ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO NUOVI STUDI STORICI - 116
ROMA 1347-1527 LINEE DI UN’EVOLUZIONE Atti del Convegno Internazionale di Studi (Roma, 13-15 novembre 2017) a cura di MASSIMO MIGLIO – ISA LORI SANFILIPPO
ROMA NELLA SEDE DELL’ISTITUTO PALAZZO BORROMINI PIAZZA DELL’OROLOGIO 2020
Nuovi Studi Storici collana diretta da Massimo Miglio
Il Convegno è stato organizzato in collaborazione con
roma nel rinascimento
Coordinatore scientifico: Isa Lori Sanfilippo Redattore capo: Salvatore Sansone Redazione: Ilaria Baldini
ISSN 1593-5779 ISBN 978-88-98079-97-1 ________________________________________________________________________________ Stabilimento Tipografico «Pliniana» - V.le Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (Perugia) – 2020
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GIUSEPPE GALASSO ROMA E L’EUROPA. DALL’“AVARA BABILONIA” ALLA “NUOVA BABILONIA”*
I cento ottanta anni dal 1347 al 1527 vanno dai giorni di Cola di Rienzo a quelli del sacco di Roma, e non solo fra queste due date estreme, ma anche fra molte altre intermedie, dal ritorno dei papi da Avignone a Roma, al pontificato del papa Borgia. Sono fra gli anni, se non più noti, certo più spesso ricordati della lunga storia di Roma. Anche per questa ragione, non intendo offrire una ricostruzione, sia pure in miniatura, delle vicende di quel periodo, ma, piuttosto, puntualizzarne alcuni temi caratterizzanti e essenziali di più generale significato, a mio avviso, nella storia europea. Sono fin troppo famosi i sonetti del Petrarca sull’avara Babilonia avignonese. La metafora babilonese in rapporto a Roma è, tuttavia, antica nella tradizione cristiana e ha avuto nel corso del tempo una profonda evoluzione. Antico è pure il passaggio dal riferimento a Roma, nel quadro della teoria dei quattro Imperi come massimo e ultimo di essi, al riferimento ad essa come persecutrice dei cristiani e, quindi, come massimo e ultimo successore di Babilonia persecutrice dei cristiani e regno dell’idolatria. Ricordando anche che, nel linguaggio biblico, idolatria e prostituzione sono termini spesso equivalenti. È difficile, invece, fissare un momento preciso per il passaggio dal riferimento a Roma come quarto e ultimo impero al riferimento ad essa in quanto emula, e anche emula vittoriosa, dei vizi, della miseria morale e della licenziosità ritenute caratteristiche della Babilonia antica, della città di Semiramide, la regina che puttaneggia sulle acque1. Meno facile è individuare il momento del passaggio dal riferimento a
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Si pubblica il testo come risulta dalla registrazione audio effettuata in apertura del Convegno, rivisto dalla sola redazione per la scomparsa dello studioso. 1 Cfr. Dante, Inf. V 55-57 «A vizio di lussuria fu sì rotta/che libido fè licito in sua legge».
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Roma-Babilonia al riferimento a Babilonia-Chiesa: il secondo appare, ad esempio, nel già citato luogo di Dante, in cui anche quello della Chiesa è un regno sulle acque, con una conseguente duplice identificazione dantesca di Babilonia-Semiramide e di Semiramide-Chiesa. E, una volta formata la catena comparativa e polemica Babilonia-Semiramide-Roma-Chiesa, nessuna difficoltà offre il riferimento ad Avignone come Babilonia, quando i papi vi si trasferirono. Questo riferimento non era, dunque, una novità petrarchesca, benché sia di Petrarca la sua formulazione forse più famosa. Essa riguardava, peraltro, la città provenzale solo perché allora vi si trovava la residenza dei papi e in ciò era quasi soltanto un altro nome di Roma, che dei papi era l’indiscutibile sede apostolica, definita, tra l’altro, dall’uso curiale romano. La vicenda della metafora babilonese conferma quanto già si sa pressappoco da sempre, cioè che distinguere tra la storia della città di Roma con il suo indubbio e specifico rilievo, e la storia del Papato e della Chiesa non è tra le imprese più semplici e facili di questo ambito storiografico. La stessa metafora babilonese riporta, inoltre, alla necessità di non dimenticare, come di solito accade, che accanto ad essa non cessa mai di sussistere l’altra metafora di Roma-Gerusalemme. Bisogna anzi aggiungere che almeno primo nunc tuo oculi questa seconda metafora, cioè RomaGerusalemme, sembra nel complesso prevalere sulla prima nell’immaginario, nella sensibilità e nella coscienza europea. Le forti implicazioni della metafora babilonese in tutti i campi della vita religiosa e morale, politica e civile in quel momento topico, in quel particolare momento della verità, che fu la scissione del cattolicesimo nel XVI secolo, sembra non avere appannato un po’, neanche sul piano storiografico, la memoria dell’idea di Roma-Gerusalemme. Ma la sua forza e capacità di durata non lo consentono: la storia dei giubilei basta da sola a darne una riprova. Fu per questa ragione che l’idea dell’anno santo e del pellegrinaggio giubilare a Roma poté essere una grande idea e avere, fin dal primo momento, quel successo davvero trionfale che, con un tono tra l’entusiasmo e la sorpresa, fu espresso, come si sa, anche da Dante. L’idea si è potuta, anzi, perpetuare nel tempo addirittura riducendo gli intervalli tra i giubilei e aumentandone, quindi, la frequenza. L’idea stessa del giubileo non nasceva a sua volta dal nulla. Le tombe degli Apostoli – innanzitutto di san Pietro – innumerevoli reliquie e corpi santi, chiese ed edifici religiosi di grande nome e prestigio, la residenza del pontefice – l’ “Apostolo”, come testi francesi del XIII secolo lo definivano – erano elementi convergenti nel fare di Roma una città santa che la genealogia religiosa del cristianesimo poteva spontaneamente indurre, come avvenne ben presto, ad associare a Gerusalemme, quasi come simbolo l’una del Vecchio e l’altra del Nuovo Testamento. È
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noto che queste identificazioni/giustapposizioni/sovrapposizioni risalgono molto indietro nel tempo, ma, soprattutto, si incrementano dal VI-VII secolo, così come è chiaro, che l’immagine di Roma quale città santa sia così forte e vitale nella storia cristiana da servire poi da arma iconografica e polemica nella dialettica implacabile tra la Chiesa della Controriforma e la realtà consolidata della Riforma protestante. La rilevanza di queste proiezioni storico-comparative nell’immaginazione di secoli della storia europea dovrebbe senz’altro portare a riconoscerle, come non sempre accade, quali componenti del quadro di idee-forza agenti nell’Europa cristiana, sia pure con intensità e ampiezza di effetti varianti da tempo a tempo. È comunque importante, detto ciò, avere sempre chiara la ragione prima della loro rilevanza. Una ragione che dovrebbe essere pacifica, ma che non sempre appare messa nel rilievo dovuto: mi riferisco alla funzione di ministra, dispensatrice, amministratrice dei sacramenti, generalmente riconosciuta ab antiquo alla Chiesa e che la rese straordinariamente potente non solo nella vita religiosa, ma in tutta la vita civile europea, sia pure in progressivo declino fin quasi alle soglie della Rivoluzione francese. Era per questa ragione che le scomuniche, gli interdetti e le altre misure e censure ecclesiastiche e, innanzitutto su altro fronte, le indulgenze concesse o negate avevano nella vita sociale dei Paesi cattolici echi e riflessi larghissimi, immediati e profondi: escludendo dalla comunità cristiana, essi mettevano radicalmente in questione la posizione privata e pubblica degli individui nella società e la legittimità e il potere delle autorità laiche e civili, dalle massime alle minime a cominciare dai sovrani. Peraltro, l’autorità, o potere sacramentale, della Chiesa rispondeva a una sete sacramentale, propria dell’Europa cristiana medievale, di differenti genesi, ma tutte convergenti in una fede vissuta come impegno totalizzante della condizione e dell’esperienza umana, e anche come dramma intimo del singolo cristiano nel suo problema principe, quello cioè angoscioso e perenne della salvezza. Non è quindi possibile immaginare quale valore psicologico e relazionale, ossia sociale, assumesse per ogni individuo la possibilità di procurarsi o di godere di mezzi efficaci ai fini della salvezza e di riceverne una “rassicurante assicurazione”, grazie alle facoltà sacramentali della Chiesa. Quella che si potrebbe dire, semmai questi termini si potessero usare in questo caso, la normalità sacramentale si giocava insomma così l’equilibrio individuale e complessivo della società e della vita cristiana in quanto ne dipendevano l’identità, oltreché la legittimità e legalità pubblica e comunitaria, sia dei singoli sia delle stesse comunità e dei loro poteri. Sarebbe molto difficile, se non si vuol dire impossibile, parlare della storia dei popoli, delle comunità e degli Stati cristiani per i molti secoli in cui la Chiesa e i problemi
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della Cristianità furono al centro della vita europea, se non si tenessero fortemente presenti le complesse e determinati implicazioni delle questioni, cui ho accennato, sulla centralità dottrinale e sociale, sempre confermata da quella normalità sacramentale nei termini a cui ho pure accennato. A metà del XIV secolo, questa normalità appare ancora saldamente in vigore. Due secoli dopo non era più così. In una gran parte d’Europa l’uragano della Riforma protestante non aveva soltanto sconvolto le appartenenze e la geografia religiosa dell’Europa, ma aveva negato in nuce, all’origine, il valore dei sacramenti e, innanzitutto e soprattutto, la potestà della Chiesa a tale riguardo. Non per nulla è stato rilevato che, nelle tesi di Lutero del 1517, la prima è quella che riguarda la penitenza, ossia un ganglio di particolare rilievo nel sistema sacramentale, in quanto era grazie ad essa che si riannodava, quando era necessario, quel sistema sacramentale, quando in esso si produceva, per una qualche ragione, una lacerazione. Per giunta con il sacramento della penitenza erano connesse la teoria e la pratica delle indulgenze che, come si sa, per le forme assunte nella prassi ecclesiastica romana e periferica, aveva fornito a Lutero il casus belli della sua azione rivoluzionaria. Il tempo tra Cola di Rienzo e Lutero può essere, in effetti, considerato quello di un continuo, ancorché poco o nulla palese, logoramento e declino della credibilità della Chiesa innanzitutto nella sua funzione sacramentale. Per Ruggero Bacone, nella Chiesa divisa e acremente conflittuale dei suoi tempi, il genere umano «totius fere igitur est in statu dampnationis». La polemica di Occam contro il principio teocratico, le sue dolorose denunce della Ecclesia avignonica e il suo cenno alla Chiesa come congregatio omnium predestinatorum hanno un rilievo che non occorre sottolineare. L’ecclesiologia di Wycliffe e di Hus è indubbiamente già tesa a rivedere non superficialmente la dottrina romana a questo proposito. Nel ceco Petre Cercinski si ritrova pure la contestazione del riconoscimento della dottrina dei Tre Stati – sacerdoti, guerrieri o nobili e lavoratori – nella concezione romana della Chiesa, laddove egli dice che nella vera Chiesa, che è una comunità di individui del tutto uguali, simili distinzioni non sono ammesse né ammissibili. Le risposte della Chiesa coi suoi teologi e pensatori, coi suoi santi e le sue gerarchie non mancarono e furono per molti aspetti risposte vigorose. Il vigore servì a occultare e a respingere nel retroscena qualcosa di molto profondo che si agitava ormai indomabile nella vita del mondo cristianocattolico. Da questo punto di vista, la metafora babilonese ha un interesse particolare. Ho accennato alle sue tappe fino alla definizione di Roma come luogo di corruzione e di profanazione del verbo cristiano. Quest’ultimo significato si affaccia con una certa evidenza, senza pregiudi-
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zi di precedenti, solo intorno al Mille e si accentua coi movimenti religiosi dei secoli XI-XV, indicando ogni volta la Chiesa del proprio tempo. Con Lutero invece – ed ecco la nuova Babilonia – la qualifica babilonese viene riferita all’intero periodo in cui il cristianesimo ha abbandonato la sua purezza evangelica ed è diventato un mondo di potenza, di fasto, di venalità, di corruzione morale e umana. Evoluzione nella quale la Chiesa, quale storicamente si è costituita intorno al suo centro romano e curiale, è stata insieme una matrice e una risultanza. La cattività avignonese della Chiesa, ossia della comunità evangelicamente intesa dei cristiani, non è quella dei pochi decenni del secolo XIV, per i quali la si usa: la cattività babilonese della Chiesa ha inizio e dura per Lutero dai tempi dell’abbandono del carattere evangelico del cristianesimo primitivo, che ha i suoi inizi nell’età post-costantiniana. Avignone non è più in lui una città, è una condizione storica deteriore millenaria, dai cui vincoli bisogna liberare il cristianesimo e la Chiesa. La Roma, la nuova Gerusalemme del cristianesimo evangelico da restaurare non è sulle rive del Tevere, o in qualsiasi altra localizzazione, bensì in ogni singolo cristiano nella sua professione assoluta e incondizionata della fede, nell’esercizio disinteressato di quella, come Lutero diceva, «liberissima servitù del cristiano», di quel sacerdozio di sé stessi, che sono per Lutero la reale, evangelica consistenza del vero cristianesimo a cui egli pensava. Oltre che di una tale, profonda trasformazione della metafora babilonese, il tempo tra il tribuno romano e l’imperatore austro-fiammingo Carlo V è anche il tempo di altre importanti trasformazioni della realtà e delle idee dell’immagine di Roma, a cominciare da quella che riguarda l’azione della Chiesa come potenza politica. Su questo terreno non appare dubbio il declino della presente azione della Chiesa come potere universale, termine della vecchia terminologia della storiografia medievistica. Il revisionismo storiografico, dilagante nel secolo XX e in specie dalla metà secolo XX, non toglie del tutto il suo senso a quella vecchia terminologia. Da Gregorio VII a Innocenzo III e a Bonifacio VIII, la definizione di potere universale non sembra affatto impertinente o impropria per indicare sia lo spirito che anima l’azione politica dei pontefici, sia la teorizzazione in base alla quale si cerca di giustificarla. Che poi a questa proclamazione di universalità corrispondesse o non corrispondesse una più o meno effettiva realtà politica è un altro discorso che non tocca la realtà e la consistenza storica di quella pretesa e della riflessione dell’azione politica a cui si ispirarono e che ne derivarono. Nessuna successiva pretesa dello stesso genere dei papi posteriori avrà più il calore, la convinzione, la verosimiglianza, la risonanza che avevano avuto le rivendicazioni dei pontefici fino al papa Caetani. E ciò che è più da notare è che a determinare il declino del cosid-