tassa di 11 soldi e di 9 denari a chi «aliquem pannum romanum… extrahere voluerit de Urbe»59. Si può supporre che i mercanti trovassero uno degli sbocchi per i panni romani nelle Marche, ove essi dovevano avere degli interessi notevoli, se, in un capitolo degli Statuti dei Mercanti nel quale si stabilisce che ai mercanti extranei verrà riserbato il trattamento che quelli romani ricevono presso le città alle quali appartengono, si citano in posizione di 41
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rilievo i «mercatores Urbis qui utuntur apud Anconam»60. L’ascesa dell’arte della lana – che mi pare chiaramente attestata per questi anni anche dai soli strumenti ai quali ho testé rimandato – potrebbe essere collegata con l’incremento dell’allevamento del bestiame specialmente ovino, che si verificò contemporaneamente nella campagna romana. D’altra parte essa permane come una delle attività, più costanti e, si potrebbe dire, più naturali dell’economia romana, tanto che al suo riattivamento penserà nel Cinquecento Sisto V, quando vorrà dare un nuovo slancio alla vita della Città61. Accanto ai lanaioli, si diceva, i macellai, che costituivano a Roma un folto gruppo62. Con essi i bovattieri erano in relazioni assai strette, provate dai molti depositi, fatti in loro favore attraverso gli anni; inoltre capita che commercianti agricoli siano essi stessi proprietari di macelli, come è il caso di Stefano di Meo Graziano, che troviamo già nel 1348 proprietario nel rione Monti di un macello portatogli in dote dalla moglie63, mentre nel 1382 figura come proprietario di un macello e mezzo nello stesso rione64, o quello di Giovanni dello Prite, che nel 1382 acquista da Giacomello di Paolo Signorile 2 parti di 5 macelli, siti nel rione Monti in zona Archanoe per 25 fiorini d’oro e nel 1385 un altro macello con 2 banchi confinante con il suo, dal monastero di S. Maria Nova, che ha bisogno di denaro per acquistare 4 somari65. 42
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Ma i commercianti agricoli non sono in relazione con i soli lanaioli e con i macellai: tutto il mondo artigiano dipende in maniera più o meno diretta da loro. Sono i bovattieri, infatti, che ogni anno permettono a tanti artigiani – dai lanaioli, agli speziali, dai sarti agli orefici – di poter coltivare le poche petie di vigna, che possiedono fuori delle mura, imprestando loro i capitali necessari, che riceveranno poi, con una sorta di vendita anticipata, in mosto al tempo della vendemmia o, ancora, fornendo al tempo della semina grano, che gli artigiani s’impegnano a rendere al tempo del raccolto. Talora, d’altronde, gli interessi degli uni e degli altri s’intrecciano e quasi si confondono, come avviene nel caso di Lello della Valle, uno dei più ricchi e intraprendenti dei bovattieri, che nel 1387 risulta essere proprietario di una taberna66. Che, d’altra parte, gli interessi dei bovattieri non si restringessero al mondo contadino e a quello artigiano, ma si estendessero anche a settori diversi, come a quello del cambio, lo si è già accennato, tuttavia vorrò ancora una volta ricordare il caso di Giovanni di Palmero Quartaci, che nel 1377 anticipava quasi 1500 fiorini d’oro a cambiatori o quello di un Lello della Valle, che nel 1390 investiva 400 fiorini nell’arte del cambio67. ***
Nell’ambito della vita cittadina l’altissimo prestigio che i bovattieri godono si può cogliere a di43
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versi livelli, sia nella frequenza con la quale negli arbitrati si ricorre a loro – e accanto al nome del bovattiere talora si trova il nome del barone – sia, e ancora più, nei patti di fidanzamento, dove i beni posti in pegno dotale o le doti e gli stessi testimoni ci parlano chiaramente di uno stato sociale assai elevato, spesso vicino a quello dei baroni. Le nozze che essi contraggono sono strette per lo più con persone del loro stesso ceto, di bovattieri e mercanti, ma talora, pur se raramente, anche con membri di grandi famiglie artigiane, come nel caso di Paolo dei Veneraneri che nel 1369 sposa la figlia di Lello di Mastro, speziale, che porta in dote 400 fiorini d’oro68. Anche con membri di famiglie baronali talora i bovattieri contraggono matrimonio, anche se il caso non mi risulta frequente: così nel 1385 Antonio di Giovanni dello Prite si sposa con Elisabetta, sorella di Giovanni, figlio del fu Giacomello Orsini degli Orsini, che porta come dote metà delle case di Giovanni, già di proprietà di Giordano degli Orsini, stimate 333 fiorini e 1/269. E baroni sono presenti alle nozze di un bovattiere con la figlia di un mercante, come accade nel 1377, quando alle nozze di Giovanni di Pietro dei Cerroni con Caterina, figlia di Lello Madaleno, come testimoni figurano i più grossi nomi del mondo baronale romano da Agapito Colonna a Luca Savelli a Giovanni Cessi dei Capocci70. Se dunque persisteva nei baroni l’orgogliosa certezza di essere diversi e superiori a quei bo44
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vattieri, che traevano i mezzi del loro vivere dalla compra-vendita di grano e porci, tuttavia essi non potevano evitare quelle relazioni che le circostanze stesse imponevano. Nel rione Monti, ad esempio, gli Annibaldi non possono ignorare i Foschi de Berta e i Cerroni, tra i più ricchi proprietari della zona. Proprietà quelle dei Cerroni, che crescono attraverso gli anni. Nel 1382 Giovanni acquista una casa terrinea e solarata con orto e pozzo, sita nel rione Colonna per 130 fiorini d’oro71. Nel 1385 compra da Niccolò, figlio del fu Stefano di Niccolò dei Conti, signore di castrum Poli, il castrum già casale di Lunghezza, sito fuori P. Maggiore e inoltre 24 rubri di terra (corrispondenti a circa 48 ettari), siti fuori la medesima porta per 2500 fiorini d’oro complessivi72. Nello stesso anno il fratello Oddone acquista dallo stesso Conti 1/6 del casale Buonricovero, sito fuori P. Lateranense per il prezzo di 1000 fiorini d’oro73, mentre nel 1387 Giovanni acquista un pezzo di terra, sito entro le mura, in località Capocie ed entra in possesso della terza parte del casale Torre Vergata, acquistata da un certo Branca per 2000 fiorini d’oro complessivi74. Altri strumenti – come la messa in comunione dei beni di Francesco, figlio ed erede universale del fu Lorenzo di Pietro di Cerrone dei Cerroni con i cugini, figli di Giovanni, che risulta morire in questo anno e dei quali assume la tutela lo zio Oddone75 – ci testimoniano dell’ampiezza delle proprietà di questa famiglia. 45
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E che rapporti tra le famiglie degli Annibaldi76 e dei Cerroni ci fossero, ci testimonia uno strumento del 1387 di notevole interesse, nel quale il magnificus vir Tebaldo di Annibaldo degli Annibaldi simula un atto di vendita del suo casale Ciento Celle per 2000 fiorini d’oro, per difendersi – come si chiarisce in uno strumento successivo – dagli officiales Urbis e dalla Felix Societas Bandarensium et Pavesatorum, che in quegli anni di carestia e di disordini era assai vigile e temibile77. In questo strumento figura come acquirente Giovanni dei Cerroni, che doveva quindi essere in relazioni abbastanza strette con gli Annibaldi. E a questi, talora, i Cerroni si venivano sostituendo nel centro stesso della potenza annibaldesca, nel rione Monti, ove nel 1389 essi risultano possedere le case «già dette degli Annibaldi»78. E il caso dei Cerroni non è isolato: nel 1385 Lello della Valle acquista da Giovanni, figlio del fu Giacomello Orsini degli Orsini case, palazzi, botteghe, che rendevano all’Orsini 60 fiorini d’oro all’anno, oltre a 20 once e mezzo di pepe, per una somma complessiva di 1025 fiorini d’oro79. In vaste zone cittadine il bovattiere si è, dunque, ormai sostituito al barone come proprietario di vari palazzi e case, da cui estende il suo potere sugli immobili circostanti, sui quali gode dei diritti di vecinantia80. ***
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Questo processo di sostituzione dei mercanti e bovattieri ai baroni nella vita cittadina rimarrebbe oscuro e silenzioso – tale appunto da cogliersi solo attraverso uno studio di quel particolare tipo di fonti rappresentato dai fondi notarili – se non si manifestasse in maniera evidente anche nella vita amministrativa della città. Sostenitori infatti, lo si è visto, di Cola di Rienzo, bovattieri e mercanti nella seconda metà del secolo si pongono essi stessi alla guida del Comune romano. Questa partecipazione assai più viva dei ceti ‘attivi’ alla sua amministrazione ci è testimoniata anche dalla formazione di organi nuovi e dalla maggiore vitalità e articolazione di quelli già esistenti. Si creano infatti in questi anni nuove magistrature come quelle dei Sette Riformatori, prima, e dei Tre Conservatori, poi; importantissimi compiti militari e civili, inoltre, vengono affidati a quella Felix Societas Pavesatorum et Bandarensium, che tanto peso ebbe nella vita cittadina della seconda metà del Trecento e nei primi anni del Quattrocento. Una maggiore omogeneità è cosi raggiunta tra i vari organi amministrativi del Comune: ai senatori-baroni, che una diversa condizione sociale distingueva in maniera nettissima dagli altri officiales, si vengono infatti a sostituire Riformatori e Conservatori, scelti, nella gran parte, tra bovattieri e mercanti, di un livello sociale simile, dunque, a quello degli altri funzionari81. Infatti se anche gli artigiani non vengono esclusi dalla direzione della vita comunale, in essa i punti centrali di potere vengono retti proprio 47
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da quei mercanti e bovattieri, che l’esperienza di vita, il contatto con uomini del distretto e di altre città, richiesto dall’esercizio della loro attività, il prestigio stesso da essi raggiunto, rendono più abili e capaci amministratori. Un interesse notevole presenta in questo processo di partecipazione alla vita pubblica dei gruppi ‘attivi’ della Città la messa in appalto, che il Comune romano è costretto ad indire per pressanti necessità finanziarie, della dogana del sale, del ripatico e dei diritti di baratteria82. Bovattieri e mercanti, che acquistano per sé e per altri, ai quali anticipano il capitale, i diritti di monopolio avvertono chiaramente come i loro interessi finiscano con il fondersi con quelli del Comune, ché solo nel caso esso possieda una forza sua, capace d’imporsi all’interno della Città e fuori, il loro investimento risulterà proficuo. Così quando Lello Madaleno acquisterà, insieme ad altri due mercanti romani, dal Comune per la bella somma di 2800 fiorini d’oro i diritti di ripatico83, dovrà poi protestare che i mercatores fiorentini, pisani, lucchesi, astigiani si rifiutano di versare il dovuto. E molti infatti, tra gli acquirenti dei diritti comunali o hanno ricoperto o ricopriranno cariche presso il Comune romano: dallo stesso Lello Madaleno, che sarà per vari anni camerarius e che nel 1385 si allontana da Roma in servitium reipublicae84 a Niccolò dei Porcari, a Paolo di Stefano, a Francesco di Guido, acquirenti tutti nel 1379 dei diritti della dogana del sale e che saranno negli anni successivi tutti Conservatori85. 48
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In anni tanto difficili e singolari, dunque, un ceto cittadino pare amministrarsi da sé, alternare le cure dei propri affari a quelle della comunità, confondere i propri interessi con quelli pubblici, pare conformarsi, in una parola, come classe dirigente. Né, d’altra parte, mancavano in taluna delle famiglie tra le quali vengono scelti Riformatori e Conservatori tradizioni di vita pubblica, ma erano tradizioni che, se rimontavano lontano, alla seconda metà del XII secolo, erano state bruscamente interrotte ai primi del Duecento, con l’affermarsi del “senato nobiliare”86. Una funzione di notevole rilievo nell’indirizzare e nel consigliare uomini nuovi, nella gran parte, a problemi di amministrazione cittadina, come erano bovattieri e mercanti, dovettero avere i giudici, che, usciti per lo più dalle stesse famiglie, ricchi di una loro tradizione e di un loro prestigio, avevano continuato a partecipare alla vita pubblica, sia pure solo nell’espletamento delle loro funzioni. Difficile dire cosa sia stato di questa “élite” cittadina nel Quattrocento, come essa si sia inserita nella vita della Città, ritornata sotto il governo del Pontefice. Che essa sia presente come potenza semplicemente economica non direi: i nomi dei Rossi, dei Caranzoni, dei Margani, dei Leni, dei Cerroni ritornano infatti come Conservatori negli anni tra il 1432 e il 144787 e una delle rivoluzioni romane più note, quella del 1453, è legata al nome di Stefano dei Porcari, di un membro cioè di una famiglia di bovattieri e mercanti. 49
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Ma che peso reale abbia avuto nella vita romana questa “nobiltà” cittadina, che tipo di rapporti abbia stretto con il papato e la sua Curia e infine con le vecchie famiglie baronali e con quelle sorte all’ombra della Chiesa (Farnese, Cesarini, ecc.) è problema non ancora affrontato. Note
In Archivio di Stato ho consultato degli strumenti del collegio dei notai capitolini il fondo 475, notaio Francesco di Stefano Capogalli, che abbraccia gli anni 1377-1380, per complessive 474 carte; il fondo 476 dello stessa notaio per gli anni 1382 e 1386 per complessive 251 carte; il fondo 477 del notaio Giacomello di Stefano Capogalli, per gli anni 1385-1386, 13891390, 1392, 1394, 1397, 1401, per complessive 368 carte; il fondo 138 del notaio Pietro del fu Niccolò Astalli, per l’anno 1368, per 99 carte complessive; il fondo 1703 per l’anno 1372 del notaio Lorenzo Staglia per 164 carte complessive; il fondo 849 del notaio Giovanni Gaioli per gli anni 1354, 1365, 1397 per complessive carte 436; il fondo 1163 dei notai Paolo di Niccolò di Paolo e del fratello Giovanni per gli anni 1350, 1351, 1360 per complessive 102 carte; il fondo 1236 del notaio Giovanni di Niccolò di Paolo per gli anni 1348, 1363(?), 1370, 1379 per complessive 195 carte. In Archivio Capitolino, Sezione I, ho consultato gli strumenti del fondo 649 del notaio Paolo Serromani per gli anni 1348, 1351, 1352, 1355, 1359, 1361, 1363, 1364, 1366, 1368, 1369, 1371, 1372, 1377, 1379, 1387, per complessive carte 1160; il fondo 763 del notaio Lello di Paolo Serromani, per gli anni 1387, 1388, 1391, 1398 per complessive 194 carte; il fondo 785, del notaio 1
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Nardo del fu Puccio dei Venettini per gli anni 1382, 1385, 1387-1392, 1394-1396, per complessive 1727 carte; il fondo 785 bis del medesimo notaio per gli anni 1397, 1398, 1400 per complessive 275 carte. Oltre ai minutari notarili propriamente detti, ho consultato e mi sono valsa delle numerose carte e pergamene della Confraternita del Salvatore ad Sancta Sanctorum, che si trovano ora all’Archivio di Stato. La Confraternita del Salvatore era nella seconda metà del Trecento assai ricca e potente e in essa i bovattieri, di cui ci occuperemo, occupavano posti di primo piano. Per la storia della Confraternita non disponiamo se non delle notizie offerte dall’opera di B. MILLINO, Dell’Oratorio di S. Lorenzo nel Laterano, hoggi detto Sancta Sanctorum, Roma 1660 e da quella di G. MARANGONI, Istoria dell’antichissimo oratorio o cappella di S. Lorenzo nel Patriarchio Lateranense, comunemente appellata Sancta Sanctorum, Roma 1747. Lineamenti rapidi sulla storia della confraternita offre la recente opera di M. MARONI - LUMBROSO - A. MARTINI, Le confraternite romane nelle loro chiese, Roma 1963, pp. 394-397. Da vedere anche la premessa all’edizione del Liber Anniversariorum della confraternità nei Necrologi della Città di Roma, a cura di P. EGIDI, in Fonti per la storia d’Italia, 44, Roma 1908, pp. 311-315. 2 Mi limito qui a valermi di alcuni capitoli degli Statuti del Comune di Roma, delle corporazioni dei mercanti, dei bovattieri, dei merciai, e dei lanaioli, senza affrontare i numerosi problemi che agli Statuti sono connessi e che non sono stati ancora affrontati frontalmente. La ricerca intorno agli Statuti, in particolare per quelli cittadini che sono i più studiati, si è mossa sui problemi della datazione, dell’organizzazione esterna del Comune, quale essa appare attraverso le norme statutarie, talora sulla situazione politica – colta però in maniera piuttosto generica – che aveva dato vita agli Statuti stessi, o meglio al loro farsi stratigra51
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fico. Non escono da questo tipo di problematica né il LA MANTIA, Origine e vicende degli Statuti di Roma, in Rivista Europea, XII (1879), pp. 429-462, né il LEVI, Ricerche intorno agli Statuti di Roma, in Arch. Soc. Romana Storia Patria, VII (1884), pp. 463-484 e neppure il ROTA, Il codice degli Statuta Urbis del 1305 e i caratteri politici della sua riforma, ibid., LXX (1947), pp. 147-169. Solo la FASOLI in uno studio su La legislazione anti-magnatizia nei Comuni dell’Italia centrosettentrionale, in Rivista di storia del diritto italiano, XII (1939), pp. 86-113, 240-273, 308-309, esamina la società romana, quale essa appare negli Statuti, anche se limitatamente al tema che affronta. Gli Statuti della Città di Roma sono stati editi a cura di C. RE nel 18801883; gli Statuti dei Mercanti a cura di C. GATTI a Roma nel 1885; gli Statuti dei Merciai e della Lana da E. STEVENSON, Roma 1893, tutti a cura dell’Accademia di Conferenze storico-giuridiche. Gli Statuti dei bovattieri furono editi a Roma nel 1526. 3 Statuti della Città di Roma cit., lib. 2, XLVII, p. 108. 4 Vedi F. CLEMENTI, Il Carnevale Romano nelle cronache contemporanee, I, Roma 1899, pp. 32-38. 5 A questo proposito vedi P. EGIDI, Intorno all’esercito del Comune di Roma nella prima metà del secolo XIV, Viterbo 1897, pp. 138-140, dove con estrema chiarezza e perspicacia sono individuati i vari gruppi sociali che combattono nell’esercito cittadino. 6 In un articolo degli Statuti dei Mercanti cit., pp. 33-34 si faceva divieto ai mercanti di vendere panni a quel miles, che non avesse pagato il debito che questi avesse contratto con altri mercanti. 7 Statuti dei Mercanti cit., p. 30. 8 A.S. coll. not. cap. 475, cc. 262v-263v. L’EGIDI, Intorno all’esercito cit., p. 139 n. 3, in un’espressione analoga usata per i milites negli Statuti cittadini – «si vero fuerit miles seu de genere militum» – vuol trovare conferma all’origine nobiliare dei milites di contro ai po52
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polani cavallerocti, per i quali non si parla di genus. A mio avviso l’espressione doveva essere alquanto generica e indicava semplicemente la famiglia, non necessariamente intesa come stirpe. 9 A.S. coll. not. cap. 1703, cc. 70v-71r; ibid., cc. 104v-106v. 10 Ibid., c. 66r. 11 Per l’uso di mercatores = commerciante agricolo vedi, tra l’altro, A.S.C. 785 bis fasc. I (1397), c. 25 r, in cui Lello della Valle, che risulta chiaramente in altri strumenti commerciante agricolo, è detto semplicemente mercator e ancora A.S.C. 763, fasc. 7 (1398), cc. 29v-30v, strumento di compra-vendita dei frutti di 1800 pecore, dove si specifica che questa debba avvenire «eo pretio quo communiter venditur quelibet caracia inter mercatores Urbis et casarolos Urbis». 12 Siamo riusciti a contare per il 1365: 4 immigrati da Firenze, 11 dall’Italia centro-sett., 3 dal Lazio, 5 da altre località. Su 23 immigrati sappiamo che 1 era un mercante originario da Firenze, 1 un pellaio proveniente da Pisa, 1 un lanaiolo originario da Cortona, 1 un vascellarius proveniente dalla Marca Trevigiana e infine 1 contadino da Arezzo. Per il 1368: 2 immigrati da Firenze, 3 dall’Italia centro-sett., 5 dal Lazio e 3 da altre località. Su questi 13 sappiamo che uno originario da Firenze sposa una vedova di un Tignosi, membro di una nota famiglia romana di un certo livello sociale, uno proveniente dalla Francia è calzolaio, un altro infine, proveniente da Gallese (Lazio), è implicato in una piccola transazione di carattere agricolo. Per il 13711372: 10 originari da Firenze, 10 dall’Italia centro-sett., 8 dal Lazio, 2 da altre località. Su questi 30, 5 sono muratori provenienti da Firenze, un altro da Genova, 2 carpentieri originari da Siena, un ornaciarius da Perugia, 3 lanaioli, o esercitanti attività connesse all’arte della lana, da S. Gimignano, Otricoli e Città di Castello, 2 o 3 casenghi. Nel 1377: 6 immigrati dall’Italia 53
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centro-sett. e 17 dal Lazio. Tra gli immigrati siamo riusciti ad individuare un taverniere, un casengo, un calzolaio, un contadino e un vaccinaro. Per il 1378-1379: 1 immigrato da Firenze, 5 dall’Italia centro-sett., 15 dal Lazio. Tra questi, 2 ferrai da Spoleto e 3 originari dal Lazio, che paiono esercitare attività di tipo agrario. Nei 1380-1382: 1 immigrato da Firenze, 9 dall’Italia centro-sett., 18 dal Lazio, 2 da altre località. Tra gli immigrati un carrarius da Assisi, 2 artigiani da Pavia, un altro artigiano da Ancona, un sarto da Molara e un bufalaro da Montepulciano. Per gli anni 1382-1389 7 immigrati da Firenze, 18 dall’Italia centro-sett., 37 dal Lazio, 3 da altre località. Dei 22 immigrati dei quali si può identificare l’attività, 7 esercitano attività di tipo agrario e sono tutti, tranne 1 di Moltepulciano, di zona laziale, 11 sono artigiani, 3 sono mercanti provenienti da Firenze e un altro da Matelica. Per gli anni 13891399: 8 sono immigrati da Firenze, 15 dall’Italia centro-sett., 32 dal Lazio e 4 da altre località. Dei 26 immigrati dei quali è stato possibile identificare l’attività: 7 originari dal Lazio, esercitano attività di tipo agrario, 12 sono artigiani, 4 mercanti (2 da Firenze, 2 dalle Marche), un sensale da Firenze e due uomini di legge da Tuscania e da Viterbo. Sull’utilizzazione delle indicazioni di provenienza che seguono a nomi di persona per lo studio dell’immigrazione un’interessante discussione è sorta qualche anno fa in Medievalia et Humanistica tra R.S. Lopez e R. Emery (R. EMERY, The use of the surname in the study of medieval Economic History, ibid., 7 (1952), pp. 43-50; R.S. LOPEZ, Concerning surnames and places of origin, ibid., 8 (1954), pp. 6-16; R. EMERY, A further note on medieval surnames, ibid., 9 (1955), pp. 104-106). Dati di tale tipo usa anche lo HERLIHY, Pisa in the early Renaissance, New Haven 1954, pp. 40-42. Sul valore limitato che hanno però dati di questo tipo per ricostruire l’andamento dell’emigrazione e immi54
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grazione cf. R. MOLS, Introduction à la demographie historique des villes d’Europe du XIVe au XVIIIe siècle, II, Louvain 1955, pp. 370-373, dove si trovano anche indicazioni sulla bibliografia più recente sull’argomento. Per gli strumenti che abbiamo utilizzato, non si può aver dubbi che l’indicazione de seguita dal nome di una città dia effettivamente il luogo d’origine, perché dopo il nome e il patronimico si aggiunge «olim de… nunc de Roma», anche se essa vale come indicazione di carattere generale in quanto bisogna tener presente che «quant au lieu exact d’origine un emigrante rural venant de loin se déclare fréquemment originaire de la ville importante la plus proche» (MOLS, op. cit., p. 372). 13 A.S.C. 649, 12, c. 3r e v. I tre Fiorentini, che abitano a Roma nei rione S. Eustachio e che stringono società sono Giacomo di Filippo detto Pecchia, Alamando Cantini e Zenobio Dal Truffo. 14 Nel 1377 il mercante Lello Madaleno si presenta dinnanzi all’avvocato e al procuratore della Camera Urbis per esporre come i detti mercanti non vogliano pagare il ripatico, i cui diritti egli dichiara di aver acquistato dalla Camera, che pertanto deve sostenere le spese della causa, affidata al pontefice, contro costoro (A.S.C. 649, fasc. 13, cc. 4r-5r). 15 A.S.C. 649, 12, cc. 9v-19v. Per la famiglia Pulci in questi anni cf. G.A. BRUCKER, Florentine Politics and Society (1343-1378), Princeton 1962, passim. 16 A.S. coll. not. cap. 849, cc. 134r-143r. Per lo studio della Comunità Inglese nel Trecento, oltre alla documentazione che offrono i fondi notarili romani – e in particolare il fondo 649 del notaio Paolo Serromani dell’Archivio Capitolino e l’849 della coll. not. cap. dell’Archivio di Stato – si dispone anche di diversi strumenti (140 per il Tre-Quattrocento) che si trovano presso l’Archivio del Venerable English College. 55
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L’Universitas Anglorum, i cui membri vivevano per lo più nei rioni di Arenula e Parione, esisteva già nel 1362, anno in cui la Comunità avverti l’esigenza di acquistare una casa, per fissarvi la propria sede. Dal 1368 (A.S.C. 649, 9, cc. 27r-28r) si ha notizia anche di un ospedale dedicato alla SS. Trinità e a S. Tommaso di Canterbury e dal 1396 di un altro ospedale dedicato a S. Edmondo. Non mancano sull’argomento studi da parte inglese da quello di W. J. CROKE, The national English institutions of Rome during the fourteenth century. A guild and its popular initiative, in Atti del II Congresso Intern. di scienze storiche, III, Roma 1906 alla recente raccolta di studi su The English Hospice in Rome, Exeter 1962. Tra gli studi ivi raccolti uno dei più interessanti è senz’altro quello del LINARES, The origin and the foundation of the English Hospice, nel quale lo studioso collega il sorgere della Universitas con la politica commerciale inglese, che cercava proprio in quegli anni sbocchi per la sua produzione laniera. Il Linares troverebbe conferma a quanto afferma nel fatto che le attività esercitate dai membri della Universitas sono quasi tutte di natura commerciale. A quanto però mi risulta, considerando anche la documentazione dell’English Venerable College che nella raccolta cit. viene edita, il commercio da essi esercitato non mi pare affatto collegato con l’industria laniera. Per la maggior parte i membri dell’Universitas sono paternostari, flasconari, piccoli artigiani. Il gruppo di Inglesi, riuniti nell’Universitas era piuttosto nutrito, se per gli anni tra il 1333 e il 1377, nell’elenco dei membri che si trova nell’Archivio dell’English Hospice (edito nel The English Hospice cit., pp. 61-68) ho contato 67 nomi e per gli anni 1377-1390 circa altri 50 nomi. 17 A.S.C. Sez. I, 649, 14, cc. 23r-25r. 18 Ibid., fasc. 12, c. 23r. 19 Ibid., fasc. 13, cc. 51r-53v. 56
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Mercanti e bovattieri 20 Vedi Y. RENOUARD, Les relations des papes d’Avignon et de compagnies bancaires de 1316 à 1378, Paris 1943, p. 347. 21 A.S.C. Sez. I, 649, 13, cc. 51r-53v. 22 Il fondo si trova presso l’Archivio di Stato e porta la segnatura coll. not. cap. 1703. 23 A.S. coll. not. cap. 1703, cc. 36v-37r; 40r-43r; 47v49r; 52r-53v. 24 A.S. Archivio del Salv. ad Sancta Sanctorum, cass. 490, Arm. VII, m. I, n. 48 A. 25 A.S. coll. not. cap. 1703, c. 34r e v. Nel 1378 Nucio dei Negri riceve in locazione perpetua da Niccolò degli Orsini, conte palatino, anche in nome dei nipoti Guido e Bertoldo conti di Soana, alcune case con sale, camere, pozzo e stalla, site nel rione S. Eustachio, confinanti con la chiesa di S. Maria di Monterone, con gli eredi del fu Donato degli Ilperini, con il nipote Cecco e con il loggiato di dominus Gentilis. Tale concessione si specifica esser fatta per vari servigi ricevuti e per il denaro che Nucio ha versato agli eredi del fu Lorenzo Satulli, di Bartellucio Satulli e di Lello e Meo di Luca, ai quali tali case erano state poste in pegno per 90 fiorini d’oro. Nucio s’impegna, a sua volta, a sistemare tali case che minacciano di andare in rovina e di versare agli Orsini ogni anno 4 soldi provisini (A.S. Archivio del Salv. ad Sancta Sanctorum, cass. 490, Arm. VII, m. I, n. 48 B). 26 Vedi tra gli altri strumenti A.S.C. Sez. I, 649, 6, cc. 32r-33r, nel quale Giacomello figura come procuratore di Egidio del fu Lello Marozini nello stringer pace con un orefice, Lello Boccamozza; ibid., fasc. 7 (1364), cc. 33r-35v, nel quale Giacomello e i suoi fratelli stringono pace con un taverniere, Anastasello di Anastasio e ancora ibid., fasc. 8 (1366), cc. 23v-24r nel quale strumento Giacomello figura come testimone nei patti di fidanzamento tra Caterina, figlia di Giovanni Liscio macellaio e Buccio detto Piczolante, pellaio.
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A.S.C. Sez. I, 785 6, c. 31r e v. Vedi a questo proposito quanto scrive E. DUPRÈTHESEIDER, Roma dal Comune di popolo alla signoria pontificia, Bologna 1952, pp. 7-8: «…in Roma era la Curia, da secoli istrumento di potenza per il baronato che entro il collegio cardinalizio ebbe ininterrottamente i suoi rappresentanti, fieri dei nomi delle loro grandi famiglie, entro le quali, annota felicemente il Jordan, si nasceva cardinali come un tempo i Metelli nascevano consoli». 29 I vari tentativi operati dai vari baroni, siano essi Colonna o Orsini di porsi a capo di rivolte popolari falliscono e abortiscono anche per questo. Il barone, in fondo, non garantisce nulla: non l’appoggio papale, non una buona amministrazione e neanche la difesa dell’ordine pubblico, turbato dalle altre famiglie baronali che non riesce a tenere a bada. 30 Negli strumenti notarili che ho esaminato ho potuto contare 13 passaggi di proprietà di casali in tutta la loro estensione e altri 8 per parte di casali, ceduti da chiese e baroni a mercanti e bovattieri. Sui 13 casali, 6 sono ceduti da chiese e monasteri, 7 da baroni; su parte degli 8, 5 sono ceduti da baroni, 3 da chiese e monasteri. A questi si deve aggiungere la cessione di un castrum e di fondi di una certa estensione. Per gli stessi anni ho contato 26 locazioni di casali in favore di bovattieri e mercanti e 5 di castra. I concedenti risultano essere per 7 casi baroni, per il resto chiese e monasteri. Per una serie di casali e castra mi risultano proprietari mercanti e bovattieri, pur non potendo io stabilire se tale proprietà non venga loro solo dal diritto di locazione: i casali e castra che mi risultano proprietà di costoro sono 20, in tutta la loro estensione e parte di altri 17, oltre a varie estensioni di terra non costituenti casali e castra. 31 Precisazioni di questo tipo si trovano anche nei contratti nei quali figurino come proprietari monasteri, amministratori e detentori di benefici. Questo, d’altra 27 28
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parte, non stupisce, ché il bisogno di provvedere alle comunità che intorno ai monasteri vivono, rende solleciti abbati e abbatesse della produttività del suolo. Per un contratto di locazione, ove si prevedeva la lavorazione del fondo a ciclo triennale vedi, tra i tanti strumenti A.S.C. Sez. I, 7, c. 35r; per il solo che io abbia presente di contratti di lavorazione a ciclo quadriennale vedi A.S., coll. not. cap. 476, cc. 209v-210v. Per la concimazione del fondo vedi la precisazione che fa Stefano Valentini, il quale, quando vende le erbe del casale di Torre di Rainone, stabilisce che il casale sia concimato con 3 rubbi di stallatico (A.S.C. Sez. I, 785, 8, c. 62r). D’altronde è clausola quasi sempre presente negli strumenti di vendita di erba – che sono poi licenze di pascolo – quella dello stallatico, la cui quantità viene volta a volta fissata. 32 Generalmente il contratto di pomedium viene così concepito: il proprietario concede la terra, mentre il lavoro viene prestato dal conduttore, il quale è tenuto anche a porre il seme, che è però anticipato quasi sempre dal proprietario; il raccolto viene, poi, diviso a metà, dovendosi al proprietario anche il pagamento dello ius terratici. 33 Negli anni tra l’80 e il ’90 varia tra i 4 e i 7 fiorini d’oro. 34 Talora, non sempre, in questo tipo di contratto si precisa come i prodotti dovessero essere divisi. Per strumenti di soccida, ove il contratto comportava l’obbligo del socio di coltivare i fondi del concedente, vedi tra l’altro, A.S. coll. not. cap. 1163, c. 291v; ibid., 1703, c. 150r; ibid., 475, cc. 161r-162r; ibid., 477, cc. 236v237r; A.S.C. Sez. I, 763, 3, cc. 236v-237r. 35 J. JONES, Per la storia agraria italiana nel Medioevo: lineamenti e problemi, in Riv. stor. ital., LXXVI (1964), p. 325, pone in relazione l’aumento dell’allevamento del bestiame, fenomeno comune anche alla Maremma Toscana e a tutto il Sud, con una 59
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diminuzione del prezzo dei cereali, anche se poi, limitatamente alla zona romana aggiunge che «le fonti lasciano piuttosto supporre che la pastorizia si diffondesse semplicemente perché i latifondisti locali, come i loro predecessori nell’antichità, videro in essa il modo meno costoso di sfruttare i loro possessi» (ibid., p. 326). Per il Duecento non disponiamo di una serie di dati o, almeno, non si è ancora tentato di organizzare quelli che ci forniscono i cartulari dei vari monasteri. Per la seconda metà del Trecento posso mettere insieme una serie di dati, che dispongo in una tavola, a p. 73. Vi ho riportato i prezzi sia nel valore in cui li ho trovati espressi, sia in libbre. Ciascuna libbra è uguale a 20 soldi provisini. Il fiorino in questi anni corrisponde a 47 soldi provisini. Troppo pochi questi dati per permetterci di parlare di un abbassamento del prezzo del grano, che semmai, qualora non si tenga conto dell’aumento dei prezzi degli immobili e del generale andamento dei prezzi, sembrerebbe essere in aumento. L’andamento dei prezzi del grano appare, d’altronde, assai difficile da stabilire qualora non si disponga di una larghissima serie di dati, per le oscillazioni grandissime cui va soggetto. Cf. a questo proposito G. DUBY, L’économie rurale et la vie des campagnes dans l’Occident médiéval, II, Paris 1962, p. 559, ove si dice che tali fluttuazioni sembrano ampliarsi nel secolo XIV. 36 Alcuni strumenti ove si fissino condizioni di un contratto di staglio sono i seguenti: A.S. coll. not. cap. 1163, c. 360r; A.S. coll. not. cap. 849, c. 62r e v; A.S. coll. not. cap. 138, c. 7r; A.S. coll. not. cap. 475, c. 306r e v; ibid., c. 398r e v. 37 Alcuni strumenti ove si fissino condizioni di miglioria sono i seguenti: A.S. Archivio Salv. ad Sancta Sanctorum, cass. 505, Arm. VIII, M. III, n. 26 (per porci); A.S. coll. not. cap. 1236, c. 221v (per giovenchi); ibid., c. 229v (per buoi). 60
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Mercanti e bovattieri 38 Per contratti di soccida in zona diversa da quella romana, vedi per la Toscana E. FIUMI, Storia economica e sociale di S. Gimignano, Firenze 1961, pp. 138139 e D. HERLIHY, Pisa in the early Renaissance cit., pp. 117 e 212-213, ove viene data la trascrizione di un contratto di soccida, definito tipico. Per la zona lombarda vedi P. TOUBERT, Les statuts communaux et l’histoire des campagnes lombardes au XIVe siècle, in Mélanges d’ Archéologie et d’histoire de l’École Française de Rome, 72 (1960), pp. 480-481. Per un quadro d’insieme vedi DUBY, L’économie rurale cit., I, pp. 253-254. 39 La divisione di tutto il bestiame, non solo degli aumenti, ci è testimoniata però anche per Lucca nel Cinquecento. Vedi M. BERENGO, Mercanti e nobili nella Lucca del Cinquecento, Torino 1964, p. 315. 40 Generalmente il concedente sembra esser tenuto a fornire anche l’erba (a questo farebbero pensare le clausole in cui il concedente si dice tenuto al versamento dell’erbatico solo per un certo periodo). Quando nel contratto non si parla di obbligo del concessionario di lavorare nelle terre del concedente, spesso, ma non sempre, il concessionario si impegna a versare una certa quantità di grano, che viene fissata nello strumento notarile o a versare la metà dei frutti ottenuti dal concessionario nel casale ove vengono impiegati i buoi avuti in soccida. 41 A.S.C. Sez. I, 785, 1, c. 79r. 42 G. TOMMASSETTI, La Campagna Romana cit., p. 159 dice il rubbio di grano equivalente a 217 kg.; F. BRAUDEL e R. ROMANO, Navires et marchandises à l’entrée du port de Livourne (1547-1611) Paris 1951, p. 84 lo dice equivalente a 2,10 hl.; J. DELUMEAU, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVIe siècle, I, Paris 1957, p. 122 lo dice equivalente a circa 2,30 hl.
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Clara Gennaro 43 Vedi G. TOMMASSETTI, La Campagna Romana cit., I, p. 159. 44 Vedi G. TOMMASSETTI, La Campagna Romana cit., IV, p. 112-113. 45 A.S. coll. not. cap. 476, cc. 52v-54v. Lello di Petricone Capogalli, notaio, importa questa quantità di zucchero per conto del padre, che non so che attività esercitasse. Forse l’acquisto dello zucchero avveniva d’accordo con un altro Capogalli, Lello di Cincio, speziale, il quale, come si rileva dal testamento di Lello, deve, insieme ad altri, 100 fiorini d’oro a Lello, il che potrebbe far pensare se non ad una società stretta tra i due, a loro rapporti di affari. Altri membri della famiglia Capogalli paiono esercitare un commercio agricolo capillare, costante, costituito soprattutto dall’acquisto e dalla rivendita di mosto – in questo pare particolarmente attiva Margherita Capogalli – o di grano, spelta, orzo. Diversi membri della famiglia, inoltre, esercitano il notariato: di due di essi, Francesco di Stefano e Giacomello di Stefano si serbano ancora gli strumenti presso l’Archivio di Stato. Alcuni dei Capogalli ricoprirono cariche importanti nella vita del Comune: nel 1388 e nel 1392 rispettivamente uno Stefanello e un Lello Capogalli saranno infatti conservatori (vedi A. SALIMEI, I Senatori. Cronologia e bibliografia dal 1144 al 1147, Roma 1935, pp. 149, 151). Per la produzione dello zucchero in Sicilia, oltre allo HEYD, Histoire du commerce du Levant, II, Leipzig 1886, pp. 684-690, vedi C. Trasselli, Produzione e commercio dello zucchero in Sicilia dal secolo XIII al XIX, in Economia e storia, II (1955), pp. 325-342, il quale, tracciando una storia della coltivazione della ‘cannamele’ in Sicilia e dell’industria dello zucchero ad essa connessa, ne nota un netto regresso dall’età sveva a tutto il Trecento, cogliendone, invece, ai primi del Quattrocento, sotto i Martini, una nuova fase di espansione. Tali conclusioni mi pare sostanzialmente accetti
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V. D’ALESSANDRO, Politica e società nella Sicilia aragonese, Palermo 1963, pp. 245-246, che rileva, però, come a Palermo, in età aragonese, si continui a segnalare «una continuità della produzione e della lavorazione dello zucchero». Per il consumo che una città come Roma doveva fare dello zucchero, varrà tenere presente «lo scarso uso domestico di quel prodotto, impiegato di preferenza per scopi farmaceutici» (G. LUZZATTO, Il costo della vita a Venezia nel Trecento, in Ateneo Veneto, CXXV (1934), riedito poi nel volume Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, p. 290). Per l’uso che se ne faceva in cucina vedi E. FIUMI, Economia e vita privata dei fiorentini nelle rilevazioni statistiche di Giovanni Villani, in Archivio stor. ital., CXI (1953), p. 229. 46 Vedi DELUMEAU, Vie économique cit., II, pp. 848849. 47 A.S.C. Sez. I, 649, 14, cc. 56r-60r. Gli antepositi super guerras et grascia Romani populi incaricano, dietro versamento di 400 fiorini d’oro Cincio Catini del rione Trastevere e due mercanti genovesi, residenti a Roma, Berto Sciulli e Giovanni Marusselli, di trasportare da Roma a Corneto e Montalto 800 rubri di grano. Arbitri per le eventuali divergenze Nucio delle Verghe di Roma e Niccolò dei Folchi di Firenze, residente a Roma. 48 V. FORCELLA, Iscrizioni delle chiese e d’altri edifici di Roma dal secolo XI in poi, Roma 1869, p. 414, n. 1572. Che Lello Madaleno fosse un commerciante agricolo ci testimoniano diversi strumenti degli anni 1389-1390. Nel 1389 acquista, infatti, dal capitolo della basilica del Principe degli Apostoli l’erba dei casali, una volta castra, di Bucceie, Lo Cierno e Tragliate, situati fuori P. Pertusa per la rilevante somma di 292 fiorini d’oro (A.S.C. Sez. I, 785, 5, c. 62r). Nello stesso anno da una quietanza risulta aver preso in locazione il casale di Cornazzano per il canone annuo di 150 fiorini d’oro (ibid., c. 74v). L’anno dopo acquista dalla comu63
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nità velletrana le erbe di Velletri per ben 350 fiorini d’oro (ibid., fasc. 6, cc. 32r-33r) e ancora nello stesso anno da Canzia degli Annibaldi acquista l’erbatico di Porto per 150 fiorini d’oro (ibid., c. 46v). L’8 maggio del 1390 Lello, poi, stende quietanza ad un abitante di Monterotondo per un contratto di miglioria di 250 porcastri e di 484 porci (ibid., c. 89r e v). 49 È il caso, ad esempio, della contrada dei Foschi di Berta e della Piazza e Discesa degli Arcioni, per cui vedi P. ADINOLFI, Roma nell’età di mezzo, II, Roma 1881, pp. 27, 39-40. 50 A.S. coll. not. cap. 849, cc. 224r e v. Strumento del luglio 1368 nel quale Giovanni di Angelo, lanaiolo di Cortona, ora abitante a Roma nel rione Colonna, s’impegna a lavorare nella bottega di Ceccolo figlio di Giacomo (?), lanaiolo del rione S. Lorenzo e Damaso per un anno al salario annuo di 50 fiorini d’oro, da pagarsi in rate trimestrali di 12 fiorini d’oro e 1/2. A dare un’idea dei salari correnti nell’arte in quegli anni varranno due strumenti, entrambi del 1372, (A.S. coll. not. cap. 1703, c. 63r e v e ibid., c. 77r e v nei quali un Petruccio di Antonio e un Petruccio de Andronoco del rione Campomarzio s’impegnano a servire due lanaioli, Lorenzo di Pietro di Pietro e Benedetto Giannozzo Matarati, entrambi del rione S. Eustachio, il primo genericamente per tutti i lavori necessari per l’arte, il secondo «ad facendum carrigium valche» rispettivamente per il salario di 16 fiorini d’oro annui e per 21 fiorini d’oro annui. 51 Per un vascellarius proveniente da Orvieto vedi A.S. coll. not. cap. 849, cc. 186r-189v; per un tessitore proveniente da Otricoli, vedi A.S. coll. not. cap. 1703, cc. 43v-45v; per un lanaiolo proveniente da L’Aquila vedi A.S.C. Sez. I, 763, 7, cc. 3v-4r; per un tintore proveniente da Firenze, A.S.C. Sez. I, 763, 7, cc. 37v-38r e per un vascellarius proveniente dalla Marca Trevigiana, vedi A.S. coll. not. cap. 849, cc. 320v-324v. 64
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Mercanti e bovattieri 52 Il fondo si trova, come abbiamo già avuto occasione di dire, all’Archivio di Stato e porta la segnatura coll. not. cap. 1703. 53 Ibid., cc. 15v-16v; ibid., cc. 82v-83v; ibid., cc. 160r-161v (in quest’ultimo caso, in realtà, il venditore è detto «olim de castro Leonis nunc de regione S. Angeli». 54 Ibid., c. 129r e v. Il venditore in questo caso è Lello di Cola dei Rossi. O ancora ibid., cc. 35r-36r, ove il venditore è Oddo dei Cerroni. Per i Cerroni vedi pp. 45-46; per la famiglia dei Rossi, della quale fanno parte mercanti come Guglielmo per il quale vedi pp. 30-31, e ricchi proprietari fondiari come Lello di Buccio di Giovanni, per il quale vedi tra l’altro A.S.C. Sez. I, 649, 6, cc. 62v-63r, ove figura come proprietario del casale Munumento sito a 4 miglia dalla Città, vedi ADINOLFI, Roma nell’età di mezzo cit., I, pp. 248-250. 55 A.S. coll. not. cap. 1703, c. 63r e v. 56 Per il commercio di erbaroccia (erba guado), tintura e cenere vedi l’arbitrato del 1372 di Francesco degli Ilperini miles del rione S. Eustachio tra Lorenzo e Lello di Meolo, che avevano stretto società per il commercio di tali materie (A.S. coll. not. cap. 1703, cc. 80v-81v). Sulla produzione e il commercio del guado vedi F. BORLANDI, Note per la storia della produzione e del commercio di una materia prima. Il guado nel Medio Evo, in Studi in onore di Gino Luzzatto, I, Milano 1950, pp. 297-324. 57 Per tessitori che lavorano presso il loro domicilio vedi Statuti dell’arte della lana cit., p. 151, cap. 76. Per le filatrici vedi il divieto negli stessi Statuti «quod nullus artifex, magister, nec aliquis exercens aliquid de dicta arte lanae sub poena sacramenti portet nec portari faciat lanam alicui filatrici a roccha ad domum ipsius filatricis ad poenam .XL. solidorum vice qualibet, immo lanam suam dabit ad filandum, et dari faciat et debeat ad domum seu apothecam ipsius artificis et ma-
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gistri, sub dicta poena .XL. solidorum vice qualibet» (ibid., p. 130). 58 Mancano negli Statuti dell’arte della lana capitoli che precisino le modalità della vendita dei panni, mentre diversi se ne trovano negli Statuti dei mercanti. Uno degli articoli di questi Statuti stabilisce che il lanaiolo versi per ogni panno da vendersi ai mercanti una tassa di due denari, da consegnare alla mercatantia (Statuti dei Mercanti cit., p. 75, r. 17). Ai mercanti si faceva, inoltre, divieto di acquistare panni ad talgium da lanaioli (Statuti cit., p. 75, r. 4), misura questa che tendeva ad evitare che fosse turbato l’equilibrio dei prezzi: questo, infatti, se poteva essere mantenuto agevolmente nel caso di vendita di grosse partite di panni, prodotte dai lanaioli a determinate condizioni fissate in precedenza, sarebbe stato invece messo in pericolo dai mercanti che avessero acquistato al minuto, sfuggendo a tali regolamentazioni. 59 Statuti delle gabelle di Roma, pubblicati da S. MALATESTA. A cura dell’Accademia di Scienze storicogiuridiche, Roma 1885, p. 103, cap. 29. 60 Statuti dei Mercanti cit., pp. 26-27. 61 Vedi A. DE SANCTIS-MANGELLI, La pastorizia e l’alimentazione di Roma nel Medio Evo e nell’Età Moderna, Roma 1918, pp. 156-158 e DELUMEAU, Rome dans la seconde moitié cit., I, pp. 501-504. 62 Nei soli strumenti del fondo notarile di Francesco di Stefano di Capogalli, che si trova presso l’Archivio di Stato, coll. not. cap. 475, negli anni tra il 1377 e il 1380 abbiamo contato i nomi di ben 18 macellai. Rilevante, pur se non tanto concentrato il numero di macellai per tutto l’arco della nostra documentazione. A Roma poi – come ci è documentato per l’anno 13671368 dagli strumenti del fondo notarile di Pietro Astalli, anch’esso presso l’Archivio di Stato – esistono, per i gruppi ebraici, macellai di religione, di cui il fondo riporta tre nomi (A.S. coll. not, cap. 138, c. 7v; 66
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ibid., c. 50r; ibid., c. 60v-61r). Per il consumo cittadino della carne nel Medioevo, non molto dissimile quantitativamente da quello moderno, vedi per Siena C. FALLETTI-FOSSATI, Costumi senesi nella seconda metà del secolo XIV, Siena 1881, p. 23 e per Firenze, E. FIUMI, Economia e vita privata cit., pp. 220-225. Vedi, inoltre, che posto occupasse il consumo della carne in un bilancio domestico di una famiglia veneziana «un po’ al di sopra della media», in LUZZATTO, Il costo della vita a Venezia cit., pp. 290-291. Nel Cinquecento a Roma in un anno si consumavano a persona 3/4 di un agnello, 1/5 di un montone 1/5 di un porco, 1/7 di un bue, 1/7 di una vacca a cui bisogna aggiungere il consumo, peraltro assai scarso, di bufale. Giustamente però il DELUMEAU, Vie économique cit., p. 125 ricorda che il bestiame era allora certamente molto più magro di quello di oggi. 63 A.S. coll. not. cap. 1236, cc. 125v-126r. 64 A.S.C. Sez. I, 785, 1, cc. 3r-6r. 65 Per la compra-vendita del 1382 vedi A.S. Arch. Salv. ad Sancta Sanct., cass. 508, Arm. VIII, mazzo VI, n. 30; per quella del 1385 vedi A.S.C. 1785, 2, cc. 77r79r. 66 A.S.C. Sez. I, 785, 3, c. 118r. 67 Nel 1390 Lello investe 200 fiorini d’oro nell’arte del cambio in società con Giacomello di Petro Gandolfo (vedi p. 32) e altri 200 fiorini affida ad un certo Domenico di Nucio di Lapo, che pone a sua volta 100 fiorini e s’impegna a «cambium facere et artem campsorie exercere» (A.S.C. Sez. I, 785, 6, c. 49 r e v). 68 A.S.C. Sez. I, 10, cc. 85v-86r. 69 A.S.C. Sez. I, 785, 2, cc. 100r-102r. 70 A.S.C. Sez. I, 649, 13, c. 48r. 71 A.S.C. Sez. I, 785, 1, cc. 44v-46v. 72 Ibid., fasc. 2, cc. 52r-53v. 73 Ibid., cc. 129r-131v. 74 Ibid., fasc. 3, cc. 212r-216v. 67
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Clara Gennaro 75 Ibid., fasc. 5, cc. 145r-149v. Questi sono i beni che Francesco pone in comunione con quelli dei cugini: 1/2 di un quarto di castrum Tiberie, sito fuori P. Appia, accanto a Ninfa; 1/4 delle «case dei Cerroni», site in Selciata de Montibus accanto a S. Maria Maggiore; 1/4 delle case «dette degli Annibaldi», unito con l’altro quarto del fu Giovanni e con metà di Oddone, site di fronte a S. Pietro in Vincoli; 1/2 di una petia di vigna, e metà di un forno nel rione Monti; metà di due case con torre, site nel rione Monti; metà di un orto, sito di fronte alle case, dette degli Annibaldi; 3 petie di vigna nello stesso rione; 1/4 di una casa sita nel rione Pigna; una ‘petia’ di terra sementaricia sita fuori P. Latina; metà di un loggiato sito nel rione Pigna; 1/4 di un mulino sul Tevere in pede pontis S. Mariae; un aquimolus, sito accanto al detto mulino; una casa terrinea e solarata; una casa, abitata dal fu Oddarello; 2 case ad Ostia. 76 La famiglia degli Annibaldi è in decadenza dai primi del Trecento. Vedi a questo proposito G. FALCO, I Comuni della Campagna e della Marittima nel Medioevo, Roma 1926, pp. 282-283 et passim e E. DUPRÉ-THESEIDER, Roma dal Comune di popolo cit., pp. 300-302 et passim. Per la storia precedente della famiglia, tra le più potenti e illustri nel Duecento, vedi ancora FALCO, op. cit., in particolare pp. 300-302 e D. WALEY, The Papal State in the Thirteenth Century, London 1961, passim. Per i vari membri della famiglia Annibaldi vedi le voci relative sul Dizionario Biografico degli Italiani, redatte nella maggior parte dallo stesso WALEY e dal PARTNER. 77 A.S.C. 785, 4, cc. 87v-88r. Vedi A. NATALE, La Felix Societas Bandarensium et Pavesatorum in Archivio della Società Romana di Storia Patria, LXII (1939), pp. 92-93. 78 Vedi nota 75. 79 A.S.C. Sez. I, 2, cc. 102v-106r. 80 Vedi strumento su citato.
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Mercanti e bovattieri 81 Riformatori e Conservatori rimarranno le reali guide della vita amministrativa anche se accanto ad essi troviamo un senatore che essendo forestiero era spesso incapace di comprendere appieno la società che era chiamato a dirigere. D’altra parte molto frequentemente i compiti del senatore venivano devoluti a tali magistrature, che si succedevano con regolarità ben diversa da quella dei senatorato, che risulta non di rado vacante. Per le magistrature dei Riformatori (13591369) e Conservatori (dal 1369 in poi) vedi E. DUPRÉTHESEIDER, Roma dal Comune di popolo cit., pp. 660-661, 678. 82 Per la vendita dei diritti di ripatico acquistati per un anno da Lello Maddaleno, insieme a Petruccio Sarragona e a Paolo Belcogia vedi A.S.C. Sez. I, 10, cc. 45v-50r. Probabilmente Lello acquistò varie volte tali diritti se nel 1377 chiede il sostegno del Comune in causa contro mercanti forestieri, che si rifiutano di versare il ripatico (ibid., fasc. 13, cc. 4r-5r). In uno strumento del 1392 risulta che anche per quell’anno il Comune aveva ceduto i diritti di ripatico, se Giovanni di Cola di Tebaldo dei Musciani, notaio del rione S. Eustachio dichiara che di 1/3 di metà dei frutti di Ripa e Ripetta, acquistato per 3 anni da Paoloccio e Marcuccio, figli del fu Grosso di Trasmondo del rione Campitelli per 500 fiorini d’oro, metà spetta ad Andrea della Valle (A.S.C. Sez. I, 785, 8, cc. 140r-141r). Nel 1379 il Comune vende anche i diritti di dogana del sale a vari cittadini per una quantità complessiva di 1746 rubri di sale e 2/3 di un altro rubro per una somma complessiva di 5240 fiorini d’oro (A.S.C. Sez. I, 649, 14, cc. 60v-72r) e nello stesso giorno ad un altro gruppo 4920 rubri di sale per una somma complessiva di 14760 fiorini d’oro. Gli acquirenti versavano 3 fiorini d’oro per rubro di sale, che rivendevano a 4 (ibid., cc. 72v-80v). Nel 1385, infine, Nucio Gibelli «antepositus et deputatus ad videndum, calculandum, decla-
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randum et summandum omnes et singulas rationes calcula introitus omnium et singularum gabellarum» dichiara che delle due vendite dei diritti di baratteria fatte rispettivamente il 1° marzo 1379 dagli antepositi super guerras, Paolo di Angelo dei Foschi di Berta, Matteo di Giacomo Sassone per 2 anni a Lello di Ennufrio dei Tignosi, Andreuccio di Antonio di Guglielmo (?), detto Alzatello per una terza parte, ad Andrea della Valle per un’altra terza parte e infine a Cecco di Alessio Caranzoni per un’altra terza parte e dell’altra fatta il 19 dicembre 1380 dagli antepositi super guerras Rinaldo di Niccolò e Turrinbacca di Luzio di Giacomuccio per 5 anni a Romanello di Giovanni Orso per 2 parti e a Buzio di Cola Ranerio per una terza parte, una è valida per gli anni 1384-1386, la seconda per gli anni 1386-1391 (A.S. Arch. Salv. ad Sancta Sanct., cass. 505, Arm. VIII, m. III, n. 27). I diritti di baratteria erano pagati da coloro che tenevano banco di giochi d’azzardo. Talora i bovattieri acquistano anche i diritti che il Comune aveva sui castra della campagna romana, come avvenne nel 1382 quando Giovanni Cerroni acquistò da un notaio, Cecco di Giovanni di Cecco, che li aveva a sua volta acquistati dalla Camera Urbis, i redditi e i frutti di Olevano, Pisano e Belvedere (A.S.C. Sez. I, 785, 1, cc. 53r-54v) per i quali vedi SILVESTRELLI, Città, castelli e terre della regione romana, Roma 1940, pp. 342-343. 83 Vedi nota precedente. 84 A.S.C. Sez. I, 649, 14, cc. 56r-60r; ibid., 785, 2, cc. 248v-249r. 85 Nella vendita della dogana del sale, fatta nel 1379 dal Comune, Niccolò Porcari acquista per sé e per Cinzio dei Marcellini diritti sul sale per complessivi 500 fiorini d’oro, Francesco di Guido per 100 fiorini d’oro; Paolo di Stefano (Graziani) per sé per 100 fiorini d’oro e per altri (Andrea mercante, Pietro Bono – Conservatore nel 1384 – e Sabba di Francia) per 200 70
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fiorini d’oro complessivi. Che tutti costoro siano stati Conservatori risulta da documenti prodotti dal SALIMEI, Senatori e Statuti di Roma nel Medioevo. I Senatori cronologia e bibliografia dal 1141 al 1447, Roma 1935, pp. 147 (per Francesco di Guido), 148 (per Paolo di Stefano e Pietro Bono), 152-153 (ancora per Paolo di Stefano). Per Niccolò dei Porcari, che non figura nel Salimei, vedi uno strumento dell’Archivio del Salvatore ad Sancta Sanctorum, cass. 504, Arm. VIII, Maz. II, n. 2, ove risulta Conservatore in data 10 gennaio, insieme a Cecco Spizziche e Giovanni di Aliseo. 86 Non sappiamo se questa ‘nobiltà cittadina’, allontanata dai posti di maggiore responsabilità avesse continuato a partecipare alla vita amministrativa come consiliarii dei due più grandi consigli cittadini, quello generale e quello speciale: gli elenchi dei componenti sono, infatti, andati perduti. 87 SALIMEI, op. cit., pp. 178-192.
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Prezzi del grano nella seconda metà del ’300 rilevati nei registri notarili
APPENDICE I
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APPENDICE II
Nello spoglio dei fondi notarili, che ho avuto occasione di fare durante il mio lavoro (cf. nota 1 pp. 50-51, di questo articolo), ho incontrato diversi strumenti, che portano nuovi dati per la ricostruzione della topografia della campagna romana. Ho creduto, pertanto, che fosse cosa non del tutto inutile raccogliere e annotare questi nuovi elementi come un contributo di completamento e di revisione delle note opere cui si ricorre per questo tema: Roma nell’Età di Mezzo, Roma 1881 di P. ADINOLFI; G. e F. TOMMASSETTI, La Campagna romana antica, medioevale e moderna, Roma 1910-1926; G. SILVESTRELLI, Città, castelli e terre della regione romana. Ricerche di storia medioevale e moderna sino all’anno 1800, Roma 19402. L’Adinolfi, in realtà, tratta solo marginalmente della campagna romana, la sua opera essendo incentrata sullo studio della topografia cittadina; le due opere del Silvestrelli e del Tommassetti, pur movendosi entrambe in buona misura in una medesima zona, si servono di una documentazione diversa, quella del Silvestrelli fondandosi essenzialmente sui registri vaticani, mentre quella del Tommassetti è per gran parte la stessa di cui io mi sono servita, alla quale lo studioso affiancò la consultazione degli Archivi Caetani e Colonna e quella dei cartulari per lo più editi, di alcuni monasteri. Indico con A1, A2 i due tomi dell’opera dell’Adinolfi, con T2, T3, T4 i tre tomi del Tommas75
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setti, con S1 S2 i due tomi dell’opera del Silvestrelli. Per i fondi notarili, a cui rinvio, dopo la segnatura, separato da virgola segue il numero del fascicolo.
Ardea T2 449-452; S2 616-617 Due quarti del castrum – Quarto della Finesca e Quarto de Biadone – risultano nel 1372 proprietà del monastero di S. Paolo, che li ha locati a Giovanni di Matteo degli Ilperini, che ne vende l’erba a Giovanni di Matteo degli Ilperini (A.S. 1703, c. 97r e v). Nel 1397 sembrerebbe appartenere ancora al monastero, che è costretto a vendere delle terre per pagare, tra l’altro, il salario al custode Giacomello dei Maglioni del rione Ponte e il vitto ai guardiani della rocca (A.S.C. 785 bis, 1, c. 113v)
Casale Ammazzalopo A1 144-145; T3 25 Nel 1392 metà risulta essere di proprietà di Lorenzo di Lello Leni, che la pone quale pegno dotale, insieme a metà delle terre dette Li Crapini, site fuori P. S. Lorenzo e a metà della pedica detta Cruncialecta, nei patti di fidanzamento con Cecca, figlia di Lello della Valle (A.S.C. 1785, 8, cc. 105v-108r). Casale Arco Tiburtino T4 65-66 Nel 1368 il casale, detto anche Casale Torre Bran76
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Appendice II
chia o Casale di Paolo Bastardella, appare di proprietà di Branca di Giovanni Branca (A.S. 138, c. 44r).
Casal Beccane Sito fuori P. Nomentano; nel 1372 ne risulta proprietario il cambiatore Nucio dei Negri (A.S. 1703, c. 149r e v), che lo dà ad laborandum a Angelo di Nicola già di castrum Flaiani ora del rione Parione con i buoi di Angelo, che questi prende nel medesimo giorno in soccida dallo stesso Nucio. Nel 1387 proprietari risultano invece Cecco di Giannetta e Giovanni di Paolo Muti dei Papazzurri (A.S. 477, cc. 44v-46r)
Casale Buti Non so dove sia sito. Il monastero di S. Anastasia nel 1385 lo cede a Riccardo Sanguigni in cambio del casale, già castrum Statua, vendutogli precedentemente dai monaci per 2.600 fiorini d’oro, con la clausola che Riccardo l’avrebbe ceduto a sua volta, dietro versamento della somma pagata per l’acquisto. I monaci tuttavia avevano locato il casale Buti per due anni ad Andrea della Valle, con il quale si accordano per la sostituzione della locazione di questo casale con il casale di S. Anastasia (A.S.C. 785, 2, cc. 8v-12r). Casale Casaferratella Di questo casale si ignora tutto: località in cui era sito, confini, i successivi proprietari. Nel 1387 uno strumento di deposito registra un credito di Lello di Petruccio di Paoluccio nei confronti dei 77
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canonici della chiesa di S. Nicola in Carcere di 1.300 fiorini che si dicono essere parte del prezzo di 2.300 fiorini del casale Casaferratella venduto a Lello dalla chiesa di S. Nicola (A.S.C. 785, 3, cc. 1v-2v).
Casale Cembro T4 428-429 Sito fuori P. Maggiore, confinante con il casale Insaleo, il casale, salvo tre valzoli, viene locato nel 1393 dal cappellano della cappella di S. Susanna nella chiesa di S. Giovanni in Laterano per 3 anni a Tommaso di Cecco di Giannetta per il canone annuo di 14 fiorini d’oro (A.S. 477, cc. 155r156r).
Casale Cementaria Sito fuori P. Mammolo, confinante da un lato con il fiume, dall’altro con il casale Torre Pacturis, dal terzo con la tenuta della chiesa di S. Maria in Campomarzio e dall’altro con il casale Palazzetto; nel 1391 ne risulta proprietario Lorenzo di Pietro de Occidimenduni, causidico e giurisperito, il qual dona alla figlia Giacomella metà del casale con particolari clausole, riservando l’altra metà alla moglie Paola (A.S.C. 785, 7, cc. 13r-14v). Casale Centocelle T3 394-395; T4 72 Nel 1388 Tebaldo degli Annibaldi fa una falsa vendita del casale a Giovanni di Pietro di Cerrone dei Cerroni per 2.000 fiorini d’oro, «pro cautela 78
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Appendice II
et cura ipsius Teballi qui tunc molestabatur ab offitialibus urbis et felicis Societatis Balestratorum et pavesatorum Urbis rationibus et causis eidem Iohanni notis» (A.S.C. 785, 4, cc. 87v-88r). Il 3 aprile 1394 Andrea Montanaro vende ad Andrea della Valle il casale, insieme ad una pedica detta Monte di S. Eusebio, per il prezzo complessivo di 3.900 fiorini d’oro, di cui il venditore dichiara di avere già in passato ricevuto 2.565 fiorini e 45 soldi provisini (ci rimangono registrati presso lo stesso notaio due versamenti dello stesso anno: uno di 100 ducati d’oro alle cc. 23v-24r e uno di 500 fiorini d’oro alla c. 35r) e di aver ricevuto alla stesura dell’atto 1.100 ducati d’oro, a ragione di 57 soldi per ducato (A.S.C. 785, 9, cc. 37r-39v). Uno strumento del 12 aprile registra il consenso di Canzia degli Annibaldi per il quale riceve da Andrea Montanaro 800 fiorini d’oro (ibid., cc. 57v-60r).
Casale Cilenda T4 194-195 Il 15 settembre 1385 Giovanni e Giacomo figli del fu Giuliano di Giacomo Rogeri del rione Pigna vendono a Francesco, figlio del fu Pietro di Renziculo del rione Monti, il detto casale, insieme a 9 rubri di terra sementaricia siti in località Torri e confinanti con il casale stesso, che erano già del monastero di S. Sebastiano, per complessivi 2.600 fiorini d’oro che i venditori dichiarano aver ricevuto (A.S.C. 785, 2, cc. 174r-177v). 79
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Casale Corte Vecchia Sito fuori Porta S. Lorenzo e Ponte Mammolo; un terzo del casale, unito pro diviso con altre due parti del detto Cecco, fu venduto nel 1385 dal monastero di S. Maria Nova al mercante Cecco Deo per 1.500 fiorini d’oro (A.S.C. 785, 2, c. 197r).
Casale Dragoncelli Casale sito fuori Porta San Paolo, confinante con il casale Tre Fusi, con il casale Dragone, con Castel Fusano e con il Tevere. Nel 1397 i monaci di San Paolo lo locano per tre anni a Riccardo di Brancaleone dei Sanguigni (A.S.C. 785 bis, cc. 116r-119v) per il canone annuo di 240 fiorini d’oro; nello stesso giorno il casale era stato posto in pegno al detto Riccardo dai detti monaci per 2.500 fiorini d’oro, di cui i monaci avevano bisogno per pagare creditori e fornitori e che Riccardo si impegna a non richiedere prima di tre anni (ibid., cc. 112v-116r).
Casali Due Torri, Casecalle e Caminate T3 397-398 Ne è proprietario alla fine del Trecento il monastero di S. Sebastiano. Nel 1388 si dividono i casali, metà dei quali il monastero aveva locato per sei anni a Giovanni di Capoccio dei Margani, mentre i frutti dell’altra metà dei detti casali erano stati venduti a Andrea della Valle. Ad Andrea vanno: una pedica de Formello, la pedica Due Torri, la pedica del Ponte della Marana, la pedica di Fanarolo, meno cinque rubri d’assegnare alla se80
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Appendice II
conda parte. A Giovanni vanno: la pedica Casecalle, sita dietro il casale omonimo e che giunge sino ai confini delle Due Torri; la pedica sita accanto al pascolo accanto alla pedica di S. Maria in Silice; la pedica S. Luca; la pedica delle Caminate, il valzolo sito accanto alla tenuta del Quadraro; cinque rubri della pedica Fanarolo «secundum quo trahit sulchus nuper positus et factus per bubulcum dicti Iohannis» (A.S.C. 758, 4, cc. 24r-25r).
Casale Fiessola Sito fuori Porta S. Paolo, confinante con il casale Larnaro e con il casale Lo Morrone; Paolo Cerino nel 1365 si rifiuta di versare il canone di locazione di 50 fiorini annui complessivi per il quale gli era stato ceduto insieme al casale Larnaro da Cecco di Niccolò Leoni, adducendo quale motivo del suo rifiuto i danni ricevuti dai casali per la briga sorta tra Roma e Velletri (A.S. 849, cc. 56r-58v).
Casal Fiorano T2 113-115; S1 209-210 Nel 1372 in data 26 gennaio Giovanni di Matteo degli Ilperini, vicario generale dell’abate del monastero di S. Paolo, loca, in nome dell’abate, il casale a Nucio di Pietro dei Negri per periodo non precisato (A.S. 1703, c. 34r e v). In data 12 febbraio Giovanni di Matteo Ilperini e Lorenzo dei Cerroni compromettono in Cecco dello Piglio come arbitro in una questione sorta tra loro per un certo maggese e cultus fatto da Lorenzo 81
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nel casale a lui locato dal monastero e ora spettante a Giovanni (ibid., cc. 37v-39v).
Casale Grotta o Orta dei Greci T3 272 (Ma in T3, un accenno solo a una tenuta dal nome di precordium grotta de’ greci, e però della stessa zona). Sito fuori Porta S. Lorenzo, nei pressi della via Tiberina, confinava con il casale Monumento, con il casale Pollaiano, con il casale S. Anastasia. Il 25 gennaio 1385 Lodovico del fu Paolo di Muto dei Papazzurri ne vende a Giacomo di Giovanni di Luzio detto Ciuciunno un quarto, unito con un quarto di Lello Amadore del rione Colonna, già di Lodovico e con l’altra metà del fratello di Lodovico, Giovanni, compresa la pedica detta Lo Paviglione, per il prezzo di 1.800 fiorini d’oro (A.S.C. 785, 2, cc. 26r-28v). Nel 1387 Lello Amadore vende il suo quarto a Niccolò di Giovanni del fu Saba Goci per 700 fiorini d’oro, mentre l’altro quarto risulta essere di proprietà di Giacomo di Giovanni di Luzio, detto Ciuciunno, e la restante metà degli eredi di Giacomo Medico (ibid., 785, 3, cc. 168v-170r). Nel 1388, 21 agosto Giacomello figlio del fu Giordanello di Cola Ilperini, vende ad Andrea, vedova del fu Lorenzo di Pietro Cerroni insieme al casale dei Rossi e ad una pedica di S. Martino, un quarto del casale, già di Lodovico dei Papazzurri, unito pro indiviso con l’altra quarta parte di Lodovico Papazzurri e pro diviso con l’altra metà degli eredi di Giacomo Medico, dottore in 82
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Appendice II
medicina, per complessivi 4.000 fiorini d’oro (ibid. 785, 4, cc. 84v-86v). Nel 1401 Pietro di Veneranero dei Veneraneri vende a Lodovico dei Papazzurri un quarto del casale, unito con l’altro quarto di Lodovico e con la metà degli eredi di Giacomo medico per 1.200 fiorini d’oro (A.S. 477, cc. 358v-361v).
Casale Larnaro Sito fuori Porta S. Paolo, in località La Vallora, confinante con Giacomello di Pietro di Paolo, con il territorio di S. Ciriaco e con Palazzetto. Nel 1365 Paolo Cerino si rifiuta di versare il canone di 50 fiorini d’oro a Cecco di Niccolò, per la locazione di metà del detto casale, unito con l’altra metà di Giacomello di Pietro di Paolo, e di tutto il casale Fiessola (A.S. 849, cc. 56r-58v).
Casale Lavangiara Non so dove sia sito. Nel 1385 uno strumento conferma, in seguito al consenso papale, i diritti di proprietà di Giovanni di Nicola Malelingue sul casale, venduto dal monastero di S. Prassede a Giovanni per 775 fiorini d’oro (A.S.C. 785, 2, cc. 90v-93r).
Casale o castrum di Lunghezza T3 484-487; S1 312-313 T3 p. 485 r. 15 non 1391 ma 1385 (A.S.C. 785, 2, cc. 52r-53v). La vendita avviene anche a nome di Paolo, Giannuccio, Giacomo e Giacomello, fratelli di Niccolò Conti. 83
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Casal Malnome A1 69 Non 1318 ma 1378 (A.S. Arch. Salv. ad Sancta Sanct., cass. 489, Arm. VII, m. 1, n. 17). Il casale era sito fuori Porta S. Pancrazio e confinava con Camposalino e con il casale di S. Cosma in Trastevere. La quarta parte venduta era unita con le altre tre parti di Giovanni e Giacomello, figli ed eredi del fu Pietro di Paolo Guarzellona.
Casale Maranella T4 120 Di proprietà della chiesa di S. Andrea in Viperatica, sito fuori Porta S. Lorenzo, confinante da una parte con il casale Morena e dall’altra con il casale di S. Maria Nova. Nel 1382 il monastero lo loca a Giovanni dello Prite a quarto rendere (A.S.C. 785, 1, cc. 94v-95r).
Casale Marroni Sito fuori Ponte Salario prende il nome dalla famiglia alla quale appartenne. Nel 1359 ne è proprietario Paolo, figlio di Niccolò Marroni, che concede ad pomedium a Simeone, figlio di Craccia del rione Colonna tre rubri di grano da seminarsi nel territorio del casale (A.S.C. 649, 4, c. 25r e v).
Casale Mola Piciamosto Casale sito fuori Porta S. Paolo confinante con il casale di Lello di Matteuccio, con il casale Valca di Nicolò Saragona, con il casale dei SS. Andrea e Saba. Nel 1385 il monastero di S. Lorenzo Pa84
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Appendice II
nisperna loca per tre anni a Lello di Matteuccio il detto casale con particolari patti agrari (A.S.C. 785, 2, c. 263v).
Casale Palazzetto T4 94-95 Nel 1372 Paola, figlia del fu Pietro dei Ciceroni e vedova di Paolo Novelli, vende un ottavo del casale, corrispondente a 8 rubri di terra, a Lello di Corrado Mastroni, per 133 fiorini d’oro e un terzo di un altro (A.S.C. 649, 12, cc. 29v30r). Nel 1378 il monastero di S. Eufemia loca il casale a quarto rendere a Giacomo di Cola di Pietruccio per tre anni (A.S. 1236, cc. 67v-68 r).
Casale Palazepto delli Cavalieri Sito fuori Porta S. Lorenzo, confinante con il casale di Andrea dei Novelli e con il casale di S. Paolo fuori Le Mura. Nel 1398 Paolo di Pietro Novelli ne pone in pegno dotale a Pietro di Sabba Giuliani per la figlia Giacoma, sua futura sposa, un quarto, unito con le altre tre parti dei consortes, insieme a un terzo di metà del casale dei Rossi e a un terzo della quarta parte del casale Pollaiano (A.S. Arch. Salv. ad Sancta Sanct., cass. 457, arm. IV, m. IX, n. 37A). Casale Pantano Sito nella Marittima. Nel 1368 risulta proprietà del nobilis vir Matteo, figlio del fu Angelo Malabranca, già cancellarius urbis (A.S. 138, cc. 74v-75r). 85
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Casale di Paolo Alverto Sito fuori P. Appia. Nel 1395 le monache dei SS. Cosma e Damiano lo concedono in locazione a Pietro dei Sordi per tre anni al canone annuo di 16 rubri di grano (A.S. 477, cc. 210v-212v). Casale Partimedalgia T2 432 Casale sito fuori P. Appia, accanto a Savello, Castel Leone, Falcognano, casale Torricella; nel 1391 metà del casale, unita con l’altra metà del padre Giacomello, risulta di proprietà di Lello, figlio di Giacomello di Nucio di Alessio dei Fabi, il quale lo pone in pegno, insieme a un quarto di Castel Fusano, per le sue nozze con Caterina, figlia di Lorenzo Cerroni (A.S.C. 785, 7, cc. 22r26r).
Casale Pescadore T2 444 Sito fuori P. Appia confina con il casale Querceto, con il casale Torre di Mezzo, con il casale Boccabella e con Ardea. Nel 1396 l’ospedale di S. Spirito in Sassia ne loca metà, unita con l’altra metà dell’ospedale stesso, a Francesco di Lorenzo Cerroni, insieme a metà di altri due casali Valle Gaia e Pescarelle ivi siti, per il canone complessivo di 100 fiorini d’oro (A.S.C. 785, 2, cc. 48r-50r). Casale Pescarelle T2 446 v. Casale Pescadore. 86
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Appendice II
Casale Pollaiano Sito fuori P. S. Lorenzo, confina con il casale di Andrea Novelli, con il casale di S. Lorenzo fuori le Mura, con la strada pubblica. Di un terzo della quarta parte del casale, unito con le altre parti dei consortes risulta proprietario nel 1398, non so a quale titolo, Paolo di Pietro Novelli (A.S. Arch. Salv. ad Sancta Sanct. cass. 457, arm. IV, m. IX, n. 37A).
Casale Pompeio T3 476 Alla fine del ’300 ne è proprietario il monastero di S. Eusebio, come risulta da uno strumento del 1395 nel quale Lello della Valle rinunzia ad una locazione del casale fattagli dal detto monastero in non so quale anno (A.S.C. 785, 10, c. 67r e v).
Casale Rossi o Statuario T4 110-111 Il 21 agosto 1388 Giacomello, figlio del fu Giordanello di Cola Ilperini, vende a Andrea, vedova di Lorenzo di Pietro di Cerrone dei Cerroni, il casale insieme a un quarto del casale Grotta dei Greci e ad una pedica di 12 rubri già di S. Martino per 4.000 fiorini d’oro, che il venditore dichiara di aver ricevuto (A.S.C. 785, 4, cc. 84v-86v). Casale S. Anastaxia Sito fuori P. S. Lorenzo, accanto al casale Orto dei Greci, al casale Monumento degli eredi di 87
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Giovanni Malelingua, al casale Torricella degli eredi del fu maestro Giacomo medico; nel 1382 metà del casale viene venduta, insieme a metà di una pedica di terra di 18 rubri, sita accanto al casale, e a un quarto del casale Ionico, sito fuori P. Appia, da Pietro di Renzucolo a Pietro di Giovanni La Corte per il prezzo complessivo di 1.421 fiorini d’oro (A.S.C. 785, 1, cc. 128r-130v). Nel 1388 i figli ed eredi di Pietro La Corte, Lorenzo e Salvato, vendono a Lello, figlio di Paolo della Valle, un quarto del casale, unito con l’altro quarto dei venditori e con l’altra metà di Pietro di Renzucolo per 300 fiorini d’oro (ibid., 785, 4, cc. 103v-106r).
Casale S. Elena Sito fuori P. Maggiore. Nel 1348 le monache del monastero di S. Prassede lo locano a Pietro Cerroni per 5 anni, al canone annuo di 10 rubri di grano «ad culmum videlicet mensuram quae actenus consueta fuit, antequam Nicolaus Laurentii ascenderet Capitolium» (A.S. 1236, cc. 123v-124r).
Casale Sanctus Mirano Casale diruto di cui ignoro ove fosse sito. Nel 1382 Nucio di Giovanni di Sabba del rione Ripa, procuratore di dominus Filippo dal titolo di S. Susanna e di Poncello, dal titolo di S. Clemente, cardinali preti commissari di papa Urbano VI, investe Lello di Petruccio del rione Campitelli e Niccolò Valentini del rione Monti del casale, 88
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Appendice II
venduto loro dai detti commissarii per un certo prezzo (A.S.C. 785, 1, cc. 85v-86r).
Casale o castrum di S. Onesto S1 318-319 Nel 1385 Giovanna Orsini, vedova del magnificus vir Giovanni di Cesso di Capoccio dei Capocci vende, anche in nome dei figli Ludovico e Lello, a Cincio di Giovanni Catini, mercante del rione Trastevere, un quarto del casale, unito con le altre tre parti del detto Giovanni, insieme a metà del casale Torre di Pietro Saxo al prezzo complessivo di 800 fiorini d’oro; vendita fatta per soddisfare due lasciti fatti da Giovanni, uno di 300 fiorini d’oro alla basilica di S. Maria Maggiore e un altro di 500 fiorini d’oro alla basilica di S. Giovanni (A.S.C. 785, 2, cc. 33r-38v). Nel 1392 il magnificus vir Lodovico, figlio di Giovanni Capocci vende a Enrico di Nando Pleneri del rione Monti un quarto del casale S. Onesto, unito pro diviso con l’altra metà del detto Enrico e pro indiviso con l’altra quarta parte di Pietro e Giacomello, figli del fu Teolo di Vetralla, eredi della defunta Mabilia moglie del fu Paolo Arcarelli e di Angelo di Santo notaio, figlio di Giuliano dei Ruggeri insieme a metà del casale Torre di Pietro Saxo per il prezzo di 900 fiorini d’oro. Il monastero di S. Ciriaco detiene tuttavia ancora la proprietà che gli dà diritto al versamento di 2 rubri e mezzo di grano annui per ogni quarto di casale (ibid., 785, 8, cc. 152r-157r). 89
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Casale Sette Vasi A1 37; T4 108-109 La vendita di metà del casale fatta nel 1395 avvenne per 2.500 fiorini d’oro (A.S. Arch. Salv. ad Sancta Sanct., cass. 424, arm. II, m. III, n. 63).
Casale Solfaratella T3 439-440 Confina con il casale Solferata, con il casale Torre Maggiore, con il casale Torre Tignosa. Nel 1398 Cecco di Nucio di Clarello dei Clarelli ne pone in pegno dotale un quinto, unito con le altre quattro parti dei suoi fratelli Nicola, Tomaso, Paolo e Giacomello, insieme a un quinto della metà del casale di Torre Tignosa al nobilis vir Giovanni di Buccio di Iaquintello, detto Giovanni Carbone, per la figlia Agnese, sua futura sposa (A.S.C. 785, 5, cc. 42v-43r).
Casale Statuario Sito sulla Via Appia, da non confondere con l’omonimo, detto anche Casale dei Rossi. Nel 1392 mi risulta di proprietà del Monastero di S. Maria Nova, che lo loca, a quarto rendere, per 5 anni a Giovanni di Giacomello Turrimacca (A.S.C. 785, 8, cc. 49v-50r).
Casale Torre Media o Torre Mesa T3 478 Nel 1392 risulta ancora di proprietà dell’ospedale di S. Antonio che lo concede in locazione per tre anni a Rogerio dei Tosetti con particolari 90
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Appendice II
patti agrari (A.S.C. 785, 8, cc. 92v-93r). Nel 1395 l’ospedale restituisce a un locatario alcune terre prese in pegno per il mancato pagamento del canone, ora soddisfatto, per la locazione del casale fatta vari anni fà dall’ospedale a Cola di Gianni del fu Sabba Gocio al fu Giovanni Cerroni e a Oddone Cerroni, in egual parti per tre anni, al canone annuo di 100 fiorini d’oro (ibid., 785, 10, cc. 109r-110v). Confinava con un casale chiamato con lo stesso nome, di proprietà di Pietro di Giovanni di Paloccio di dominus Angelo dei Foschi di Berta, che nel 1392 ne pone un terzo, unito con gli altri due terzi di Pietro, in pegno dotale a Oddone di Paolo di Cerrone dei Cerroni, tutore di Pietro e di Lorenzo, fratelli germani e eredi per due parti del fu Giovanni Cerroni e a Francesco, figlio del fu Lorenzo di Pietro di Cerrone dei Cerroni, erede per l’altra terza parte dello zio Giovanni (A.S.C. 785, 8, c. 144r e v).
Casale Lo Trullo Sito fuori P. Salaria, ha per confini da un lato terre di Ciaffo dei Tedallini, dall’altro terre di Buccio della Valle, e da un terzo lato la chiesa di S. Stefano dello Trullo. Nel 1351 Niccolò, figlio del fu Francesco di Giovanni Leoni vende a Perna moglie di Giacomello Serromani metà del casale per 200 fiorini d’oro (A.S.C. 649, 2, cc. 9v-12r). Casale Torre Pacturis T4 134 Il Tommassetti ne fa solo cenno trattando di 91
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una pedica detta di S. Lorenzo. Sito sulla Via Tiburtina e confinante – a quanto risulta da uno strumento del 1395 – con il casale di Paolo Nari, già del monastero di S. Paolo, con Castel Arcione e con le terre di S. Solforosa. Nel 1387, in data 8 novembre, il casale viene venduto – sembrerebbe tutto intero, dato che non vi sono ulteriori precisazioni – da Giacomello, figlio del fu Giordanello di Cola di Ilperino degli Ilperini, a Paolo di Stefano di Meo dei Graziani per 2.200 fiorini d’oro (A.S.C. 785, 3, cc. 188r-189r). Nel 1395 la metà del casale, unita con l’altra metà di Paolo di Meo viene venduta al maggiore offerente dalle monache di S. Eufemia, aggiudicandola per 2.200 fiorini d’oro a Paolo di Meo (ibid., 785, 10, cc. 36v-44v).
Casale Torre di Pietro di Angelo Sito fuori P. Maggiore, fu venduto nel 1385 da Cecco di Giannetta dei Papazzurri, erede di Giovanni di Tommaso Papazzurri, a Francesca, vedova di Giovanni Luzio per rendere la dote a Caterina, vedova di Giovanni e figlia del fu Paloccio di Angelo dei Foschi di Berta, al prezzo di 850 fiorini d’oro (A.S.C. 785, 2, cc. 41r-44r).
Casale di Torre di Pietro Sassone Casale sito fuori Ponte Nomentano, confinante con il casale S. Onesto e il casale di Castel Arcione. Nel 1385 gli eredi del barone Giovanni Capocci ne vendettero la metà, unita con l’altra metà di Cesso di Capoccio Capocci, insieme a un 92
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Appendice II
quarto del casale S. Onesto, al mercante Cincio Catini per complessivi 800 fiorini d’oro (A.S.C. 785, 2, cc. 33r-38v); nel 1392, un erede Lodovico di Giovanni Capocci vende a Enrico Pleneri metà del casale di Enrico, insieme a un quarto del casale S. Onesto per complessivi 900 fiorini d’oro (ibid., cc. 152r-156r).
Casale di Torre Rainone T4 276 (Ma in T4 solo un accenno del casale come confine di Castelluzza di Marino). Nel 1378 ne risulta proprietaria Caterina, moglie di Lello Candolfi (A.S.C. 1236, cc. 60v-70r). Ma in un altro strumento del 1371 (A.S.C. 649, 11, cc. 72v73v) il proprietario risulta esserne Niccolò Valentini, che nel 1382 è proprietario di tre quarti del casale, mentre l’altro quarto appartiene a suo figlio Stefano (A.S. 476, c. 206r e v). Nel 1392 il figlio di Niccolò, Stefano, vende l’erba del casale per il prezzo di 100 ducati d’oro, mille formaggi e 10 castrati (A.S.C. 785, 8, cc. 61v-62r).
Casale Torre Santi Quattro T4 134-136 T4 135 r. 10 non 1.500 ma 2.000 fiorini d’oro, di cui 200 pagati, 300 da pagare in luglio e 1.500 in seguito. Il notaio è Lello non Paolo Serromani.
Casale Torre Tignosa Casale sito fuori P. Appia, confinante con il casale Solfaratella, con il casale Margani, con il 93
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casale Torre Maggiore. Deve forse il suo nome alla famiglia Tignosi. Nel 1389 Cecco di Nucio di Clarello dei Clarelli pone in pegno dotale, insieme a un quinto del casale Solfaratella, metà di un quinto del casale, unita con l’altra metà di Margherita, vedova del fu Giovanni di Paolo di Nicolella e con le altre quattro parti dei fratelli di lui Cecco, Nicola, Tommaso, Paolo e Giacomello (A.S.C. 785, 5, cc. 42v-45r).
Casale Tor Vergata T3 407 La vendita di un quarto del casale avviene al prezzo di 2.250 fiorini d’oro; le restanti parti risultano di proprietà di Tebaldo Annibaldi e del nipote Annibalduccio (A.S.C. 649, 5, cc. 4v-6v). Nel 1387 la terza parte del casale risulta unita con le altre parti di Giovanni Cerroni e degli eredi del fu Raoul dei Sordi (A.S.C. 785, 3, cc. 212r-216v). Nel 1390, come risulta da uno strumento del 1395, Francesco del fu Lorenzo di Cerrone dei Cerroni pone in pegno dotale a Francesca, moglie del fu Lorenzo di Candolfo, per la figlia Candolfina, sua futura sposa, una terza parte di un terzo del casale (A.S.C. 785, 10, c. 126r). Nel 1391 in un arbitrato tra Canzia degli Annibaldi e Caterina, figlia ed erede del fu Raoul di Luca di Sordo dei Sordi, al quale era stato posto in pegno, si stabilisce che il terzo del casale vada a Canzia e ai suoi figli, che devono però versare 1.000 fiorini d’oro, somma di denaro stabilita in un arbitrato precedente, per i diritti di Caterina Sordi sul ca94
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Appendice II
sale (A.S.C. 785, 7, cc. 61r-71r). Nel 1394 Giacomello di Nucio Boccamozza, detto Papero, del rione Pigna, vende a Canzia degli Annibaldi, vedova del fu Annibaldo di Francesco di Paolo degli Stefaneschi due terzi della metà di una delle tre parti del casale, uniti con un altro terzo di Canzia stessa e con la metà di questa parte di Stefano Palosci, cardinale del titolo di S. Marcello, terza parte unita pro diviso con le altre due terze parti di Lello della Valle e Giovanni Cerroni (A.S.C. 785, 9, cc. 4r-5v).
Casale Tre Colonne T3 249 Nel 1398 mi risulta esserne proprietario, non so a quale titolo, il notaio Sabba dei Graptuli, che ne vende l’erba (A.S.C. 763, 9, c. 35r). Casale Valle Caia T2 444 v. Casale Pescadore.
Casale Ventregubio Sito fuori Porta Portuense in località Marcielli, confinante da due lati con una strada pubblica, da un altro con Santo Calisto e dall’altro con Graziano. Nel 1372 Giovanni, Cola, Cosimato e Domenico figli del fu Cecco di Giovanni Castellani del rione Trastevere risultano proprietari di metà del casale, unito con l’altra metà dello zio Domenico (A.S.C. 649, 10, cc. 45r-47v). 95
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Casale delle Vingie Sito fuori P. Appia, in contrada Campomagiure, avente per confini da un lato il casale Rotondo, da un altro un casale del monastero di S. Sisto, da un altro un casale di S. Maria Nova, da un altro il casale di Guglielmo di Pietro di Andrea dei Rossi e di Giovanni di Lello di Andrea dei Rossi. Il casale è unito pro indiviso con il casale di Giovanni e di Guglielmo. Già di Nicola di Andrea dei Rossi, ora del monastero di S. Eufemia, che, nel 1368 lo vende a Pietro, figlio del fu Lorenzo di Buccio Saragona mercator per lui e per i fratelli Giovanni e Cola per 1.100 fiorini d’oro (A.S.C. 649, cc. 110r-115v). L’anno dopo Pietro lo rivende a Guglielmo dei Rossi mercator per 1.000 fiorini d’oro (ibid., 649, 10, cc. 26v-27r).
Castel Fusano S2 612-613 Nel 1391 Lello, figlio di Giacomello di Nucio di Alessio dei Fabi risulta proprietario di un quarto del castrum, che insieme a metà del casale Partimedalgia pone in pegno dotale ad Oddone Cerroni, tutore di Caterina, per le sue nozze con Caterina figlia del fu Lorenzo Cerroni (A.S.C. 785, 7, cc. 22r-26r).
Castel Paterno T3 359-360 Nel 1378 il monastero di S. Lorenzo lo loca per 4 anni a Petruccio di Buccio Sernelli, al canone annuo di 50 rubri di grano o di 20 fiorini d’oro e dieci rubri di orzo (A.S. 1236, cc. 63v-64r). 96
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Appendice II
Castrum Ionici Sito fuori P. Appia, confina da un lato con il casale di Pietro di Matteo, da un altro con il casale di S. Maria Nova, da un altro con il casale Torre Rossa; nel 1385 Lello Madaleno ne vende metà, unita con l’altra metà di Pietro di Matteo, a Cecco di Andreoccio di maestro Romano detto Cecco Deo per 1.600 fiorini d’oro (A.S.C. 785, 2, cc. 223v-225r).
Cornazzano T3 48; S2 550-551 Nel 1372 Giovanni di Aliseo notaio del rione Arenula, in nome di Niccolò Orsini, stende quietanza a Giovanni di Matteo Ilperini e dichiara di aver ricevuto «pro paca de festo nativitatis» 20 fiorini d’oro per la locazione di un terzo di Cornazzano (A.S. 1703, cc. 4v-5r).
Fusignano S1 119 Nel 1387 Niccolò Conti loca a Niccolò di Matteo di Romanuccio di Poli, notaio, un quarto del castrum per sei anni al canone complessivo di 100 fiorini d’oro (A.S.C. 785, 3, cc. 47v-48v). Due giorni dopo Niccolò lo loca a Lello della Valle per lo stesso periodo e per lo stesso canone (ibid., cc. 49r-50 r).
Pedica Crungialecta T3 480-482 Nel 1392 nei patti di fidanzamento stretti tra Lorenzo di Lello di Leno con Cecca, figlia di 97
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Lello della Valle, Lorenzo pone in pegno dotale insieme a metà del casale Ammazzalupo e a metà delle terre dette Li Crapini site fuori P. S. Lorenzo, metà della pedica, unita con l’altra metà dello zio Domenico (A.S.C. 785, 8, cc. 105v108r).
Pedica in località Lunghezza Pedica di 34 rubri di terra, sita in località Lunghezza, confinante con il casale di Torre Carbone, con terre di Enrico Pleneri dette Pedica delli Paparoni, con il casale Le Camminate, fu venduta nel 1385, insieme al casale di Lunghezza dal barone Niccolò, figlio di Stefano di Niccolò Conti a Giovanni di Pietro Cerroni per complessivi 2.500 fiorini d’oro (A.S.C. 785, 2, cc. 52r-53v).
Pedica Monte di S. Eusebio T4 92-93 Il 3 aprile 1394 Andrea Angeloni vende a Andrea della Valle la pedica insieme al casale Centocelle per complessivi 3.900 fiorini d’oro (A.S.C. 785, 9, cc. 49r-53v).
Pedica Valle Maggiore Sita fuori P. Maggiore in località detta Lo Latio, consta di 10 rubri di terra. Confina con i possedimenti del monastero di S. Martino ai Monti, con il casale di S. Maria Maggiore, con i possedimenti della chiesa di SS. Sergio e Bacco, con le proprietà di Bufalo dei Cancellieri, già di Paluccio di Angelo dei Foschi di Berta; nel 1387 98
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Appendice II
fu venduto per 100 fiorini d’oro a Oddone di Paolo Cerroni dai monaci di S. Prassede, che avevano bisogno di denaro per soddisfare vari creditori, soprattutto i loro fornitori, macellai, speziali, vinai ecc. (A.S.C. 785, 3, cc. 73r-76v). Rocca Priora T4 529-532; S1 186-187 T4 531, rr. 38-42. Tra i goditori della donazione di un terzo del castrum è anche Antonio Belloni; nello strumento si aggiunge che tale terzo valeva più di 500 fiorini d’oro ed era stato venduto a Ciaffo da Niccolò Savelli.
Terre in località detta Prato Luongo Site fuori P. S. Lorenzo. Cecco Deo e frate Pietro Iucelli, vicario del monastero di S. Maria Nuova, compromettono in Paolo Stati del rione S. Eustachio e in Giovanni dei Cerroni, come arbitri in una vertenza sorta tra le parti per 20 rubri di grano e 10 di orzo, chiesti dal monastero al detto Cecco per la locazione di dette terre che si estendono per 24 rubri fatta dal priore a Cecco per 10 anni e per l’interesse ricavato dal detto Cecco che le subaffittò a Cappono di Monte Gentile (A.S.C. Sez. I, 785, 2, cc. 45v-46r). Tiberia S1 133 Nel 1389 Giovanni di Buccio di Varo, notaio del rione Colonna, loca per tre anni a Giovanni Cerroni metà della quarta parte del castrum già 99
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di Matteo di Giacomo di Giordano Colonna, unita pro indiviso con l’altra metà della quarta parte del monastero di S. Silvestro in Capite e pro diviso con le altre tre parti di Giovanni dei Cerroni e di Gocio dei Frangipane, per il canone annuo di 4 fiorini d’oro (A.S.C. 785, 5, c. 113r e v). Nello stesso anno Francesco, figlio del defunto Lorenzo di Pietro Cerroni risulta proprietario della metà di un quarto del castrum (ibid., c. 146r). Torre Malacena T4 129-130 Pag. 129 r. 13 non 1383 ma 1385.
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Indice
M. Miglio, Incontro con Clara Gennaro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. C. Gennaro, Mercanti e bovattieri nella Roma della seconda metà del Trecento (Da una ricerca su registri notarili) . . . . . . . . . . . . . . » Appendice I . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » Appendice II . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
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