ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO
NUOVI STUDI STORICI – 62
GENNARO SASSO
DANTE L’IMPERATORE E ARISTOTELE
ROMA NELLA SEDE DELL’ISTITUTO PALAZZO BORROMINI
2002
Nuovi Studi Storici collana diretta da Girolamo Arnaldi e Massimo Miglio
Questo volume è stato stampato con il parziale contributo ex 40% (cattedra Ia di Storia medievale) del Dipartimento di Paleografia e Medievistica dell’Università di Bologna
ISSN 0391 - 8475 Stabilimento Tipografico « Pliniana » - V.le F. Nardi, 12 - Selci-Lama (Perugia) - 2002
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A Ovidio Capitani amico da anni lontani
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PREFAZIONE Se dovessi spiegare perché le tesi esposte in questo libro siano state messe per iscritto a più di quarant’anni dalla loro prima, e, per lo più, soltanto mentale, formulazione, entrerei in discorsi riguardanti bensì Dante, ma solo in riferimento alla mia persona: a cosa, dunque, che non può, per gli eventuali lettori, costituire materia di alcun interesse. Preferisco perciò ricordare alcuni degli amici e colleghi (tutti non è possibile) con i quali ho ragionato nel corso di un così lungo cammino, Girolamo Arnaldi, Charles T. Davis, che oggi, purtroppo, non è più fra noi, Giorgio Inglese, Maria Simonelli, Achille Tartaro, e a cui sono grato per i suggerimenti, gli ammaestramenti, i preziosi consigli. Avverto che, come del resto in simile materia è ovvio, la letteratura secondaria è stata citata e discussa (nei limiti, naturalmente, della conoscenza che me ne sono via via procurata) solo in connessione con le questioni specifiche dibattute nel testo: non dunque per informare, ma per contribuire, attraverso la discussione, all’ulteriore chiarimento del discorso. E tanto basti. Se infatti dovessi giudicare circa la bontà o no della decisione che all’improvviso presi di rendere pubblico quel che pure poteva ben restare là dove si trovava, entrerei in quei tali discorsi da cui è invece opportuno che mi tenga lontano. G. S. Roma, maggio 2001
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AVVERTENZA BIBLIOGRAFICA
Salvo contrario avviso, le opere di Dante sono citate secondo queste edizioni: La Vita nuova secondo l’edizione di M. Barbi (Firenze 1932) riprodotta da D. de Robertis nella sua, commentata (in Opere minori, I 1, a cura di G. Contini e D. de Robertis, Milano/Napoli 1984). Le Rime secondo l’ed. di G. Contini (Torino 19462; e in Opere minori, I 1). Il De vulgari eloquentia secondo l’edizione di P. V. Mengaldo (Opere minori, II, Milano/Napoli 1979). Il Convivio, secondo l’edizione di F. Ageno (Milano 1995). Le Epistole secondo l’edizione di A. Frugoni, e, per quella a Cangrande, di G. Brugnoli (in Opere minori, II). La Monarchia secondo l’edizione di P. G. Ricci (Milano 1965). La Commedia secondo l’edizione di G. Petrocchi (Milano 1966/1967). Le abbreviazioni occorrenti nelle note sono ovvie, e non richiedono di essere esplicate. L’unica sigla di cui ho fatto uso (ED, seguìta dal numero del volume, in caratteri romani, e della pagina, in caratteri arabi) si riferisce all’Enciclopedia dantesca, in sei volumi, Roma 19842.
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Capitolo I STORIA ROMANA E IMPERO NEL « CONVIVIO » Nella Canzone, Le dolci rime d’amor ch’io solia, che, alcuni anni dopo averla composta, pose innanzi al quarto trattato del Convivio per commentarvela punto per punto, Dante scrisse che di poter « ad esse ritornare » non disperava, ma che per l’intanto era costretto a tener conto degli « atti disdegnosi e feri » che, nella « donna » sua « appariti », gli avevano chiusa « la via dell’usato parlare » 1. Lo scopo che, a quanto si legge a IV I 9, con questa Canzone si era prefisso, era stato di « riducer la gente in diritta via sopra la propia conoscenza della verace nobilitade ». Ed erano perciò un compito e uno scopo politici in senso etico quelli che con esplicite parole Dante ora perseguiva. Non compatibili in quanto tali con il parlar d’amore, erano perciò conformi agli « atti disdegnosi e feri » della filosofia, alla quale, per trattare in modo adeguato della « vera nobilitade », Dante per conseguenza si volgeva. Se è così, non sembra proprio che l’attribuzione alla sua « donna », e cioè alla filosofia, del « disdegno » e della « ferità », implichi che, come poi con altra intenzione dirà a IV I 8, quella avesse nei suoi riguardi « un poco » trasmutato i « suoi dolci sembianti », col mostrarglisi, appun-
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Le dolci rime, 5-8. Cfr. anche il sonetto, indirizzato a Cino da Pistoia, Io mi credea del tutto esser partito (Rime, ed. Contini, Torino 19462, pp. 125-26; e cfr. M. Barbi, Introduzione, a Il Convivio, ed. Busnelli-Vandelli, I, Firenze 1954, p. XXXV). Per la cronologia del sonetto, Contini, p. 125: « argomenti perentori per scendere sotto il 1306 non ce ne sono ». Andrà anche notata la differenza che in effetti sussiste fra il sonetto, dove Dante dice che l’abbandono delle rime d’amore gli era sembrato dovesse essere definitivo, e la Canzone nella quale è invece espressa la speranza di potere un giorno ritornare ad esse. Il che del resto si spiega anche con la sua netta anteriorità cronologica, se, come fu proposto da M. Barbi e V. Pernicone (Rime della maturità e dell’esilio, Firenze 1969, p. 412), la sua composizione risale al periodo compreso fra il 1293 e il 1295. Cfr., per una rassegna di opinioni, V. Pernicone, Le prime rime dottrinali di Dante, in Studi danteschi e altri saggi, Genova 1984, pp. 131-34 (ma cfr. anche il suo articolo, Rime, ED, IV, 956 b). Secondo G. Petrocchi, Vita di Dante, Bari 1983, p. 74, la Canzone era ancora « sul tavolo » del poeta, per esserne rielaborata, nel 1292: il che implicherebbe una data di composizione addirittura più alta.
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to, « disdegnosa e fera ». In realtà, se così s’interpretasse, il senso del discorso risulterebbe per intero stravolto 2. Non si comprenderebbe infatti, in quel punto della trattazione, di quale comportamento dantesco, di quale timidezza o viltà, la filosofia avrebbe avuto da dolersi: dal momento che di niente poteva esser considerato colpevole colui che tutto e per intero si era dato a lei. Fra il sembiante, da « dolce » fattosi meno dolce, che a un certo punto la filosofia gli aveva mostrato e i suoi « atti disdegnosi e feri » non si dà, nel testo, alcuna connessione che possa essere intesa nel senso della causalità: come se la minor dolcezza dipendesse dal « disdegno » e dalla « ferità ». E per comprenderlo basta in primo luogo considerare che, come il meno presuppone il più dolce, e un sembiante « trasmutato » necessariamente rinvia al suo precedente sé stesso, così, proprio questa « trasmutazione », in sé stessa, del sembiante, implica che, ora essendo « meno dolce », quello lo fosse stato, per l’innanzi, di più: in modo tale che il carattere « disdegnoso e fero » della filosofia poteva bene andar d’accordo con la « dolcezza ». Lo si comprende, in secondo luogo, se si considera quel che Dante in persona ebbe a spiegare in IV II 3-4: nel luogo in cui avvertì che « disdegno » e « ferità » non sono, della verità intrinseca alla filosofia, se non l’« apparenza », ossia, dovrà intendersi, il modo in cui essa si dà a vedere: senza dunque che fra l’« apparire » e l’« essere » sussista alcuna contraddizione, dal momento che, appunto, è con quel carattere che il suo volto appare a colui che sul serio lo contempli. Lo si comprende, in terzo luogo, se, andando a quel che si legge qui di seguito, e quindi al decimo capitolo del terzo trattato, al quale proprio Dante rimandò il lettore, si tien conto di quel che vi è spiegato: e cioè come possa « essere, che una medesima cosa sia dolce e paia amara, o vero sia chiara e paia oscura », o, come appunto è argomentato in III X 3, un « sembiante, onesto secondo lo vero », appaia « disdegnoso e fero » 3. 2 Ma così, se ho ben visto, s’intende per lo più. Nel commento del Busnelli questa specifica questione non è rilevata: ma cfr., invece, C. Vasoli nel suo (D. Alighieri, Opere minori, I 2, a cura di C. Vasoli e D. de Robertis, Milano-Napoli 1988, p. 529). Nello stesso senso, per esempio, già B. Nardi, Dante e la cultura medievale, Bari 19833, p. 204. 3 E cfr. anche Conv., III IX 4 ss. E nella Canzone Amor che nella mente mi ragiona, 73-86: « canzone, e’ par che tu parli contraro/ al dir d’una sorella che tu hai;/ ché questa donna che tanto umil fai/ ella la chiama fera e disdegnosa./ Tu sai che ’l ciel sempr’è lucente e chiaro,/ e quanto in sé non si turba già mai;/ ma li nostri occhi per cagioni assai/ chiaman la stella talor tenebrosa./ Così, quand’ella la chiama orgogliosa,/ non considera lei secondo il vero,/ ma pur secondo quel ch’a lei parea:/ ché l’anima temea,/ e teme ancora, sì che mi par fero/ quantunqu’io veggio là ‘v’ella mi senta ». La
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Gli « atti disdegnosi e feri » non sono dunque se non l’apparenza 4 di un’essenza: il modo in cui questa si mostra. E tanto più quanto più l’essenza della filosofia sia considerata in relazione al parlar d’amore e alle « dolci rime ». Se, per conseguenza, a IV I 8 il testo allude a una tal quale « trasmutazione » della « donna », ossia della filosofia, che, in quel momento della sua vita, a Dante offrì lo spettacolo di un meno dolce sembiante, la ragione non sta nel suo essersi resa, nei suoi riguardi, « disdegnosa e fera »; perché questo è il modo in cui, in determinate circostanze e senza che in ciò sia implicito alcun rimprovero, essa « appare ». Ma sta bensì in ciò che, essendosi imbattuto in una quaestio 5 di particolare asprezza e, per la fede cristiana, irta di insidie e di pericoli, qual è quella concernente l’essere, la materia dei primi elementi, « intesa » o no da Dio, Dante aveva preferito per il momento lasciarla da parte per dedicarsi a un diverso problema: di natura, si direbbe, piuttosto morale e politica che non, in senso stretto, teoretica, e pertinente perciò a un campo, filosofico bensì anch’esso, ma diverso da quello in cui, per affrontare l’altro, avrebbe dovuto inoltrarsi. Causa, piuttosto che conseguenza, di questa sua scelta fu dunque il sembiante « men dolce » che allora la filosofia gli mostrò; fu la minore dolcezza che sul suo aspetto si dipinse quando, trovatasi di fronte la quaestio della materia degli elementi, egli dovette constatare di non possedere lo strumento atto ad affrontarla, e a un’altra dedicò le sue cure. Tale essendo, con ogni probabilità (e si vorrebbe dire con certezza), il senso da attribuire all’espressione concernente i « sembianti » della filosofia 6, che sono e appaiono « dolci » quando, della questione che si « sorella », ossia l’altra Canzone a cui questa, chiamandola così, si riferisce, è (secondo De Robertis, nel suo commento, p. 289) Io sento sì d’Amor la gran possanza, 68-69: « ma stassi come donna a cui non cale/ de l’amoroza mente », e per questo è sdegnosa. Ma cfr. anche 81-82: « canzon mia bella, se tu mi somigli,/ tu non sarai sdegnosa ... ». 4 Un cenno in De Robertis, p. 495: ma al di fuori, mi sembra, di questo contesto problematico. 5 Rinvio alla dotta nota del Vasoli, comm. cit., pp. 529-31. Sulla questione, cfr. il mio articolo « Se la prima materia delli elementi era da Dio intesa », « Cultura », 39 (2001), pp. 365-93. 6 Il Busnelli, comm. cit., II, 11, interpreta il passo (« per qualche poco dal frequentare lo suo aspetto mi astenni ») come se, con queste parole, Dante avesse inteso dire che per qualche tempo aveva evitato di « frequentarne le lezioni »; e il Vasoli, p. 531, in modo sostanzialmente analogo, che si era sottratto allo studio della filosofia. Per mio conto, inclinerei verso un’interpretazione meno materiale o, se si preferisce, « istituzionale » (come se anche qui, come a II XII 7, Dante alludesse alle « scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti »); e intenderei invece che, avendogli la filosofia, per
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sia presa ad esaminare, si riesca a discernere il profilo e a vincere la difficoltà, e non lo sono, invece, e tali non appaiono, quando a questa si soccomba, è facile comprendere che la sua « trasmutazione » non implica alcun rimprovero che, col rendersi meno dolce, la filosofia avesse rivolto, o da rivolgere, a Dante; che, quand’anche in una quaestio non fosse riuscito a scendere fino alla radice e si fosse perciò dedicato ad un’altra, era pur sempre nel suo ambito che aveva operata la sua scelta, e della filosofia, certo, non poteva essere considerato un traditore o un transfuga. A rendere meno dolce il sembiante della filosofia era stata, in altri termini, la sua specifica incapacità; non il ritrarsi sdegnoso di questa che, fattasi persona, aveva respinto da sé il suo fedele. Nell’ambito della filosofia Dante era ben rimasto. Se non era stato in grado di affrontare una quaestio, e all’impresa aveva per allora dovuto rinunziare, non perciò da quell’ambito era stato, per indegnità, estromesso. E lo si comprende, se si considera il luogo in cui è detto che, come « le passioni della persona amata entrano nella persona amante, sì che l’amore dell’una si comunica nell’altra, e così l’odio e lo desiderio e ogni altra passione » 7, anche a lui, Dante, era accaduto di cominciare « ad amare e odiare secondo l’amore e l’odio suo ». E queste sono espressioni forti, che non possono essere equivocate. Mostrano con piena evidenza che dal dominio della filosofia Dante né era stato espulso né si era comunque allontanato. Lungi quindi dall’aver deviato dall’« amore » che alla filosofia era dovuto, e amandola anzi tanto da condividere con lei amori e odi, Dante le era, da quando questa gli aveva rivelato il suo volto, rimasto fedele. Si era mantenuto nel suo ambito. Ne aveva bene interpretato lo spirito, anche se, dalla quaestio concernente la « prima materia delli elementi » e del suo o no essere da Dio « intesa », era passato, non riuscendo a venirne a capo, a un’altra, concernente la politica. Quando dunque, in linee che facilmente, in effetti, inducono al rischio del fraintendimento, Dante scrisse che il fallimento registrato, o la difficoltà incontrata, nell’analisi di quell’ardua questione, lo avevano indotto a par-
certe sue parti (concernenti la questione della « materia prima »), mostrato « men dolci sembianti », ossia (dovrà intendersi) per non essere lui riuscito nell’impresa di procedere con adeguate « dimostrazioni » (per « sembianti » nel senso di « dimostrazioni », Nardi, Dante e la cultura medievale cit., p. 197, che rinvia a Conv. III XV 2: su cui cfr. Vasoli, pp. 469-70), per qualche tempo si astenne dall’insistere su quel punto, che troppo gli resisteva. 7 Conv. IV I 2.
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lare della « nobilitade » e ad astenersi « un poco dal frequentare lo aspetto » della sua donna, la sequenza dev’essere interpretata con cautela. Se infatti s’intendesse che, a causa di quello specifico fallimento, sia pure per poco Dante abbandonasse la filosofia, dovrebbe per conseguenza assumersi che non fosse filosofia, e appartenente perciò al dominio della « donna gentile », l’argomento che, in cambio dell’altro, aveva preso a trattare. E sarebbe un’assurdità: non solo per le ragioni già viste, ma anche per quel che subito dopo egli aggiunse quando scrisse che « per fuggire oziositade, che massimamente di questa donna è nemica, e per istinguere questo errore che tanti amici le toglie », si era proposto di « gridare alla gente che per mal cammino andavano, acciò che per diritto calle s’indirizzassero » 8 . Donde la composizione della Canzone, Le dolci rime d’amor ch’io solia, scritta, come a cosa filosofica si conviene, « con rima aspra e sottile » (v. 14), dopo avere perciò deposto il suo « soave stile » (v. 10). In realtà, che filosofia, e conforme perciò all’amore e alla reverenza dovuti alla « donna gentile » e « eccellentissima », fosse quella che Dante aveva cercato di onorare nello studio della quaestio relativa alla « materia prima delli elementi », e filosofia tuttavia anche quella che egli prese a dispiegare nel cercar di « partire [...] la malizia delle cose, la quale cagione è d’odio », è evidente. Così evidente che non si cede al rischio dell’enfasi e dell’oltranza retorica, se si suggerisce che a determinare il fallimento dell’indagine teoretica e a imporre l’intrapresa di quella etica e politica, fosse proprio la passione che lo spettacolo delle cose del mondo suscitava e accendeva in lui: la sofferenza che in Dante si formava ogni volta che si poneva di fronte all’« infamia o vituperio », non « delli erranti, ma delli errori: li quali biasimando credea fare dispiacere, e dispiaciuti, partire da coloro che per essi eran da me odiati » 9 . Fra gli errori che più lo offendevano e lo inducevano alla sofferenza, « massimo » era quello, « lo quale non solamente è dannoso e pericoloso a coloro che in esso stanno, ma eziandio alli altri, che lui riprendano, porta dolore e danno » 10. Di qui, con forte accentuazione passionale e, insieme, argomentativa, dalla quale, all’improvviso, la pagina è come illuminata a giorno, e che non potrebbe in effetti essere più suo, quel che segue: Questo è l’errore dell’umana bontade in quanto in noi è dalla natura seminata e che ‘nobilitade’ chiamare si dee; che per mala consuetudine e 8
IV I 9. IV I 5. 10 IV I 6-7. 9
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per poco intelletto era tanto fortificato, che l’oppinione quasi di tutti n’era falsificata; e della falsa oppinione nascevano li falsi giudicii, e de’ falsi giudicii nascevano le non giuste reverenze e vilipensioni; per che li buoni erano in villano despetto tenuti, e li malvagi onorati ed essaltati. La qual cosa era pessima confusione del mondo; sì come vedere puote chi mira quello che di ciò può seguitare, sottilmente 11.
È a questo punto che Dante ricordò lo studio dedicato alla questione della prima materia degli elementi, e il suo abbandono; che sarà dunque senza dubbio dipeso da un difetto che era allora in lui e che fece sì che egli si astenesse dal perseverare nel suo studio 12, ma anche si determinò come conseguenza di questa sua cura e preoccupazione per le cose del mondo e la loro « pravità »; e con tale forza, in modo così travolgente, che a Dante dette quasi l’impressione che, se filosofia era quella intrinseca alla quaestio degli elementi della prima materia, filosofia non fosse quella diretta a sconfiggere l’errore che incombeva sul mondo. L’oltranza del passo, la sua « esagerazione », e il suo estremismo, nascono di qui: dalla prepotenza della passione politica, dalla quale Dante era stato conquistato e, come s’è detto, quasi travolto. E di qui anche è nato l’equivoco, nel quale, da parte di alcuni, si è caduti. Un equivoco che non sarebbe insorto se si fosse osservato come, dopo la citazione della quaestio e della sua mancata risoluzione, la pagina riprenda il suo ritmo, e la pertinenza alla filosofia dell’indagine concernente la vera « nobilitade » sia di nuovo, e con parole esplicite, confermata: « non sarà dunque mestiere nella esposizione di costei alcuna allegoria aprire, ma solamente la sentenza secondo la lettera ragionare. Per mia donna intendo sempre quella che nella precedente ragione è ragionata, cioè quella luce virtuosissima, Filosofia, li cui raggi fanno dalli fiori rifronzire e fruttificare la verace delli uomini nobilitade, della quale trattare la proposta canzone pienamente intende » 13.
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IV I 7. IV I 8. 13 IV I 11. Deve aggiungersi che nell’alludere all’ardua questione della materia, Dante fu chiarissimo; e, mantenendosi sul piano della semplice enunciazione problematica, non lasciò in alcun modo trasparire quali idee fossero passate, e passassero, per la sua testa quando la riprendeva in esame e, quindi, vi tornava su. È dunque sopra tutto a Par. VII 64 ss., 124 ss., e XXIX 23 ss., che occorre rivolgersi per vedere in che modo a lui accadesse di poi affrontarla per risolverla. Per le indicazioni essenziali, rinvio al Vasoli, e quindi all’articolo citato alla n. 5. 12
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Se è così, c’è qualche buona ragione per ritenere che fin dall’inizio la discussione sulla natura della nobiltà recasse con sé il discorso sull’Impero, e che solo in senso estrinseco questo potesse essere considerato alla stregua di una digressione, di un excursus, di qualcosa che, inserendosi di prepotenza in una trattazione concernente altro, rivelasse bensì la sua importanza e urgenza, ma anche, in quel contesto, la eccezionalità e, a rigore, la non piena pertinenza. In realtà, e comunque la cosa si sia determinata nei fatti, la situazione era apparsa così grave, la corruzione così profonda, che tutto sembrava a Dante che corresse a « laida morte » 14. E come, nella Canzone, da questo stato delle cose era stato indotto a parlare non « sotto alcuna figura », ma direttamente e indicando « per via tostana questa medicina » 15, così è evidente che fu da quello e dalla sua « gravità » che ricavò la conseguenza ovvia; che consisteva nell’aggiungere alla teoria della vera « nobilitade » l’indicazione dello strumento politico idoneo a realizzarla nel consorzio umano. Dopo, perciò, aver osservato che le pagine dedicate all’Impero, e quindi anche ad Aristotele, inteso come la stessa cosa della ragione umana, appaiono come un excursus o una digressione sopra tutto perché nella Canzone è citato bensì il parere espresso da un Imperatore sulla nobiltà 16, ma a una formale teoria dell’Impero né si accenna né si allude, altro occorre aggiungere. Ed esprimere il senso di disagio che, a torto forse, e tuttavia irresistibilmente, l’excursus comunica. Perché si dice così? E perché si ammette l’esistenza di un disagio, e si dica pure, di un dispetto, di una delusione e frustrazione, che non avrebbero forse ragione di essere, e non di meno si formano ed esistono? In realtà, il disagio, il dispetto e i sentimenti che a questi due si connettono nascono dalla constatazione che in nessuna linea di questo excursus si dà la possibilità di intravvedere il diverso pensiero che, a quanto poi confessò all’inizio del secondo libro della Monarchia, Dante aveva un tempo condiviso intorno all’Impero romano che, disse, gli sembrava che si fosse affermato nullo iure e armorum tantummodo violentia 17. Nascono dal non poter
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Conv. IV I 10. Ibid. 16 Le dolci rime d’amor, 21 ss. 17 Mon. II I 2. Nardi, nel suo commento (Opere minori, II, a cura di P. V. Mengaldo, B. Nardi, A. Frugoni, G. Brugnoli, F. Mazzoni, E. Cecchini, Milano-Napoli 1979), non si pose la questione dell’antiromanesimo dantesco, che è, anche se la si considera nel puro rispetto cronologico, di difficile, e forse impossibile, soluzione; e francamente non riesco a capire perché, nel suo commento alla Monarchia, Firenze 1950, p. 109, 15
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oggi se non congetturare di quali argomenti egli avesse nutrita la sua opinione di allora. Un’opinione che, tuttavia, e questo dalle linee della Monarchia traspare con sufficiente chiarezza, fu non già soltanto difforme da quelle alle quali, già nel Convivio, era pervenuto e che, una volta conquistate, non abbandonò più, ma addirittura opposta, ispirata, forse, alle più crude fra le asserzioni contenute nell’agostiniana Civitas dei 18. Il disagio, si è detto, nasce da una frustrazione, da una sorta, addirittura, di dispetto. Ma non sarebbe giusto considerarlo come la conseG. Vinay abbia sostenuto che l’aliquando con il quale Dante segnò il tempo della sua precedente opinione non indichi « necessariamente » la giovinezza: anche « perché », aggiunse, « l’atteggiamento del poeta è di stupore di fronte alla rapidità della conquista romana, il che sottointende un problema già affrontato e quasi (?) risolto ». In realtà, Dante non allude affatto alla rapidità: se mai, alla facilità (sine ulla resistentia) della conquista. Ma anche se alla prima alludesse, e non alla seconda, non vedo perché lo « stupore » dovrebbe sottointendere un problema « già affrontato e quasi risolto ». Vorrei aggiungere che il passo del de vulgari eloquentia, I XI 2: « sicut ergo Romani se cunctis preponendos existimant, in hac eradicatione sive discerptione non inmerito eos aliis preponamus, protestantes eosdem in nulla vulgaris eloquentie ratione fore tangendos. Dicimus igitur Romanorum non vulgare, sed potius tristiloquium, ytalorum vulgarium omnium esse turpissimum; nec mirum, cum etiam morum habituumque deformitate pre cunctis videantur fetere. Dicunt enim: Messure, quinto dici? », non è spendibile in questa sede. In primo luogo perché la contemporaneità del de vulgari e del Convivio non consente di assumere la seconda opera e quel che vi si dice di Roma come documento di un’opinione « romana » successiva a quella esposta nella prima. E in secondo luogo perché non c’è ragione, a proposito di questa, di estendere l’avversione che Dante provava per il modus loquendi dei presenti Romani a quelli antichi e alla loro storia. L’accenno all’arroganza dei Romani che sempre pretendono al primo posto può bene, e al contrario, indicare fino a che punto Dante li considerasse decaduti dall’altezza raggiunta dai loro progenitori. 18 Che il sentimento antiromano di Dante derivasse da Agostino (Civ. Dei, 2, 21; 4, 15; 5, 17, 19, 21; 16, 17; 18, 2 e 22, etc.), è possibile e anche probabile (cfr. A. Frugoni, Roma, ED, IV, 1013 a): anche se, com’è noto (e cfr. comunque A. Pincherle, Agostino, ED, I, 82 a), scarse sono le citazioni dirette. Altrettanto, se non più probabile, è che lo derivasse da Paolo Orosio (cfr., per es., Historia adversus paganos, 2,3, 5-6), la cui presenza è, negli scritti di Dante, notevole: basti qui il rinvio a A. Martina, ED, IV, 204 a-207 b. – Non entro, naturalmente, nella questione del complesso atteggiamento di Agostino nei confronti di Roma e dell’Impero: a proposito del quale credo, e non per spirito di conciliazione, che sia giusto dire che quanto li avversava, identificandovi il carattere stesso dello Stato quale si realizza in terra (si veda, per es., F. G. Mayer, Augustin und das antike Rom, Stuttgart 1955), altrettanto Agostino ne dipendeva; e non solo per il debito intellettuale. J. Straub, Augustins Sorge um die ‘Regeneratio Imperi’. Das Imperium romanum als Civitas terrena, « Historisches Jahrbuch », 73 (1954), pp. 34-60, ha parlato addirittura, e fin dal titolo, di una Sorge, di una « cura » o sollecitudine agostiniana per l’Impero di Roma e la sua sorte. Sulle due tendenze delineatesi nella critica, cfr. S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II 2, Bari 1966, pp. 310-16.
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guenza di una disposizione oziosa della mente. Constatato che, allo stato attuale delle conoscenze, sapere di più di quel che Dante aliquando pensava è impossibile, il desiderio che il velo sia squarciato e che, insieme alle tesi un giorno professate su Roma e sul suo Impero, con migliore nettezza emerga il profilo intellettuale della sua giovinezza, – questo desiderio resta tuttavia vivo; e niente può impedire (tanto meno una pedantesca norma di metodo) che si affermi e ribadisca il suo diritto all’esistenza. Il desiderio resta vivo anche perché la questione dell’Impero rinvia a Virgilio, questi a Guido Cavalcanti che, « forse », con l’antico poeta anche l’Impero ebbe a disdegno 19; e, se fu così, in questo coinvolse anche il carattere provvidenziale, universale, « sacro » addirittura, della storia di Roma. Resta, infine, perché da questo intreccio di ragioni affiora anche quella per la quale, nel decimo dell’Inferno, Dante circondò di ambigua nebbia il fulmineo episodio che ha a protagonista il padre di Guido. Un episodio straordinario, non solo sul piano dello stile drammatico, ma, appunto, anche su quello della ricercata e voluta ambiguità: quasi che all’equivoco al quale Cavalcante de’ Cavalcanti fu indotto dall’ebbe usato da Dante quando nominò il « disdegno » di Guido, l’intenzione fosse di aggiungere altro, e cioè di suggerire che nei rapporti intrattenuti fin dalla giovinezza con il suo « primo amico » qualcosa di serio era intervenuto a turbarli, e che l’ambiguità fosse il mezzo a cui egli potesse far ricorso per discretamente rivelare quel che, per un altro verso, procurava invece di coprire e tenere celato. Queste, si ripete, sono congetture, forse fantasie. Suggerite, per altro, da quel che sempre, e necessariamente, un’espressione ambigua reca con sé. E tali, dunque, da suggerire una considerazione che valga anche come chiarimento di quel che qui sopra si è proposto: a proposito di Virgilio e dell’Impero. Si sa che, proprio nella Commedia, la « presenza » di Cavalcanti è assai più profonda 20 e inquietante di quanto di per sé non dicano le pur frequenti suggestioni letterarie provenienti dai suoi versi, e, su un altro fronte, la parsimonia non casuale delle citazioni esplicite, due soltanto, del suo nome. Ma è un fatto tuttavia (e la cosa tanto più merita di essere sottolineata quanto meno risulta che lo sia 19
Sulla vexatissima quaestio mi sono intrattenuto in un saggio che apparirà in una Festschrift per il settantesimo anniversario di Girolamo Arnaldi. 20 Cfr., al riguardo, G. Contini, Cavalcanti in Dante (1968), in Un’idea di Dante, Torino 1976, pp. 143-57, che resta, a mio avviso, la cosa migliore che si sia scritta sull’argomento.
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stata) che quando, nel primo incontro con Virgilio, Dante lo definì suo « maestro » e suo « autore », quello da cui aveva tolto « lo bello stilo » che gli aveva fatto onore 21, la ricostruzione in questo segno del suo passato letterario risultò tanto più sorprendente, e degna perciò di nota, in quanto non è possibile trovarle, nella realtà delle cose, alcun autentico riscontro. Di un Dante virgiliano prima della Commedia non si ha, nei documenti poetici e letterari anteriori a questa, alcun indizio. E poiché a Virgilio e al suo magistero egli attribuì, in quel fatale incontro, il carattere della esclusività (« tu se’ solo colui da cu’io tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore »), ecco che la arbitrarietà storiografica della ricostruzione ne svela la intenzione; e con questa la volontà di tagliar via dagli anni del suo apprendistato e, quindi, della sua formazione letteraria ogni esperienza che non fosse riconducibile a quell’unica, veramente essenziale e significativa. Una giovinezza letteraria ricostruita, contro ogni evidenza documentaria, nel segno di Virgilio e dell’Eneide, è come se intendesse cancellare, nelle pagine che la rievocano, ogni altro nome; e dunque, in primo luogo, quello di Guido Cavalcanti 22. Queste, per la verità, non sono fantasie. Ma le conseguenze di una specifica esegesi testuale. E fantasia forse non è, se è così, quel che prima si diceva di Cavalcanti, di Virgilio, dell’Impero romano. Che, nei confronti di quest’ultimo (e quale che fosse il suo atteggiamento verso il primo), i sentimenti di Cavalcanti non fossero necessariamente di avversione, è ben possibile: essendo, per altro, addirittura probabile che di sentimenti, al riguardo, egli non ne nutrisse alcuno e la relativa passione gli fosse estranea. Ma possibile è invece che, costruendo la sua contrapposizione a lui, questi gli fossero attribuiti proprio da Dante; che, nell’atto in cui suo unico maestro e autore proclamava Virgilio, era come se, con consapevole intenzione, allontanasse dal suo mondo l’amico che così intensamente vi era stato accolto come il primo. Lo allontanasse dal suo mondo: nel quale solo Virgilio era stato importante, e tutto il resto non era stato se non apparenza. La conseguenza era che se un giorno anche a lui, Dante, era accaduto di aver seguita, nell’interpretazione della storia di Roma, una via diversa da quella indicata da Virgilio, criticando ora sé stesso, il suo precedente sé stesso, era come se anche Cavalcanti criticasse; e, nel prendere le distanze dal suo passato, anche da lui le prendesse.
21 22
Inf. I 82-87. Sulla questione tornerò in altra sede.
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Ăˆ comunque vero, è un fatto, che l’occasione di svolgerla, quella autocritica, fu offerta a Dante dall’opinione che Federico II di Svevia, un imperatore dunque, anzi, per lui, l’ultimo, espose quando sostenne che per ÂŤ gentilezza Âť nient’altro dovesse intendersi che ÂŤ antica ricchezza e belli costumi Âť 23. E l’occasione che in qualche modo, dopo averla raccolta da una tradizione, con ogni probabilitĂ , orale, Dante offrĂŹ a sĂŠ stesso e alla sua propria elaborazione mentale, – l’occasione vale, com’è ovvio, per quest’ultima e per la potenza che le si rivelò intrinseca. Per il resto, infatti, conta poco cercar di stabilire se, quando, probabilmente fra il 1306 e il 1308, era intento a comporre il quarto trattato, Dante conoscesse giĂ per lettura diretta, la Politica aristotelica, dove della nobiltĂ (Îľ Îł νξΚι/ingenuitas) è data una non diversa definizione (Îľ Îł νξΚι Îł Ď ĎƒĎ„ÎšÎ˝ Ď ÎľĎ„ Îł νους) 24. E per un altro verso invece conta, o potrebbe contare, molto, dal momento che in questo caso apparirebbe chiaro che, sebbene lo considerasse il maestro della ÂŤ ragione umana Âť, Dante non avrebbe esitato a dissentire da lui su questo punto, specifico ma importante: come del resto, e a proposito della cruciale quaestio dell’eternitĂ del mondo, può vedersi nel tormentato e, per certi versi, drammatico decimoquinto capitolo di questo quarto trattato 25. Resta comun23 Conv. IV III 6. E cfr. la densa nota del Vasoli, p. 544; e A. Vallone, Dante, Milano 1971, pp. 99-106. Ăˆ notevole che in un poemetto, che A. Monteverdi, L’opera poetica di Federico II imperatore (1951), in Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Napoli 1954, pp. 33-58, ritenne opera di Federico II, si sostenga al riguardo la tesi opposta a quella che Dante gli attribuĂŹ. La frase rinvenuta da M. Corti, Le fonti del ‘Fiore di virtÚ’ e la teoria della ‘nobiltà ’ nel Duecento ÂŤ Giorn. stor. lett. ital. Âť, 132 (1959), p. 65, secondo cui la generositas proavorum trasmette la nobilitas, non è decisiva, dal momento che generositas vale in latino, secondo il Forcellini, s.v., magnanimitas, animi magnitudo, quae vel a genere, vel a virtute habentur. 24 Arist. Pol. Γ 1283 a 39. La diretta conoscenza, da parte di Dante, della Politica è disputata. A. Gilbert, Had Dante read the ‘Politics’ of Aristotle, ÂŤ Public Mod. Language Ass. America Âť, 43 (1928), pp. 602-13, inclinò ad escluderla. E cfr. la nota del Vasoli. La questione è probabilmente insolubile. La presenza in Mon. I XII 9, del verbo politizo (derivante da ποΝΚτ υω, o, meglio, dal medio ποΝΚτξ οΟιΚ, e usato da Guglielmo di Moerbeke nella sua versione della Politica (Aristotelis Politicorum libri octo cum vetusta translatione Guglielmi de Moerbeke, recensuit Fr. Susemihl, Leipzig 1872, p. 399), è interessante, ma non decisiva (la segnalazione del termine in B. Nardi, Note alla Monarchia, in Nel mondo di Dante, Roma 1944, pp. 104-106). E lo stesso direi per L. Minio Paluello, Tre note alla Monarchia, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, II, Firenze 1955, pp. 511-22). 25 Conv. IV XV 6-7. Cfr. Le dolci rime, 71-73: ÂŤ o che non fosse ad uom cominciamento:/ ma ciò io non consento,/ nĂŠd ellino altressĂŹ, se son cristiani! Âť. Sagaci osservazioni in De Robertis, p. 510, che adduce anche un notevole testo di Ristoro
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que che, sapesse o no di Aristotele, a dar torto in questa materia all’imperatore che ne aveva ripetuto il concetto, Dante non esitò. Resta che, per dargli torto in modo che da nessuno il suo argomento potesse esser giudicato, o affrettato o non meditato abbastanza, scelse la via meno breve. « Perché meglio » si vedesse la « vertude della veritade, che ogni autoritade convince », si pose a ragionare per decidere « quanto l’una e l’altra di queste ragioni aiutatrice e possente è ». E poiché « della imperiale autoritade sapere non si può se non si ritruovano le sue radici », decise che di quelle « per intenzione in capitolo speziale » fosse « da trattare » 26. Il quarto capitolo del quarto trattato si divide in due parti. All’esposizione, con la quale ha inizio, delle ragioni onde, essendo « compagnevole animale », dalla famiglia l’uomo per natura perviene fino alla Monarchia, e cioè, nel lessico di quest’opera, all’Impero, Dante fece seguire una discussione specifica. La quale, non avendo, né potendo avere, niente a che vedere con la fonte aristotelica e tomistica da lui adoperata, riguardò invece una quaestio strettamente cristiana, che ha forse in Agostino e in Orosio la sua più ampia e rigorosa formulazione 27: se cioè l’Impero di Roma fosse stato conseguito con lo strumento della forza, usata di per sé, in quanto tale e al di fuori quindi di ogni più alta finalità, o per decreto, al contrario, della divina provvidenza che, nell’intessere con il suo filo la trama dell’accadere, a ogni evento assegna un senso e un significato diverso da quelli che, se li si isolasse e valutasse in sé, l’uno e l’altro riterrebbero. Che, nella formulazione che qui se n’è data, il primo concetto corrisponda a quello che, nella tradizione agostiniana, riceve il suo specifico connotato, negativo del diritto e affermativo della violenza, mentre il secondo consuona con quello che, affermando il diritto e negando la violenza, Dante si accingeva a elaborare, è evidente. Ma se, per questo verso, i termini della questione sono più che chiari, le implicazioni richiedono invece attento esame. E, per dirla con Dante, lo scopo sarà quindi di « distrigare il testo perfettamente secondo la sentenza che esso porta ». « Perfezione » a parte, il tema al quale, fin dall’inizio, occorre dar rilievo, concerne la « necessità », la « naturalità », insomma l’inevitabilità che, secondo lo schema interpretativo che qui Dante adottò, si rivelano parimenti intrinseche al cammino storico dell’uomo, o, se si preferisce, d’Arezzo (La composizione del mondo colle sue cascioni, Firenze 1976, p. 106). 26 Conv. IV III 10. 27 Cfr. qui su n. 18.
II,
dist. 3, 4,4: ed. Morino,
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dell’umanità. Ma fra umanità e uomo qui non occorre far intervenire differenze specifiche. E se si sceglie di parlare dell’uomo, di questo deve allora dirsi che, « naturalmente » essendo « compagnevole animale », e mai perciò, nella concretezza del suo vivere, potendo andar disgiunto dalla compagnia di altri uomini, non solo è necessario che subito a sé stesso procuri le condizioni indispensabili alla formazione della sua propria famiglia, ma anche è necessario che di qui proceda oltre e, gradino dopo gradino, salga su per la scala che conduce alla forma suprema, nella quale la felicità, che è il fine del suo vivere, troverà il compimento e la soddisfazione. Che, conosciuto direttamente, o attraverso i commenti di Tommaso all’Etica e alla Metafisica, dell’argomentazione aristotelica il testo di Dante ripeta la formale movenza è evidente. Ma soltanto la movenza. Messo in salvo il principio, tutto quel che di ulteriore si trovi in Aristotele qui cade. A tal punto che, attraverso la secca eliminazione dei particolari sui quali a lungo il filosofo antico aveva indugiato, il racconto dantesco delle origini risultò ancor più intellettualisticamente costruito, e comunque assai meno « drammatico », più stilizzato, si direbbe, e astratto, di quanto l’originale non sia. Per un verso, Dante ebbe fretta di arrivare al culmine, e procedette spedito: con il suo senso, quasi miracoloso, dell’essenziale, con il suo orrore del « superfluo ». Per un altro, fu esteticamente attratto dalla perfezione dello schema che gli si era delineato nella mente. Ed ecco quindi che, dopo aver tracciata la linea che, partendo dall’uomo, s’innalza fino alla famiglia e da questa, passo dopo passo, fino all’universale Monarchia, Dante la riprese dal punto di arrivo, la ripercorse all’indietro e dalla Monarchia ridiscese idealmente all’uomo che, a causa del contesto in cui si trova a essere inserito, è felice. Né l’urgenza della mèta, né il « piacere » intellettuale a lui derivante dal gioco perfetto delle simmetrie, ascendenti e discendenti, possono far dimenticare l’assenza, in questo quadro, non solo di ogni esistenziale drammaticità, ma altresì delle pulsioni da cui la natura socievole dell’uomo fu pur spinta al suo movimento ascendente. Che, agli occhi dell’aristotelico Dante, l’origine non si presentasse con i caratteri che altre tradizioni (quella stoica, per esempio, e, sopra tutto, quella epicurea) avevano tramandati al successivo pensiero, e non avesse perciò niente di altrettanto conflittuale e drammatico 28, è ovvio. E non è cosa che,
28 Si pensi, per esempio, al quadro epicureo delle origini tracciato da Lucrezio nel quinto del de rerum natura. E si veda il mio Il progresso e la morte. Saggi su Lucrezio, Bologna 1979.
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dopo essere stata notata, richieda, in questa sede, documentazione, e un’ulteriore glossa. Ma degna invece di essere sottolineata e, in questo suo tratto, ribadita, è l’assenza nel suo quadro di quel che più rende concreto, vario e interessante il discorso di Aristotele: a cominciare dall’osservazione, che tornerà fra gli altri in Cicerone 29, della reciproca necessità in cui la natura ha collocato il maschio e la femmina, l’uomo e la donna, per passare alle altre concernenti la disposizione, naturale anch’essa, al comando e all’obbedienza (una disposizione che, a suo parere, assimila gli uomini ai greci e i barbari alle donne) 30, per finire con quelle attraverso le quali palese è l’intento di storicizzare, differenziando, in senso non soltanto cronologico, il prima e il poi 31. E basti, al riguardo, pensare a quel che qui, nella Politica, si dice delle città che, in principio erano governate dai re e da questa forma politica sono ora rette solo presso i popoli barbari, intenti perciò a vivere con ritardo quel che altri popoli già vissero e poi superarono 32. Una osservazione, questa, che in Dante, perché proprio non poteva esserne accolta, non passò. E la ragione è chiara; e si può considerarla sotto due distinti profili. Quell’osservazione aristotelica Dante non poteva, in primo luogo, accoglierla perché, se mai si fosse disposto a condividerla, a risultarne meno lineare e netto, differenziato, non unicamente nel tempo, ma anche nello spazio, sarebbe risultato il processo che, per natura, dalla cellula familiare conduce all’Impero. E anche non poteva accoglierla perché, nell’esperienza che in concreto egli ne aveva, la storia dell’Italia centrosettentrionale gli offriva lo spettacolo di città dilaniate in sé stesse dai conflitti delle fazioni, armate, le une contro le altre, di rivalità e di odio, non procuratrici di pace, ma fomentatrici di guerre e di lutti: con la conseguenza che, forse, solo se avesse avuto del decimo secolo la conoscenza che, per questa parte, invece gli fece difetto 33, solo in questo caso, che viene proposto per essere, subito dopo, escluso, Dante avrebbe forse consentito che, paragonati con i governi dei così detti re d’Italia, quelli delle città a lui note fossero migliori. Questa ipotesi dovendo, più che ragionevolmente, essere esclusa, resta fermo che, non il 29 30 31
Cic. de off. 1, 4,11. Arist. Pol. A 1253 a 35-1252 b 7. Ma non si dimentichi tuttavia, perché decisivo per lo schema dantesco, A 1253
a 1-10. 32
Arist. Pol. Γ 1284 b 42-1285 a 1 ss. E. Sestan, Dante e il mondo della storia (1965), in Italia medievale, Napoli 1966, pp. 330-31. 33
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regno viene prima delle città, ma queste vengono prima del regno; che, rispetto a quelle, rappresenta una fase di più larga unità e di tanto le sopravanza quanto, per un altro verso, è sopravanzato dall’Impero. Lo schema al quale, anche attraverso qualche diretto riferimento testuale, è stata fin qui rivolta l’attenzione, è illustrato da Dante con queste parole; che sono famose, e conviene tuttavia riferire perché il lettore le abbia tutte sott’occhio: Lo fondamento radicale della imperiale maiestade, secondo lo vero, è la necessità della umana civilitade, che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice; alla quale nullo per sé è sufficiente a venire sanza l’aiutorio d’alcuno, con ciò sia cosa che l’uomo abisogna di molte cose, alle quali uno solo satisfare non può. E però dice lo Filosofo che l’uomo naturalmente è compagnevole animale. E sì come un uomo a sua sufficienza richiede compagnia domestica di famiglia, così una casa a sua sufficienza richiede una vicinanza: altrimenti molti difetti sosterrebbe che sarebbero impedimento di felicitade. E però che una vicinanza a sé non può in tutto satisfare, conviene a satisfacimento di quella essere la cittade. Ancora la cittade richiede alle sue arti e alle sue difensioni vicenda avere e fratellanza colle circavicine cittadi; e però fu fatto lo regno 34.
A questo punto, a rendere improvvisamente complicato un quadro che, linea dopo linea, era stato descritto come formatosi per obiettiva forza di natura, Dante introdusse il « desiderio »; che è anch’esso un elemento naturale, tale che, senza eccessivo sforzo, lo si potrebbe vedere operante alla radice del precedente sviluppo, ma di positivo resosi negativo: apportatore non tanto di progressivo aumento, quanto piuttosto di rischiosa involuzione e lacerazione. L’« animo umano » non è tale, infatti, che « in terminata possessione di terra » possa fermarsi. Ma poiché esso non desidera se non « gloria d’acquistare », così è inevitabile che, « come per esperienza vedemo », « discordie e guerre » sorgano « intra regno e regno, le quali sono tribulazioni delle cittadi, e per le cittadi delle vicinanze, e per le vicinanze delle case, e per le case dell’uomo; e così s’impedisce la felicitade » 35. A causa di questo desiderio che, rovesciando in sé stesso la positività di quello da cui il processo ascendente aveva preso il suo avvio, produce « discordie e guerre », il cammino dell’uomo nella direzione della felicità risulta interrotto; e in realtà subisce una radicale inversione. Verso il contrario della felicità infatti la 34 35
Conv. IV IV 1-3. IV IV 3-4.
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nave dell’umanità correrebbe se la ragione stessa, che opera nell’interno delle cose, non provvedesse alla drastica correzione della sua rotta. Si legga: Il perché, a queste guerre e alle loro cagioni tòrre via, conviene di necessitade tutta la terra, e quanto all’umana generazione a possedere è dato, essere Monarchia, cioè uno solo principato, e uno prencipe avere; lo quale, tutto possedendo e più desiderare non possendo, li regi tegna contenti nelli termini delli regni, sì che pace intra loro sia, nella quale si posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze s’amino, e in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso, l’uomo viva felicemente: che è quello per che esso è nato 36.
A questo passo, nel quale il gusto delle simmetrie (positive e negative, ascendenti e discendenti, quindi, da capo, negative e positive, discendenti e ascendenti) celebra una sorta di mirabile trionfo, – a questo passo si chiederebbe invano come avvenga che il desiderio insaziabile, che altrimenti ha il nome della cupidigia, sia sconfitto, e al suo posto sorga, con la pace, la concordia, con la concordia l’amore. Dante disse bensì infatti che, nella realizzazione imperiale il desiderio umano toccando il limite del suo stesso desiderare, l’imperatore rappresenta, in concreto, qualcosa come la sua positiva estinzione. Ma non spiegò, quel che in un diverso contesto sarebbe essenziale, in che modo, con quali mezzi, per la forza di quale diritto che imponga obbedienza agli uomini, l’imperatore divenga e sia tale. Se non lo spiegò, non fu, per altro, senza una ragione. Il non esserci dell’imperatore, l’esser « vacante » la sua sede, erano per lui soltanto fatti contingenti: talchè il diritto che l’imperatore aveva di esser tale costituiva titolo bastante perché a questo le cose, prima o poi, si conformassero. Al « difetto » di impero spettava alla provvidenza di opporre la sua forza; e di risolverne la negatività. Se, leggendo fra le righe di questo passo, alla domanda che qui è stata formulata si cerca la conveniente risposta, questa non può non chiamare in causa la provvidenza. E a questo riguardo possono ben essere citati i versi del Paradiso, XXVII 55-63: « in vesta di pastor lupi rapaci/si veggion di qua su per tutti i paschi:/ o difesa di Dio, perché pur giaci?/ Del sangue nostro Caorsini e Guaschi/ s’apparecchian di bere: o buon principio,/ a che vil fine convien che tu caschi!/ Ma l’alta prove-
36
IV
IV
4-5.
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denza che con Scipio/ difese a Roma la gloria del mondo,/ soccorrerà tosto, sì com’io concipio » 37. Al difetto di ragion politica corrispondeva, del resto, nella giusta misura, il difetto della ragione filosofica; che, poiché svolgeva sé stessa su un diverso piano, a quel primo difetto non poneva rimedio, ma spiegava non di meno fino in fondo quale fosse il senso dell’organismo che Dante aveva in mente. Il concetto gli era ben chiaro. Ma, uomo di immaginazione potente, tanto più attratto dalla viva realtà delle cose quanto più il pensiero lo guidasse in alto verso i regni rarefatti dell’astrazione, egli lo chiarì subito attraverso un paragone, preparato dalle parole in cui è detto che, « quando più cose ad uno fine sono ordinate, una di quelle conviene essere regolante o vero reggente, e tutte l’altre rette e regolate ». Un passo che quasi alla lettera ripete l’Expositio tomista della Metafisica: « sicut docet Philosophus in Politicis suis, quando aliqua plura ordinantur ad unum, oportet unun eorum esse regulans, sive regens, et alia regulata, sive recta » 38. Un passo, tuttavia, che, come si diceva, trova il suo compimento nel bel paragone del reggimento umano con la nave, nella quale « diversi officî e diversi fini [...] a uno solo fine sono ordinati, cioè a prendere loro desiderato porto per salutevole via: dove, sì come ciascuno ufficiale ordina la propia operazione nel propio fine, così è uno che tutti questi fini considera, e ordina quelli nell’ultimo di tutti; e questo è lo nocchiero, alla cui voce tutti obedire deono » 39. Dalla nave il paragone era esteso alle religioni, agli eserciti, a tutte le « cose che sono [...] a fine ordinate » 40. E, facendo risuonare di nuovo sullo sfondo il primo tema, quello della nave, la 37 Non credo sia necessario precisare che questi versi, che si connettono del resto a Par. XXII 89-96, concernono, non l’Impero, ma l’auspicata riforma della Chiesa. E sono citati qui per il concetto che vi è espresso della provvidenza. Il Sapegno, nel suo commento, Milano/Napoli 1957, pp. 1113-14, ha acutamente notato, in questa profezia, ciò che la unisce, ma anche, per « l’ansiosa fede » che vi si manifesta, la distingue da quella famosa del Veltro (Inf. I 101-11 e Purg. XXXIII 43-44). Aggiungerei che, poiché « decadenza » e « corruzione » della Chiesa significano anche usurpazione delle prerogative imperiali, il relativo pensiero non poteva non essere presente nella testa di Dante, quando scriveva questi versi: donde, forse, l’accenno a Scipione, un esempio che, altrimenti, potrebbe sembrare, nel contesto, alquanto singolare. 38 Thomae Aquin. In duodecim Metaphisicorum libros Expositio, ed. Cathala-Spiazzi, Taurinii 19773, p. 1 a. Il passo fu proposto da Gilbert, art. cit., p. 609. 39 Conv. IV IV 5-6. L’esempio è in Arist. Pol. Γ 1276 b 20-27. E il Vasoli, p. 555, aggiunge Thomae de reg. princ., I 14. 40 Conv. IV IV 6. Per « religioni » s’intendono gli « ordini religiosi » (Vasoli, p. 555) o le « comunità » (G. Inglese, in D. Alighieri, Il Convivio, Milano 1993, p. 229).
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conclusione era che « a perfezione della universale religione della umana spezie conviene essere uno, quasi nocchiero, che, considerando le diverse condizioni del mondo, alli diversi e necessari officî ordinare abbia del tutto universale e inrepugnabile officio di comandare » 41. Il riconoscimento dell’autorità imperiale è « naturalmente » altissimo: « radicale », potrebbe dirsi, come il suo « fondamento ». E poiché il monarca che abbia conseguito quest’estremo traguardo anche ha realizzato ogni suo possibile desiderio e il raggiungimento di altro che a questo limite sia ulteriore e stia più in alto gli è, per la contraddizione che altrimenti ne deriverebbe, inibito dal suo stesso non esserci, ecco che definirlo, oltre gli altri suoi, più ovvii, predicati, « assoluto », è inevitabile conseguenza. Il monarca, per altro, è assoluto non nel senso che non si dia legge nei confronti della quale il suo volere non possa non andar oltre, rendendola, in questo atto, inefficace. Ma nel senso, del tutto diverso, che, essendo il suo un volere realizzato in ciascuna delle sue possibili dimensioni e determinazioni, di questo deve dirsi che è « assoluto » in quanto è perfetto, giunto cioè a quel traguardo al di là del quale, invece del « mondo sanza gente » che accese l’« ardore » di Ulisse e lo spinse al « folle volo », non si dà, a rigore, niente. Se il desiderio presuppone la « mancanza », sì che, come si legge in Convivio, III XV 3, si può definirlo « cosa defettiva », affètta e segnata dalla mancanza per la quale è, d’altra parte, quello che è, dell’Imperatore dovrà assumersi che sia, in atto, l’estinzione del desiderio: in tal guisa che in lui non si dà alcuna appetizione dell’oltre, nessuna invidia del non posseduto, perché né un « oltre » si dà, né un « non posseduto ». E se, fantasticando, fosse lecito chiedersi di quale desiderio l’Imperatore possa, senza smentire la sua perfezione, farsi soggetto, l’unica risposta che a questa domanda sia lecito dare è che a lui non competa se non di desiderare l’ordine nel quale il desiderio ha estinto la sua « mancanza » e, come desiderio, si è compiutamente realizzato: non dunque, secondo l’espressione dantesca, di desiderare « sé sempre desiderare » 42, ma, in concreto, di non (poter) desiderare più. Sua namque iurisdictio terminatur Occeano, dirà Dante dell’Imperatore in Monarchia I XI 12-13. Ma, a differenza di quel che accadrà all’eroe greco, bramoso di fare esperienza, « di retro al sol, del mondo sanza gente », questo oceano non può accendere la brama di inoltrarvisi, perché non è se non la metafora di quel che non è.
41 42
IV III
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6. 9: « e non compiere mai suo desiderio ». Cfr., comunque, infra.
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La citazione di una linea della Monarchia non significa che già qui possa parlarsi di quest’opera, delle sue peculiarità, che sono notevoli, della differenza che vi si stabilisce nei confronti del Convivio: una differenza anch’essa notevole, che non può e non deve essere spinta fino al limite dell’opposizione, ma esiste e, quando il momento sia giunto, si dovrà cercar di stabilire in che consista. Qui basti dire che se ai due testi, da una parte al Convivio, da un’altra alla Monarchia, si guarda senza pregiudizi, la differenza comincia a rendersi evidente in ciò: che se nel primo il principio direttivo dell’indagine era indicato nella natura « compagnevole » dell’uomo, e, lo deducesse direttamente dalla Politica, oppure dai commenti tomistici, a questo argomento aristotelico Dante affidava la fortuna dell’indagine stessa, ben altro è quel che nel secondo si dà a vedere. Qui il principio è costituito, non tanto dall’idea della socievolezza intrinseca alla natura umana (un’idea che nel trattato latino è bensì presente, ma non ha carattere di preminenza e, appunto, di principio), quanto piuttosto dall’unitaria operazione dell’intelletto, alla quale nella sua totalità (totaliter acceptum) l’humanum genus concorre: in forza di quella garantendo a questa la permanenza dell’attualità. Non, beninteso, che la differenza del criterio direttivo si rifletta sul fine ultimo della dimostrazione alla quale presiede, e che, qui come nell’altra opera, concerne pur sempre l’« imperiale maiestade » e il suo « radicale fondamento ». Ma l’assunzione dell’operatio intellectus, e del suo essere sempre sub actu in ragione e in virtù del concorso ad essa dell’intero genere umano, pone con forza la questione dei riflessi averroistici presenti nell’aristotelismo di Dante; e, in modo che non è possibile chiuderla se non affrontandola nella sua radice, apre una prospettiva radicale e paradossale, che si dovrà, a tempo debito, tenere nella più attenta considerazione. Non è nemmeno da escludere che, riflettendo sul senso di questa prospettiva e sulla sua importanza, anche si arrivi a comprendere meglio certe audacie intellettuali che, presenti nel secondo e, sopra tutto, nel terzo trattato del Convivio, potrebbero altrimenti sfuggire; e che altresì ci si renda conto che lo svolgimento del pensiero di Dante non è così rettilineo, privo di brusche svolte e di repentini ritorni, quale è apparso anche a studiosi di grandi meriti: inclini tuttavia a ritenere che nessuna esitazione, nessuna ambiguità, non parliamo poi di eventuali difficoltà logiche, possa darsi nel quadro, sincronico o diacronico, costruito da un tal uomo: e, sopra tutto, nel suo esito conclusivo. La seconda parte del quarto capitolo, e quindi il quinto nella sua interezza, sono dedicati alla quaestio della storia romana alla quale, nella
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Monarchia, un intero libro sarà consacrato, il secondo. Autorità dell’Impero e autorità del « romano principe » erano, per Dante, la stessa cosa. E scinderli, assumendo la prima ed escludendo tuttavia che potesse coincidere con l’altra, sarebbe stata perciò una subdola « gavillazione ». Restava tuttavia, viva e bruciante, la questione della forza, che così spesso aveva assunto il volto della violenza. Se, quando scriveva queste pagine del Convivio, lontano era ormai, concettualmente lontano, il tempo in cui (come è detto nella Monarchia) 43 anche lui aveva acceduto alla tesi della violenza e del non diritto con i quali l’Impero sarebbe stato costituito; se, per contro, nella mente gli risuonavano le parole con le quali, nel sesto dell’Eneide, Anchise aveva celebrato la magnanimità e generosità dei Romani 44, come avrebbe tuttavia potuto accadere che un uomo suo pari, che, inevitabilmente, aveva « parteggiato » e alla violenza degli altri aveva in qualche modo dovuto contrapporre la sua, potesse non vederla, questa violenza, riflessa nei fatti e nelle vicende della città antica? Per non vederla come tale, ossia per vederla bensì, ma in una luce diversa, agli eventi che pur ne erano scaturiti conferendo, nell’economia della storia, un diverso significato, – per vederla in questa nuova luce e, dunque, per riscattarla e sottrarla alla presa della grande polemica agostiniana, per vederla in questa luce e, dunque, per « santificarla », certo non bastava che, in modo pur sempre generico, il concetto della provvidenza intervenisse e ogni evento fosse sottoposto al suo criterio. Non aveva certo pensato al di fuori di questo concetto il grande autore cristiano della Civitas dei: lui che, per esempio, nel libro decimoquarto, aveva ben avvertito che fecerunt itaque civitates duas amores duo, terrenam scilicet amor sui usque ad contemptum Dei, caelestem vero amor Dei usque ad contemptum sui, e che entrambi questi amores, quello terreno volto al disprezzo di Dio e all’amore di sé non meno dell’altro, volto all’amore di Dio e al disprezzo di sé, aveva coerentemente inclusi nel grande piano della provvidenza 45. Della provvidenza che dunque, mentre costruisce la civitas diaboli, la innalza al fastigio della suprema potenza e, dopo la superbia del trionfo, la avvia verso il declino e la morte, in questo atto, e attraverso gli exempla della sua vicenda, prefigura l’altra città, quella che non è di questo mondo e ha la sua sede in cielo. Ma provvidenza non significava per lui che positivo, per volere di
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questa, fosse, e dovesse essere considerato, anche ciò che pure apparisse nel segno della violenza e del male, e da questi fosse affètto. La prima, e essenziale, differenza che, rispetto a quello elaborato da Dante, debba perciò notarsi nel concetto agostiniano della provvidenza concerne il destino, come si potrebbe definirlo, terreno e storico, del bene e della felicità. Un destino che non potrebbe, per Agostino, né concepirsi né ammettersi che potesse mai essere raggiunto quaggiù, sulla terra, dove la vera giustizia non può aver luogo e niente altro che latrocinia magna sono gli Stati 46: con la conseguenza che se exempla di nobiltà, di eroismo, di dedizione al dovere pur debbano a tratti riconoscersi nella vicenda dei popoli che furono privati della luce proveniente dalla conoscenza del vero Dio, queste sono pur sempre da considerare come eccezioni, autentiche o intese per tali a causa di una considerazione non abbastanza attenta al loro vero carattere. Sia pure « bene » quel che talvolta traluce quaggiù ed è come un lampo che, percorrendo fulmineo un cielo nero di nuvole, subito si spegne. Resta che la realtà umana dev’essere assunta nel segno metaforico di quel cielo incombente, non di quel lampo che per un attimo lo rischiara. E se, anche in questo caso, e di fronte ad esempi come questi, può ben dirsi che sia stata la provvidenza di Dio ad aver voluto che così, e non altrimenti, andassero le cose del mondo, è pur chiaro che questa è provvidenza. Ma non è quella stessa di Dante. È infatti il telos a cui le cose terrene sono indirizzate che, fra Agostino e Dante, fa insorgere, netta, la differenza. Fra Dante che, avendo anche lui, come cristiano, un occhio capace di discernere della vera città « almen la torre » 47, e insomma, al di là di quella terrena, la Gerusalemme celeste, non
46 La celeberrima proposizione « remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia? quia et latrocinia quid sunt nisi parva regna? », è in Civ. Dei, 4, 4,1. Che d’altra parte irresistibile sia, überhaupt, la tendenza agostiniana ad assumere comunque i regna come latrocinia, è reso evidente da ciò che, questi essendo altrettanti parva regna, anche in questi deve dunque esserci un principio di organizzazione secondo regole: un principio che, in effetti, non può esservi assente e che, in quanto regolatore, « assomiglia » perciò alla « giustizia ». La quale, se invece sia intesa come vera e autentica giustizia, non può esistere « nisi in ea re publica, cuius conditor rectorque Christus est, si et ipsam rem publicam placet dicere, quoniam rem populi esse negare non possumus » (2, 21, 4). Il che, deve aggiungersi, tanto più è notevole in quanto, fra gli Stati terreni, come termine di paragone Agostino assume e sceglie, non un popolo corrotto, ma gli antiquiores Romani, quelli che in un passo delle Historiae, tramandato da lui, Sallustio aveva giudicati bensì ancora esenti da quel morbo, e pure già inclinati al male. 47 Purg. XVI 96.
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perciò escludeva, e anzi apertamente ammetteva, che i mali del mondo non solo potessero e dovessero e fossero per essere superati per decreto provvidenziale (e si ricordi ancora « l’alta provedenza che con Scipio/ defese a Roma la gloria del mondo » e che, come san Pietro in persona dirà nel ventisettesimo del Paradiso, presto e di nuovo recherà al genere umano il suo soccorso); ma che altresì lo fossero stati nel passato, che in tal modo, come elemento costitutivo, entrava nel presente, e anche nel futuro. Fra Dante, dunque, e, per contro, Agostino, che delle due città segnò netta la differenza, e l’una consegnò alle tenebre, l’altra alla luce, l’una al delitto, l’altra alla giustizia, e l’una definì di Caino, l’altra di Abele 48. Ricordarlo potrà essere banale, tanto la cosa è nota e, dunque, ovvia. Ma fra Agostino e Dante c’è stata la riscoperta di Aristotele e la grande meditazione dei suoi scritti; che al pensiero cristiano hanno imposta una svolta essenziale e, non senza che perciò ne nascessero rischi gravi, ne hanno mutato il volto. La felicità che quaggiù conseguire « si può » è un’umana, ma piena, felicità. E come a realizzarla è una disposizione stessa della natura, provvidenzialisticamente reinterpretata, – della natura che, attraverso le sue fasi necessarie, perviene alla mèta dell’Impero, così è questa che, al telos intrinseco a quelle, alle sue fasi, conferisce l’autentico significato. Come poi potesse accadere, e spiegarsi, che il processo ascendente della storia, e della physis che le è intrinseca, invertisse a un certo punto il suo corso deviando dal retto cammino, non è cosa che sia facile comprendere. In Dante, a rigore, un’idea della decadenza delle forme politiche non si dà: meno che mai dell’Impero. Il processo che da quelle conduce a questo è soltanto ascendente, si svolge nel segno del progresso proprio del corpo politico che, lungo questa via, perviene alla sua costituzione; e il passaggio da una forma ad un’altra, e quindi alla suprema e conclusiva, si determina senza il contributo negativo della decadenza e della corruzione. Il « non esserci » dell’Impero non è il diverso « esserci » che l’occhio di un diverso pensatore politico contemplerebbe nelle forme in cui si è risolto e che lo hanno sostituito. È soltanto la sua « vacazione »; che è stata bensì, se si vuole, determinata dalla « malizia » che il mondo ha fatto reo, ma non, e questo è il paradosso, da una negatività che quello, l’Impero, abbia a un certo punto resa manifesta in sé come ragione del suo decadere e non esserci più. Donde anche la
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possibilità, che Dante concesse a sé stesso e ai molteplici registri della sua indignazione, dell’invettiva moralistica; che, riguardando gli uomini e il loro vario inclinare al male, tendeva risolutamente a distinguerli dalla forma politica che ora era « vacante »: sebbene poi, per un altro verso, e con il rischio che il ragionamento si avvolgesse come in un circolo, fosse anche vero che derivava dall’assenza della guida imperiale, e dall’usurpazione che quella spirituale ne aveva fatta, che gli uomini fossero diventati rei. Poiché, dunque, lo interpretava nel segno, e secondo la logica, di ciò che si determina attraverso lo svolgimento progressivo della sua stessa necessità, non era facile, per Dante, fornire la ragione dell’inverso svolgimento dal bene al male. È ben vero infatti che, come meglio sarà poi spiegato nel trattato latino, la natura è strumento di Dio, e, in quanto tale, obbedisce come che sia, al suo comando. Ma vero è anche che lo strumento non è qui un qualsiasi strumento, che la mano (e tanto più se divina) possa governare e dirigere là dove la mente e la volontà capricciosamente comandino. È tale, infatti, che possiede una sua intrinseca logica. Una logica che l’indirizzo provvidenziale esplica coincidendovi: con la conseguenza che se provvidenzialità e necessità ascendente sono e significano la stessa cosa, come di questo medesimo soggetto (la logica provvidenziale della natura e della storia) potrebbero essere predicate una provvidenzialità e una necessità che fossero ora interpretate nell’inverso senso della corruzione e della decadenza? Due diverse provvidenze, dunque? Due diverse, e anzi opposte, necessità? Una provvidenza e una necessità ascendenti, e una provvidenza, e una necessità, discendenti: l’una orientata nel senso del bene, l’altra in quello del male? Il che, senza dubbio, suona così paradossale e, anche, così assurdo che Dante ne avrebbe respinto con sdegno il concetto se mai qualcuno fosse giunto a sottoporlo alla sua attenzione. Ma, per paradossale e assurda, questa è una conseguenza strutturale del modo in cui, senza riuscire a fondervisi, la provvidenza cristiana si era fusa con l’idea, solo in parte aristotelica, della natura che tende a realizzare la sua propria perfezione, quale che sia. E il concetto che prima si è esposto a proposito della corruzione e della malizia che, moralisticamente, sono assegnate agli uomini, ma non alla forma perfetta del reggimento politico, all’Impero, che, per questo suo carattere, può essere bensì « vacante », non mai però corrotto, questo concetto deve essere ritenuto nella sua necessità: perché, senza alcuna possibilità di deviarne, consegue alle categorie concettuali, l’una con l’altra non componibili, che Dante aveva cercato di stringere insieme in un nesso coerente.
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Sarebbe perciò veramente improprio se a questa distinzione, che da un lato pone l’Impero, fermo nella sua idea e, in quanto tale, scevro, anche come istituzione storica, di corruzione e di decadenza, e, da un altro, questa corruzione e questa decadenza, che non riguardano tuttavia se non gli uomini e i loro costumi, – sarebbe improprio se a questa distinzione si opponesse la realtà di uno dei termini che la costituiscono. E per conseguenza si dicesse che, poiché si danno le tre fiere allegoriche che a Dante cercarono, nella selva, di impedire il cammino della salvezza, netta e perentoria, era, presso di lui, l’idea della mortalità delle cose umane, e, quindi, anche dell’Impero. Sarebbe improprio perché, reincludendo quest’ultimo nel quadro di ciò che è mortale e facendo risuonare l’antico omnia orta pereunt, alla logica paradossale, ma inconfutabile, di quell’idea si verrebbe meno e ci si lascerebbe del tutto sfuggire il punto della situazione. In forza del quale non può infatti assumersi che se, a corrompersi e a decadere sono gli uomini e i loro costumi, altrettanto debba dirsi dell’Impero, che è un’istituzione umana, e uomini, non dèi, sono quelli che tiene serrati insieme nel suo vincolo unitario. E deve piuttosto dirsi che così non è, dal momento che, con l’idea, anche la realtà dell’Impero è salva e attende solo di essere restaurata e rivelata da chi, finalmente, si presenti con il suo segno e ponga fine alla lunga sua vacatio. Le cose non vanno quindi, in questo ragionamento, come, almeno per un verso, dovrebbero. Vi coesistono infatti due tesi, fra loro inconciliabili. Da una parte, il nesso che, nel segno della più alta positività, stringe la natura, la provvidenza, l’inalterabile perfezione di ciò che, in ragione e in forza dell’una e dell’altra, è stato conseguito: l’Impero. Da un’altra, la libertà: con le alternative, da essa rese possibili, del bene e del male, del positivo e del negativo. E, per questa seconda, basterà pensare al grande discorso di Marco Lombardo, con il dolente, amaro, persino rabbioso pessimismo che lo percorre e lo rende fremente. « Frate,/ lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui »; « ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna/ l’antica età la nova, e par lor tardo/ che Dio a miglior vita li ripogna ». E si veda l’argomento:
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Voi che vivete ogne cagion recate pur suso al cielo, pur come se tutto movesse seco di necessitate. Se così fosse, in voi fora distrutto libero arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per male aver lutto. Lo cielo i vostri movimenti inizia; non dico tutti, ma, posto ch’i’ ’l dica,
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lume v’è dato a bene e a malizia, e libero voler; che, se fatica nelle prime battaglie col ciel dura, poi vince tutto, se ben si notrica A maggior forza e a miglior natura liberi soggiacete; e quella cria la mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura.
Il conflitto che fra questo, e il precedente concetto, si accende è di natura strutturale; e concerne quella tale idea che il male si affermi, e svolga nel consorzio umano ordinato a Impero le sue conseguenze distruttive, della quale, quanto, in termini di immediata constatazione etica, è facile assumere la possibilità, altrettanto non lo è, anzi è impossibile, in termini compiuti di dottrina. Ulteriormente, se anche in questa sede è lecito accennarvi, la questione si specifica nella discussione che, per bocca di Virgilio, Dante condusse intorno all’insorgere dei « peccati » (quello così detto « originale » che, secondo l’adagio medievale, est aversio a Deo et conversio ad creaturas, non escluso). Il dissidio sussistente fra la concezione aristotelica (e anche neoplatonica) della natura, e quella cristiana, si rende visibile nel luogo del decimosettimo canto del Purgatorio, in cui, dopo aver affermato che « né creator né creatura mai » fu « sanza amore/ o naturale o d’animo », Dante aggiunse: 000 000 096 000 000 000 099 000 102 000 000 105 000 000 108 000 000 111
Lo naturale è sempre sanza errore, ma l’altro puote errar per malo obietto o per troppo o per poco di vigore. Mentre ch’elli è nel primo ben diretto e ne’ secondi sé stesso misura, esser non può cagion di mal diletto; ma quando al mal si torce, o con più cura o con men che non dee corre nel bene, contra ’l fattore adovra sua fattura. Quinci comprender puoi ch’esser convene amor sementa in voi d’ogni virtute e d’ogne operazion che merta pene. Or, perché mai non può da la salute amor del suo subietto volger viso, da l’odio proprio son le cose tute; e perché intender non si può diviso, e per sé stante, alcuno esser dal primo, da quello odiare ogni effetto è deciso.
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Che in questi versi, fra quel che è « naturale » e dunque non può conoscere l’errore, e sottostarvi, e quel che invece, essendo ex animo, può svolgersi nel segno di quello e connotarlo perciò moralmente, vi sia contrasto o, se si preferisce, strutturale impossibilità di accordo, è evidente. Come anche risulta dal carattere di aggiunta, estrinseca e non dedotta, che le proprietà, ovvero peculiarità, di quel che è ex animo rivelano nei confronti del « naturale ». Che alla mente e alla volontà appartenga di poter deviare, e negativamente deviare, dalla semplicità senza peccato e senza errore che rifulge, per contro, nel « naturale », e a questo in sommo grado dev’esser riconosciuta, è, per Dante, un fatto: che ha, o meglio non ha e non può avere, la sua spiegazione in sé stesso, dal momento che a privarlo di questa capacità è proprio il nesso estrinseco in cui è posto con la natura, e con la ratio che a questa è immanente. Il che, come si comprende, apre la grave quaestio che, fra gli altri luoghi in cui la si incontra, Dante delineò nel secondo capitolo del secondo della Monarchia; nel quale, a ideale compimento di quel che si legge nel sedicesimo del Purgatorio, 80-81, scrisse: Sciendum est igitur quod, quemadmodum ars in triplici gradu invenitur, in mente scilicet artificis, in organo et in materia formata per artem, sic et naturam in triplici gradu possumus intueri. Est enim natura in mente primi motoris, qui Deus est; deinde in celo, tanquam in organo quo mediante similitudo bonitatis ecterne in fluitantem materiam explicatur. Et quemadmodum, perfecto existente artifice atque optime organo se habente, si contigat peccatum in forma artis, materie tantum imputandum est, sic, cum Deus ultimum perfectionis actingat et instrumentum eius, quod celum est, nullum debite perfectionis patiatur defectum, ut ex hiis patet que de celo phylosophamur, restat quod quicquid in rebus inferioribus est peccatum, ex parte materie subiacentis peccatum sit et preter intentionem Dei naturantis et celi; et quod quicquid est in rebus inferioribus bonum, cum ab ipsa materia esse non possit, sola potentia existente, per prius ab artifice Deo sit et secundario a celo, quod organum est artis divine, quam ‘naturam’ comuniter appellant 49.
Un commento adeguato di questo passo, che ne ripercorra la trama logica nell’atto in cui altresì ne indichi le possibili fonti, non può essere dato in questa sede 50. E si avrà forse occasione di riparlarne. Ma già 49
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qui può tuttavia osservarsi quel che vi è essenziale, e che anche rivela la disarmonia concettuale da cui appare, in effetti, segnato. Il punto veramente cruciale della questione è che, come nell’arte là si dà perfezione dove per intero la materia sia stata penetrata dalla forma, e difetto invece dove, ciò non essendo accaduto, la materia a tal punto si sia sottratta alla forma da impedirne l’attuazione, altrettanto avviene nella natura. La quale è innanzi tutto nella mente di Dio; e qui non potrà stare senza che questo, lo stare, sia perfetto. Mai infatti potrebbe ammettersi che quel che il primo motore produce lasci, nei confronti della natura (che a sua volta lo lascerebbe perciò nei confronti di quello) uno jato, un luogo inerte, non penetrabile dalla sua luce: una « scandalosa », dunque, zona di irrazionalità. E quel che perciò in questo contesto subito rivela la sua singolarità è che l’anomalia che, nel punto precedente, era stata tacitamente evitata con l’implicita esclusione di un’irrisolta differenza sussistente fra Dio e la natura, e, più in là, fra Dio e il diritto, compaia invece là dove si parla del cielo 51. Che anch’esso è organo di Dio, è suo strumento, e, come tale, non può offrirgli la resistenza che, se mai fosse ammessa, la perfezione stessa che a lui compete ne sarebbe vulnerata e compromessa; e, non di meno, è pur sempre diverso da ciò rispetto a cui è appunto un organo e uno strumento. La differenza viene in primo piano, e rivela la sua conseguenza, quando si consideri che nella comunicazione che, attraverso lo strumento del cielo, la bontà divina fa di sé stessa alla « fluitante materia », già deve notarsi qualcosa come un’attenuazione. Là dove, infatti, il testo dice della similitudo bonitatis ecterne, è ben vero che quella, la similitudo, non implica in questa, nell’eterna bontà, alcun difetto. Come potrebbe, infatti, se è la bontà eterna quella di cui si assume che la similitudo sia la similitudo? Ma vero è tuttavia che nelle cose alle quali, attraverso lo strumento del cielo, la bontà eterna comunica sé stessa, l’attenuazione e il difetto sono innegabili. E Dante lo dice chiaro e tondo mediante la ripresa del paragone della natura con l’arte. A quel modo infatti che se, in quest’ultima si danno difetti che, in quanto tali, non possono essere nell’arte che di per sé ne è priva, la ragione dev’esserne ricercata e indicata nella materia (materie tantum imputandum est), così è a questa, e non certo a Dio e al cielo, che dev’essere fatto risalire il limite che si riscontra nelle cose. Alla materia, dunque, alle res inferiores, e non a Dio, non al cielo (anche se nella differenza pur sempre sussistente fra quello
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e questo debba rinvenirsi la lontana, ma autentica, causa di questa situazione). Il che significa, e Dante lo disse in modo chiaro, che quel che quaggiù può accadere che si determini, accade e si determina ex parte materie subiacentis [...] et preter Dei intentionem. Simmetricamente, e allo stesso modo, sebbene a parti invertite, quicquid est in rebus inferioribus bonum corrisponde all’intentio del deus naturans, e del cielo che è il suo strumento. E la questione che ne deriva di nuovo mostra la sua estrema gravità: come subito si comprende se ad essa si guardi a partire da ciò che, con piena evidenza, ne consegue. Per un verso, è evidente che se, raggio neoplatonicamente discendente da Dio e dal cielo, la forma trova nella materia un ostacolo che non le consente di penetrarla con compiutezza e di recarla, perciò, all’atto, al suo atto, a quella, alla materia, dovrà riconoscersi una capacità di resistere, di sottrarsi, di permanere nella sua grigia sordità, che, a sua volta, non potrà non implicare il suo essere in qualche modo autonoma da Dio. E la conseguenza sarà allora che alla spinosa quaestio posta nel quarto trattato, e lì lasciata senza risposta, se la prima materia degli elementi era da Dio « intesa », la risposta data qui non potrà, pur nei limiti in cui si pone, essere se non negativa 52. Il che, ed è ovvio, non può andare senza aspre difficoltà, delle quali non è solo la più grande che, qui delineandosi, debba esser posta in rilievo. Non è, in altri termini, quella che subito emerge quando si consideri che se la materia, che Dante definisce subiacens, è preter intentionem Dei, di essa dovrà dirsi che non è da lui « intesa »: senza che la differenza che altrimenti volesse riconoscersi nel termine e nel concetto e che viene alla luce a seconda che il participio passato « intesa » sia preso nel senso di « cosa intelletta » o di « cosa intenzionata » (ossia creata), importi in questo caso conseguenze necessariamente opposte. Basta infatti che, « intelletta » o « intenzionata » da Dio, la materia non sia da lui né « intelletta » né « intenzionata », perché di essa debba riconoscersi che, in entrambi i casi, si colloca al di fuori della giurisdizione divina. E questo è, nel conteso cristiano, tanto più grave quanto più si ponga mente a ciò che ulteriormente ne consegue. Quando infatti la materia si riveli non sorda alla voce della forma che la chiama a sé, ma pronta invece a riceverla e ad adeguarvisi, essa non sta più preter intentionem Dei; e dovrà intendersi che invece le stia dentro, che ne dipenda. Che è, a guardar bene, cosa impossibile: dal momento che come, in effetti, si potrebbe assegna-
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Rinvio ancora all’articolo citato alla n. 5.
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re a Dio, e a proposito dello stesso oggetto, l’essere, rispetto a questo, e il non essere, preter intentionem? A delinearsi è qui, nella parte sotterranea del testo, una schietta contraddizione; che ancor più e meglio mostrerebbe questo suo volto se, assumendo la assoluta incontraddittorietà di quel che si definisce come Dio, si pretendesse che « intenzione » e « non intenzione » possano stare in lui, che infatti è Dio. Non è forse evidente che in tanto « intenzione » e « non intenzione » possono stare in Dio in quanto alla loro radice operi e si dia un’intenzione che esclude il suo contraddittorio, sì che non è vero che, fermo in questa sua radicale intenzione e in ogni senso coincidente con essa, in sé stesso Dio si divida fra intenzione e non intenzione? Che poi l’inclusione dell’intenzione e della non intenzione nel quadro incontraddittorio dell’unica intenzione di Dio possa dar luogo, e anzi senz’altro dia luogo, ad aspre difficoltà, è certamente vero. Ma sono, queste, difficoltà che, se ne seguissimo la traccia, ci condurrebbero al di là dei limiti storici in cui la questione qui si presenta. E conviene perciò, quella traccia, abbandonarla, non seguirla. Basta del resto permanere in questo quadro, e rendere più attento l’esame delle difficoltà che vi si rendono evidenti, perché il groviglio che queste formano nell’intrecciarsi l’una con l’altra riveli subito il suo arduo carattere. Il quale comincia ad apparire se all’affermazione di Dante, secondo cui dalla materia, che è ed esiste solo in potenza, è impossibile che alle cose derivi il bonum di cui è in effetti artefice Dio e, con lui, il cielo, si conceda adeguata attenzione ed alquanto vi si rifletta su. La questione non è infatti se da ciò che è in potenza, e soltanto in potenza, possa derivare qualcosa: dal momento che, a quanti la impostassero e la ponessero così, facile sarebbe rispondere che è l’atto, o l’agens, a far sì che l’imperfezione della materia (che è potenza, o in potenza) pervenga alla perfezione della forma. Ma è bensì quest’altra: e cioè se sia possibile il caso inverso, che dalla materia, che è soltanto in potenza, derivi quel che nella natura sia, non bene, e invece, piuttosto, male. Dalla potenza in quanto tale non deriva infatti niente che non sia la potenza stessa. E se si dice che « potenza » vale imperfezione, imperfezione, male, e questo, peccato, con la conseguenza che sono questi, l’imperfezione, il male e il peccato, a derivarne, la deduzione o è impropria o solo per metafora può dirsi che sia una deduzione. Se di per sé la potenza « è » imperfezione, peccato, male, perché mai si assumerebbe che questi ne derivano? Forse che « essere » significa « derivare »?
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La ragione, per altro, in forza della quale si dice così, e s’incorre perciò in questa « fallacia », può forse essere ricercata in ciò che, per un verso, della materia si assume (e questo è uno dei significati che Aristotele le attribuì) che sia in potenza, ma per un altro che la potenza, l’essere in potenza, sia materia. E dunque « qualcosa » che, per oscuro, caotico, « informe » che si voglia considerarlo, è tuttavia qualcosa, e non niente: talché, sottilizzando forse, ma non in modo illegittimo, potrebbe dirsi che è l’atto, e non certo la potenza, di questo suo essere qualcosa e non niente. « Qualcosa e non niente » che, se è da Dio « inteso », ossia « intelletto », sta tuttavia a lui come qualcosa di sordo, di opaco, di non penetrabile dal suo raggio: come qualcosa dunque che, essendogli « altro », necessariamente ne compromette l’assolutezza: quella stessa che anche verrebbe ad esserlo se, non senza artificiosità, si assumesse che, creata e intenzionata come materia, questa reca in sé un tratto non eliminabile di alterità, ed è infatti la materia. L’artificio dialettico non varrebbe a sanare la difficoltà, che ne sarebbe infatti addirittura accresciuta: dal momento che, creata con quel segno, che significa sottrazione di qualcosa all’assolutezza del creante, questo ne viene infirmato nel suo carattere e consegnato, per così dire, alla contraddizione. Nel caso opposto, se cioè si assumesse che la materia non è da Dio « intesa », il solco dell’alterità risulterebbe ulteriormente approfondito e la creatrice onnipotenza divina sarebbe colpita nel suo stesso centro. La questione che ha provocato questo, che non è in senso proprio un excursus (e tanto poco anzi lo è che dovrebbe ricevere ulteriori cure), ha radici profonde nel pensiero e, si direbbe, nella stessa personalità religiosa di Dante; che, in quanto pensava da filosofo e ragionava con Aristotele, a causa della sua coerenza incontrava talvolta difficoltà che, trasferite sul piano della religione cristiana, ossia della sua religione, appaiono francamente non superabili. Le incontrava e, per vincerle, era costretto a oscillare alquanto in sé stesso. La questione riguardava infatti un punto, delicato per la filosofia, più che delicato per la religione. Riguardava il male, e il rapporto che il Dio creatore non può non intrattenervi nell’atto in cui anche quello, il male, ne stringe uno con lui. E con nettezza emergeva con le sue intrinseche difficoltà quando, per esempio, nel già ricordato capitolo del secondo della Monarchia, Dante si dedicava a definire il concetto del diritto. Che è un bene; e come tale sta nella mente di Dio; il quale, per altro, oltre che mente, è volontà, e poiché sua legge è di volere « maxime se ipsum », sequitur
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ulterius quod divina voluntas sit ipsum ius 53. La sequenza, che qui Dante costituiva, è, nei suoi momenti, perfettamente scandita. E quanto più la sua perfezione formale rifulge, di altrettanto a delinearsi era il grave rischio che ne consegue quando, distogliendosi dal suo armonioso svolgimento, lo sguardo si volga a considerare il riscontro che se ne dà (o piuttosto non se ne dà) nei fatti, e allora sono le eccezioni a emergere, le differenze, le anomalie dalle quali, rispetto allo schema, il volto delle cose è segnato. A emergere, insomma, è la discontinuità dell’idea e del fatto: con la discontinuità, la discrasia. Se Dio vuole « maxime » sé stesso, è impossibile che, in questo atto, possa volere la interezza e anche qualcosa di meno della interezza del suo « sé ». Ma che Dio voglia sé stesso significa che questo atto è il medesimo ond’egli vuole il diritto, che è infatti identico a lui. Se, per conseguenza, volere sé stesso significa volere il diritto, di qui segue che volere il diritto non può importare che altro sia il diritto che Dio vuole volendo sé stesso, altro quello che vorrebbe se altresì volesse che il diritto si realizzasse, come tale, fra gli uomini. È a un unico diritto infatti che Dante ha qui la mente; né nel suo pensiero è possibile scorgere distinzioni analoghe a quelle che, problematicamente, intervengono quando la naturalis ratio del diritto sia considerata come un « in sé » al quale accade che corrisponda, ma anche che non corrisponda, che corrisponda in tutto o soltanto in parte, il diritto che si dice positivo. Questa distinzione, in Dante, non si dà. E uno è il diritto. Ne consegue l’impossibilità che, nell’attuazione del diritto, del vero diritto, si dia la differenza che deve invece essere ammessa quando lo sguardo che si rivolge alle cose del mondo non vi discerna il suo segno precipuo, quello dell’unità e dell’ordine, e al suo posto sia invece costretto a contemplare tutt’altro, la disunione, la lacerazione, il disordine. Se è così, il vulnus che le cose del mondo ricevono, da questa scissione, e rendono osservabile sul loro proprio volto quando, appunto, la malizia sia penetrata in esse, è perciò il medesimo che può osservarsi su quello di Dio; che è perfezione, e se perciò appare con quel segno contraddittorio, con il segno, se si preferisce, dell’anomalia intrinseca a un volere, al suo volere, che, nel volersi, per un verso si vuole nella sua interezza, e per un altro soltanto nella sua dimidiata interezza, esso stesso non è più quel che il suo nome designa. C’è di più. Se così è, un’altra conseguenza è necessario mettere in chiaro. Questa: che se Dio
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II
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e il diritto sono lo stesso, e il primo è sempre, anche il secondo dovrebbe sempre esserci. Ma il diritto è, in questa accezione, la stessa cosa dell’Impero; che anch’esso, poiché Dio è sempre, sempre dovrebbe esserci: e dunque è. Si torna quindi, lungo questa via, a toccare la ragione profonda per la quale, agli occhi di Dante, quella storicamente conosciuta e patita dall’Impero romano non è stata una fine, e la sua è, qui ed ora, niente più che una vacatio. Ma anche si perviene in vista di una grave questione, che riceverà, nel primo libro della Monarchia, il suo tratto più problematico. Al momento opportuno, se ne parlerà. Se, al di là della consapevolezza che Dante possa averne avuta, questo pensiero sia affisato per sé e se ne traggano le necessarie conseguenze, non è allora arbitrario assumere che di qui, da questa fonte profonda (e non in ogni suo aspetto pervenuta alla luce della coscienza), deriva la critica che nella parte conclusiva del quarto capitolo del quarto trattato egli rivolse ai detrattori dell’Impero romano, e della sua genesi, contrassegnata, nella loro opinione, non dal diritto, ma dalla forza. Critica veemente e appassionata; che non s’intenderebbe tuttavia nel suo significato autentico se, al di là di questi caratteri, non se ne ricercasse la logica; che è quella che si è, già, nelle grandi linee, indicata e non deve esser persa di vista. Per ribadirla nel segno dell’exemplum e del simbolo Dante ricorse a Virgilio e all’Eneide 54; e li interpretò alla luce di quel suo concetto dell’elezione divina dell’Impero di Roma, che, di per sé sola, bastava a far intendere quale fosse il senso della forza con la quale lo si conseguì e come, a guardarvi dentro, questa mostrasse in sé il lineamento dello ius. Se infatti l’Impero fu voluto da Dio, voluti da lui furono per certo anche gli strumenti che di volta in volta si resero necessari alla sua terrena realizzazione. Strumenti in sé stessi « violenti », ma non isolabili dalla volontà che li indirizzava al fine: come non isolabili dalla mano che li guida sono i colpi del martello che batte sull’incudine il metallo che dev’esserne forgiato. E insomma, nella terminologia adottata da Dante, altra la causa movente e non strumentale, 54 Su Dante e Virgilio si è scritto quanto era necessario, e anche di più. Si ricordi comunque, fra gli altri luoghi, quello, assai importante, di Conv. IV XXVI 8-15. Citare bibliografia sarebbe, in questa sede, inutile: ma cfr. comunque, perché ricco di osservazioni notevoli, D. Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, n. ed. a cura di G. Pasquali, II, Firenze 1955, pp. 241-83 (e sopra tutto, 280-83), e B. Nardi, Dal ‘Convivio’ alla ‘Commedia’, Roma 1960, pp. 113-14, da prendere tuttavia con cautela per quel che concerne le implicazioni cronologiche (relative alla Monarchia).
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altra la causa strumentale e non movente. Una distinzione, questa, fondamentale per lui che, con il suo concetto, perfezionava la sua opposizione al grande modello agostiniano. Una distinzione che, se non fosse stata tenuta nel conto dovuto, era il volto stesso di Dio che ne sarebbe stato offeso e stravolto. Eppure, tale è la complessità dei temi che in queste veloci pagine dantesche s’intrecciano, che, per comprenderne il senso, anche ad altro occorre concedere attenzione. Non tutto quel che vi si nasconde riuscirebbe, altrimenti, ad emergerne. Non ne emergerebbe, per esempio, una questione che vi sta, in effetti, come nascosta; e che, essendo nata dallo studio che di vari testi, e in particolare del tomistico de regimine principum (proseguito e completato da Tolomeo da Lucca) 55, Dante allora fece, potrebbe forse, e a titolo soltanto di pura suggestione, essere definita attraverso quella che Platone pose nell’Eutifrone quando chiese: « che cosa è il santo? ». E avanzò il dubbio, con il quale irretì l’arrogante indovino, se il santo sia tale perché piace agli dei, o a questi piaccia perché è santo. Allo stesso modo del « santo », infatti, i Romani; a proposito dei quali non sarebbe improprio domandare se a renderli degni dell’Impero fu l’elezione che Dio fece di essi a tale fine, o se fu il loro esserne degni che determinò l’elezione divina. Che infatti sia, per un verso, la volontà di Dio a determinare la linea provvidenziale che si concluse nel costituito Impero romano, restò per Dante fuori discussione sempre; e anche nel caso, dunque, in cui il ragionamento inclinasse nell’altra direzione, che anch’essa è presente nel suo testo, e in particolare là dove egli disse della « gente latina », della quale nessuna fu più dolce « in segnoreggiando », nessuna « più forte in sostenendo », nessuna « più sottile in acquistando ». Che quindi, nella stessa pagina, la quaestio riceva queste due diverse risposte, l’una ispirata al criterio secondo cui è Dio ad aver voluto che i Romani fossero nobili e meritevoli dell’Impero, l’altra ispirata all’altro secondo cui fu la loro indole dolce e gentile (e si pensi solo al « gentil seme » di Inferno XXVI 60) a costituire la ragione della scelta divina, è evidente. Che netto fosse dunque in lui anche quest’ultimo concetto risulta infatti, con ogni possibile chiarezza, se si considera la connessione causale onde è costruito il periodo che si legge a IV IV 10-11, e che, cominciando con un « e però che ... », si
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Alludo alla tesi secondo cui i Romani meruerunt dominium ex zelo iustitiae, etc. (de reg. princ. III 4 (e anche III 5).
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conclude con « Dio quello [il popolo romano] elesse a quello officio ». Fu dunque la virtù dimostrata dai Romani nel « segnoreggiare », nel « sostenere », nell’« acquistare », a far sì che Dio li eleggesse all’alto « officio »; e che, scandite secondo la successione ordinaria del tempo, le fasi politiche e militari della loro storia assumessero ex post, e cioè dal momento in cui la volontà divina intervenne a determinarne il senso, la dimensione specifica del tempo provvidenziale. Che sia questa la dimensione che, dapprima, l’argomento di Dante assunse, è evidente; e « dapprima » indica, in senso logico, la sua prima movenza. A provarlo sta l’idea della buona « disposizione » che, con le sue azioni e le sue opere, lungo il corso della sua storia il popolo romano dimostrò a ricevere il dono divino della missione imperiale: un’idea che, per la verità, non potrebbe essere più chiara, né più netta e scevra di ombre. « Però che, con ciò sia cosa che a quello ottenere non sanza grandissima vertude venire si potesse, e a quello usare grandissima e umanissima benignitade si richiedesse, questo era quello popolo che a ciò più era disposto » 56. Altrettanto evidente è, tuttavia, che quel che subito dopo segue non è affatto conforme al ragionamento che si svolgeva, e trovava la sua conclusione, nelle linee appena citate: con la conseguenza singolare che l’« onde » che apre il nuovo periodo (« onde non da forza fu principalmente preso per la romana gente, ma da divina provedenza, che è sopra ogni ragione. E in ciò s’acorda Virgilio nel primo dello Eneida ... ») 57, e che, nel segno della continuità, dovrebbe connettere, connette bensì, se si vuole, ma nel segno opposto, nel segno della discontinuità. Se al concetto della scelta provvidenziale s’intendesse tener fede, e lo s’intendesse perciò con il rigore e la coerenza che ne sono richiesti, certo non potrebbe accadere che alla volontà di Dio si imponesse una limitazione temporale e la si facesse perciò 56
Conv. IV IV 11. Il rinvio è non soltanto a Aen. 1, 278-79, ossia ai famosi versi, his ego nec metas rerum nec tempora pono,/ imperium sine fine dedi, ma all’intero discorso che Juppiter rivolge, rispondendole, a Venere (vv. 254-96). Se lo si legge per intero, è difficile tuttavia rinvenire in questo testo quel che Dante gli attribuì. Non vi si trova infatti quel che a lui più stava a cuore, a cioè che non dalla forza, ma de iure, e cioè per decreto divino, l’Impero fu conquistato dalla « romana gente ». Che di quest’ultimo potesse parlarsi, è vero perché, nel delineare il quadro di quel che sarebbe accaduto, è come se il dio volesse il suo accadimento. Ma di « forza », in contrapposizione al diritto, invece non si parla e perciò nemmeno la si esclude in forma positiva: ciò che, solo se a sé stesso Virgilio avesse posta la relativa questione, era possibile che avvenisse. – Ma su questo tornerò in un apposito articolo. 57
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incominciare in un punto specifico della storia: quasi che, nella logica di una concezione conseguentemente provvidenzialistica, ogni punto della storia non fosse sempre e comunque trasferibile dalla dimensione temporale in cui si trova e lo si considera all’atto senza tempo in cui fu deciso che lì si trovasse, e non altrove. Che è, come si diceva, conseguenza ovvia di questa idea; e dalla quale, ulteriormente e per necessità, anche l’altra deriva: quella secondo cui la stessa prova di dolcezza, forza e sottigliezza che il popolo romano aveva data in vista della sua « elezione », anche questa fu voluta dalla provvidenza, che poi la scelse a causa del suo valore intrinseco. Che fra queste due prospettive, o dimensioni, l’accordo possa essere trovato e conseguito solo se la prima sia prospettata dal punto di vista, e nel segno, della seconda, è evidente. E importa la conseguenza che se, al contrario, le si conferisse autonomia e non della provvidenza si facesse la cagione della virtù romana, ma di questa invece la cagione della scelta fattane dalla provvidenza, allora delle due proposizioni dovrebbe dirsi che sono in contrasto e danno luogo a un forte dissidio logico, a una contraddizione. Che poi, quando di questa l’occhio cerchi di discernere il profilo psicologico, quella, la contraddizione, possa esser fatta risalire al sentimento filoromano che, per tante ragioni e lungo vie non tutte allo stesso modo percorribili, s’era formato nell’animo di Dante, è ovvio. Via via che, un tempo condivisi, i pregiudizi antiromani si erano rivelati per tali, puri pregiudizi, e si erano infine dissolti nel giudizio relativo alla provvidenzialità e santità di ciò a cui Enea aveva dato inizio, Virgilio si era trasformato e trasfigurato nel simbolo di questo processo. Poiché lo aveva, secondo Dante, descritto in questi termini, era andato, naturalmente, a farne parte: a tal punto che, come, nella sua linea provvidenziale, Roma era poco alla volta assurta a simbolo della ragione storica che in lei, e nella sua vicenda, realizzava il suo senso, altrettanto era accaduto a Virgilio. Il che, se è vero, comporta anche l’ulteriore conseguenza, che anche di lui può dirsi quello stesso che si asserisce di Roma; e cioè che la sua eccellenza fu anch’essa decisa dalla provvidenza, che constatava nei fatti quel che aveva previamente deciso dovesse essere l’oggetto della sua constatazione. Con la singolare sua sintesi della storia romana, interpretata come storia sacra, e con i suoi ricercati e ingegnosi sincronismi, il quinto capitolo pone questioni complesse, e, per l’interpretazione della teoria dell’Impero, decisive. Da quando, almeno, preceduto per altro da non
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poche considerazioni di Francesco d’Ovidio 58, Ernesto Giacomo Parodi scrisse il suo famoso saggio 59, è consuetudine citare, a proposito di questo capitolo del quarto trattato, i versi 14-24 (e, sopra tutto, 22-24) del secondo dell’Inferno; che sono tuttavia difficili e controversi, tanto che, chiamandoli in causa, la questione non si avvia a soluzione, ma si complica. Converrà quindi procedere a letture separate; e solo dopo che, e l’una e l’altra, abbiano toccato il rispettivo approdo, procedere al loro confronto. Tanto più, si direbbe, questo metodo è raccomandabile in quanto, sia nell’uno sia nell’altro luogo, a emergere è una questione che nel quarto capitolo non aveva dato segno di sé. Si tratta della questione concernente il nesso che, comunque poi lo si giudichi nelle sue conseguenze, Dante stabilì fra l’Impero romano e la nascita di Cristo; e, più in particolare, e procedendo all’indietro nella direzione del passato, fra la « progenie [...] di David, dal qual discese la baldezza e l’onore dell’umana generazione, cioè Maria », e Enea, « che fu origine della cittade romana » 60. Una questione, com’è evidente, di essenziale importanza, alla quale non potrebbe perciò non concedersi attenzione adeguata. E si cominci, dunque, dal capitolo del Convivio. Nel quale, subito dopo aver pronunziato l’elogio (polemico elogio) della « divina provedenza », il cui consiglio « del tutto l’angelico e lo umano acorgimento soperchia », e non dovrebbe tuttavia essere misconosciuto o ignorato quando la sua « essecuzione » procede in modo che « la nostra ragione » la discerne 61, Dante entrò subito nella questione. Che riguarda, in primo luogo, la decisione divina di « riconformare » a sé l’« umana creatura », che « per lo peccato della prevaricazione del primo uomo da Dio era partita e disformata », e quindi di inviare in terra il figliuolo di Dio che, appunto, a quella « concordia » desse attuazione. Da que58 F. D’Ovidio, Il guelfismo di Dante nel secondo canto dell’Inferno e la cronologia delle tre cantiche, e anche Per lo loco santo, in Nuovo volume di studii danteschi, Napoli 1926, pp. 112-61, 165-92. Va precisato che, alla fine di un percorso segnato da vari dubbi, il D’Ovidio concluse che, quando scriveva il secondo dell’Inferno, « guelfo » Dante non era più, e se a quei suoi due versi dette quella tonalità, fu per rispetto della finzione cronologica, che assegnava al 1300 il compimento del viaggio nell’al di là. Che con questa tesi possa convenirsi ancor meno che con quella del condiviso guelfismo, è evidente. 59 E. G. Parodi, La data di composizione e le teorie politiche dell’ ‘Inferno’ e del ‘Purgatorio’, in Poesia e storia nella ‘Divina Commedia’, a cura di G. Folena e P. V. Mengaldo, Vicenza 1965, pp. 307-308, 321. 60 Conv. IV V 5-6. 61 IV V 1.
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sta decisione, o ÂŤ elezione Âť, presa ÂŤ in quello altissimo e congiuntissimo consistorio della Trinitade Âť, procedette l’altra per la quale, al momento della discesa del Cristo, ÂŤ non solamente lo cielo ma la terra convenia essere in ottima disposizione Âť. E poichĂŠ ÂŤ la ottima disposizione della terra Âť si determina e si ha ÂŤ quando ella è monarchia, cioè tutta ad uno principe [...], ordinato fu per lo divino provedimento quello popolo e quella cittade che ciò dovea compiere, cioè la gloriosa Roma Âť. La quale, dunque, ÂŤ non solamente speziale nascimento, ma speziale processo ebbe da Dio Âť; sĂŹ che non sono se non ÂŤ stoltissime e vilissime bestiole Âť quanti, di fronte a questa gloriosa evidenza, osano tenere gli occhi chiusi, e negano. Continuare nella citazione del testo, densissimo e degno perciò, in ogni sua parte, di essere riferito, sarebbe tuttavia inutile: tanto l’intenzione vi è esplicita. Ma inutile non è quel che qui di seguito si discuterĂ : anzi, essenziale. Che nella decisione divina di ÂŤ riconformare a sĂŠ Âť, attraverso la discesa in terra del figliuolo di Dio, la natura umana corrotta dal peccato di Adamo, e di disporre perciò il mondo ad accogliere questo evento in ogni senso speciale, si determini, nella coincidenza e nella non coincidenza, un gioco assai complesso di elementi, è, se si fa attenzione, evidente. Per un verso, innegabile è, nella decisione divina, la subordinazione dell’Impero alla venuta del Cristo: dal momento che quel che è ÂŤ disposto Âť a qualcosa ed è in funzione di questo, ne dipende e, idealmente, lo segue. Per un altro verso, invece, è pur vero che proprio il contrario accade. Idealmente dipendente da ciò in vista di cui è ÂŤ disposto Âť, quel che, appunto, vi è disposto è, riguardo al tempo, precedente: a tal punto che, alla sua venuta, il figlio di Dio deve ben trovare un luogo che non solo sia del tutto degno dell’evento straordinario, ma altresĂŹ sia tale da renderlo visibile all’intero, unico perciò e non separato e disperso, genere umano 62. Per un altro verso ancora, questo scambio, che si rende manifesto nella differenza da cui questo ÂŤ soggetto Âť appare determinato a seconda che lo si guardi e lo si consideri κιτ Ď„ ν δ ιν o κιτ Ď„ ν Ď‡Ď Î˝ÎżÎ˝, si ricompone, le differenze rientrano e scompaiono, se si ponga mente a questo punto essenziale. Nella decisione divina l’elezione dell’Impero e la discesa in terra del Cristo non possono se non essere simultanee, immediatamente procedenti dall’atto del volere di Dio, che è eterno e non può dispiegare sĂŠ stesso, quali che siano le conseguenze che ne derivano, secondo il
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3-9. E cfr. Mon. I
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ritmo temporale del « prima » e del « poi ». E sarà vero che, pur nella simultaneità e assoluta coincidenza, nel paragone che se ne faccia con la venuta del Cristo l’Impero appaia con, sul volto, il segno del suo esserne lo strumento. Ma vero è anche che questo è uno strumento « santo »: talché, sotto questo, che non è un secondario, è un essenziale profilo, lo strumento coincide con il fine, questo coincide con lo strumento. Ragione della coincidenza è, infatti, la santità di entrambi. E la conseguenza è che se, nei termini del Convivio, si concludesse che l’Impero è per il Cristo, e quindi, per estensione, « per lo loco santo/u’ siede il successor del maggior Piero » 63, e questo « esser per » importasse l’idea della subordinazione assiologica dell’uno all’altro, del primo al secondo, si concluderebbe male. E se n’è data la ragione 64. Si possono interpretare così anche i versi, già ricordati, del secondo canto dell’Inferno? È tesi da tempo corrente nei commenti, e altrove, che là dove, in quelli, Dante alluse a Enea, all’Impero e alla Chiesa, la preminenza ideale di questa su quello è resa manifesta dal carattere soltanto strumentale (il per del v. 23) del primo (l’Impero) e « finale » della seconda (la Chiesa). A partire, è stato ricordato, dal commento di Baldassare Lombardi (1791) 65, per arrivare a quello, autorevole, di Natalino Sapegno 66, la glossa moderna insiste sulla « sfumatura », più o meno netta, di guelfismo che la « strumentalità » dell’Impero e, sull’altro fronte, la « finalità » della Chiesa appunto rivelerebbero, e porrebbero al di fuori di ogni questione. Ma, anche da parte di chi a questa tesi riteneva che si dovesse, nella sostanza, dare il consenso, non poche ec-
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Inf. II 23-24. La questione è per intero sfuggita a, per es., F. Ercole, Le tre fasi del pensiero politico di Dante (1921), in Il pensiero politico di Dante, II, Milano 1928, pp. 332-36. Come se non si ponesse se non in termini di cronologia, di prima e di poi, egli sostenne infatti che, lungi dall’aver essa dato vita all’Impero, la Chiesa ne dipende, e che per questo, già nel Convivio, Dante aveva conseguito il traguardo del più netto antiguelfismo. Ma, inversamente e tuttavia per la stessa ragione, anche al Parodi e a quanti ne condivisero il pensiero, sfuggì. Assai più equilibrato riuscì invece il commento di M. Barbi, Problemi fondamentali per un nuovo commento della ‘Divina Commedia’, Firenze 1956, pp. 107-108. 65 La Divina Commedia, col commento del p. B. Lombardi, I, Prato 1852, p. 10. 66 Sapegno, comm. cit., p. 20. Di qui, com’è noto, egli traeva un argomento, che giudicava « notevole », a favore della tesi, sostenuta per primo dal Boccaccio, dell’anteriorità all’esilio dei primi sette canti (cfr. ancora Sapegno, p. 93), che sarebbero perciò stati composti a Firenze. E cfr. infra, n. 68. 64
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cezioni e correzioni e aggiustamenti sono stati proposti: sì che la tesi stessa ha finito per presentarsi con un volto assai meno deciso che non fosse all’inizio: e più problematico, forse, che convinto. Meglio di ogni altro, ad esprimere questa esigenza di attenuazione e di problematizzazione fu forse, in pagine fra le sue ultime, Michele Barbi; e in particolare là dove osservò che, non a ragione, ma a torto, il Parodi aveva sostenuto che, affermata nel Convivio e ribadita nell’Inferno, l’idea della subordinazione dell’Impero alla Chiesa è conseguente alla « dottrina del guelfismo più intransigente » 67. Con piena ragione, pertanto, egli aggiunse che, per l’Impero quale appare delineato nel Convivio e anche nell’Inferno, non sarebbe lecito affermare il carattere unicamente strumentale: ossia di preparazione all’avvento della chiesa di Roma: come il Parodi aveva preteso, andando, per questa parte, contro l’evidenza del testo. Sia il quarto capitolo del quarto trattato, sia il secondo dell’Inferno sono, al riguardo, inequivocabili; e la provvidenzialità, non la strumentalità dell’Impero, vi è affermata con netta consapevolezza: come si avrà modo di ribadire quando, fra breve, torneremo a ragionarne. Né, del resto, allo stato attuale degli studi, sembra possibile sostenere che il per del v. 23 basti a rendere evidente la convinzione guelfa di colui che lo scrisse e, ulteriormente, costituisca la prova dell’anteriorità all’esilio dei primi sette canti della Commedia, sostenuta, come si sa, dal Boccaccio 68 e condivisa e svolta anche da qualche studioso di oggi (o di ieri) 69. Che, nella concreta e determinata realtà delle cose, « guelfismo » significhi nient’altro che quel che il Parodi intendeva, nessuno potrebbe sostenere con tranquilla coscienza ove avesse considerato che l’« antimperialismo » guelfo è un atteggiamento politico, assai più che una « dottrina », e che trattarlo come se invece lo fosse può condurre a gravi fraintendimenti, a non riparabili alterazioni della realtà. E c’è di più. Come si è, di recente, assai ben argomentato, quel che nei versi dedicati a Enea, a Roma, alla Chiesa, Dante sostenne, non è in
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Barbi, Problemi fondamentali, p. 102. Boccaccio, Il commento alla ‘Divina Commedia’ e gli altri scritti intorno a Dante, a cura di D. Guerri, I, Bari 1918, pp. 50-51, 96-97. 69 Le tesi del Boccaccio fu ripresa, e ampiamente argomentata, in un libro ricco di ottime osservazioni, ben scritto, ma non persuasivo, di G. Ferretti, I due tempi della composizione della ‘Divina Commedia’, Bari 1935, il quale non mancò di intrattenersi a lungo sulla questione di Inf. II 22-24, e del guelfismo, da lui risolutamente affermato, di Dante. E cfr. anche il suo La data dei primi sette canti dell’ ‘Inferno’, in Saggi danteschi, Firenze 1952, pp. 1-25. 68
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alcun modo difforme dal sentire ghibellino (il che, beninteso, non significa che si debba perciò ascriverlo a questo « partito »!); e a intuirlo era stato già Francesco Torraca 70. In realtà, sia che, secondo l’indicazione autorevole del Parodi, i versi 22-24 siano intesi come se Roma e l’Impero fossero stati destinati a essere « lo loco santo » del pontefice, sia che li si interpreti nel senso che furono voluti perché giovassero alla Chiesa a cui avrebbero messo capo, – le giovassero e la tenessero nella loro protezione, la differenza non è così grande da indurre nella convinzione che soltanto attraverso la crisi e il superamento di questa idea Dante poteva pervenire a quella delineata e sostenuta nella seconda e nella terza cantica, nonché, naturalmente, nella Monarchia. Da una parte, infatti, è innegabile che, comunque lo si interpreti, il per del v. 23 implica la funzione strumentale dell’Impero, anche se non, necessariamente, la sua subordinazione alla Chiesa. Da un’altra, è non meno innegabile che, anche qui, l’Impero rappresenta qualcosa come la suprema articolazione del percorso provvidenziale. E, a questo, un ulteriore rilievo conviene aggiungere: e cioè che sia la destinazione di Roma e del suo Impero alla Chiesa, sia questa, che pure, nel tempo, apparve dopo, ebbero origine da un medesimo atto della volontà divina; che, non avrebbe potuto volere l’Impero per la Chiesa se questa non fosse stata a sua volta voluta nel segno dell’Impero e in connessione con l’esserci di questo. Si torna così, ed è il forte afflato provvidenzialistico di questi versi dell’Inferno a imporlo, – si torna a quel che già si notò a proposito del quinto capitolo del quarto trattato: e cioè all’idea secondo la quale la subordinazione dell’Impero alla Chiesa implica non solo che, con il fine, anche il mezzo partecipi, pleno iure, del piano essenziale della provvidenza, ma anche altro, d’importanza non meno grande. E questo è la perfetta simultaneità, nell’atto volitivo di Dio, della nascita dell’Impero e della Chiesa, entrambi espressione della provvidenza, entrambi (in virtù di un approfondimento che con sé non reca né crisi né sconvolgimenti) pronti ad assumere la parte che all’uno e all’altra sarà assegnata nell’ultima e più matura concezione di Dante. 70 F. Torraca, « Studi danteschi », 10 (1925), pp. 45-48; ma, con lui, molti altri: per es., N. Zingarelli, « Studi danteschi », 12 (1927), p. 92, I. Del Lungo, Dal secolo e dal poema di Dante, Bologna 1898, pp. 154-55, L. Pietrobono, Il poema sacro, I, Bologna 1915, p. 226, Barbi, Problemi fondamentali, pp. 107-108. Da ultimo, in un saggio molto notevole, G. Inglese, Una pagina di Guido delle Colonne e l’Enea dantesco (con una postilla a If. II 23), « Cultura », 35 (1977), pp. 423-33, ora in L’intelletto e l’amore. Studi sulla letteratura italiana del Due e Trecento, Firenze 2000, pp. 123-64.
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Nel primo di questi due cruciali capitoli del quarto trattato, dopo quella che paragona l’Imperatore al « nocchiero » che, « considerando le diverse condizioni del mondo, alli diversi e necessarii officî ordinare abbia del tutto universale e inrepugnabile officio di comandare » 71, di quello, dell’Imperatore, s’incontra un’altra, memorabile, definizione. L’imperatore è « di tutti li comandatori [...] comandatore, e quello che elli dice a tutti è legge, e per tutti dee essere obedito, e ogni altro comandamento da quello di costui » deve prendere vigore e « autoritade ». Infine, nel nono capitolo, sempre del quarto trattato, ricorre l’altra, e anch’essa memorabile, definizione: quella per cui « quasi dire si può dello Imperadore, volendo lo suo officio figurare con una imagine, che elli sia lo cavalcatore della umana volontade ». Una definizione che, un’immagine nascendo dalla precedente, alla fantasia di Dante suggerisce quella del cavallo che, « come vada sanza lo cavalcatore per lo campo assai è manifesto, e spezialmente nella misera Italia, che sanza mezzo alcuno alla sua gubernazione è rimasa » 72. Al nono capitolo questa presente indagine perverrà. Ma, già a questo punto, la linea del ragionamento dantesco appare segnata con la più grande nettezza. E proprio per questo suscita l’attesa del resto. A che cosa si allude? Se l’autorità dell’imperatore è, nel consorzio umano, altissima, anzi, meglio, così alta che nessuno e niente può andarle sopra oltrepassandola, essa ha tuttavia il suo limite in sé. E questo è quello in ragione del quale chi, sotto ogni altro punto di vista, si trovi a dover obbedire alla sua legge, può tuttavia non condividere un’opinione che, pur professata dall’Imperatore, non appartenga tuttavia all’ambito specifico della sua giurisdizione. Se a Federico II, l’ultimo, come Dante lo definì, « imperadore delli Romani », accadde una volta di esprimere un’opinione su ciò che « nobilitade » o « gentilezza » siano, e di darne una definizione, perché a questa e a quella si dovrebbe ossequio? Palesemente, questa opinione, e la definizione che ne segue, si escludono da ciò che, nella sua giurisdizione, si presenti con il segno dell’incontrovertibilità, e del comando a cui si deve incondizionata obbedienza. Ne consegue che, illimitato nel suo campo, il potere imperiale conosce tuttavia un limite che, sebbene non appartenga alla sua natura, esiste tuttavia come qualcosa che, stando al di fuori, non può essere raggiunto e quindi incluso. Il limite di cui si parla non è, dunque, di natura politica e giurisdizio-
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nale. Qui è impossibile che l’Imperatore, e l’Impero, incontrino limiti. Dove li incontrerebbero, infatti? Non certo nelle formazioni politiche (le città e i regni) che, nel processo della sua formazione, l’Impero, ha via via, superate e rese interne alla sua propria legge. Non certo in questa; che è la sua legge e, nell’atto in cui non può essere superata e chiude l’Impero nella sua perfezione, in questa, appunto, lo chiude, definendolo come ciò che, tutto in sé comprendendo, in niente che sia può mai essere compreso. Che su questo punto nessun dubbio possa cadere, e la cosa sia da considerarsi pacifica, è tanto più evidente quanto più si consideri che, nel formulare queste tesi e nel conferire a esse il drammatico estremismo che ciascuno (se qualche ideologico pregiudizio non lo renda cieco e sordo), può avvertirvi, Dante procedeva in senso del tutto contrario e opposto a quello che da tempo ormai dava segno di sé nelle cose dell’Italia e dell’Europa. Il pensiero che, con eroica ostinazione, e con consequenzialità formale tanto più grande quanto più sapesse che la sua era vox clamantis in deserto, egli delineava e costruiva, si risolveva in un atto appassionato di negazione, rivolto a quel che meno di ogni altro esistente avrebbe potuto essere negato, e cioè al mondo nel quale l’Impero era naufragato per sempre. E assumeva l’aspetto di una sfida, orgogliosa e drammatica, diretta contro la « maladetta » presunzione di quanti impedivano che la voce della ragione penetrasse nei cuori e riaccendesse il fuoco della passione provvidenziale. Il presente, e più che mai quello degli scelestissimi Florentini, calpestava le idee che egli accoglieva come le idee stesse di Dio: le calpestava e ne faceva scempio; e, con più forza, perciò le ribadiva. Nell’epistola che il 31 marzo 1311, sub fonte Sarni, inviò ai suoi concittadini, trovò, al riguardo, accenti indimenticabili. « Eterni pia providentia Regis, qui dum celestia sua bonitate perpetuat, infera nostra despiciendo non deserit, sacrosanto Romanorum Imperio res humanas disposuit gubernandas, ut sub tanti serenitate presidii genus mortale quiesceret, et ubique, natura poscente, civiliter degeretur » 73. La conseguenza era, per lui inevitabile. « Igitur in hanc Dei manifestissimam voluntatem quicunque temere presumendo tumescunt, si gladius Eius qui dicit: ‘mea est ultio’ de celo non cecidit, ex nunc severi iudicis adventante iudicio pallore notentur » 74. Parole, come si vede, roventi, e terribili: tal che, nel commentarle, non ebbe
73 74
Ep. VI 2-3 (p. 550 Frugoni). Ibid. VI 4.
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torto Leonardo Bruni quando scrisse che, sopravvenuta « l’elezione di Arrigo di Luzimborgo », e non potendo « tenere il proposito suo dell’aspettare grazia » dai Fiorentini, che lo riaccogliessero fra loro, contro di loro, innanzi tutto, Dante si levò « con l’animo altero ». E « cominciò a dir male di quei che reggevano la terra, appellandoli scellerati e cattivi, e minacciando loro la debita vendetta per la potenza dello ’mperatore, contro la quale diceva esser manifesto loro non avere alcuno scampo » 75. Riconoscimento del limite imperiale come la stessa cosa della sua specifica assolutezza. E disconoscimento di ogni pretesa che da parte degli Stati particolari si fosse avanzata e si avanzasse in pro dell’autonomia di ciascuno dall’imperiale « comandamento ». Il limite che perciò Dante riconosceva e imponeva all’Imperatore non era politico e giuridico. Era, e qui sta il nodo che « ritiene » il Convivio « di qua » dalla Monarchia, un limite filosofico. L’Imperatore non è Aristotele. Il « cavalcadore della umana volontade » non è anche, e nello stesso atto, il cavalcatore dell’umana ragione. Non è la ragione stessa intesa nella dispiegata potenza del suo attuale esercizio. Non è la scienza che, « ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicitade » 76, è altresì quella nella quale, poiché ciascuna cosa, « da providenza di prima natura impinta, è inclinabile alla sua propria perfezione » 77, accende nell’uomo il desiderio e insieme lo realizza. L’Imperatore, dunque, qui nel Convivio, non è anche Aristotele. Per questo, si ripete ancora, la sentenza di Federico II dev’essere respinta; e non vale infatti più di quella di Nerone, « che disse che giovinezza era bellezza e fortezza del corpo », laddove avrebbe dovuto definirla « colmo della naturale vita ». « Diffinire di gentilezza non è dell’arte imperiale » 78. Definizioni concernenti questa materia non possono darsi al di fuori di quella che, per analogia, potrebbe esser detta « arte filosofica ». Sono dunque di pura pertinenza aristotelica, se, con questo aggettivo, si vuole, come Dante suggeriva, intendere la ragione stessa nella sua struttura e nel suo esercizio concreto, la filosofia e l’intelletto. Che, nell’idea che Dante ne ebbe e ne delineò, questo Aristotele significasse, è ovvio; e 75
L. Bruni, Le vite di Dante e del Petrarca, ed. Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino alla fine del secolo decimosesto, Milano 1904, p. 103. 76 Conv. I I 1. 77 Conv. I I 1. 78 IV IX 16.
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non richiede dimostrazione. Egli è « maestro e duca della ragione umana, in quanto intende alla sua finale operazione » 79. E poiché la « finale operazione » a cui la ragione umana « intende » ha per oggetto la felicità che quaggiù conseguire « si puote », ed è perciò quella stessa a cui l’umanità si dirige sotto la guida di colui che « cavalca » la sua volontà, ecco che, accanto all’Imperatore, con, dinanzi a sé, il medesimo fine, si pone il Filosofo, o Aristotele che si preferisca chiamarlo. Aristotele che anch’esso è perciò, se si vuol dire così, un « cavalcadore »: ma della ragione, non della volontà. Ne consegue che se, oltre la volontà e l’intelletto, niente si dà da cui l’« intendimento » umano possa ricevere definizione, l’Imperatore e Aristotele si pongono come i due supremi maestri del genere umano in quanto, sia nella dimensione della volontà, sia in quella dell’intelletto, quello intenda alla sua finale operazione. Da questo punto di vista, il discorso concernente il destino terreno del genere umano, è giunto al suo termine. O, meglio. Lo sarebbe se, per un verso ovvia, la distinzione della volontà dall’intelletto, o, se si preferisce, dell’Imperatore da Aristotele, non importasse, per un altro, conseguenze assai meno pacifiche di quelle che parrebbe giusto e, appunto, ovvio ricavarne. Per un verso, l’autorità filosofica « non repugna » a quella imperiale; e, per questo aspetto, è alla concordia, è alla collaborazione nel segno della reciproca autonomia, che, senza dubbio, Dante guardava. Ma, per un altro verso, è anche vero che « quella sanza questa è pericolosa, e questa sanza quella è quasi debile, non per sé, ma per la disordinanza della gente: sì che l’una coll’altra congiunta utilissime e pienissime sono d’ogni vigore » 80. Questo passo che, al di là di qualche ovvia parafrasi, non sembra aver attratto l’attenzione degli interpreti, offrirebbe a questi vario filo da torcere se sul serio fosse fatto oggetto delle loro cure. E potrebbe infatti cominciarsi col chiedere perché mai Dante considerasse « pericolosa » l’autorità imperiale qualora questa non avesse incontrato, al di fuori di sé, il limite costituito dalla ragione e da colui, Aristotele, che simbolicamente la rappresenta. Che infatti, affidata com’è alla sola ragione, l’autorità di quest’ultimo possa esser debole là dove e quando a sostenerla non sia la forza, può, entro certi limiti, capirsi. Ma è la pericolosità 79
IV VI 8. Si aggiunga, per inciso, che questo è il capitolo in cui Aristotele è definito da Dante come « degnissimo », non solo di fede, ma anche di « obedienza » (IV VI 6 e 7-8); e che al riguardo E. Gilson, Dante et la philosophie, Paris 19532, p. 144, osservò la singolarità dantesca della seconda espressione. 80 Conv. IV VI 17-18.
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dell’Imperatore che, se si legge seguendo la logica interna al contesto, non risulta spiegabile, e finisce anzi con l’apparire come contraddittoriamente assunta. Non è forse vero che, come « cavalcadore della umana volontade », come « nocchiero » che, a tutte le operazioni necessarie alla navigazione presiedendo, a tutti e a ciascuno assegnando le parti, di tutti e di ciascuno controllando le operazioni intendenti al fine, l’Imperatore è un eroe della moderazione? Non è forse vero che, « tutto possedendo e più desiderare non possendo », non è possibile che, per qualcuno o qualcosa, rappresenti un rischio e un pericolo? Del resto, se, cavalcata da un così fatto « cavalcadore », deve intendersi che la volontà sia attuata nella sua più piena essenza e che in tal modo anche sia conseguita, per la parte almeno che la riguarda, la vita felice del genere umano, come potrebbe intendersi che dalla sua perfezione potesse venire ad altro un qualsiasi pericolo? E c’è di più. Se è vero, ed è vero, che anche nel secondo membro della correlazione c’è qualcosa che non dovrebbe esserci, il quadro si rivela meno limpido di quel che dovrebbe. Quel che non dovrebbe esserci e invece, obliquamente, vi si rivela, è la « disordinanza » della gente; che se, come per lo più accade, fosse interpretata secondo la materialità del riferimento a determinate condizioni di fatto difettive di ordine e di armonia, non darebbe luogo, nella sua idea, a difficoltà, ma se invece, come il contesto richiede, la si intendesse in riferimento alla filosofia, allora sì che le difficoltà insorgerebbero, pungenti e istruttive. Le difficoltà insorgerebbero, e sarebbero ciò non ostante istruttive, perché è nella loro parte più oscura che forse incomincia a dar segno di sé una delle tesi più audaci e paradossali di Dante: quella che campeggia nel terzo capitolo del primo libro, della Monarchia e che lì soltanto troverà la sua piena espressione. A che si sta alludendo? La difficoltà che, seguendo il senso filosofico del passo, si coglie, o si percepisce presente, nel suo fondo, è che, a rigore, se la filosofia ha la sua realizzazione nel condurre al porto della conseguita felicità il genere umano, come potrebbe dirsi che sia filosofia quella che coesiste con un genere umano disordinato e infelice? La difficoltà, dunque è evidente. Ed è, potrebbe aggiungersi, tale da raddoppiare quella che già si darebbe a vedere se si osservasse che nemmeno con l’attuazione del programma imperiale, e della volontà che sta alla sua radice, nemmeno con questa sarebbe in realtà possibile dire che coesista e possa coesistere una umanità « disordinata » e discorde. Non è forse, anche per questa parte, evidente che, poiché la volontà imperiale realizza tutta intera la volontà del genere umano, che, se è tale, non può certo essere se non un’unica, e non discorde, volontà,
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ammettere che questa possa essere discorde e non unica è impossibile? La difficoltà, si ripete, è evidente; e certo operava nel fondo della coscienza di Dante. Richiedeva perciò che egli la superasse. Ma se è vero che il superamento della difficoltà comportava che in Aristotele e nell’Imperatore si indicassero i termini di un’unità all’interno della quale ciascuno stesse con il suo proprio carattere, e connesso tuttavia con l’altro in modo che l’unità, appunto, ne risultasse, e non la scissione, – ebbene non sta qui l’origine del capitolo « averroistico » della Monarchia? E forse che non è vero che qui, nel Convivio, il mancato avvertimento della difficoltà deriva dall’irrompere incontenibile della passione politica che, con lo spettacolo che evocava di coloro che hanno « le verghe de’ reggimenti d’Italia », i re « Carlo e Federico e gli altri principi e tiranni » 81, anticipava sé stessa in un luogo concettuale nel quale non avrebbe dovuto, in effetti, trovarsi? Non deve dimenticarsi che il passo in cui Dante indicò il nesso sussistente fra la imperiale e la filosofica « autoritade » è contiguo a quello che conclude il capitolo nel segno della vibrante polemica contro i personaggi che vi sono definiti meritevoli del più fiero dispregio. E in questo passo, bellissimo, nel quale la fantasia del poeta si accende irresistibile e al pensatore detta la superba immagine dei principi che miglior sorte avrebbero a « volar basso » al modo delle rondini, e non « come nibbio altissime rote fare sopra le cose vilissime » 82, – anche qui, di nuovo, l’incongruenza s’insinua e la passione prende il posto della logica. Ai « miseri » che al presente « reggono » Dante rimproverava di non avere accanto a sé filosofi che fossero degni del nome. Deplorava, per citare le sue parole esplicite, che « nulla filosofica autoritade » si congiungesse con i loro « reggimenti né per propio studio né per consiglio » 83. Ma, di nuovo, travolto dalla passione e dallo sdegno, è come se dimenticasse di considerare quel che pure la logica più profonda della sua impostazione recava con sé, e imponeva che egli dicesse. E cioè quel che già s’è osservato; che se, al pari dell’Impero che, assumendola come il suo telos, realizza la felicità del genere umano, a questo medesimo fine è indirizzata la filosofia, che nel realizzarlo realizza sé stessa, allora è evidente che solo a un’umanità unificata dall’Imperatore la filosofia può corrispondere; e a una dispersa e divisa invece no. A una umanità frazionata nei tanti reggimenti nei quali, fattosi reo, il mondo si sia risolto, nessuna vera filosofia può 81 82 83
IV VI 20. Ibid. IV VI 19.
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offrire la sua collaborazione. Senza l’Imperatore, che unifica, non si dĂ Aristotele. E si tratterebbe di capire come sia possibile, e perchĂŠ accada, che, la realtĂ essendo per natura inclinata verso la sua perfezione, questa non sia attinta e il mondo appaia nel segno della malizia e delle miserie che ne conseguono. La rampogna di Dante era tanto piĂš veemente quanto meno la realtĂ avrebbe dovuto esser tale da meritarla. Ma la realtĂ era tale da meritarla. E perciò, di nuovo: com’è possibile che la retta via sia stata deviata e poi abbandonata? Ăˆ una questione grave, quella alla quale si allude. E tornerĂ a presentarsi, nella sua forma piĂš acuta, nel trattato latino sulla monarchia. Posta nel terzo capitolo, esaminata e svolta attraverso la discussione relativa all’ imperiale autoritade Âť, la quaestio della ÂŤ reverenza Âť, che a questa si deve (e non si deve), è ripresa nel nono; non senza che nell’ottavo Dante avesse fatto ricorso alla distinzione aristotelica della negazione ( Ď€ Ď†ÎąĎƒÎšĎ‚) e della privazione (ĎƒĎ„ Ď ÎˇĎƒÎšĎ‚) per elevarla a criterio e a fondamento della sua ratio 84. Se è cosĂŹ, è evidente che al nono capitolo non potrebbe mai sul serio pervenirsi se sul modo da lui tenuto nel prospettare i concetti della negazione e della privazione, e nel servirsene nello svolgimento del suo argomento, non ci si soffermasse alquanto. Quello che di sĂŠ stesso e dell’impegno che di lĂŹ in poi lo attendeva, Dante disse (ÂŤ però nullo si maravigli se per molte divisioni si procede, con ciò sia cosa che grande e alta opera sia per le mani al presente ... Âť) 85, a fortiori vale per l’interprete: al quale, capacitĂ a parte, che altro dovere incombe che non sia quello diretto a ÂŤ distrigare lo testo perfettamente secondo la sentenza che esso porta Âť? Imperativo sempre, nelle cose concernenti l’esegesi, tanto piĂš questo dovere lo è in questo caso; che, contemplando la questione del negare e delle sue interne distinzioni, non può, consapevole che, in tutto o in parte, Dante ne fosse, non risentire in sĂŠ il contraccolpo delle complicazioni che sono nella ÂŤ fonte Âť. Ebbene, se, innazi tutto, ci si rivolge al testo aristotelico che, direttamente (o altresĂŹ attraverso i commenti), Dante tenne presente, e cioè a Metaphysica Γ 1004 a 2-22, è un eufemismo dire che ci si trovi
84 IV VIII 11-16. Per le citazioni aristoteliche, cfr. Vasoli, pp. 613-14; e per il commento, piĂš avanti nel testo. 85 IV III 3. E cfr. IV VIII 10-11.
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dinanzi, e dentro, a un non piccolo tormento. La questione del negare è di per sĂŠ, e a prescindere da questo o quell’autore che l’abbia trattata, delle piĂš ardue e, anche, delle piĂš inevitabili, che la filosofia incontri in sĂŠ stessa. E, con questo carattere, e dunque nel segno della piĂš grande complessitĂ , si presenta in Aristotele; a tal punto che se in ogni sua articolazione intendessimo seguirne il percorso, ogni limite sarebbe travolto, e a Dante, forse, non si tornerebbe piĂš. Deve tuttavia almeno considerarsi che, nel luogo aristotelico che si è citato, la distinzione proposta fra la negazione e la privazione presuppone l’interna articolazione dell’uno e dell’essere; che sono la medesima cosa perchĂŠ legati, il primo al secondo, da un nesso di reciproca apparenza. Tante infatti sono le specie dell’uno quante sono quelle dell’essere (!ĎƒÎ¸â€™#ĎƒÎą Ď€ÎľĎ Ď„Îż$ %ν Ď‚ Îľ&δΡ, Ď„ÎżĎƒÎą$Ď„Îą κι' Ď„Îż$ (ντος); e ne consegue che, quale è il matematico che studia le parti in cui la sua scienza si divide, tale è e dev’essere il filosofo ()ĎƒĎ„Îš Îł Ď * φΚΝ ĎƒÎżĎ†ÎżĎ‚ !ĎƒĎ€ÎľĎ * ΟιθΡΟιτΚκ Ď‚ Îť γοΟξνος). Al quale spetterĂ quindi di considerare che, come l’essere (uno) si articola in generi, altra è la negazione che si fa dell’essere allorchĂŠ si dice che ÂŤ non è Âť, altra quella che si fa di qualcosa quando si assume che, dovendo φ ĎƒÎľÎš avere la )ΞΚς, il possesso di ÂŤ qualcosa Âť, ne sia invece privo. Il che è del resto, quanto alla definizione, esaurientemente chiarito da Aristotele a Δ 1022 b 22-1023 a 7: e sopra tutto nel famoso esempio dell’uomo cieco e della talpa (τυφΝ Ď‚), entrambi privi della vista, ma questa κιτ Ď„ Îł νος, rispetto al genere, quello κιθ’ι.Ď„ . La distinzione che, fra negazione e negazione, ossia fra Ď€ Ď†ÎąĎƒÎšĎ‚ e ĎƒĎ„ Ď ÎˇĎƒÎšĎ‚, Aristotele introdusse, presuppone, lo si è detto, l’altra dell’essere e dei generi. E potrebbe dar luogo a complesse questioni non solo se si decidesse di dissertare intorno alla legittimitĂ del suo fondamento, ma anche e sopra tutto se ci si interrogasse intorno al senso che debba e possa darsi all’ Ď€ Ď†ÎąĎƒÎšĎ‚ Ď„Îż$ (ντος; che, per riuscire conforme alla sua definizione e porsi come negazione dell’essere, è costretta a presupporlo e, un istante prima di negarlo e di dichiarare il suo Îź (ν, o il suo Îź Îľ/νιΚ, ad assumerlo tuttavia come essente, configurando perciò il suo atto come affermativo e negativo, e quindi, in analisi estrema, come contraddittorio in sĂŠ stesso. Il che non dovrebbe andare senza gravi conseguenze nei confronti di quel che segue: dal momento che se, affètta da ντ0Ď†ÎąĎƒÎšĎ‚ ossia da contradictio, si rileva la Ď€ Ď†ÎąĎƒÎšĎ‚ Ď„Îż$ (ντος come potrebbe legittimamente distinguersene quella che, concernendo il Îł νος, ne nega una proprietĂ : la parola, per esempio, o la vista, nell’uomo che, φ ĎƒÎľÎš, è dotato dell’una e dell’altra, e, se ne è privo, la ragione dev’esserne assegnata κιτ Ď„ ĎƒĎ…ÎźÎ˛ÎľÎ˛ÎˇÎş Ď‚, per accidens? Resta in ogni
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caso, e questo è il punto che qui interessa mettere in luce per arrivare a comprendere nella sua qualitĂ specifica l’argomento di Dante, – resta che, senza l’assunzione di un genere o di un individuo che legittimamente, appartenendovi, vi si distingua, di negazione come ĎƒĎ„ Ď ÎˇĎƒÎšĎ‚, non potrebbe parlarsi. Come con facilitĂ si vede se l’esempio prescelto sia quello dell’uomo e, poniamo, della sua cecitĂ ; che è infatti, in sĂŠ stessa, negazione/privazione di quel che all’uomo, individuo o specie, e partecipe perciò del Îł νος ÂŤ animalitĂ Âť, appartiene, come si è detto, φ ĎƒÎľÎš, sĂŹ che è κιτ Ď„ ĎƒĎ…ÎźÎ˛ÎľÎ˛ÎˇÎş Ď‚ che l’esserne privo gli accade. Non solo quindi, se è cosĂŹ, deve ribadirsi che al rigoroso esercizio della distinzione aristotelica condizione e fondamento imprescindibile è la distinzione dell’essere dal genere, e viceversa; e anche altro, tuttavia. Ăˆ necessario, infatti, che si dia come plausibile e dimostrato che la privazione di ÂŤ alcunchĂŠ Âť rinvia al sostrato, all’.ποκξ0Οξνον, che, possedendolo φ ĎƒÎľÎš, venga, per accidens, ad esserne privato. Questioni complesse, come si vede; e che qui, per altro, sono state richiamate, non per avviarne Ăźberhaupt l’analisi, ma solo per rendere avvertiti che quel che di piĂš proprio le caratterizza non è, nel capitolo dantesco, in alcun modo riscontrabile. In questo capitolo, per confortare con una piĂš piena dimostrazione quel che giĂ aveva osservato circa l’obbedienza che si deve all’Imperatore, e i limiti entro i quali dev’essere interpretata e contenuta, Dante ribadĂŹ che, nell’argomentare come a lui pareva che si dovesse intorno alla ÂŤ nobilitade Âť, egli non parlava ÂŤ contra la reverenza del Filosofo Âť; e nemmeno contro quella dovuta all’Imperatore 86. Per impedire che argomenti non pertinenti s’insinuassero nel ragionamento, e ne offuscassero la limpidezza, – per far sĂŹ che tutto, per contro, apparisse nel segno della necessitĂ logica e del rigore, si propose perciò di ricercare che cosa per ÂŤ reverenza Âť dovesse intendersi. E cominciò col dire che ÂŤ reverenza Âť altro non è che ÂŤ confessione di debita subiezione per manifesto segno Âť 87, aggiungendo, con il sostegno di una distinzione che avrebbe, nell’intenzione, dovuto riprendere quella aristotelica della ĎƒĎ„ Ď ÎˇĎƒÎšĎ‚ dalla Ď€ Ď†ÎąĎƒÎšĎ‚, che altro è ÂŤ inreverenza Âť, altro ÂŤ non reverenza Âť. Alla prima, ragione o torto che avesse, assegnò il carattere della negazione per privazione, della ĎƒĎ„ÎľĎ ÎˇĎ„ÎšÎş Ď€ Ď†ÎąĎƒÎšĎ‚; o, piĂš semplicemente, della ÂŤ privazione Âť. Alla seconda, quello della negazione. E spiegò
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che « lo inreverente dice privazione, lo non reverente dice negazione. E però la inreverenza è disconfessare le debita subiezione per manifesto segno, dico, e la non reverenza è negare la debita subiezione » 88. Come, dunque, la « reverenza » implica la « confessione », ossia il riconoscimento, della « subiezione » a ciò che ne costituisce l’oggetto specifico, così la « non reverenza » importa la negazione di quel che nel suo opposto è « confessione » e riconoscimento di « debita subiezione ». E deve essere perciò distinta dalla, come Dante la definiva, « inreverenza »: alla quale fu da lui propriamente assegnato il carattere della « privazione ». Che, come si accennava, sull’idea che in questo passo viene proposta della negazione e della privazione, ci sia non poco da discutere, è evidente; e deve comunque essere ribadito, perché quel che Dante asserì circa il carattere di quest’ultima non sembra in alcun modo essere conforme al concetto che Aristotele ne aveva costruito. Ma converrà intanto, in modo che i termini della questione siano per intero chiari, considerare con attenzione quel che subito dopo si legge. Nel passo che segue Dante specificò infatti ulteriormente il suo argomento; e chiarì che « puote l’uomo disdicere la cosa doppiamente »: « offendendo alla veritade, quando della debita confessione si priva, e questo propiamente è ‘disconfessare’ », « non offendendo alla veritade, quando quello che non è non si confessa, e questo è propio ‘negare’: sì come disdicere l’uomo sé essere del tutto mortale, è negare, propiamente parlando » 89. In altri termini. Negare quel che si deve riconoscere, ovvero « disconfessare » quel che esige « confessione », – questo, per Dante, è « privazione ». È privazione della « debita confessione », e « offesa » perciò recata alla verità. Negare, per contro, quel che non si può affermare, – per esempio, che l’uomo sia del tutto mortale (perché con il corpo anche l’anima muore), questo è propriamente, per lui, « negazione ». Negazione, e non privazione: perché, nell’esercitarla, non ci si priva di quel che in effetti oggetto di privazione non può essere: la parte non mortale, nell’esempio prescelto, dell’uomo. Il chiarimento che, così argomentando, Dante aveva fornito della questione, non dovette tuttavia sembrargli sufficiente se, subito dopo, provò ad aggiungerne un altro. Dopo aver osservato che negare « la reverenza dello Imperio » significa non già essere « inreverenti », e cioè negatori per privazione di quel che a questo è dovuto, ma « non reverenti », e cioè negatori di quel che, non competendogli, non
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potrebbe essergli riconosciuto, precisò che non il « non vivere » offende « la vita, ma offende quella la morte, che è di quella privazione ». Altro, infatti, « è morte, e altro è non vivere: ché non vivere è nelle pietre. E però che morte dice privazione, che non può essere se non nel subietto dell’abito, e le pietre non sono subietto di vita, però non ‘morte’, ma ‘non vive’ dicere si deono ». Le precisazioni che, in questo luogo, Dante aggiunse al suo argomento, e gli esempi con i quali le confortò, corrono, come si vede, sul filo della sottigliezza; e non sono prodotte senza un qualche compiacimento « dialettico ». Ma occorre guardar dentro alla loro sostanza filosofica. E dire subito che, se non sarebbe giustificata la meraviglia che si provasse di fronte all’avere Dante proposto un paragone fra, da una parte, le pietre che, poiché sono prive di vita, non possono esserne private, e l’Impero che, del pari, non potrebbe essere privato dall’autorità filosofica che non è parte e possesso ()ξις) della sua res 90, qualora di altro invece ci si meravigliasse non sarebbe giusto esserne ripresi e, eventualmente, rimproverati. Se è così, due sono per altro le questioni che, in questa argomentazione dantesca, richiedono di essere poste in evidenza, e indagate. La prima riguarda l’idea della « privazione ». L’altra quella della negazione. Ed entrambe debbono essere discusse sul fondamento aristotelico che, attraverso quali mediazioni è difficile dire, è pur sempre quello che Dante assunse per la sua argomentazione. E si cominci, dunque, con la « privazione ». Come, sia pure per accenni, è stato chiarito, la στ ρησις presuppone, in Aristotele, un soggetto che sia, o sia divenuto, privo di alcunché che, di regola, appartiene alla sua φ σις. Presuppone un soggetto, dunque, che, con la sua privazione, sussiste e anzi, proprio perché sussiste, della sua privazione può parlarsi. Ma, se è così, non potrebbe dirsi che in questo luogo di Dante le cose vadano allo stesso modo; e che al concetto aristotelico egli sia stato, in questo caso, fedele. Presso di lui, infatti, la « privazione » non è la negazione di alcunché in alcunché (della vista, per esempio, nell’uomo che, φ σει, ne ha il possessso, la )ξις), ma è, se ben si guarda, negazione dell’intera cosa. E lo si comprende se si pone mente a quel che, distinguendoli, Dante disse del « non vivere » e della « morte »; la quale è, in effetti (assoluta) negazione della vita e « offesa », per conseguenza, recata alla sua essenza, a differenza del « non vivere » che, poiché è « non vita », a questa, alla vita, non reca, sebbene ne sia la
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negazione, offesa alcuna. L’argomento di Dante è, senza dubbio, sottile. Ma, come si diceva, che sia anche conforme al concetto aristotelico, nessuno potrebbe dire. La « inreverenza » che si eserciti nei confronti dell’Impero significa « privazione » nel senso che, e in quanto, con il suo atto, a questo soggetto si sottrae l’autorità che gli è intrinseca e in ragione della quale gli si deve « subiezione ». Poiché, d’altra parte, la privazione qui riguarda l’autorità imperiale, e questa è l’Impero stesso nella perfezione del suo esser tale, ne segue che, privarnelo, significa togliere ad esso, non già alcunché (come, all’uomo, gli occhi mediante i quali vede), ma « tutto »: e cioè l’Impero stesso che della privazione, se questa fosse pensata in termini aristotelici, dovrebbe invece costituire il sussistente « soggetto » o sostrato, e non già, preso nel suo vortice, sparire con essa e, con essa, essere negato. La « privazione », insomma, che in Aristotele è negazione, non del « tutto », ma di alcunché nel tutto, qui è negazione del tutto e non di alcunché: con la conseguenza che, da quella del « filosofo », questa, pensata da Dante, differisce in modo radicale. Prospettata alla maniera di Aristotele, la « privazione » di cui l’Impero fosse soggetto e patisse la conseguenza sarebbe negazione, non dell’Impero, ma di una sua parte. Prospettata alla maniera di Dante, la « privazione » è negazione dell’Impero nella totalità di tutte le sue parti. E la negazione? La negazione della quale Dante asserì che, in quanto sia presa come « non reverenza », nega e non offende l’autorità dell’Impero, a quel modo che il « non vivere » nega, senza offendere tuttavia, la vita, che solo dalla morte (in ogni senso, perciò, analoga alla « inreverenza ») è negata e offesa? Che cosa, per penetrarne il concetto, deve dirsi della negazione? Deve dirsi, innanzi tutto, che il concetto che qui ne viene delineato, rivela nel suo centro una grave difficoltà; che, sebbene non appartenga soltanto a Dante e al suo modo d’intendere, richiede di essere messa in luce e chiarita, perché anche le sue pagine ne risentono il contraccolpo. La tesi che, a proposito della negazione, qui Dante delineò è, in sostanza, che a costituirla e a definirla è il « non esserci » della cosa (per esempio, dell’autorità imperiale che, poiché non si dà, nessuna reverenza le è dovuta). È, in altri termini, come se la negatività della cosa fosse passata nella negazione; e questa perciò si configurasse non come l’atto del negare, non come l’energia che lo esercita e lo dispiega, non come l’atto che, per esser tale, alla sua radice suppone un essente soggetto e autore, ma, appunto, come il non essere stesso della cosa che, poiché è negata e non « c’è », è impossibile che patisca violenza e riceva offesa. Se questo, per altro, è il senso che la negazione assume nel ragionamento di Dante, grave è la difficoltà
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che ne emerge. Di quel che « non è » si assume infatti che, poiché « non è », la negazione, che con il suo non esserci coincide, non possa, come si è detto, recargli offesa. Di quel che « non è » si fa in tal modo l’esistente soggetto e, quasi si direbbe, il protagonista della situazione in cui il negare si definisce. Di quel che « non è » si è costretti, in altri termini, a fare un « essere », qualcosa che sia. E il rischio dell’equivoco perciò è evidente. Del « non esserci », che non è e non dovrebbe per conseguenza poter essere assunto come un punto di partenza e un’origine, proprio questo si fa, un punto di partenza e un’origine. Il punto di partenza, e l’origine, sia della negazione sia del suo non potere recare offesa: che lì, nel « non esserci » della cosa, ha la sua ragione. Il che, e comprenderlo non è difficile, dischiude l’ambito di una contraddizione grave: qual è quella che si rivela alla radice di un « non essere » che, per un verso, non è, e per un altro è tuttavia la causa (essente dunque, e non « non essente ») del suo non potere essere oggetto di offesa. L’ambizione argomentativa e dimostrativa che rifulge in questa pagina dell’ottavo capitolo del quarto trattato non fu, questa volta, pari alla forza della passione che l’aveva determinata. E che Dante vi cedesse a causa dei tanti avversari al cui « volto » parlava « in questo trattato », nel quale di « lievemente parlare » non gli era perciò consentito, non giustifica l’inadeguatezza. Contribuisce, se mai, a spiegare perché, dopo essersi prodotto, l’eccesso logico e argomentativo si risolvesse in un difetto. Volendo andar oltre, per conferire più forza al suo argomento e meglio confutare i suoi avversari, il limite che pure era stato fissato con sufficiente nettezza e, dato il contesto, con altrettanto grande persuasività, finì per provare assai meno di quel che avrebbe voluto. E per incorrere, quindi, in una difficoltà che, quando la si osservi nel quadro di questo capitolo e delle ragioni che ne determinarono l’insorgere, consente, per contrasto, di apprezzare nella giusta misura quel che, in tema di autorità imperiale e di « debita subiezione » a questa, a Dante già era accaduto di dire. Poiché l’autorità imperiale era assoluta, per lui, e non contrastabile nelle cose che, concernendo l’umana volontà e le connesse operazioni, necessariamente vi soggiacciono, era bensì inconcepibile che non si esercitasse su queste e non ne ricevesse il dovuto, conseguente ossequio. Ma, proprio per questo, altrettanto inconcepibile era che si esercitasse su quel che, trovandosi al di là del suo limite, non poteva essere richiamato al di qua e assegnato al suo ambito.
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Della difficoltà alla quale Dante fu esposto dalla sua stessa oltranza argomentativa, e dalla passione che, a sua volta, ne fu la nascosta radice, si è detto abbastanza. Forse troppo. E ora conviene osservare che, lasciandola lui stesso cadere, nel nono capitolo, egli ebbe cura di disporre di nuovo la questione nei suoi termini autentici. E fu in special modo alla distinzione eseguita fra ciò che è proprio della volontà e ciò che, per contro, appartiene alla scienza, che egli affidò la buona sorte del suo argomento. Dalla sottigliezza, quasi eristica, con la quale aveva trattato la questione della perfezione e, nello stesso tempo, del limite intrinseco all’autorità imperiale, passò, tornandovi, alla sostanza. E dopo avere infatti ricordato quel che a lungo, nel quarto capitolo, era stato argomentato, e cioè che la « imperiale autoritade » è « regolatrice e rettrice di tutte le nostre operazioni giustamente », e che « per tanto oltre quanto le nostre operazioni si stendono tanto » quella « ha giurisdizione, e fuori di quelli termini non si sciampia », passò a considerare che « sì come ciascuna arte e officio umano dallo imperiale è a certi termini limitato, così questo da Dio a certo termine è finito » 91. Da Dio, e cioè da quello stesso dal quale anche la « natura universale » riceve il suo limite. Ma, come questo è vero di tutte le cose, e della « imperiale maiestade » non meno che della natura, così dipenderà dalla qualità intrinseca alle operazioni umane quale di queste sia soggetta all’autorità dell’Imperatore, e quale no. E a questo proposito, poichè da sola la distinzione della volontà e della ragione non basta a render conto delle conseguenze che pure, nelle grandi linee, ne scaturiscono, converrà citare il passo nel quale, con mirabile coincisione, Dante definì la questione: E a vedere li termini delle nostre operazioni, è da sapere che solo quelle sono operazioni nostre che subiacciono alla ragione e alla volontade; ché se in noi è l’operazione digestiva, questa non è umana ma naturale. Ed è da sapere che la nostra ragione a quattro maniere d’operazioni, diversamente da considerare, è ordinata: ché operazioni sono che ella solamente considera, e non fa né può fare alcuna di quelle, sì come sono le cose naturali e le sopranaturali e le matematice; e operazioni che essa considera e fa nel propio atto suo, le quali si chiamano razionali, sì come sono arti di parlare; e operazioni sono che ella considera e fa in materia di fuori di sé, come sono arti meccanice. E queste tutte operazioni, avegna che ’l considerare loro subiaccia alla nostra volontade, elle per loro a nostra volonta-
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de non subiacciono: ché, perché noi volessimo che le cose gravi salissero per natura suso, e perché noi volessimo che ’l silogismo con falsi principii conchiudesse veritade dimostrando, e perché noi volessimo che la casa sedesse così forte pendente come diritta, non sarebbe; però che di queste operazioni non fattori propiamente, ma li trovatori semo: altri l’ordinò e fece maggiore fattore 92.
Le distinzioni alle quali, in questo passo, Dante ricorse e che si snodano dalle quattro « operazioni » che, seguendo Aristotele e i commenti altresì di Tommaso d’Aquino, vi sono incisivamente descritte, conducono tutte, lungo una via questa volta non disagevole, al « disiato porto ». Giunti nel quale, appare chiaro perché qui su si dicesse che, da sola, la distinzione di ciò che appartiene all’intelletto da quel che appartiene alla volontà non poteva bastare a delucidare fino in fondo i termini della questione. Non c’è infatti, fra quelle descritte qui, operazione che, in quanto tale, non « subiaccia » alla « nostra volontade ». Tutte, in realtà, è possibile che ne siano oggetto, ossia che « vogliamo » considerarle: sebbene poi non sia pensabile che, dopo aver voluto considerare, per esempio, il fenomeno delle cose « gravi », pretendessimo che fosse in potere della nostra volontà che quelle « salissero per natura suso », oppure che, nell’ordine logico, il « silogismo con falsi principii conchiudesse veritade dimostrando ». Che perciò queste operazioni, alle quali la volontà può essere (e anche non essere) riferita, ma che da questa non possono essere fatte deviare da ciò a cui la natura le inclina, non siano tali da rientrare nella giurisdizione imperiale, è già di qui evidente. E potrebbe perciò aggiungersi a guisa di corollario che, sebbene l’Imperatore sia überhaupt il « cavalcadore della umana volontade », non perciò « cavalca » questa che pure, a rigore, è una volontà. Una volontà che, riferita alle cose della natura o della logica, su queste tuttavia non ha potere, non può guidarle, non può fare che siano diverse, nel comportamento, da quel che sono. E non rientra, per conseguenza, nel quadro della giurisdizione imperiale: dal momento che anche l’Imperatore, supremo soggetto del volere, di questa volontà non è, e mai potrà essere, l’autore e il signore. Le operazioni che in quel quadro rientrano, e mai potrebbero esserne escluse, – le operazioni che pleno iure ne fanno parte e al volere imperiale non possono essere sottratte, sono quelle che « la mente no-
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stra considera nell’atto della volontade »; e cioè, il testo chiarisce subito dopo, « sì come offendere e giovare, sì come star fermo e fuggire alla battaglia, sì come stare casto e lussuriare » 93. Sono, in altri termini, quelle che, considerate dalla « ragione » nell’« atto della volontade », quest’ultima può dirigere verso il bene o verso il male, essendo esse stesse intessute dalla buona o dalla non buona volontà. E a questo punto è notevole che Dante rinviasse all’autorità di Agostino 94. Del quale sarà bene che egli non citasse un luogo specifico e con certezza individuabile: salvo che è al suo pessimismo antropologico che, in qualche modo contravvedendo alla positività presente nell’idea dell’uomo come « compagnevole animale » e lasciando forse libero il varco all’espressione di più antichi convincimenti, – è a questo pessimismo che qui egli si riferiva. Un pessimismo che, comunque la ratio aristotelica avesse provveduto a temperare fino a capovolgerlo nell’asserzione della felicità alla quale il genere umano tende e che può, qui in terra, conseguire, sarebbe tuttavia ben singolare che non fosse in qualche modo sopravvissuto nel fondo della coscienza di chi così vivo ebbe il senso, non solo della degenerazione dell’umanità conseguente al peccato di Adamo, ma anche del suo vario determinarsi nelle vicende che, qui e ora, avevano il mondo fatto « reo ». E senza che nemmeno sia necessario pensare agli animali allegorici che, nel prologo della Commedia, contrastano il cammino di Dante (e dell’umanità), e con ciò ne segnalano il traviamento, basterà a questo riguardo ricordare le invettive frementi e furenti che anche qui, nel Convivio, s’incontrano, e di tempo in tempo, interrompono la linea della pura indagine dottrinale. Basterà, in particolare, ricordare quelle, stupende, che s’incontrano a IV XII 6-10; e che furono bensì riprese da Cicerone, da Boezio e da altri, ma tradotte nelle parole del suo « volgare ».
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Capitolo II ARISTOTELE NEL « CONVIVIO » Con le considerazioni che precedono, l’essenziale, per quanto concerne l’estensione e il limite della giurisdizione imperiale, è stato detto. E quel che invece resta da aggiungere concerne il simbolo che, nel contesto di quest’opera, è rappresentato da Aristotele; che è bensì, per un verso, l’autore che Dante ha letto (fin dove l’ha letto) e studiato; è bensì il « maestro delli filosofi » (IV VIII 15), con tutto quel che a questa definizione si accompagna 1. Ma anche è il simbolo della ragione umana, della sua natura e delle operazioni che la realizzano 2. E poiché è questo il termine con il quale, nell’atto in cui se ne distingue, l’Imperatore stabilisce il rapporto, ecco che, come di quest’ultimo si è cercato di chiarire il carattere, e di andare, per questo, oltre il piano delle più ovvie definizioni giuridiche e politiche, così e altrettanto occorre fare per Aristotele. Il che, per la ragione che ora sarà dichiarata, richiede il passaggio attraverso il secondo e, sopra tutto, il terzo trattato, che è quello in cui più profondamente le questioni concernenti l’intelletto sono discusse. La ragione per la quale questo passaggio si rende necessario non deriva, d’altra parte, da una generica esigenza di compiutezza descrittiva; e tanto meno ne deriva in quanto non è al Convivio in quanto tale che questa indagine dirige sé stessa. La ragione si dichiara, in effetti, col dichiarare la « tesi » alla quale qui si ha la mira; e che si enunzia dicendo che, mentre nel quarto trattato del Convivio l’Imperatore e Aristotele restano distinti, connessi ma distinti, nella Monarchia la loro dualità tende a scomparire e, in alcune delle sue più estremistiche dimensioni, scompare sul serio. Di quel che questa tesi comporta, si dirà nell’esporla e ragionarla. Per ora basti averla enunziata a giustificazione del cammino non breve che ancora deve compiersi. 1 Aristotele è infatti il « maestro e duca della ragione umana » (Conv. IV VI 15). E cfr. IV XXIII 8. 2 Conv. IV VI 15, dove è anche detto che in Aristotele la natura si era come compiaciuta di collocare un « ingegno singolare e quasi divino ».
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Sulla soglia di questa indagine, che non sarà svolta per altro se non sotto il profilo dei concetti che sono stati fin qui evocati, una dichiarazione dev’essere resa: ispirata, come in simile materia si conviene, alla più schietta e convinta modestia, e relativa a una questione che da più parti è stata sollevata a proposito del mutamento che, nel segno della maturazione intellettuale, sarebbe intervenuto fra il secondo e il terzo trattato, da un lato, e, da un altro, il quarto 3: caratterizzati, quelli, dall’interpretazione allegorica della canzone che li apre, e questo invece da un andamento concettuale assai più libero e, appunto, filosoficamente più maturo, che, superato il limite rappresentato dalla pura esegesi allegorica, assume piuttosto, com’è stato detto, la forma di una grande quaestio. È una questione seria; che doveva essere posta e alla quale è più che giusto concedere l’attenzione che merita. Non solo, per altro, sul piano « formale » dell’espressione filosofica, e dell’acquisizione, da parte di Dante, del modello fornito dalla quaestio. Ma su quello, altresì, sostanziale: nel quale caso, e sopra tutto se delle tesi esposte nella Monarchia si cerca il precedente nel Convivio, il ricorso al quarto trattato non basta, e anche al secondo e al terzo è necessario retrocedere. È infatti da tener presente che intorno alla questione dell’intelletto, che dell’opera latina, e sopra tutto del suo primo libro, costituisce il tratto saliente, Dante dissertò, nel Convivio, essenzialmente nel terzo trattato, che da questo punto di vista riveste perciò la più grande importanza. Ma leggere questo testo senza essere passati, con l’attenzione che merita, attraverso il secondo e, per certi aspetti, anche il primo, è impossibile. Il che, beninteso, non significa negare né l’importanza della questione che è stata posta né che la maturazione, in senso tecnico, dello stile filosofico di Dante non sia, in quanto tale, rivelativa di una più sostanziale maturazione: quella del pensiero. L’economia di questa ricerca non richiede che la questione delle « fonti » alle quali, rielaborandole, Dante attinse il materiale con cui costruì la sua filosofia, e quella altresì delle « scuole delli religiosi » e delle « disputazioni delli filosofanti » (II XII 7), siano affrontate e discusse qui. Ma come, per un verso, è pacifico che l’informazione e la formazione filosofica che egli si dette non possono essere ridotte alle idee elementa-
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Cfr., per es., M. Corti, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Torino 1983, pp. 141-42; e Vasoli, Introduzione cit., pp. XXXVIII-IX.
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ri del pensiero scolastico, altrettanto lo è che questo non può a sua volta essere prospettato sotto il segno esclusivo del tomismo. Che Tommaso d’Aquino sia l’unico, vero e autentico maestro di Dante, l’auctor sempre seguito e mai contraddetto di ogni sua tesi, – questa è una pia leggenda che, in quanto tale, non rende giustizia né a questo né a quello 4. Non solo a Dante, ma nemmeno a Tommaso; che sarebbe in effetti addirittura grottesco pretendere che, in ogni senso e senza problemi, rappresenti il senso della più pura ortodossia religiosa, quale più tardi si prese a intenderla. Che, nel decimo del Paradiso, sia proprio Tommaso d’Aquino a pronunziare l’alto e fulmineo elogio di Sigieri di Brabante 5 costituisce certo la prova di quanto grande fosse l’opinione in cui Dante teneva questo agguerrito rappresentante dell’averroismo. E poiché la sua spregiudicatezza va considerata anche come un invito a considerare le contrapposizioni filosofiche in modo meno rigido di quanto talvolta non si soglia, vero potrebbe ben essere anche l’inverso, e cioè che, a ritroso, la luce di Signeri si riserberava sul suo grande avversario; che ne veniva perciò coinvolto in modo così profondo da far pensare che non come alla disputa di un ortodosso e di un ribelle il loro conflitto doveva e poteva essere ridotto. In realtà, molte e coesistenti talvolta nel segno piuttosto della dissonanza che non in quello della risolvente armonia, sono le voci che s’intrecciano nell’ampia polifonia dantesca. E la lettura che, con un minimo di spregiudicatezza, si faccia del pensiero che Dante pensò e svolse dimostra che questo si atteggiò bensì nel segno della coerenza, ma attraverso la proposta e l’elaborazione di tesi audaci, talvolta rischiose, non immediatamente componibili, in taluni casi, l’una con l’altra. La conseguenza, per esempio, fu che, anche in espressioni tarde del suo pensiero, tesi averroistiche, o comunque pericolose per la fede cristiana, si intrecciarono e coesistettero con altre, di diverso segno: in modo tale che l’assegnazione delle prime a momenti comunque anteriori al perio-
4
Alla confutazione dell’idea che Dante non sia se non una seguace fedele e esclusivo di Tommaso d’Aquino è dedicata una parte notevole dell’imponente lavoro esegetico dedicato all’autore della Commedia da B. Nardi; e se si dovesse fornirne la documentazione, questa nota per certo si allungherebbe a dismisura e senza reale utilità: cfr. dunque Il tomismo di Dante e il padre Busnelli S.J. (1923), in Saggi di filosofia dantesca, Firenze 19572, pp. 341-80. Ma si veda anche il saggio di C. Vasoli, L’immagine di Alberto Magno in Bruno Nardi (1985), in Otto saggi per Dante, Firenze 1995, pp. 117-32. 5 Par. X 133-38. Su questi versi, cfr. B. Nardi, Il canto X del Paradiso (1956), in ‘Lecturae’ e altri studi danteschi, Firenze 1990, pp. 170-72.
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do contrassegnato dalla composizione della Commedia contrasta con i fatti (basti pensare alla Monarchia) 6 e, solo se si sia deciso che l’ideologia debba prevalere sulla filologia, può essere presa per buona. Contrasta con i fatti, e anche altro presuppone: ossia la convinzione che, appunto, la Commedia sia un blocco omogeneo, compatto, impenetrabile dai dubbi e dai tormenti: che tanto più invece hanno risalto, quanto più li si veda venir fuori dalla strapotenza della personalità intellettuale e morale di colui che la scrisse. Il fascino unico che ne emana nasce in effetti dall’incrociarsi di due attitudini diverse, e coincidenti nell’ansia della perfezione che in entrambe è pari: da una parte, fortissima e imperiosa, l’esigenza dell’unità, di una costruzione in cui non si desse particolare che non apparisse e non fosse legato e connesso a ogni altro nel segno del tutto; e da un’altra, fortissima anch’essa, e inesauribile, la curiosità intellettuale, e non solo linguistica, della sperimentazione. Di qui, quando l’edificio che egli innalzò sia osservato con attenzione e, si direbbe, dal di dentro, il senso di una fermezza che, quasi tendendo all’immobilità, per un altro verso esprime il movimento e comunica inquietudine. Con la conseguenza che, se si cerca di guardarla dall’alto, e sopra tutto se alla Monarchia si assegni (come del resto sembra proprio necessario) una data bassa, la vicenda intellettuale di Dante appare in realtà come una linea che, quanto più è forte l’impegno messo nel tracciarla dritta e netta, di altrettanto rivela la tendenza, non si dice a tornare indietro, ma certo, talvolta, a deviare e a disegnare perciò altrettanti circoli nei quali si raccolgono, e trovano ospitalità, tesi e spunti teorici, a quella non facilmente riconducibili. Soltanto chi dell’unità e della coerenza abbia un’idea (se pur la si possa chiamare così) intessuta con un filo (sia lecito dirlo) insieme mistico e materiale potrà dispiacersene. Ma basti di ciò. E si passi all’analisi dei testi. Lo scopo che questa si prefigge è, non già di ricostruire e discutere, nella compiutezza del quadro in cui trovò posto, e nelle complicazioni a cui, in relazione alle « fonti », dette luogo, quel che, nel Convivio, Dante intese per filosofia. Ma è piuttosto di comprendere di che natura sia, in che propriamente consista, e fino a quale grado s’innalzi, la umana felicità, a cui la contemplazione del vero, e l’atto intellettuale che la realizza, conducono. E qui occorre far ricorso a una precisazione, o la
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Sulla spinosa questione posta dalla data della Monarchia tornerò nel quarto ca-
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si chiami cautela, che, se non ci si badasse, potrebbe aprire il varco a incomprensioni gravi. La questione non si risolve infatti col decidere se la ragione umana, la felicità che ne consegue e l’estensione di questa all’intero genere umano quando a tenerlo unito nelle cose civili intervenga il « cavalcadore » della sua volontà, sia o no autonoma dal « documento » teologico; e se alla perfezione della prima qualcosa manchi ove questo secondo non soccorra. Ogni volta che in un contesto filosofico (e a fortiori quando questo non contempli fra le sue « intenzioni » quella di definirlo) s’introduca il concetto dell’« autonomia », il risultato che si consegue è giusto il contrario di quello che ci si propone e si auspica: non l’autonomia, ma l’eteronomia, non il chiarimento delle rispettive sfere e competenze, ma la confusione. Non solo infatti l’autonomia presuppone l’altra realtà come fondamento inevitabile del suo, a sua volta, esserle altra, e perciò autonoma. Non solo, in questo quadro, quel che è (o comunque si definisce) « autonomo » non è tale, ma, prima facie, al massimo grado eteronomo; e se il concetto sia svolto verso la sua conseguenza necessaria, addirittura « identico » all’altro, che allo stesso e identico modo, infatti, gli è altro. Ma con una complicazione, nel quadro dantesco, in più: dal momento che il concetto dell’autonomia vi appare, e anche rispetto alla prima definizione che se ne dia, contaminato con un altro che a quello non è conforme, né mai potrebbe essergli dichiarato compatibile. Accade infatti, in quel quadro, che, se non certo il diritto di sottomettere a sé la filosofia e di indirizzarla secondo i suoi concetti specifici, alla teologia si finisca tuttavia col riconoscere una tal quale superiorità. E sebbene l’autonomia della prima sia riconosciuta e ribadita e spinta, talvolta, a esiti persino estremistici, vero è anche che sul nesso che, distinguendole, lega tuttativa e connette le autonomie, la riflessione di Dante non si esercitò. Come si vede da ciò, che se vi si fosse esercitata, la conclusione avrebbe dovuto essere che tanto la teologia presuppone, per distinguersene, la filosofia, quanto, per altresì distinguersene, questa presuppone la teologia; che dunque non può esserle in nessun modo superiore, perché da quelli di distinzione e reciproca presupposizione il concetto della superiorità (dell’una sull’altra) è, non già ammesso, ma escluso. La questione che qui si è richiamata riguarda, in primo luogo, la Commedia e, con punte di particolare acutezza, il terzo libro della Monarchia. Non il Convivio, dove (dipenda dalla sua interruzione, dipenda da altro) il « documento » teologico, nella sua specificità, non compare, e, quando dà segno di sé, non è per distinguersi da quello « filosofico », con il quale resta immediatamente connesso. Ma, assunta nella sua for-
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ma generale e quindi riferita all’Imperatore e ad Aristotele, riguarda anche il Convivio; nel quale quei due nomi, o, se si preferisce, simboli, rinviano ad altrettanti concetti, della volontà, da una parte, dell’intelletto, da un’altra, e pongono perciò in re il modo del loro coordinarsi e insieme distinguersi. E anche sotto questo profilo, la questione (già in parte lo si è visto) presenta un volto complesso; e non poche difficoltà. Per passare finalmente ai testi, converrà partire da quello in cui, nel terzo trattato, Dante affrontò la questione dell’anima. Della quale aveva già, e proprio all’inizio dell’opera, affermato che, come « naturalmente » gli uomini desiderano sapere, e ogni cosa, « da providenza di prima natura impinta, è inclinabile alla sua propia perfezione », così la perfezione di quella risiede nella scienza, « nella quale sta la nostra ultima felicitade » 7. Ma solo all’inizio del terzo trattato, la questione fu ripresa e, per quel che è di quest’opera, ricevette la sua forma più compiuta. Per delinearla e definirla, Dante osservò che, « sì come nel libro Di Cagioni è scritto », « ciascuna forma sustanziale procede dalla sua prima cagione, la quale è Iddio », « e non riceve diversitate per quella, che è simplicissima, ma per le secondarie cagioni e per la materia in che discende » 8. Il problema, che queste parole includono e a cui danno evidenza, è, naturalmente, grave, e assai delicato. E lo è perché e in quanto, le « diversitadi » non potendo procedere da Dio che è « cagione simplicissima » e da quelle perciò non segnata, fra queste e quella, fra le « diversitadi » e la causa prima, viene a determinarsi qualcosa come un salto, un’eccezione, un τοπος τ πος. Qualcosa dunque che tanto più appare in questo suo carattere, paradossale e ambiguo, in quanto è pur sempre da Dio che, tutto procedendo, a procedere dovrebbero a rigore 7 Conv. I I 1. E cfr. III XI 14. A ragione, fra gli altri luoghi desunti da opere dantesche, il Vasoli, p. 5, cita Arist. Eth. Nic. K 1177 a 12-17. Si è discusso se, con gli editori del 1921, invece che a «propria natura », che è probabilmente « lezione d’archetipo » (M. Simonelli, Materiali per un’edizione critica del ‘Convivio’ di Dante, Roma 1970, p. 65) e che è stata accolta da questa studiosa nella sua edizione (Bologna 1966, p. 1), ma non dalla Ageno che nella sua (Firenze 1992) è tornata alla lezione « prima », a questa dovesse darsi la preferenza. Si veda la difesa fattane da B. Nardi, Note al Convivio, in Il modo di Dante, Roma 1944, pp. 46-47, che, pur senza disconoscere le ragioni che avevano indotto Busnelli e Vandelli a scegliere la lezione « propria », non vedeva tuttavia la necessità di metterla a testo. Ma cfr. ora la discussione, dotta e acuta, che della questione fa G. Inglese, Sul testo del ‘Convivio’. ‘Da providenza di propria natura’, « Cultura », 38 (2000), pp. 247-61, concludendo per « propria ». 8 Conv. III II 4.
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essere non solo le « diversitadi » e, in analisi estrema, le cause seconde e la materia, ma persino l’intervallo, o, come lo si è chiamato, l’ τοπος τ πος, che fra il « simplicissimo » e il diverso è necessario ammettere. Se per conseguenza, e come il Liber de causis esplicitamente dice, la ragione adottata riguarda il recipiens (« diversitas quidem receptionis non fit ex causa prima, sed propter recipiens ») 9, a essere messa in questione è la capacità della causa prima di essere sul serio causa di tutto. Il che, come ben si comprende, riguarda, non l’intenzione, che è tutt’altra, e consiste nella pretesa di assumere la causa prima nell’ambito della sua incontaminata e incontaminabile perfezione, remota dunque dal mondo, pur sempre imperfetto, delle alterità e delle differenze. Ma riguarda bensì il fatto, il risultato. E le conseguenze, per certo aporetiche, che ne scaturiscono. Che, lungo la via indicata da questo libro, gravi difficoltà insorgessero a interromperla, o a renderla, quanto meno, non facilmente percorribile, non è infatti difficile capire. Se alla causa prima si fosse assegnata un’intatta potenza causante, la conseguenza sarebbe stata che, di necessità, tale la causa, tale il causato; e, posto che semplice, anzi « semplicissima », fosse stata la prima, semplice, e anzi « semplicissimo », avrebbe dovuto essere il secondo. Ne sarebbe derivata altresì, e comprenderlo non è difficile, la conseguenza estrema dell’indistinguibilità del mondo da Dio; e, in ultima analisi, la compiuta crisi dell’idea stessa della creazione. Di qui, dall’esigenza di sfuggire a questa difficoltà, e alle ulteriori sue conseguenze, culminanti in quella relativa alla concepibilità del molteplice, – di qui, dunque, l’idea di una scala discendente degli esseri, che da Dio, causa prima e semplice, conducesse giù fino agli infimi gradi attraverso gli intermedi. La distinzione che, lungo questa via, veniva in primo piano come l’autentico criterio costitutivo della costruzione, chiudeva per altro anch’essa in sé elementi di forte problematicità; e, quando fosse stata ricevuta e accolta in contesti cristiani, era tale da arrecare, all’idea biblica della creazione, gravi turbamenti. Lo si è accennato. Ma il punto è così importante, e ricco di paradossali implicazioni che, sia pure in breve, converrà insistervi. La causa prima non può essere distinta dalle cause seconde (non può esserlo, beninteso, de iure, secondo il concetto), perché di queste è necessariamente la causa 10. Se ne è la causa, e quelle ne sono gli effetti, fra l’una 9 Liber de causis, ed. A. Pattin, « Tijdschrift voor Filosofie », 28 (1996), p. 179. E cfr. anche p. 178. 10 Cfr., per es., Liber de causis, p. 179 Pattin.
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e gli altri non può darsi distinzione o differenza: dal momento che, se si desse, alla causa prima si riconoscerebbe bensì una sorta di autonomia posizionale, un « in sé », o come altrimenti si preferisca dire, ma non quel che a essa è più proprio: il potere causante intrinseco alla sua stessa perfezione. Se, per altro, questo potere le fosse riconosciuto, ed essa passasse perciò intera nell’effetto, non potrebbe più distinguersene come la causa. In altri termini, se non passa intera nell’effetto, la causa prima non è pari alla sua perfezione e non corrisponde alla definizione che se ne dà. Se è pari, e alla sua definizione corrisponde, se insomma passa intera nel suo effetto, non ne è dunque la causa prima: perché dall’effetto non si distingue. Un paradosso pungente; che svolgeva le sue premesse, e confermava questo suo carattere, nella pretesa che l’idea cristiana della creazione potesse essere pensata secondo quella neoplatonica 11 della causa prima che, discendendo di grado in grado, a questi non concede se non una luce via via più tenue. E che così sia, e debba essere, è evidente. Se l’idea neoplatonica dell’emanazione discendente fosse stata pensata nel quadro della concezione cristiana della creazione, e questa, a sua volta, in termini, non di mistero, ma di pura razionalità, il risultato sarebbe stato quello a cui già si è accennato. Pensata come creazione, e questa a sua volta come causa prima causante, l’emanazione avrebbe visto sfumar via la sua idea, perché la causa prima è la stessa cosa della sua perfezione causante, e perfezione causante significa che, quale è la causa, tale è il causato, quale è Dio, tale è il mondo (che impropriamente, perciò, si dice creato da quel che gli è consustanziale nel segno dell’eternità). Ne conseguiva, e la cosa viene per questa via confermata, che, come l’emanazione si risolveva nella creazione, e non riusciva a mantenere la sua autonomia, così a quest’ultima, alla creazione, non era del pari dato di mantenere sé stessa. A risolverla era infatti il suo atto eterno che non consentiva che alcunché ne derivasse, varcasse il suo limite e assumesse una qualsiasi posizione nell’esistenza. E c’era poi l’altra ipotesi, che la creazione fosse pensata in termini di emanazione, e quindi importasse una scala discendente, al fondo della quale la luce 11 Importanti osservazioni, al riguardo, anche se solo indirettamente riferibili alla questione posta nel testo, in Nardi, Saggi di filosofia dantesca cit., pp. 16-20. Ma, se si desidera un quadro sintetico delle principali questioni, può vedersi C. Baeumker, Der Platonismus in Mittelalter, in Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters, XXV, Münster I. W., 1928, pp. 139-79, e E. Hoffmann, Platonismus und Mittelalter, in Vorträge der Bibliothek Warburg, 1923-1924, Berlin 1926, pp. 17-82.
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divina, micans in vertice, non fosse ormai che un fioco lume nelle tenebre del mondo. Un’ipotesi in forza della quale accadeva che la creazione implicasse qualcosa come l’imperfezione dell’atto creatore, e che il mondo non potesse perciò essere pensato se non nei termini dell’irrazionalità e del buio. Per un verso, dunque, Dio, e non il mondo. Per un altro, il mondo, e non Dio. Lo schema che qui è stato delineato è certamente astratto: tale, dunque, che, nel tentativo che gli è intrinseco di cogliere e indicare l’« essenza » della questione, anche è caratterizzato dalla consapevolezza di non poter trattenere dentro di sé le molteplici determinazioni che appaiono nei testi in cui vive la sua vita concreta. È uno schema, infatti: e buon per lui che abbia coscienza di essere tale. Come oggi si dice, è un modello. Ma utile tuttavia, se non addirittura necessario, a chi debba intendere perché il punto di vista neoplatonico, di cui il Liber de causis è una compendiata espressione, sia così fortemente presente in quanti, ripensando il Cristianesimo alla luce del platonismo e quindi dell’aristotelismo 12 e questi, nello stesso atto, alla luce di quello, lungo questa via cercavano di superare difformità e ostacoli e, inevitabilmente, rendevano più profonde le prime, più alti i secondi. Resta comunque che nel passo del terzo trattato, che ha dato luogo a queste considerazioni, lo schema neoplatonico 13 è ben presente e produce difficoltà; che agiscono, svolgono le loro conseguenze, talché si avrebbe torto se, col pretesto che la pagina non dà segno di avvertirle e l’autore perciò di averne consapevolezza, si evitasse di trattarne e di discuterne. In realtà, il processo discendente delle cose lungo la scala della creazione/emanazione è nettamente segnato in questo luogo, nel quale, fra l’altro, la prosa filosofica di Dante raggiunge uno dei suoi vertici. E subito, a venire in luce è non solo l’idea delle « secondarie
12 Non è fra gli scopi di questa ricerca tornare sulla questione delle influenze neoplatoniche. Meno che mai su quella del Timeo. Basti qui il rinvio al prezioso contributo di T. Gregory, Platonismo medievale. Studi e ricerche, Roma 1958, pp. 73 ss. 13 Che poi Dante la derivasse dal Liber de causis in forma diretta o indiretta, non è cosa che possa, da parte mia, essere decisa. Ma credo che al riguardo avesse ragione il Barbi, Introduzione, I, L, il quale suggerì che la conoscenza del Liber gli derivasse dai commenti di Alberto Magno e di Tommaso d’Aquino. Così, in sostanza, anche Nardi, Saggi, pp. 81-109 e Dal ‘Convivio’ alla ‘Commedia’ cit., pp. 183-85. Da ultimo, A. Mellone, Emanatismo neoplatonico di Dante per la citazione del ‘Liber de causis’?, « Divus Thomas », 54 (1951), pp. 205-12.
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cagioni » 14, che anch’esse agiscono e, senza che si arrivi a capire come si possa risolverlo, pongono il problema dell’universale causalità nella quale pur si inseriscono e sono ricomprese. Ma è altresì il tema, spinosissimo, della « materia » 15; che, come il Nardi ha benissimo notato 16, nel de causis non è presente e, rinviando perciò a testi aristotelici, tanto più rivela, nel quadro cristiano in cui è accolto, la sua più che problematica riducibilità a questo. È anche necessario, tuttavia, che, dopo averla rilevata, di tale problematicità si dica che in questo testo resta implicita 17. E che perciò l’attenzione deve piuttosto restar concentrata sul punto che più a Dante stava a cuore: sulla natura dell’anima e sull’amore che la unisce alla « cosa » amata; sull’amore che, come qui si legge, è « unimento » nel quale « di propia sua natura, l’anima corre tosto e tardi, secondo che è libera o impedita » 18. E poiché « quanto la forma è più nobile, tanto più » della divina « natura tiene » 19, la conseguenza che ne deriva è così evidente che, lasciando da parte, in questa sede, il commento di quel che nel suo complesso il passo contiene, ricavarla e porla in luce è fra le cose più semplici e agevoli. E questa è appunto l’eccellenza della mente umana, che Dante accentuò ed esaltò al punto che nessuna esitazione incontrò a parlarne come di cosa perfetta. « Forma nobilissima » fra quante « sotto lo cielo sono generate », la mente umana è « forma » altresì di queste. E a tal segno, nel rivendicare questo suo carattere, egli in realtà si spingeva che quasi gli capitò di andar oltre 20 e, provando troppo, di rendere più ardue la persuasività e la comprensibilità di quel che pure gli stava a cuore. Si allude con questo al concetto che egli mise in campo del desiderio. Concetto che certo attingeva alla varia fonte del suo sapere filosofi14
Conv. III II 4. « Ciascuna forma sustanziale procede dalla sua prima cagione, la quale è Iddio, sì come nel libro Di Cagioni è scritto, e non riceve diversitade per quella, che è simplicissima, ma per le secondarie cagioni e per la materia in che discende » (III II 4). 16 Nardi, Saggi, p. 107. 17 Per quanto invece concerne il termine « participata », usato qui (III II 5) non saprei decidere quale senso specifico possa attribuirglisi. 18 Conv. III II 3-4. 19 III II 6. 20 Ibid. E cfr. ancora: « e quella anima che tutte queste potenze comprende, ed è perfettissima di tutte l’altre, è l’anima umana, la quale colla nobilitade della potenza ultima, cioè ragione, participa della divina natura a guisa di sempiterna Intelligenza: però che l’anima è tanto in quella sovrana potenza nobilitata e dinudata da materia, che la divina luce, come in angelo, raggia in quella; e però è l’uomo divino animale dalli filosofi chiamato » (Conv. III II 14: ma si legga fino alla fine del capitolo). 15
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co e sopra tutto, in questo caso, da Tommaso d’Aquino 21. Concetto ben suo, per altro, e da lui in più di un’occasione rimodellato e ridefinito. Ma rischioso, tuttavia, nella sua struttura, fino al limite dell’aporeticità; e tanto più in quanto lo si fosse contemplato in un quadro dominato, per un verso, dall’idea di Dio, per un altro da quella della (neoplatonica) causalità. Su alcune fra le sue ulteriori espressioni si tornerà, perché la questione non è univoca: ha molti volti. Ma, per restare intanto a quella che compare qui, converrà cominciare a delinearle, quella rischiosità e quella aporeticità; che si rivelano infatti quando si consideri la sequenza che al desiderio, e al suo attuarsi, è intrinseca. Si desidera quel che si conosce e non si possiede, perché, si sa, ignoti nulla cupido (a meno che non sia l’ignoto, e quindi il desiderio stesso nella sua vuota forma, a costruire l’oggetto del desiderio). Se, per altro, si fa che, come in Dante avviene, il desiderante sia l’effetto di una causa, che è Dio, e che quello, l’effetto, aspira a ridurre a sé nell’atto in cui le si adegua, la complicazione appare subito evidente 22. Il causato, la mente, differisce dalla causa (Dio) che l’ha prodotto e alla quale intende esser pari. Ma se è così, e a tal punto, per un suo aspetto essenziale, la differenza è ragion d’essere del desiderio che, senza quella, questo non sorgerebbe, ecco allora che l’aporia si delinea. Nello stesso atto, infatti, la differenza è ragion d’essere del desiderio e della impossibilità che esso sia tale nei confronti di Dio. Ragion d’essere del desiderio perché differenza significa « privazione », e questa impulso a possedere quel che, appunto, ne fa una privazione. Ragion d’essere della sua impossibilità perché « privazione » vale qui privazione, e perciò non esserci, della conoscenza di ciò che è superiore e sta « al di là ». Insomma, in quanto è minore della causa, il causato aspira, tende, desidera di ricomprenderla in sé, di possederla. Ma in quanto la causa è maggiore del causato, e questo minore, che possa conoscerla e dunque desiderare di ricomprenderla in sé e appagarsene, è impossibile. E questa è, schematicamente, l’aporia interna al desiderio; che si rivela infatti quando per oggetto questo abbia, non un oggetto conosciuto, fantasticato e non posseduto, non un « al di là » che, come il « mondo sanza gente » agognato da 21
Thom. Summa contra Gentiles, II 79. E cfr. Vasoli, p. 304. Conv. III II 7-8: « è però che naturalissimo è in Dio volere essere – però che, sì come nello allegato libro si legge, ‘prima cosa è l’essere, e anzi a quello nulla è’ –, l’anima umana essere vuole naturalmente con tutto desiderio; e però che ’l suo essere dipende da Dio e per quello si conserva, naturalmente disia e vuole a Dio essere unita per lo suo essere fortificare ». 22
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Ulisse, è pur sempre un mondo e qualcosa dunque, almeno sotto questo profilo, di conosciuto come ulteriormente conoscibile, ma Dio. Un’aporia che, se vi si pone mente, e al testo si torna dopo che la sua intrinseca tessitura sia stata ripercorsa, si arriva a comprendere come Dante andasse vicino a coglierla: sebbene poi, per un altro verso, a coglierla sul serio, e fino in fondo, non riuscisse. Lo si vede se si considera quel che, in tema di desiderio, a III II 7, egli disse di Dio e, quindi, dell’anima umana; che per un verso egli tendeva a « massimamente » avvicinare alla sua cagione, per un altro, ed era inevitabile, a differenziarnela. E in quanto la avvicinava bensì, ma dopo averla differenziata, perdeva la possibilità di scendere fino alla radice della questione. Che emerge, invece, e assume il giusto rilievo quando si consideri il limite, sottile ma netto, che, dividendo l’anima da Dio, conduce il desiderio che quella ha di questo a qualcosa come una non superabile, e strutturale, frustrazione. Quel che vale, e si considera debba valere, per Dio, non può valere per l’anima umana che ne discende. « Naturalissimo è in Dio volere essere ». Il passo in cui queste parole s’inseriscono non è in tutto e per tutto perspicuo. Ma se le si riferisca al desiderio umano di essere in Dio e di trovare in lui la piena realizzazione, allora di una distinzione è essenziale tener conto. Il desiderio umano non può essere lo stesso che, ricorrendo a una metafora, si attribuisce a Dio. Il desiderio che Dio ha di sé, è il suo stesso essere, o, se si vuole, l’essenza di questo essere, la sua suprema pecularietà: in forza della quale, nel desiderarsi e nell’essere tuttavia perfezione, il desiderio intensifica bensì il senso di questa perfezione, che è perfezione tuttavia e, in sé stessa, realizza in eterno, e perciò anche impedisce che sorga, il desiderio. Il quale, se a questo ragionamento si tenga dietro con rigore, ha in Dio la paradossale sua definizione di desiderio senza desiderio, di amore senza amore: quasi che, e non perché lo si voglia, ma irresistibilmente, il volto impassibile del dio greco si fosse sovrapposto a quello amante e sofferente del dio cristiano, o fosse, comunque, come in filigrana, rinvenibile e percepibile al fondo di questo. Proprio, d’altra parte, perché il circolo del volere e dell’essere è tale che un essere lo chiude in sé nel segno della perfezione, – proprio per questo accade che sull’altro fronte, sul fronte dell’anima umana, la cosa riveli la sua differenza, l’analogia si sciolga e il desiderio umano risulti in ogni senso diverso da quello che si attribuisce a Dio. Come infatti potrebbe ammettersi che quel che vale per Dio e per la perfetta sua capacità di desiderare quel che possiede, e cioè il suo proprio essere, e di possedere altresì quel che desidera, valga anche per
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la mente umana, senza che ciò produca difficoltà e, al limite estremo, addirittura contraddizione? La quale si specifica infatti, e delinea la sua fenomenologia, quando si consideri che, per un verso, la mente desidera fortificarsi in Dio perché, avvertendo e soffrendo la propria debolezza, per ciò stesso avverte la necessità della maggior forza, mentre, per un altro, quel che prima risuonava nel segno della plausibilità, ora risuona in quello dell’impossibile. Come, infatti, potrebbe essere « naturale » il desiderio di ciò che non si conosce? Eppure, è proprio questo che Dante asserì là dove scrisse che « però che ’l suo essere dipende da Dio e per quello si conserva, naturalmente disia e vuole a Dio essere unita per lo suo essere fortificare » (III II 7-8). Accennata qui su nel suo crudo profilo, la questione è tuttavia così profondamente connaturata alla mente di Dante che, sebbene a lui non accadesse di coglierne la radice aporetica, parlarne ancora è necessario. È necessario che, correndo il rischio di dar luogo a un excursus non breve, la si affronti di nuovo alla luce del testo in cui riceve forse l’analisi più radicale e acuta 23. Affrontarla di nuovo: prima dunque di dedicare alla tripartizione aristotelica dell’anima l’attenzione che non potrebbe non esserle concessa. E si vada perciò al capitolo conclusivo di questo terzo trattato nel quale, dopo che nel precedente « questa gloriosa donna » era stata « commendata secondo l’una delle sue parti componenti, cioè amore », Dante si apprestò a « commendare » l’« altra parte sua, cioè sapienza » (III XV 1-2). E scrisse che, come « lo testo », ossia la Canzone, dice che « ‘nella faccia di costei appaiono cose che mostrano de’ piaceri di Paradiso’ », così « si conviene sapere che li occhi della Sapienza sono le sue dimostrazioni, colle quali si vede la veritade certissimamente; e lo suo riso sono le sue persuasioni, nelle quali si dimostra la luce interiore della Sapienza sotto alcuno velamento; e in queste due cose si sente quel piacere altissimo di beatitudine lo quale è massimo bene in Paradiso » 24. Un piacere, Dante proseguì, che « in altra cosa di qua giù essere non può ». E quindi si apprestò a darne la ragione; la quale consiste in ciò, « che, con ciò sia cosa che ciascuna cosa naturalmente disia la sua perfezione », ne consegue che « sanza quella essere non può [l’uomo] contento, che è essere beato: ché quantunque l’altre cose avesse, sanza questo rimarrebbe in lui lo desiderio »; 23
III
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Com’è detto qui su, il riferimento è a Conv. III
X 1-2. 24 III XV
XV
1-2. Ma cfr. anche III
2-3.
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quel desiderio (e qui il discorso prese a farsi più profondo, qui Dante pervenne a un grado di consapevolezza che nel passo precedente non era stato da lui raggiunto) che « essere non può colla beatitudine: acciò che la beatitudine sia perfetta cosa, e lo desiderio sia cosa defettiva: ché nullo desidera quello che ha, ma quello che non ha, che è manifesto difetto » 25. Quale che sia la fonte alla quale la attinse, gli derivasse direttamente da Aristotele, e quindi da Tommaso d’Aquino, da Alberto Magno o da entrambi 26, certo è che, nella dottrina ora esposta da Dante, la peculiare dialettica, o fenomenologia, del desiderio, la sua aspirazione al conseguimento di ciò che è perfetto e il suo costante esserne privo, – tutto questo è colto, per un verso almeno, con estrema nettezza e acutezza. Con la conseguenza che, rispetto a quel che era stato detto nel secondo capitolo, con ben altra consapevolezza questo entra nel vivo della questione. Per un altro verso, tuttavia, resta vero quel che si osservava a proposito dei precedenti luoghi. Come lì accadeva, anche qui il punto che non riesce a essere afferrato e signoreggiato riguarda l’altro aspetto dell’ambiguità intrinseca al desiderio: quello per cui non può accadere che, come che sia del suo realizzarsi e poi rinascere, una cosa sia il desiderio che si accenda per questo o per quello e quindi si spenga con il relativo conseguimento, ma un’altra, necessariamente, sia il desiderio che ha in Dio il suo oggetto. La difficoltà nasce qui, e si deve ribadirlo, nel segno del paradosso, e fin della contraddizione; che insorgono infatti quando si consideri che se, nella sua mobile e inquieta natura, il desiderio si definisce attraverso l’equilibrio che in lui si realizza fra la privazione di quello a cui aspira e la presenza di questo nella conoscenza che non può, tuttavia, non aversene, il desiderio di Dio dischiude una situazione tutt’affatto diversa. Dio non è un semplice oggetto che l’anima desideri di poter adeguare. È, per definizione, una causa superiore a quel che ne deriva, e non reincludibile nel cerchio di questo; che può bensì desiderarlo, se si assume che così accada, ma non tuttavia attraverso la conoscenza, dal momento che nella natura profonda di Dio è impossibile che la mente umana penetri tanto da poterla adeguare a sé e, appunto, conoscerla. Ne consegue, se è così, che non al modo delle altre cose Dio può essere desiderato; e che, nel segno appunto del paradosso e fin della
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contraddizione, il desiderio che si abbia di lui presuppone il primo non meno che l’altra, che penetrano nella sua struttura fenomenologica e la scompaginano. Il desiderio presuppone la privazione e la conoscenza, – la privazione di quel che tuttavia si conosce e accende perciò il desiderio. Ma nel desiderio che si abbia di Dio la privazione resta, e non può non restare, scissa dalla conoscenza: sì che, a rigore, della privazione nemmeno potrebbe dirsi che sia avvertita come tale, dal momento che è la conoscenza dell’oggetto che rende tale, nella coscienza, la privazione dalla quale, nei suoi riguardi, ci si trovi a essere affètti. Quando perciò, qui di seguito, Dante ribadì che soltanto nello « sguardo » della filosofia, e della donna gentile che ne simboleggia il concetto, « l’umana perfezione s’acquista » e, « in quanto elli è uomo », l’uomo « vede terminato ogni desiderio » 27, il suo argomento si svolgerebbe nel segno della coerenza se per filosofia egli intendesse un’attività umana che, dipendendo solo da sé stessa, al pari di Dio, ma in un ambito diverso, e indipendente, realizzasse l’assoluta identità di essere e di volere. Che se al contrario della filosofia si assumesse che dipende da Dio e che, per « fortificare » sé stessa, aspira massimamente a ritornarvi, il desiderio si porrebbe come desiderio di un « oltre » non conosciuto e inconoscibile; e, per le ormai note ragioni, la difficoltà si riaccenderebbe nel segno della contraddizione. Non che risolvere l’ambiguità intrinseca a questa situazione fosse semplice. E nei testi di Dante c’è dell’altro, che richiede qualche ulteriore riflessione. È il luogo in cui, ragionando alla luce del Liber sapientiae, Dante rese puntuali le metafore « paradisiache », alle quali due volte in questo capitolo aveva fatto ricorso 28; e spiegò che, come « chi gitta via la sapienza e la dottrina, è infelice », così (può dirsi semplificando) « beato » è chi la acquista e poi la conserva. « Dunque si vede come nell’aspetto di costei delle cose di Paradiso appaiono. E però si legge nel libro allegato di Sapienza, di lei parlando: ‘essa è candore della etterna luce e specchio sanza macula della maestà di Dio’ » 29. Dove, a prendere l’espressione secondo quel che la lettera suggerisce, è evidente che, « specchio sanza macula della maestà di Dio », al pari di quest’ultimo, con il quale in sostanza coincide, la filosofia realizza la sua perfezione nel vo27 28 29
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Conv. III XV 4-5. Sap. 3, 11. Conv. III XV 5.
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lere il suo essere. E, nel diverso contesto, la situazione si presenta analoga a quella delineata nell’ipotesi che, autonoma in senso assoluto da Dio, nel suo proprio ambito la filosofia si comportasse come quello nel suo. In questo caso, per altro, lo sguardo della filosofia sarebbe stato lo sguardo stesso di Dio; e fra l’uno e l’altro non si sarebbe perciò potuta mentenere alcuna differenza. La difficoltà ritorna bruscamente in primo piano nel punto in cui, commentando il verso, Elle soverchian lo nostro intelletto, Dante osservò che « in alcuno modo queste cose nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose [si] affermano essere, che lo ’ntelletto nostro guardare non può, cioè Dio e la etternitade e la prima materia » 30. Il passaggio a queste affermazioni da quelle secondo le quali la mente e la filosofia erano « candore della etterna luce e specchio sanza macula della maestà di Dio », è stato definito brusco. E non a torto, si direbbe: dal momento che, per rimanere all’immagine, lo specchio della mente non riflette intera la « maestà » divina, dalla quale provengono invece lampi abbaglianti che la offuscano, la rendono impenetrabile e inconoscibile. Che le « cose » di cui qui si sta parlando « certissimamente » si veggano e « con tutta fede » possano essere credute, non significa che anche sia possibile intenderne la natura e l’essenza. E solo per la via della negazione, « non altrimenti », ci « si può appressare » alla loro « conoscenza » 31. Quest’ultima osservazione apre, com’è evidente, una questione di particolare delicatezza; e meriterebbe perciò di essere discussa a parte. Ma, nella sede in cui ci troviamo, sarà forse sufficiente dire che, come nel delineare la teoria della mente, Dante si era spinto fino al limite o,
30 III XV 6-7. Il cenno che in questo luogo è riservato alla « materia prima » e al suo concetto, dal quale il nostro intelleto è « soverchiato », è troppo rapido perché sia possibile darne una spiegazione plausibile. Non sostenuto dalla citazione di luoghi specifici, il riferimento che il Nardi, Saggi, p. 45, fece ad Aristotele, e quindi a un luogo, anch’esso non direttamente citato, di sant’Agostino (ma cfr., per un possibile esempio, Civ. Dei, 11, 6), è troppo vago perché possa trarsene qualche lume. Il luogo aristotelico potrebbe per altro essere Metaph. Z 10036 a 8-9 δ’ λη γνωστος καθ’α τ ν. E cfr., ma in relazione alla questione dell’infinito, Phys. Γ 207 a 25. 31 Leggo anch’io, a III XV 6, negando, secondo la lezione dell’archetipo, invece di sognando, come proposto e messo a testo dal Parodi e dal Pellegrini nell’edizione del 1921. La lezione negando è stata ripristinata da Busnelli e Vandelli e giustamente difesa dalla Simonelli, Materiali, pp. 237-40 (e cfr. V. Pernicone, Per il testo critico del ‘Convivio’, « Studi danteschi », 28, 1949, p. 152), e quindi confermato a testo da Inglese (Il Convivio, p. 206) e dalla Ageno (Il Convivio, pp. 245-56).
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meglio, quasi al di là di questo che a lui, cristiano, imponeva il rispetto e vietava l’audacia profanatrice, così il ritorno indietro, e al di qua, era inevitabile. Non facile, tuttavia, o in ogni senso agevole: perché serie erano le ragioni dalle quali era stato persuaso a spingersi innanzi: fino a quel limite e forse, addirittura, oltre. A rendere difficile il ritorno non era tuttavia quel che a Ulisse aveva impedito di dirigere il suo ossequio all’autorità divina, da lui non potuta conoscere, e all’umano senso della misura, così difficile per altro da intendere, e da stabilire, nel suo giusto significato. Ulisse è, in Dante, un grande personaggio poetico; e invincibile è la repugnanza che si prova quando, come per certi versi è tuttavia inevitabile, lo si prende come la conclusione di un sillogismo che, nella sua premessa maggiore, non solo l’umano desiderio di sapere contempli, ma anche, con il suo interno confine, il divieto e l’impossibilità di superarlo. Resta che, Ulisse e « folle volo » a parte, l’inversione della rotta era resa difficile dalla complessità, e anche dall’ambiguità, caratterizzanti la teoria del desiderio; che anche altre aporie aveva prodotte, alle quali una ulteriore ora se ne aggiungeva, richiamata da Dante perché fosse vinta e risolta, e che vinta e risolta, con quelle armi e nel quadro in cui mostrava il suo volto, proprio non poteva essere. Il dubbio che quella a cui aveva dato luogo fosse stata una brusca, e non coerente, inversione di rotta, – questo dubbio aveva radici profonde nella mente di Dante. Ed egli lo esprimeva, alla sua maniera, con parole nette: « veramente può qui alcuno forte dubitare come ciò sia, che la sapienza possa fare l’uomo beato, non potendo a lui perfettamente certe cose mostrare: con ciò sia cosa che ’l naturale desiderio sia nell’uomo di sapere, e sanza compiere lo desiderio beato essere non possa ». Parole nette, come si diceva; alle quali riteneva tuttavia di poter « chiaramente » replicare che « lo desiderio naturale in ciascuna cosa è misurato secondo la possibilitade della cosa desiderante: altrimenti anderebbe in contrario di sé medesimo, che impossibile è; e la natura l’avrebbe fatto indarno, che è anche impossibile » 32. Palesemente, non era una replica irresistibile. Considerata, non in astratto, ma nel contesto che Dante aveva costruito e nel quale avrebbe dovuto esplicare la sua persuasività, rivelava in effetti il disagio logico da cui era, nel profondo, segnata. Il disagio si manifestava, in realtà, proprio nelle parole che, di seguito, egli sentiva di dover aggiungere; e
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7-8. E cfr. la larga documentazione raccolta dal Vasoli, pp. 480-81.
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nell’esempio suggestivo dei santi che, l’uno nei confronti dell’altro, non provano il sentimento dell’invidia: In contrario anderebbe: ché, desiderando la sua perfezione, desiderrebbe la sua imperfezione; imperò che desiderrebbe sé sempre desiderare e non compiere mai suo desiderio (e in questo errore cade l’avaro maladetto, e non s’acorge che desidera sé sempre desiderare, andando dietro al numero impossibile a giugnere). Avrebbelo anco la natura fatto indarno, però che non sarebbe ad alcuno fine ordinato. E però l’umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è di fuori di naturale intenzione. E così è misurato nella natura angelica e terminato, in quanto, in quella sapienza che la natura di ciascuno può apprendere. E questa è la ragione per che li santi non hanno tra loro invidia, però che ciascuno aggiugne lo fine del suo desiderio, lo quale desiderio è colla bontà della natura misurato. Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio, e di certe altre cose, quello esso è, non sia possibile alla nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere. E per questo è la dubitazione soluta 33.
Il disagio, in realtà, non era superato, e « soluta » sul serio la « dubitazione » non era. Palesemente, infatti, lo scopo che Dante perseguiva, e che era diretto a dimostrare che perfezione e desiderio non sono in contrasto, e l’una può ben coesistere con l’altro, con tale radicalità era perseguito che la mèta stessa dell’argomento finiva per essere come vanificata dalla conclusione a cui, nei confronti del desiderio e della sua realtà, non poteva non pervenire: dall’esserci, cioè, e dal persistere della perfezione, dal non esserci, e non poter persistere, del desiderio, che è estinto, in effetti, da quello stesso che ne determina l’insorgere, dalla natura, che non consente che niente si dia di vano e « ozioso ». La difficoltà, per conseguenza, che nella prima parte dell’argomento s’era manifestata nel paradosso per il quale, per un verso il desiderio è conoscenza e « privazione », per un altro, se il suo oggetto sia costituito da Dio e dalla prima cagione, è tale che, di questi non possedendo la nozione, non può, rispetto all’uno e all’altra, manifestare la sua intenzione, e essere il desiderio, – questa difficoltà ora mutava volto, cambiava di aspetto. Ma, con quel volto mutato, con il suo nuovo aspetto, ribadiva, tuttavia, sé stessa. E assumeva infatti un volto e un aspetto non meno problematici. Per mantenere il desiderio nel quadro della natura,
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e della sua perfezione 34, – della sua perfezione e, per conseguenza, dell’esclusione che, in forza di questo suo concetto, doveva farsi dell’inutile, dell’ozioso e, al limite estremo, dell’errore, Dante era costretto a rinunziare alla sua forza e alla sua realtà. Alla forza, si vuol dire, e alla realtà del desiderio. Depotenziava, infatti, la sua potenza, lo spogliava di quel che più del desiderio è proprio: la capacità di desiderare e poi, di nuovo e ancora, di desiderare. E ne faceva qualcosa come uno strumento di cui la « cosa » si serviva per giungere al limite in ragione del quale era la cosa che era. Poiché la natura non fa niente « indarno » (« deus et natura nil otiosum facit », dirà nella Monarchia I III 3), era inevitabile che, agli occhi della mente dantesca, il desiderio apparisse come chiuso e circoscritto all’interno come di un’ideale circonferenza. Facendo che insorgesse in un punto qualsiasi di ciò che quella include, era altresì inevitabile che egli lo assumesse come tale che, per rendersi completo, e privarsi, se così potesse dirsi, della sua privazione, tendesse sé stesso fino al limite: senza tuttavia superarlo e, quel che più conta, poter aspirare all’« oltre ». Per restare alla logica che la metafora e l’immagine suggeriscono, il desiderio era interno alla sfera. Ma questa era poi anche interna al desiderio. Era il suo limite e, perciò, la sua natura. Era la ragion d’essere della sua sete, e dell’appagamento di questa. Con il che, alla luce di questo concetto, il desiderio di Dio era ricondotto nelle cose impossibili, e vietate, se così potesse dirsi, dall’economia stessa della natura, dalla sua logica che, naturalizzandolo, a questo non consente se non di realizzarsi entro il suo limite, e qui di estinguersi. Ne derivava, se ben si guarda, la conseguenza per la quale, Dio non essendo conosciuto e conoscibile, la sua « privazione » non è a rigore tale, e, se non è tale, non può accendere il desiderio di superarla mercé il conseguimento di quel che essa indica e di cui segnala il mancato possesso. Ma anche ad un’altra conseguenza apriva la strada: quella per la quale il non essere Dio cosa conoscibile, e perciò desiderabile, lo configurava in realtà come l’astratto « oltre » che, nel segno dell’ozioso, del vano, dell’inutile, la natura indica nell’atto stesso in cui, attuando il 34 Che qui Dante seguisse Alberto Magno, Eth. I, tr. 3, 6, è innegabile; ed è stato ben dimostrato dal Vasoli, nella nota (p. 480) che ha dedicata a questo luogo (III XV 8). Non mi sembra invece pertinente la citazione di Arist. Phys. A 122 a 16-19 (come del resto di B 198 b 10-220 b. 9) proposta da Nardi, Dal ‘Convivio’ alla ‘Commedia’, p. 69), che pone altre questioni e che in ogni caso, collocando anche il divino fra le cose che costituiscono oggetto di desiderio, dice cosa opposta, per questo verso, a quanto asserito da Dante.
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desiderio nel suo limite, e non, appunto, oltre, di questo nega che sia desiderabile, perché, altrimenti verrebbe a essere vero quel che invece è falso: e cioè che essa, la natura, possa fare e consentire quel che è ozioso, vano, inutile. Una conseguenza, questa, di non poco conto. La naturalizzazione del desiderio, alla quale Dante era condotto dalla logica interna al suo ragionamento, significava che, come desiderio dell’oltre e come desiderio di Dio, il desiderio non potesse aver luogo, non potesse, per così dire, costituirsi. E, ancora una volta, riapriva la questione relativa alla possibilità che le idee cristiane trovassero posto entro il quadro della filosofia di Aristotele. Tanto, infatti, la naturalizzazione del desiderio era conforme ai criteri di questa quanto, per contro, era estranea all’idea, o all’intuizione, cristiana di Dio. Di Dio che è un « oltre », che è irraggiungibile, che è tale che non spegne mai la sete che sempre di nuovo suscita nella mente e nell’animo di chi lo ricerca; e che, se mai fosse raggiunto, se la sete di lui si spegnesse nel cuore dell’uomo e questo potesse includerlo nella regione del suo possesso, diverrebbe una cosa fra le altre e alla sua definizione certo non sarebbe in alcun modo conforme. Il conflitto che questa idea naturalistica del desiderio dichiarava nei confronti del Cristianesimo era, del resto, ed è ovvio che fosse così, interno alla mente di Dante. E basti, per rendersene conto, considerare quel che, proprio in tema di desiderio, egli aveva scritto nelle pagine, di poco precedenti, del sesto capitolo: dove, commentando il v. 24 della Canzone Amor che nella mente mi ragiona, aveva osservato come fosse « da sapere che ciascuna cosa massimamente desidera la sua perfezione, e in quella si queta ogni suo desiderio, e per quella ogni cosa è desiderata. E questo è quello desiderio che sempre ne fa parere ogni dilettazione manca; ché nulla dilettazione è sì grande in questa vita che a l’anima nostra possa [sì] torre la sete, che sempre lo desiderio che è detto non rimanga nel pensiero. E però che questa è veramente quella perfezione, dico che quella gente che qua giù maggiore diletto riceve quando più hanno di pace, allora rimane questa ne’ loro pensieri, per questa, dico, tanto essere perfetta quanto sommamente essere puote la umana essenzia » 35. Non solo dal punto di vista della sintassi, e della restituzione filologica, questo è, senza dubbio, un luogo tormentato 36. Ma chiaro tuttavia abbastanza in que-
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Conv. III VI 7-8. Vasoli, p. 366.
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sta idea che la perfezione è tale quale può essere in relazione alla « umana essenzia »; e che in questa la sete del desiderio non si estingue tanto che non resti viva nel pensiero. C’è contraddizione fra quel che si legge in questo passo e quel che si incontra nel capitolo decimoquinto? Occorre dire di si 37; e vedervi tuttavia non già il segno di un pensiero non ben posseduto nei suoi princìpi, ma qualcosa di ben più profondo: il segno della difficoltà che, quando si fosse pervenuti a toccare la loro radice, questi in qualche modo rivelavano a chi, appunto, vi si fosse avvicinato. L’estremizzazione del discorso, e, se si vuole, la ricercata paradossalità della sua oltranza, non hanno se non lo scopo di far emergere una difficoltà che, in questo quadro, è ben presente; e richiede perciò di essere richiamata alla luce. Di quel che non si conosce e, in senso assoluto, sta al di là, è impossibile che si avverta la « privazione ». È impossibile, perciò, che si dia il desiderio. Ma occorre, tuttavia, cercare più in fondo. Se, come oggetto non conosciuto e non posseduto dalla mente, Dio è al di là, una distinzione tuttavia si impone. Altro è infatti dire che, stando al di là, Dio non è conosciuto, nè conoscibile. Altro che la notizia del suo essere al di là, sia anch’essa al di là: perché se, al contrario, come notizia, è al di qua, è ben comprensibile che il suo oggetto sia oggetto altresì di desiderio. Se è così, torna allora a farsi chiaro che nel fondo del ragionamento si muove un tema inquieto, che allude alla differenza intercorrente fra ciò che si conosce e ciò che si sa, fra il conoscere (potrebbe dirsi) e il sapere. E anche ad altro. Con la separazione che le è intrinseca, questa differenza è, non solo saputa, ma anche conosciuta. Se è conosciuta, e non solo saputa, anche è conosciuto, da parte del sapere, che il sapere non è il conoscere, che ne è 37
Diversamente la contraddizione è spiegata da B. Nardi, La filosofia di Dante, in Grande Antologia filosofica, diretta da V. A. Padovani, coordinata da M. M. Moschetti, IV, Milano 1954, pp. 1170-71, il quale argomentò che la contraddizione stesse nell’avere Dio inserito nella sapienza qualcosa che, accendendo il desiderio e non potendo essere raggiunto, lo lascia sempre inappagato. Per mio conto, credo invece che si debba coglierla nell’idea stessa, e nella natura, del desiderio che, giudicato conforme al suo poter essere sempre realizzato, per un verso è in sostanza posto e, come desiderio, tolto; ma poi è, per un altro, come se risorgesse dalle sue ceneri ponendosi, contrariamente a quel che si era affermato, come desiderio delle cose celate: cfr. Conv. III XIV 13-14. Il passo, di difficile interpretazione, e, anche sintatticamente incerto, è con ogni probabilità corrotto. Una lucida esegesi ne è stata data in breve da Inglese, Il Convivio, pp. 203-204. Ma cfr. la mia Nota a Convivio III VI 7-8, di prossima pubblicazione.
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privo. La privazione implica, per altro, la conoscenza della lacuna che ne è dischiusa e dell’oggetto che, non essendoci, appunto la determina; e questa conoscenza, dalla quale la privazione è a sua volta come attesa, accende il desiderio che questa si privi di sé stessa e consegni intero al conoscere lo specifico oggetto del quale è privazione. Ma se, per sé stesso, il sapere è conoscenza del suo non esserlo dell’oggetto che, qui ed ora, non si dà infatti se non attraverso la sua privazione, la conseguenza è che, come sapere della privazione, il sapere è la stessa cosa del desiderio: del desiderio, deve intendersi, concernente l’oggetto del quale è privo, – e per questo ne è il desiderio. Ma l’oggetto saputo e conosciuto, e che perciò accende il desiderio, questo oggetto è, nel caso in questione, Dio. Se dunque, per un verso restando celando e rendendosi per un altro manifesto attraverso il paradosso della privazione, che nasconde infatti e rivela, sottrae e restituisce, Dio è oggetto di desiderio, di quest’ultimo, del desiderio, non potrebbe dirsi che è innaturale. Non potrebbe dirsi che non è sperimentabile da parte dell’uomo. Nella tessitura di questo concetto è possibile, se ci si fa attenzione, scorgere i due diversi fili che lo costituiscono. A una tendenza per la quale a tal punto il desiderio è naturale che il suo esserci coincide con la sua realizzazione e, per conseguenza, con il suo non esserci più, se ne contrappone un’altra per la quale, conforme alla sua inquieta natura, il desiderio è come se di continuo rinascesse dalle ceneri e, restando al di qua della sua attuazione, realizzasse la sua propria attualità di desiderio. In un caso, si potrebbe dire, il desiderio si realizza, e non è più il desiderio. In un altro, non si realizza, ed è il desiderio. In entrambi i casi, tuttavia, appartiene all’uomo. E di qui nasce una conseguenza paradossale, che si deve cercare di cogliere nella sua autentica fisionomia. In quanto, attuando il desiderio, la ragione umana attua sé stessa e consegue la beatitudine che ad essa è conforme, la filosofia è filosofia e resta al di qua del campo che ha nome teologia. Resta al di qua, senza perciò la pretesa di acquisirla e di darle la regola. In quanto invece, lungi dall’attuarsi, il desiderio permanga vivo, con il suo carattere, nel pensiero che sempre di nuovo lo riaccende, l’ambito teologico si apre e si mostra 38. E sebbene nel Convivio, oltre l’Imperatore e Aristotele non si desse un terzo, necessario anch’esso al compimento dell’autentica e piena felicità; sebbene, insomma, al documento filosofico quello teologi-
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Basti, al riguardo, ricordare Conv. III
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co non si aggiungesse, perché rimaneva sullo sfondo, ed era come un libro non letto, ecco che non di meno, per linee interne, la sua presenza si faceva avvertire. A causa, occorre aggiungere e precisare, non dell’improvviso rivelarsi a lui (che di simili rivelazioni non si vede proprio come potesse mai avere avuta la necessità) della finitezza e insufficienza umana, ma dell’inquieta natura del desiderio che si attua per risorgere, e lungo questa sua via spinge la mente in alto, nella direzione di Dio. Estremismo, radicalità, complessità sono evidenti anche nella trattazione che, nel secondo capitolo (che è stato lasciato indietro perché fosse possibile svolgere il filo delle questioni connesse al desiderio) Dante fece di quella, classica, dell’anima. Tema arduo quanto nessun altro. Nella sua fonte aristotelica, innanzi tutto; e poi nella fitta tradizione dei commenti. Arduo perciò anche in Dante; che ne offrì comunque una risoluzione per alcuni versi singolare, e non poco problematica. Notevole è innazi tutto, nel testo in cui la questione fu posta, e particolarmente studiata, il rilievo conferito al tema della dipendenza e poi dell’indipendenza delle anime o, se si preferisce, delle tre potenze, vegetativa sensitiva intellettiva, attraverso le quali l’anima articola e realizza la sua unità. A Dante appariva infatti « manifestissimo che queste potenze sono intra sé per modo che l’una è fondamento dell’altra; e quella che è fondamento puote per sé essere partita, ma l’altra, che si fonda sopra di essa, non può da quella essere partita » 39. La conseguenza che perciò ne traeva era che, nella concezione che egli assumeva come la propria, il carattere radicale e autentico del fondamento apparteneva alla « potenza » più bassa, al grado infimo, insomma all’anima vegetativa; che, come è di ciò che sostiene le parti superiori di un edificio e viene, nel tempo, prima di queste, può ben stare da sé sola, sebbene il maggior pregio appartenga a quel che ne è sostenuto: non al fondamento, ma al fondato. Visione naturalistica, da questo punto di vista: come sempre deve dirsi di quella che dispone sé stessa secondo il tempo e questo concepisce come aggiunta successiva della parte alla parte. Visione tale che, per renderla meno semplice e meglio conforme perciò al discorso proprio della filosofia, basterebbe osservare che, se il fondamento sta per il fondato, e questo suo « stare per » è il suo carattere, il concetto della sua indipendenza è destinato a entrare subito in crisi. Come del resto non si tarda a comprendere se si considera la particolare situazio-
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ne che si dà a vedere in questa idea dello « stare »; che se è un semplice, immediato, indipendente « stare », non è uno stare « per », se è uno « stare per » non è un semplice, immediato, indipendente « stare »: con la conseguenza che è uno « stare » contraddittorio quello che, nello stesso atto, si presenta come « uno stare » e uno « stare per ». Che, per altro, così per Dante stiano le cose, e, essendo indipendente, « lo stare » sia uno « stare per » e abbia perciò il carattere della dipendenza, è il suo testo a rivelarlo. Il rilevamento della difficoltà alla quale, lungo questa via, dava luogo, non fu infatti eseguito; e la difficoltà stessa gli rimase, per così dire, estranea. Come, a rigore, nemmeno si accese in lui la consapevolezza dell’altra e ulteriore; che si dà invece a vedere nella sua gravità quando si consideri che di queste tre « potenze » sede unitaria e comprensiva è l’anima umana, che in sé stessa le include facendole culminare in quella intellettiva, nella quale la sua nobiltà coincide con il suo essere « in sé » denudata « da materia » 40. La difficoltà alla quale qui si allude, e che converrà affrontare nelle parti del terzo trattato, che la contengono e ne delineano i tratti, non consiste infatti nella questione concernenti le « fonti » che Dante adoperò per attingere quanto occorreva alla delineazione della sua dottrina. O non consiste soltanto in questa. Ma consiste bensì, innanzi tutto, nella tessitura logica che egli le fornì, nell’intreccio dei temi e nella resistenza che offrono a chi, per misurarne la coerenza, cerchi di osservarli dal di dentro. Ebbene, derivi dall’impianto neoplatonico delle dottrine che Dante utilizzò, derivi da altro 41, notevole è innanzi tutto, nel suo pensiero, la distanza che l’anima intellettiva intrattiene nei confronti di quelle vegetativa e sensitiva che pure ne costituiscono il fondamento. Per un verso, infatti, l’intelligenza ha il suo sostegno, e la condizione, si direbbe, del suo esserci, nelle due anime che, essendole sottese, ne costituiscono appunto il sostegno e la condizione: se si preferisce, il fondamento. Per un altro verso, è anche vero, invece, che, comunque accada che questo nesso si costituisca e il suo interno condizionamento si giustifichi agli occhi della ragione, l’anima intellettiva è intesa da Dante come la « potenza ultima » che, « con la sua nobilitade », « participa della divina natura a guisa di sempiterna intelligenza ». Il che, se ancora non bastasse, a sua volta significa che « l’anima è tanto in quella sovrana potenza
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III II 14. Cfr., al riguardo, il ricco commento del Vasoli, pp. 308-12.
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nobilitata e dinudata da materia che la divina luce, come in angelo, raggia in quella; e però è l’uomo divino animale dalli filosofi chiamato » 42. È una dichiarazione impegnativa; e impossibile è minimizzarne la responsabilità filosofica 43. Quale che sia, in questo contesto, la consapevolezza che Dante ebbe del suo significato intrinseco, e comunque debba intendersi qui il termine « partecipazione », resta che il concetto non comporta e non patisce alcuna limitazione: come invece avverrebbe se, da un difetto intrinseco, nel ricevere la luce divina, l’anima intellettiva fosse costretta a lasciarne una parte fuori di sé, a non ospitarla nella sua interezza e a non lasciarsene fino in fondo penetrare. Il paragone che qui Dante istituì fra, da una parte, la ragione umana e, da un’altra, la sempiterna intelligenza, che è propria degli angeli, implica una conseguenza importante. E questa è che, al pari di questi ultimi che, come con chiarezza assoluta è detto in III XIII 5, « questa donna », ossia la filosofia, mirano « continuamente » e senza che mai il loro mirarla sia interrotto da oggetto che intervenga fra il loro atto e la cosa « mirata », anche la mente umana ha, in quanto tale, questa capacità. Al pari delle intelligenze separate, anche a lei infatti appartiene di essere un puro atto e « dinudata » perciò « da materia » (III II 14): con la conseguenza che non si dà, nel suo interno, cosa che possa contrastarle il possesso che ha di sé stessa, renderla opaca o imperfetta. Il discorso che si è intrapreso intorno a tali questioni non può procedere se non con fatica, fra continue difficoltà, che insorgono e lo frenano, insorgono e lo costringono a tornare indietro. La divinizzazione dell’uomo, che, considerato nella nobiltà e nella purezza del suo atto intellettuale, « divino animale » è « dalli filosofi chiamato » (III II 14), è spinta in alcuni luoghi del terzo trattato a un grado così alto che di qui non poteva non avere inizio il percorso inverso. Quale che sia, infatti l’enfasi che si metta nell’esaltarlo, essere « come » Dio non significa essere Dio. E l’uomo resta l’uomo. La sua è anche un’anima vegetativa e sensitiva; e quando siano queste a prevalere sull’altra, suprema e « ultima », assai più che al dio l’uomo si adegua, discendendovi, al grado degli animali, e talvolta, addirittura, dei bruti. E allora? Se il tratto discendente del discorso deve anch’esso essere percorso perché a impor42
Conv. III II 14-15. È il contesto, infatti, che decide dell’importanza del concetto: al quale è stato conferito grande rilievo, per quanto lo si possa, per un altro verso, considerare, con il Vasoli, p. 311, « un ‘luogo’ assai comune ». 43
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lo sono i testi, osserviamoli, innanzi tutto, questi ultimi, nella loro specifica fisionomia, e leggiamoli per quel che propriamente dicono. E, per cominciare, chiediamoci che cosa possa intendersi con il participio ÂŤ dinudata Âť, ÂŤ dinudata da materia Âť, con il quale Dante definisce la ragione umana nel suo esser tale: ossia la ÂŤ parte Âť dell’anima che ne è abitata e resa degna della filosofia e del suo simbolo. A rigore di termini, ÂŤ dinudati da materia Âť non potrebbero esser detti se non il νο Ď‚, e la ν ÎˇĎƒÎšĎ‚, dei quali nel libro Λ della Metafisica, si assume che siano in atto, soltanto in atto: τΚ Ď„Îż νυν Ď„Îą τις δξ Ď„!Ď‚ Îż"Ďƒ ις Îľ#νιΚ νξυ ΝΡς (1071 b 20-21). Per quante difficoltĂ , filosoficamente parlando, possano ritrovarsi e indicarsi nell’ νξυ, nel ÂŤ senza Âť, che, per definire la purezza dell’atto, Aristotele premette a ΝΡ (materia), resta che di questo atto non potrebbe mai dirsi che, in tanto è puro, in quanto è stato ÂŤ denudato Âť della materia con la quale, in un tempo anteriore (logico o cronologico che lo si intenda), si trovava ad essere commisto. La difficoltĂ che si opporrebbe a chi cercasse di spiegare da quale atto l’atto sarebbe, in questo caso, o sarebbe stato, ÂŤ denudato Âť della materia e reso puro, è in effetti un’insormontabile difficoltĂ . E a dimostrarla tale sta la considerazione che ÂŤ puro Âť e νξυ ΝΡς in senso diverso da quello che si rivela intrinseco all’atto che ne sia stato invece ÂŤ denudato Âť, dev’essere l’atto che della materia lo denuda. Un atto originario, ossia originariamente puro, che con la materia non può intrattenere, o aver intrattenuto, nemmeno il particolare rapporto (che è tuttavia pur sempre un rapporto) che è intrinseco anche all’idea della ÂŤ privazione Âť ( νξυ). Se infatti cosĂŹ non fosse, alle sue spalle dovrebbe postularsi un atto, e poi ancora un atto e un atto, con questo regresso all’infinito rendendo evidente, in un’immagine di gusto geometrico, la contraddittorietĂ che alla purezza impedisce, nella definizione, di esser tale. Allo stesso modo, una difficoltĂ insuperabile si opporrebbe a chi, quale Dante lo pensa, del dio cristiano dicesse che è ÂŤ denudato Âť di materia. E questa definizione altresĂŹ attribuisse alle intelligenze separate, che non sono Dio, ma, solo in quanto originariamente prive anch’esse di materia, di lui possono in eterno godere la vista: chĂŠ se al contrario della materia si facesse che sono, o furono, ÂŤ denudate Âť, nella loro essenza, che non può riceverlo, s’introdurrebbe il tratto della temporalitĂ , in modo tale che, alla definizione che pur si pretendesse di darne, quelle non potrebbero corrispondere piĂš. Ma se nĂŠ della ν ÎˇĎƒÎšĎ‚, nĂŠ di Dio, nĂŠ delle intelligenze angeliche o separate, può a rigore dirsi che siano ÂŤ denudate Âť di materia, la conseguenza è che, in quanto sia riferito all’intelligenza umana, il significato
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che a questo termine, all’essere « denudato », dev’essere attribuito, per un verso sottolinea la distanza e, per un altro, la ribadisce col rendere addirittura impensabile e impossibile il paragone che Dante istituì fra quella e le intelligenze angeliche e separate. Il paragone può infatti bensì essere proposto; ma solo se lo si orienta nel senso della differenza, non in quello della simiglianza e, meno che mai, dell’identità. Il che ulteriormente significa che, comunque s’intenda che possa essere ottenuto, il « denudamento » non è la stessa cosa dell’originaria « nudità » e semplicità dell’atto: dal momento che quello suppone che, in virtù di qualcosa, qualcosa sia tolto e il nascosto appaia, laddove non si dà rimozione e toglimento che dalla nudità siano richiesti perché il suo esser tale appaia e si riveli. La questione alla quale qui si accenna non è, d’altra parte, di poco conto. E occorre insistervi alquanto perché, se il « denudamento » di necessità implica e richiede un « denudante » che, alla sua propria radice, non presupponga l’atto che esso compie, del suo esserci e agire occorrerebbe allora venire in chiaro. Ma, come tutto ciò che abbia a che fare con la questione aristotelica della potenza e dell’atto, la cosa è tutt’altro che semplice. Se si assumesse che il « denudamento » fosse opera di Dio, o della prima cagione, che, nel formare l’anima mediante l’unione delle sue tre parti, a quella intellettiva assegna il carattere per il quale la si definisce « denudata » di materia, la conseguenza sarebbe quella alla quale Dante andò vicino là, per esempio, dove (nel terzo capitolo) la ragguagliò alle intelligenze separate. Sarebbe che, per la parte che le spetta e secondo la sua natura propria, l’anima dovrebbe sempre essere in atto; mentre, contemporaneamente, le altre svolgerebbero il loro diverso principio: nel segno di una drastica e persino drammatica scissione. Svolta nelle sue conseguenze, questa impostazione condurrebbe verso un approdo pericoloso; e denso, per la fede, di rischi assai gravi. Ma altrove, nel settimo capitolo per esempio, la situazione si presenta con tratti diversi. E alla luce di quel che anche nel tredicesimo si dice, occorrerà perciò interpretare nel senso che l’anima umana ora è in atto di contemplazione e ora no: così che il suo atto, per un verso è tale che non si inscrive nel tempo e non partecipa della sua vicenda, mentre, per un altro, di quello subisce l’imperio. Lo subisce perché soltanto dal tempo, e da ciò che ne produce l’insorgere, dipende che l’atto del contemplare si interrompa per poi, e se ne dovrebbe poter indicare la ragione, tornare ad essere quello che era. Che quella indicata in questi capitoli fosse la soluzione della difficoltà di fronte alla quale il ragionamento era venuto a trovarsi, nessuno
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potrebbe dire. Procedendo, infatti, lungo questa via non si arriverebbe a comprendere in forza di che, dal non essere in atto, la mente passerebbe, di volta in volta, a esserlo. E meno che mai lo si comprenderebbe se, per la sua intelleggibilità, il passaggio fosse attribuito a un atto sottendente quello che, essendo stato tale, ora si trovasse a non esserlo più. Che anche questa via fosse in ogni senso impercorribile, è del resto evidente. E lo si comprende non appena si rifletta sulla situazione in cui, se un atto in atto sottendesse quello che una volta era tale e ora non lo è più, ci si verrebbe a trovare involti. Non ci vuole molto infatti a capire che, sotteso da un atto in atto, quello che non lo è più non potrebbe essere quale lo si definisce, e sarebbe invece in atto, reso tale da quello che lo sottende: con la conseguenza che all’idea di un atto che sottende e al quale si attribuisce la capacità di riaccendere l’atto che si era spento, a questa idea (e all’assurda duplicazione dell’atto, che reca con sé) occorre rinunziare. Per le ragioni che si sono viste; e anche per l’ulteriore contraddizione a cui dà luogo; e che è, in realtà, una duplice contraddizione. Non solo infatti non può essere altro che in atto ciò che dall’atto è sotteso. Ma se, in ipotesi, si ritenesse possibile che non fosse in atto quel che l’atto sottende, di questo allora occorrerebbe dire che non è in atto, è in potenza: è, in potenza, l’atto che, essendo stato in atto, è ora in potenza. E la conseguenza sarebbe simmetricamente inversa a quella che si era data a vedere nel primo caso. A un atto sotteso da un atto qui corrisponderebbe una potenza sottesa da una potenza. Ma un atto sotteso da un atto non è se non un atto. E, del pari, se fosse possibile prenderla in sé, una potenza che sottendesse una potenza non altro sarebbe se non una potenza. Non c’è modo, dunque, se è così, di intendere la ragione per la quale, invece che continuo e ininterrotto, l’atto intellettuale umano sarebbe discontinuo, soggetto a interrompere e poi a riprendere, per di nuovo interromperlo, il suo specifico esercizio. E alla spiegazione di questo singolare comportamento non si perverrebbe, in effetti, nemmeno se si argomentasse che, segnate da materialità e connesse tuttavia, in qualche modo, con quella intellettiva, le anime vegetativa e sensitiva, per un verso, impediscono la contemplazione ininterrotta di Dio, ma per un altro invece sospendono l’interruzione da esse stesse provocata, la interrompono (se si amano i bisticci), e di nuovo consentono che Dio sia contemplato dalla mente. Nemmeno, infatti, se si argomentasse così lo scopo sarebbe raggiunto. Per raggiungerlo lungo questa via, certo non potrebbe ammettersi che, di volta in volta, l’atto della mente fosse contenuto in potenza dalle due anime che lo sottendono: non solo
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perché niente di intellettuale è potenzialmente incluso nelle anime vegetativa e sensitiva, ma anche perché, se mai si ammettesse quel che proprio non si può, si verrebbe a dire che, insieme, la potenza è potenza del non consentire e del consentire l’atto della mente: nel segno dunque della più schietta contraddizione. Per comprendere questo punto realmente problematico, – problematico in sé stesso e non per l’aggiunta che, dall’estrinseco, ad esso si faccia di un « problema », per comprenderlo nei termini in cui Dante cercò di spiegarlo, occorre dunque assumere che quel che appartiene alle anime inferiori si frapponga, alla maniera di un oggetto, fra la mente che contempla e quel che ne è contemplato; si frapponga e quindi, con l’uscire dal luogo in cui, impedendo che lo sguardo intellettuale raggiungesse il suo oggetto, si trovava, consenta quel che prima impediva. Quando l’uomo è « in atto » di contemplazione, contempla. Quando non lo, e a prevalere sull’attività della mente, sono le potenze inferiori del « vegetare » e del « sentire », non contempla. Il che non spiega, per altro, e anzi ribadisce, l’inspiegabilità del « quando »: ossia dell’intervento, in questo quadro, della temporalità. La quale può bensì riguardare quel che si trovi consegnato nelle anime inferiori, che nascono, infatti, vivono e muoiono. Ma come possano riguardare quella intellettiva che, in quanto tale, di ciò che segna le altre due è scevra, è proprio incomprensibile. In quanto sia atto della mente, l’atto del contemplare non patisce in sé stesso alcun limite. La sua luce brilla con la stessa intensità e purezza che danno segno di sé nelle intelligenze separate, o angeliche che si preferisca chiamarle. Non ha dunque in sé, non conosce e per conseguenza nemmeno può patire, la limitazione del tempo; che infatti interviene, « quando » interviene, dal di fuori. Con le due conseguenze « irrazionali » che l’ammissione di questo intervento comporta. La prima, che quel che si assume sia scevro di elementi sensibili, è tuttavia affètto da questi che, di entrarvi in contatto, non dovrebbero possedere la capacità. La seconda, a questa strettamente congiunta, che quel che non ha tempo ne viene tuttavia per intero condizionato. E, in margine a queste due, una terza difficoltà richiede di essere richiamata, messa il luce e considerata. Non si dà in Dante, e nelle « fonti » alle quali attinse, l’idea che, comunque si possa giustificarla, l’atto del contemplare sia in sé stesso segnato da un limite per il quale, più forte al momento del suo insorgere, si attenua via via, si rende meno chiaro, trasparente e luminoso di quanto all’inizio non fosse, allontanandosi dal traguardo della perfezione. Il limite dell’atto è fuori dell’atto; e dal di fuori gli proviene quel che nel suo interno non
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si trova e non ha giustificazione: il suo spegnersi « dopo » essersi acceso, il suo accendersi « dopo » essersi spento. Le ragioni alle quali questa forte sfasatura logica può e deve essere fatta risalire si rendono di volta in volta visibili nelle varie conseguenze a cui danno luogo; e qualche saggio, andando al di là dell’esplicita consapevolezza dantesca, e cercando di pervenire alla radice, qui su ne è stato dato. La ragione di queste ragioni è tuttavia da ritrovare, forse, e da indicare nell’allegoria stessa della « donna gentile »; che, per un verso, è la stessa intelligenza umana, coincide con la sua essenza, e, sebbene vi stia « perfettissima », appartiene non di meno alla umana generazione, che riflette infatti in sé questo suo carattere (la perfezione) senza, per altro, potervisi trasferire e risolvervi la sua limitazione. Per un altro verso, e nello stesso giro di pagine, le predicazioni che tuttavia essa riceve sono tali, e producono una tale intensificazione della sua essenza, che della sua natura si parla come di cosa che direttamente sia stata « beneficata » da Dio 44. E, per esempio, Dante scrisse che « ragionevolmente si puote credere che, sì come ciascuno maestro ama la sua opera ottima più che l’altre, così Dio ama più la persona umana ottima che tutte l’altre; e però che la sua larghezza non si stringe da necessitade d’alcuno termine, non ha riguardo lo suo amore al debito di colui che riceve, ma soperchia quello in dono e in beneficio di virtù e di grazia. Onde dico qui che esso Dio, che dà l’essere a costei, per caritade della sua perfezione infonde in essa della sua bontade oltre li termini del debito della nostra natura » 45. E questo è sul serio un passaggio singolare, degno di molta attenzione. La « donna gentile » è per sé stessa « ottima »; e poiché il suo esser tale accende l’amore di Dio, la cui « larghezza » non subisce restringimento da necessità che gli sia estranea, ecco che il suo amore va oltre il limite « della nostra natura » e di ciò che, nel quadro di questa, può esser definito « ottimo ». Il superlativo umano ottiene così, per la bontà di Dio, per la sua virtù e la sua grazia, un’intensificazione che, quaggiù, sarebbe impensabile. Ma la « donna gentile » appartiene tuttavia all’umana generazione. Ed è bensì « perfettissima ». Ma in questa, e nel suo ambito. Ed ecco, dunque, che per un verso sul serio le appar44 Conv. III VI 9-10: « ... non solamente questa donna è perfettissima nella umana generazione, ma più che perfettissima, in quanto riceve dalla divina bontade oltre lo debito umano ». 45 III VI 10.
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tiene. Per un altro invece non le appartiene, perché al di là del limite è spinta dalla grazia di Dio, autrice di ciò che, altrimenti, non potrebbe, col criterio della natura, essere spiegato e concepito. Come impossibile a spiegarsi sarebbe, allo stesso modo, quel che si legge a III XIII 5, e cioé nel passo in cui è detto che le « intelligenze separate questa donna mirano continuamente »: sarebbe impossibile se quest’ultima non fosse via via stata trasfigurata fino ad assumere il volto della sapienza divina, che è appunto quello che, senza interruzione e, come poi si leggerà nel ventinovesimo del Paradiso, senza « intercisione » di « novo obietto », esse intelligenze contemplano (vv. 76-81). In effetti, è proprio da questa singolare trasfigurazione e, anzi, divinizzazione, della « donna gentile », che per un verso è la ragione umana nel suo grado più alto, ma anche è, per un altro, il suo innalzamento a un grado ulteriore, al quale quella, la ragione umana, non può pervenire, è di qui che si svolge la più singolare delle conseguenze che possano osservarsi in quel che Dante argomentò nel terzo trattato del Convivio. A tal punto l’essenza stessa della mente umana subisce in sé stessa il trascendimento di ogni suo limite, che, così divinizzata, la filosofia si innalza sul filosofo, si separa da lui; che, stando in terra, la elegge bensì a donna della sua mente, esercita bensì la sua specifica virtù e ne assume l’abito, ma non fino al punto da risolvere per sempre in questo suo atto il limite che, in quanto uomo, lo affligge. Trasferita dal piano dell’umanità a quello della stessa sapienza divina, contemplata dalle sostanze separate che da essa mai volgono il viso, nell’atto in cui per un istante esalta in sé stessa oltre ogni limite la mente umana, la donna gentile riconsegna questa a ciò che era stato superato. La riconsegna al limite; che dall’intelligenza del filosofo può essere superato solo « quando Amore della sua pace fa sentire; che non vuole altro dire se non: quando l’uomo è in ispeculazione attuale, però che della pace di questa donna non fa lo studio sentire se non nell’atto della speculazione. E così si vede come questa è donna primieramente di Dio e secondariamente dell’altre intelligenze separate per continuo sguardare; e appresso dell’umana intelligenza per riguardare discontinuato » 46. E si legga anche quel che segue; dove sembra che in qualche modo l’intenzione sia di restituire alla « umana natura » ciò che, per un altro verso, non poteva non esserle tolto. È ben vero infatti che, a giudizio di Dante, « sempre è l’uomo che ha costei per donna da chiamare filosofo, non
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ostante che tuttavia non sia nell’ultimo atto di filosofia, però che dall’abito maggiormente è altri da denominare ». È ben vero che « dicemo d’alcuno virtuoso, non solamente virtute operando, ma l’abito della virtù avendo; e dicemo l’uomo facundo eziandio non parlando, per l’abito della facundia, cioè del bene parlare ». È ben vero, infine, che « di questa filosofia, in quanto dall’umana intelligenza è participata, saranno omai le seguenti commendazioni, a mostrare come grande parte del suo bene all’umana natura è conceduto » 47. È ben vero, dunque, che Dante argomentò così; e che, così argomentando, lo scopo suo fu di restituire alla natura umana, se non tutt’intera, gran parte almeno della filosofia che nella divina sapienza è contemplabile. Ma, a parte che dell’idea della « partecipazione », che qui è indicata e richiamata, non è anche chiarito il concetto, e in che modo lo si debba assumere; a parte che, posta l’idea di « abito » e di « possesso », non potrebbe dirsi che siano la stessa cosa il non essere in atto di parlare e il non essere, invece, in atto di filosofare, anche se dei rispettivi abiti possa concedersi che sempre l’uomo abbia il possesso, a parte questo e altro ancora che potrebbe aggiungersi, la differenza resta. E comunque lo si giustifichi, resta il divario. La filosofia sta nel filosofo che la pensa con un limite invalicabile; perché « discontinuato » è il suo atto. Su questa differenza che proprio la divinizzazione della filosofia, e della « donna gentile » che ne è il simbolo, pone fra l’intelligenza che è propria di questa e l’altra che, con il suo limite non superabile, appartiene a chi, quaggiù, in terra, pur risponde al suo richiamo d’amore e la circonda perciò di ogni sua cura, – su questa differenza occorre insistere. Per ribadire innanzi tutto, la conseguenza che ulteriormente ne deriva. L’innalzamento della ragione umana al grado di quella angelica subì, nel terzo trattato, un brusco contraccolpo. E il risultato fu quello a cui si è accennato; e che può ora essere meglio determinato osservando che, mediante la divinizzazione della « donna gentile », la filosofia assunse in sé stessa il carattere della teologia. O, di ciò, se si vuole, che la teologia considera come il suo specifico oggetto, Dio, il suo volto, la divina sapienza che vi è riflessa e in questo medesimo atto ne emana. La filosofia assunse in sé stessa questo carattere perché, come si è detto, quanto più Dante ne poneva in evidenza la compiutezza, l’autonomia, la perfezione, e a queste altezze innalzava il suo simbolo, quanto
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più la poneva in diretto contatto con Dio, di altrettanto essa si distaccava dal fedele filosofo che, con il suo strumento, perfetto ma discontinuo, perfetto ma intermittente, qui giù, in terra, la coltivava, la amava, cercava di realizzarsi in essa. A delinearsi fu perciò un esito assai singolare, segnato da forte paradossalità. Per un verso, fu, quello che venne a delinearsi, un esito razionalistico, se razionalismo significa includere nel cerchio della ragione quel che alla sua realizzazione è necessario: ogni cosa, insomma, che per esser tale, la sua perfezione richieda. E in questo segno, con questo carattere, la ragione e la filosofia furono pensate da Dante. Per un altro verso, tuttavia, fu un esito, se non mistico, tendente al misticismo, a una forma imperfetta di misticismo, quello che si dette a vedere. L’esito fu mistico, o tendente al misticismo, per ciò che già è stato detto e deve, ora, esser reso più chiaro, più trasparente, più netto. Non, dunque per un’insufficienza che in sé stessa, all’improvviso, già definita perfetta e compiuta in sé stessa, la ragione avesse rivelata; non per un limite e una carenza manifestatisi come intrinseci alla sua struttura e non rimediabili se non con il suo proprio sacrificio. Ma a causa, invece, della perfezione che, fermo restando il limite creaturale proprio dell’uomo, era inevitabile che se ne distaccasse, si ponesse al di là, si chiudesse in sé come ciò che, senza rimedio, trascende all’infinito lo sforzo teso ad adeguarla. E questa altresì è la ragione per la quale l’esito ebbe caratteri mistici, ma imperfetti. Non si espresse infatti nella rinunzia alla ragione; che non conobbe il suo naufragio, non si annullò in vista della luminosa e abbagliante rivelazione del divino. Realizzata di volta in volta nei suoi atti discontinui, la ragione fu come costretta a rinviare la sua perfezione al di là di sé stessa, nella « continuità » dell’atto, e nella sua irraggiungibilità. Se alla luce di queste considerazioni e del filo che le tiene insieme nel segno, si spera, della coerenza, l’occhio si volga a ripercorrere la linea della grande polemica, o discussione, se si preferisce, che sul tema del razionalismo e del misticismo impegnò e divise alcuni fra i più grandi dantisti della prima metà del ventesimo secolo, Pietrobono, in modo particolare, Barbi, Nardi, in parte Gilson 48, non è difficile rendersi con48
La contrapposizione del razionalismo del Convivio al misticismo della Vita nuova fu energicamente sostenuta da L. Pietrobono a partire dal suo Il Poema sacro, I, Bologna 1915, pp. 80-146, passim, e quindi, in risposta alle obiezioni mossegli da M. Barbi, Razionalismo e misticismo in Dante (1933), in Problemi di critica dantesca, II (19201937), Firenze 1941, pp. 1-76, nel saggio Il rifacimento della Vita nuova e le due fasi del
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to che, nella realtà, la questione è assai meno semplice, meno lineare, molto più complessa di quanto, convergendo e sopra tutto divergendo, costoro non pensassero. E a entrare in crisi, quando la considerazione si faccia più attenta al rilievo obiettivo, non delle formule e delle definizioni, ma del pensiero, è in primo luogo l’idea che questo sia passato, attraverso esperienze diverse, dal misticismo al razionalismo, e poi da questo, documentato (secondo il Pietrobono) dal Convivio, di nuovo al misticismo, quale rifulge (o, meglio, rifulgerebbe) nella Commedia. A entrare in crisi è l’idea secondo la quale, progredendo verso le sue più mature concezioni, Dante abbia lasciato cadere o abbia reinterpretato alla luce di queste quel che prima si presentasse con un segno diverso e, addirittura, alludesse a esiti eterodossi. In realtà, non è così. E senza ripetere quel che in precedenti pagine si ebbe occasione di osservare, basterà in questa sede, e a questo punto dell’indagine, richiamare l’attenzione sulla curvatura mistica o semimistica che, per ragioni interne al suo svolgimento, lo stesso razionalismo aristotelico fece registrare nel terzo trattato del Convivio. Dopo di che, anche ci si consentirà di esprimere il disagio che, di fronte a un’opera come la Commedia, si prova nel vederla racchiusa nella definizione che ne fa un documento di misticismo: come se quel che Dante aveva scritto nel Convivio, e poi (quale che ne sia la data) nella Monarchia, non trovasse anche lì un’espressione conforme. La questione concernente lo svolgimento, come lo si debba concepire e se sia legittimo farne un predicato del « pensiero », non è per certo delle più semplici; e qualunque cosa se ne pensi, non basta il rinvio alla realtà di un calendario perché tutto appaia chiaro e definito. Chi scrive farebbe torto al senso del ridicolo, che desidererebbe fosse in lui per sempre messo al sicuro dalle tentazioni, se ora si mettesse a dissertare, überhaupt, sul pensiero, lo svolgimento e il progresso. Ma, anche se si rimane sulla soglia, c’è tuttavia modo e modo di intendere la linea di uno svolgimento; e certo darebbe qualche ragione di sospetto chi, nel tracciare quella dantesca, sostenesse che la sua direzione fu
pensiero dantesco (1934), in Saggi danteschi, Roma 1936, pp. 35-137 (al quale il Barbi tornò a replicare nell’Appendice (1937) al suo saggio, Problemi, II, 76-86). Fra i numerosi interventi del Nardi, è particolarmente significativo, al riguardo, il suo Dante e la filosofia (1940), in Nel mondo di Dante cit., pp. 209-45, dov’è discusso il libro del Gilson. Per la posizione di quest’ultimo, cfr. Dante et la philosophie cit., pp. 151-52, 159, passim. Ma, per quanto concerne il Nardi e il Pietrobono, si veda anche l’importante lettera che il primo inviò al secondo il 30 ottobre 1934, in A. Vallone, Luigi Pietrobono. Con appendice di lettere inedite, Torino 1961, pp. 33-38.
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determinata dall’abbandono degli « errori » giovanili, commessi in nome di Aristotele e, magari, persino di Averroè. Con la divinizzazione della « donna gentile » Dante aveva conseguito un risultato paradossale. Per un verso aveva condotto all’estremo traguardo l’idea della perfezione intrinseca alla ragione umana e al suo atto, – l’idea che in alcuni luoghi del Convivio conobbe la sua espressione più netta. Per un altro, questa stessa divinizzazione era stata come fermata da una sorta di contraccolpo, non si dice di contrappasso. Si era isolata in sé stessa, nella sua perfezione. Si era resa identica a Dio, e, se non proprio identica, tale comunque che la divina sapienza la penetrava tutta e vi risplendeva in modo che, al pari delle intelligenze separate, poteva, senza interruzione, goderne lo spettacolo. Ma a questa altezza non era tuttavia in grado di mantenersi; e nel suo atto intellettuale Dante non poteva non riconoscere il limite della discontinuità. Donde, dopo l’ascesa, la necessità della discesa. E il filosofo poteva bensì anche lui, quando amore gli avesse acceso dentro il suo fuoco, contemplarla. Ma, appunto, con un atto intermittente e discontinuo: perfetto in sé stesso e in quanto fosse atto, incapace non di meno di mantenersi nella sua perfezione e di sottrarsi al destino segnato da questa limitazione. Perfezione e imperfezione, per questa via, andavano insieme, legate da un nesso oscuro; che, per un verso, si presentava così, come un nesso, e, per un altro, non era invece se non un’immagine della scissione che le parti dell’anima operavano in questa, che pure avrebbe dovuto, in qualche modo, tenerle insieme. Il filosofo, dunque, non era pari alla filosofia. E intanto, al di sotto di lui, al quale, nei modi e con i limiti che si sono visti, era dato di andar oltre il comune vivere degli uomini e di contemplare il volto della filosofia, si dava quello, il comune vivere degli uomini, che da tutt’altro era caratterizzato. La « grandissima parte delli uomini vivono più secondo lo senso che secondo ragione; e quelli che secondo lo senso vivono di questa innamorare è impossibile, però che di lei avere non possono alcuna apprensione » 49. E di qui, a guardar bene, ha inizio un corso di pensieri che, sebbene siano impliciti e non dichiarati, sono tuttavia della più grande importanza; e tali che occorre coglierne il senso, in modo che a emergerne sia la ragione della differenza che, nel-
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l’identità di tanti altri aspetti, sussiste fra il quadro concettuale del Convivio e quello che poi Dante traccerà nella Monarchia. Considerata nella sua dimensione filosofica, la vita umana appare, a secondo del punto da cui si guarda, caratterizzata da un’ascesa verso l’« atto di contemplazione », o da una discesa, da questo, al senso. O anche, e più drasticamente: non solo da questo ritmo ascendente, ma anche dall’impossibilità che a parteciparne e a realizzare, nel punto alto toccato dall’ascesa, la parziale e fugace felicità che all’uomo è quaggiù consentita, sia l’umanità intera. È un luogo concettuale di grande delicatezza, questo; e occorre coglierne il senso al di là della metafora del ritmo ascendente e discendente, che lo descrive infatti, e non lo spiega nelle sue ragioni. Che rimangono, come si è detto, non attinte, non dichiarate e chiarite. Ma quali che queste siano, quale che sia la ragione dell’arbitrio a cui « amore » obbedisce nel comunicare all’anima sé stesso, resta che a questo limite la dimensione teoretica non può essere sottratta né sottrarsi. Resta che da quello la felicità umana non può mai andare disgiunta. Quel che perciò in questa dimensione viene a determinarsi, non solo è assai diverso da ciò che, nel campo di sua competenza, l’Imperatore realizza, ma è tale che nessun aiuto può venirgli da quella parte. Sulle cose dell’intelletto, e su Aristotele che ne è il simbolo, l’Imperatore non ha vanto. Non a lui compete di stabilire, per tutti e per ciascuno, che cosa sia « nobilitade ». Ne consegue che, mentre, cavalcato dall’Imperatore e dal suo unitario volere, il mondo delle disparate volontà umane si unifica per assumere il volto di un’unica volontà, articolata e distinta per tutti i gradi del « comandare », ma infine unita, unica e concorde, un tutt’altro spettacolo offre il mondo governato da Aristotele; che al risultato dell’unità, nel suo campo, non può pervenire, perché è scritto nella natura della mente, e nella capacità che le sono intrinseche, che non vi pervenga e che, se lo si consideri come un risultato, questo resti inattinto. Come si diceva, è su questo luogo concettuale, in cui il trattato latino sulla monarchia nasconde la ragione della sua nascita, – è su questo, e sulle varie complicazioni della sua tessitura, che, quando il momento sia giunto, occorrerà indagare.
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Capitolo III ATTRAVERSO LA « COMMEDIA » La riconsiderazione che, nelle precedenti pagine, è stata eseguita della tesi secondo la quale, nel Convivio e nell’Inferno l’idea dell’Impero, apparirebbe bensì, ma con un forte e limitativo connotato « guelfo », e la critica che a questa tesi è stata mossa, a varie, ulteriori riflessioni hanno aperto il varco. E, nello svolgimento che se n’è dato, sopra tutto a un’indagine più ravvicinata delle complesse questioni filosofiche, nel cui quadro la tesi concernente Aristotele e l’Imperatore si colloca e dev’essere studiata. Se ne riprenderà, quando il tempo sia giunto, l’esame. Ma a un rilievo, che ha infatti importanza preliminare, deve concedersi spazio. E questo concerne, da una parte, la questione della Chiesa, della sua assenza nel Convivio, della sua presenza nell’Inferno, e del significato che a questi due « fatti » dev’essere riconosciuto; da un’altra, la non connessione, in queste due opere, dei due « poteri »; da un’altra ancora il significato specifico che dev’essere assegnato alla Monarchia, che, sia stata scritta fra il 1312 e il 1314, sia stata scritta (come par giusto ritenere) più tardi, e perciò nel tempo in cui già avviata e progredita era la composizione del Paradiso, rappresenta comunque un caso di particolare complessità e difficoltà. E un problema, dunque; che va affrontato nei suoi termini, e nelle conseguenze che ne derivano, senza esagerarne la rischiosità eterodossa, ma respingendo tuttavia con decisione l’idea secondo cui nella Commedia tutto si risolverebbe e ogni audacia sarebbe ricondotta al di qua del limite. In realtà, per quanto riguarda quest’ultimo punto che, fra i tre elencati, è il più delicato e importante, la questione seria non riguarda l’ortodossia e l’eterodossia, astrattamente considerate come atteggiamenti contrapposti e esclusivi. E non consiste dunque nel decidere se, consapevole di aver ceduto alle tentazioni di questa, Dante abbia poi inteso ricollocare sé stesso sotto il segno di quella. A chi sostenesse che mai egli fece professione di eterodossia, e che « eterodosso » in nessun caso volle essere, – a chi perciò aggiungesse che diverse da quelle che potrebbero spiegarsi con l’assunzione di atteggiamenti conformi a questa volontà sono le ragioni del suo famoso « traviamento », non sarebbe diffi-
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cile tributare il consenso. A una condizione, per altro: che, lasciando da un canto le intenzioni, si avesse animo bastante a guardare dritto nella sostanza. La quale, è bene ribadirlo, riguarda la quaestio aristotelica e quel che vi si connette: ossia se un pensiero di quella qualità e natura potesse, senza che ne nascessero rischi insidie inconvenienti gravi, offrire al Cristianesimo la struttura logica di cui lo avvertisse carente, o se, al contrario, fosse destinato a farveli insorgere, introducendovi elementi di insanabile complicazione. Riguarda questo punto cruciale. E non c’è dubbio. Scritta quando la composizione della Commedia era in corso (l’ipotesi che la preceda per intero non può, francamente, essere presa nemmeno in considerazione), il problema che la Monarchia pone è, in certe sue parti, così radicale, che non c’è ingegnosità esegetica, né escogitazione di schemi evolutivi, che possano riuscire a attenuarne il rigore. E ci sono poi altri due punti che, sebbene non altrettanto importanti, lo sono tuttavia abbastanza da meritare qualche attenzione. Che, presente, e con caratteri di estrema violenza, nell’Inferno, la polemica diretta contro la corruzione della Chiesa sia, nel Convivio, assente, non è circostanza che possa spiegarsi assumendo che nella mente di Dante questa non si accendesse se non quando, lasciato in tronco il trattato filosofico, egli dedicò tutto sé stesso alla composizione della prima cantica. Per quanto forte ne sia, in certi casi, la tentazione, il « silenzio » non può costituire un argomento tale da far concludere al « non esserci » della cosa di cui si tace o, meglio, non si parla: come se, di necessità, il non parlare di alcunché implicasse non già soltanto il fatto che non se ne parli, ma il non poterne parlare a causa del suo non esserci. In realtà, che la polemica contro il papato corrotto e usurpatore del grado imperiale nel Convivio taccia, può suscitare qualche legittima sorpresa quando si pensi alla vicenda politica che, per Dante, si era conclusa nell’esilio. Ma niente di più. Dalla meraviglia non è lecito far nascere conseguenze che siano ulteriori al suo semplice ribadimento. Il non esserci della polemica, il suo non aver trovato posto in quest’opera non autorizza in realtà a una conclusione diversa da questa: e cioè che solo se, positivamente, potesse provarsi che Dante ne aveva taciuto perché alla corruzione della Chiesa non aveva ancora guardato come a uno degli aspetti essenziali della presente decadenza delle cose e degli uomini, – soltanto in questo caso potrebbe concludersi che il silenzio non fu se non la conseguenza del non esserci della cosa. Ma per concludere così ci vorrebbe, oltre il silenzio, che non lo è, almeno un indizio. Nell’Inferno la polemica che Dante diresse contro la Chiesa di Roma è violentissima. Ha toni di esplicita e autentica esasperazione apocalitti-
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ca. E quando questi non salgono al più alto grado, la loro gamma svaria tuttavia dalla rabbiosità al sarcasmo più acre. Ma nell’Inferno, è stato detto (e a sostenere questa tesi fu, meglio di ogni altro, un dantista insigne, il Parodi), alla polemica antipapale non si accompagnò la esplicita e consapevole considerazione dell’Impero come guida dell’umanità 1. E nemmeno, del resto, si accompagnò il monito relativo a quel che, in opposizione al suo stato presente, anch’essa, la Chiesa, avrebbe dovuto essere: e cioè l’altra guida del genere umano. Se ne concluse che, analiticamente presenti, gli elementi della filosofia politica di Dante non trovarono nella prima cantica il loro accordo sintetico, non entrarono in relazione: sì che sarebbe vano cercarvi quel che solo nel Purgatorio, e nella coeva (secondo il Parodi) Monarchia 2, può essere trovato. Ma, anche qui, forse che dal tacere o dal silere è lecito ricavare il non esserci, nella coscienza di Dante e nel suo pensiero, dell’idea delle due guide alle quali sono affidate le sorti dell’umana felicità? Non necessariamente l’averne taciuto significa che, fra le idee possedute allora da Dante, questa non avesse luogo. E potrebbe ben ammettersi (è un’ipotesi, ma vale quanto l’altra) che Dante ne tacesse, o perché a suo giudizio non era quella la sede adatta a riceverla, o perché a questioni più urgenti sentisse di dover dare espressione e risoluzione. E c’è del resto, per questo silenzio, una spiegazione diversa da quella per la quale si assume che il suo « esserci » sia come il volto, il riflesso e la conseguenza del « non esserci » della cosa 3. 1
E. G. Parodi, La data della composizione e le teorie politiche dell’‘Inferno’ e del ‘Purgatorio’, in Poesia e storia nella ‘Divina Commedia’, a cura di G. Folena e P. V. Mengaldo, Vicenza 1966, pp. 253-54, 256-57, 261, 275. Le ragioni per le quali la tesi del Parodi non mi sembra accettabile sono esposte nel testo; e sono diverse da quelle che gli oppose il Nardi, Saggi, pp. 257-67. 2 Parodi, La data, pp. 275 ss. 3 Può ricordarsi, a questo riguardo, la profezia del Veltro, Inf. I 101-11, nel quale molti pretesero il vedere un Imperatore. Rinvio per questo alla breve Appendice che tiene dietro a questo capitolo. Aggiungo che nemmeno mi riesce di scorgere la presenza della teoria dei due poteri nella condanna della Donazione di Costantino (Inf. XIX 90111) e nella grande invettiva in cui trovò espressione. Qualunque significato si pensi di dover attribuire a questo evento, nel quale Dante indicò la precoce deviazione della Chiesa dalla retta via della povertà, e fosse pure, questo significato, quello che vi fu scorto da L. Pietrobono, La donazione di Costantino e il peccato originale, « Giornale dantesco », 24 (1921), pp. 9 ss., e cioè che in quel « dono » si celasse qualcosa come un secondo peccato originale, – resta che di un rapporto con l’Impero non si parla. Per quanto invece riguarda l’accordo sussistente fra il pensiero di Dante circa gli ideali pauperistici che, « dagli ambienti albigesi, patarini e valdesi » passarono « tra i francescani, e
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L’Inferno è un grande teatro di odi e di rancori municipali. È uno specchio sul quale si riflettono e, come inseguendosi, si rincorrono le passioni, gli odi e i rancori appunto, gli oltraggi, le vendette che intessono il manto cruento della vita comunale. È il ritratto vibrante di quella diu exagitata Florentia 4, alla quale, nel 1304, Dante augurò pace e tranquillità, e forse si illuse che potessero esservi conseguite, quando, esule da poco, sperava che presto vi avrebbe fatto ritorno. Vi s’incontra Farinata, il ghibellino « magnanimo »; ma poi anche, con il volto più o meno sfigurato dal peccato, Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandi, « la cui voce/ nel mondo su dovria esser gradita » (XVI 41-42), Jacopo Rusticucci, Mosca Lamberti, il tragico Ugolino della Gherardesca con il malvagio arcivescovo Ruggeri; senza dimenticare, espressione estrema di umanità degradata, il ladro Vanni Fucci, « mulo », a cui Pistoia « fu degna tana » (XXIV 126). Ebbene, non potrebbe darsi che, non il non essersi ancora l’idea dei due soli 5 formata in lui, ma la superiore ragione dell’arte imponesse a Dante di non parlarne in riferimento a quel mondo risonante di passioni e di odi, nel quale gli accadeva di essere ancora immerso e di avvertire in sé il violento contraccolpo? Per dissertare intorno alle due guide dell’umanità occorreva che il quadro delle passioni si fosse, se non proprio rasserenato, almeno decantato; che l’orizzonte si fosse fatto più ampio; che la polemica stessa avesse in qualche modo innalzato il suo tono. E questa non è la situazione che Dante segnatamente furono accolti da Pietro di Giovanni Olivi e Ubertino da Casale » (Nardi, Saggi, pp. 286-87: ma cfr. anche Dante e la cultura medievale cit., pp. 272-75, e Dal ‘Convivio’ alla ‘Commedia’ cit., pp. 327-28), non credo condividibile la perentoria esclusione che ne fece il Barbi, Con Dante cit., pp. 300-301. E si vedano per contro gli importanti studi di R. Manselli, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul francescanesimo spirituale, sull’ecclesiologia e sull’escatologia tardomedievale, Roma 1997, pp. 201-12, 213-30, 275-301, 317-44; ma anche le notevoli osservazioni di O. Capitani, L’allusione dantesca a Matteo d’Acquasparta, in Matteo d’Acquasparta francescano, filosofo, politico. Atti del XXIX Convegno storico internazionale, Spoleto 1993, pp. 291-310, e La polemica antibonifaciana, in Jacopone da Todi. Atti del XXXVII Convegno storico internazionale, Spoleto 2001, pp. 127-48, che, in generale, a ragione tende a rendere meno rigide alcune connessioni stabilite dal Manselli. – Per quanto poi concerne i rapporti testuali che Alberto Forni avrebbe individuati fra la Commedia e la Postilla dell’Olivi, non si può se non restare in attesa che egli renda noti i risultati della sua lunga ricerca. 4 Ep. I 4 (p. 256 Frugoni). 5 Purg. XVI 106-108. Questi versi pongono per altro una curiosa questione, che ho studiata in un articolo, ‘Soleva Roma’, che ’l buon mondo feo/ due soli aver’ « Cultura », 39 (2001), pp. 5-23.
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aveva raggiunta nell’Inferno. Ebbene, non è detto, naturalmente, che le cose stiano proprio così; e che questa sia la ragione autentica del silenzio. Ma perché, e come escludere, che così invece stiano, e che quella addotta sia la sua ragione? Del resto, se nella prima cantica non si parla delle due guide e della relazione che esse debbono intrattenere perché armoniosamente l’umanità ne sia condotta alla mèta della felicità, nemmeno, dopo il fulmineo e alquanto contratto accenno del secondo canto, vi si parla dell’Impero e della sua fondamentale funzione 6. Eppure erano idee assai elaborate quelle che Dante aveva esposte nel quarto trattato del Convivio. Idee che implicavano una compiuta teoria delle forme politiche, ciascuna, per razionale necessità, destinata a trovare il suo compimento, e la sua perfezione, nella monarchia universale. E, quel che conta persino di più, anche implicavano, attraverso il loro esservi collocate, il quadro e il piano della storia provvidenziale di Roma, interpretata come « storia sacra ». Queste idee erano, quando si accinse a scrivere l’Inferno, ben vive nella mente di Dante; e, come si è ricordato, se ne trova traccia nel secondo canto, in un accenno. Eppure, con l’eccezione di questo, egli non trovò, nella prima cantica, il modo di parlarne ancora. Ragioni intrinseche a un diverso ordine di cose determinarono un silenzio che andò, questa volta, a coprire quel che c’era; e non può essere perciò interpretato alla stregua di una sorta di metafora di quel che non c’era ancora. È ben vero, invece, quel che da tanti si è detto, e non poteva non esserlo. E cioè che si trova nelle epistole 7 scritte fra il 1310 e il 1315 la prima menzione esplicita dei duo luminaria, dell’Impero e della Chiesa, distinti e congiunti, e, in questa relazione di cose autonome, destinati a guidare il cammino dell’umanità verso la vita felice. La prima menzione, indiretta ma notevole, e ben degna di essere sottolineata, è, salvo errore, nell’epistola ai re d’Italia e ai senatori romani, nonché ai duchi 6
In questo, ossia nella constatazione del fatto, il Parodi ebbe senza dubbio ragione. E Nardi torto nel criticarlo nel modo in cui lo criticò. E. G. Parodi, Del concetto dell’Impero in Dante e del suo averroismo, « Bull. Soc. dant. ital.», 26 (1929), pp. 123 ss., 133, e Poesia e storia cit., pp. 256-57; Nardi, Saggi, pp. 258 ss. 7 Sulle epistole dantesche, cfr., in genere, l’Introduzione di A. Frugoni alla sua edizione (in Dante, Le opere minori, II, 507-12: la controversa lettera a Cangrande è edita, ivi, pp. 598-643, da G. Brugnoli, che ne discorre alle pp. 512-21). Ma si veda anche l’importante saggio di F. Mazzoni, Le epistole di Dante, in Conferenze aretine 1965, Arezzo 1966, pp. 47 ss.
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marchesi conti e popoli, che Dante scrisse, forse, fra il settembre e l’ottobre del 1310. E, più in particolare, là dove è detto che il clementissimo Arrigo, « divus et Augustus et Cesar », perdonerà omnibus misericordiam implorantibus 8, perché, sebbene da Dio gli sia stato concesso di esercitare la punizione temporale (animadversatio temporalis), a tal segno egli risente della bontà di colui a quo velut a puncto biffurcatur Petri Cesarisque potestas, da preferire alla pena il perdono 9. Il giro retorico della frase qui non interessa. Ma sì, invece, quell’inciso sul biforcarsi da Dio, come da un unico punto, dell’autorità di Pietro e di Cesare, del pontefice e dell’imperatore. Il concetto era già implicito nel Convivio; e lo vedemmo quando si ebbe occasione di far notare come a questa idea del simultaneo dipartirsi del potere temporale e di quello spirituale dalla fonte divina conducesse la rigorosa interpretazione provvidenzialistica della storia di Roma che Dante vi aveva delineata 10. Ma quel che, sebbene operante, nel Convivio era implicito, qui si fece esplicito; quel che lì ancora non aveva trovato la parola e l’immagine, qui trovò e l’una e l’altra. E compiuto vi appare il concetto che sta al centro della Monarchia: sebbene, sulla via che conduce a questa, anche dell’altro vi sia. In questa medesima lettera, la separazione dei due poteri è fatta risalire al figlio di Dio, a Cristo che, homo factus, « quasi dirimens duo regna, sibi et Cesari universa distribuens, alterutri iussit reddi que sua sunt » 11. E notevole è il passo che la conclude: « aperite oculos mentis vestre, ac videte quoniam regem nobis celi ac terre Dominus ordinavit. Hic est quem Petrus, Dei vicarius, honorificare nos monet; quem Clemens, nunc Petri successor, luce apostolice benedictionis illuminat: ut ubi radius spiritualis non sufficit, ibi splendor minoris luminaris illustret » 12. È ben vero, infatti, che in questo passo una sorta di primato sembra che sia conferito al pontefice che nos monet a onorare l’Imperatore che, a sua volta, è da lui illuminato luce apostolice benedictionis. Ma vero è anche, e non paia questo un sofisma, che dall’astro minore può emanare una luce che si rivela essenziale quando il maggiore non ne possegga abbastanza; che sembra in effetti qualcosa come una compensazione che il minore ottiene nei confronti del più grande. Del più grande che resta tale, e pure può ben essere che a sé stesso non basti. 8
Ep. V 3 (p. 542). Ep. V 5 (p. 544). 10 Conv. IV V. 6-7. 11 Ep. V 9 (p. 548). Il riferimento di Dante è al celeberrimo passo di Matth. 22, 21. Sulle questioni connesse tornerò nell’ultimo capitolo. 12 Ep. V 10 (p. 548). 9
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La lettera da cui sono tratte queste citazioni è, quasi certamente, del 1310; e costituisce il primo documento che ci sia noto della simbolica complementarità dei due astri. Quella, vibrante di sdegno apocalittico, che, exul immeritus, Dante inviò scelestissimis Florentinis intrinsecis, è del 31 marzo di quel medesimo anno. Epistula amarissima, referta contumeliis, la definì Leonardo Bruni nelle Historiae. E nella Vita di Dante insisté sul tema della veemenza polemica caratterizzante il discorso, e quindi sull’altro della vendetta che i fiorentini scelleratissimi avrebbero potuto subire dall’Imperatore che, se questa decisione avesse presa, quelli non avrebbero avuto scampo 13. Non a torto. Dal tema della vendetta Dante trasse infatti, nel secondo paragrafo dell’epistola, alcune considerazioni importanti, sulle quali non si è, per quel che consti, insistito. E non le si è perciò messe in rilievo. Converrà riferirle con ampiezza: Vos autem divina iura et humana transgredientes, quos dira cupiditatis ingluvies paratos in omne nefas illexit, nonne terror secunde mortis exagitat, ex quo, primi et soli iugum libertatis horrentes, in romani Principis, mundi regis et Dei ministri, gloriam fremuistis, atque iure prescriptionis utentes, debite subiectionis officium denegando, in rebellionis vesaniam maluistis insurgere? An ignoratis, amentes et discoli, publica iura cum sola temporis terminatione finiri, et nullius prescriptionis calculo fore obnoxia? Nempe legum sanctiones alme declarant, et humana ratio percontando decernit, publica rerum dominia, quantalibet diuturnitate neglecta, nunquam posse vanescere vel abstenuata conquiri; nam quod ad omnium cedit utilitatem, sine omnium detrimento interire non potest, vel etiam infirmari: et hoc Deus et natura non vult, et mortalium penitus abhorreret adsensus. Quid, fatua tali oppinione summota, tanquam alteri Babilonii, pium deserentes imperium nova regna temptatis, ut alia sit Florentina civilitas, alia sit Romana? Cur apostolice monarchie similiter invidere non libet, ut si Delia geminatur in celo, geminetur et Delius? Atqui si male ausa rependere vobis terrori non est, territet saltim obstinata precordia quod non modo sapentia, sed initium eius ad penam culpe vobis ablatum est. Nulla etenim conditio delinquentis formidolosior, quam impudenter et sine Dei timore quicquid libet agentis. Hac nimirum persepe animadversione percutitur impius, ut moriens obliviscatur sui qui dum viveret oblitus est Dei 14.
13 L. Bruni Historiarum florentini populi libri XII, ed. Santini, RR.II.SS., XIX 3, 105. E cfr. anche la sua Vita Dantis, ed. Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio cit., pp. 135-36. 14 Ep. VI 2 (p. 552).
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È, come si vede, un passo di grande importanza ; e un’eco del concetto che vi è espresso è in Cola di Rienzo e nel Petrarca 15. Non essendo peraltro questa la sede nella quale possa trattarsene con compiutezza, converrà invece insistere su un tema che ha, nel pensiero di Dante, volti molteplici e tutti di particolare interesse. Notevole è, innazi tutto, il divario che vi è delineato fra quella che potrebbe chiamarsi la coscienza effimera, che è piuttosto incoscienza, e la coscienza profonda della presente situazione storica. Impersonata e condivisa dai fiorentini, la coscienza effimera era quella che dall’attuale, e contingente, non esserci dell’Impero deduceva senz’altro il suo non esserci, il suo esser chiuso in un passato senza ritorno; e significava ribellione a Dio e all’ordine mondano da lui prescritto e voluto. Estranea ai loro animi perversi e, si direbbe, al loro più che debole intelletto, la coscienza profonda si realizzerebbe invece nelle coscienze se queste si accendessero e disponessero alla comprensione autentica della realtà che il volere di Dio determina nelle leggi; che in quanto volute da lui sono intangibili e a nessun arbitrio umano può perciò essere concesso di infrangerle. Dio e il suo volere, la natura che ne è lo strumento, la legge che ne deriva e che, come è scritta nella natura, così anche lo è in Dio. È un concetto, questo, che già stato richiamato a proposito del quarto e del quinto capitolo del quarto trattato del Convivio. È un tema paradossale, per la coscienza effimera; di profonda logicità interna, per quella profonda. La « vacanza » dell’Impero suppone il suo esserci. Non è dunque documento del suo essere trascorso via con le cose che, morendo, spariscono, per non tornarvi più, dalla scena del mondo. È, dunque, un tema paradossale, ma altamente logico. E quando a starci di fronte sarà la Monarchia, e, in particolare, il suo primo libro, di questo tema ci sarà dato di cogliere un ulteriore, e peculiare, sviluppo; reso, a guardar bene, evidente da ciò che, se per un verso (e vedremo perché) l’Impero c’è sempre, in che senso allora dovrà pur dirsi che esso « deve » essere? Nella Monarchia, e sopra tutto nello spunto averroistico del terzo capitolo del primo libro, la questione assumerà rilievo strutturale; e nel quadro della teoria Aristotele entrerà in aperto contrasto con l’istanza cristiana alla quale, com’è ovvio, Dante non rinunziava: con la conseguenza che, in quel punto, la coerenza del discorso darà segno di non lieve sofferenza.
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Cfr., per l’illustrazione di questo punto, in realtà essenziale, il mio Niccolò Machiavelli, II, La storiografia, Bologna 1993, pp. 94-101.
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Era in effetti la questione della teodicea (se è lecito, in questa sede, servirsi di questo termine), era la questione della giustizia di un Dio provvidente e sollecito del bene, che veniva con forza in primo piano; e, connessa con questa, era l’altra, cruciale e fondamentale, nonché, sul piano della ragione, insolubile, del male e della sua concepibilità. Questione cruciale, appunto; e, come si è detto, insolubile, se l’essere e il volere di Dio fossero stati pensati come, per un verso, anche Dante li pensava. Non si legge forse in questa stessa lettera che « legum sanctiones alme declarant, et humana ratio percontando decernit, publica rerum dominia, quantalibet diuturnitate neglecta, nunquam posse vanescere vel abstenuata conquiri? » 16. Non si legge ancora che « quod ad omnium cedit utilitatem, sine omnium detrimento interire non potest, vel etiam infirmari »; e che hoc Deus et natura non vult, et mortalium penitus abhorreret adsensus? Eppure, non potrebbe esser fatta dipendere se non da Dio e dalla natura la deviazione, che pure accade, dal loro comando. Non potrebbe esser fatto risalire se non a Dio e alla natura l’affermarsi della cupidigia e degli altri mali che devastano l’ordine delle cose. E dalla difficoltà, come, dunque, poteva uscirsi? Forse assumendo che Dio e la natura danno alle cose il primo avvio, e dipende poi dalla volontà umana se questo sia proseguito nella direzione del bene o in quella del male? No di certo: sebbene potesse essere questa la risposta che al quesito sarebbe stata data da Dante 17. Non è forse inscrivibile nel volere di Dio e nella legge naturale che ne dipende questo divario fra l’inclinazione e la responsabilità? E come dunque potrebbe mai pensarsi che questa potesse essere sottratta alla decisione divina e assegnata a quella, alla responsabilità umana? Dalla difficoltà si sarebbe forse potuto uscire supponendo che, al di sotto delle contraddittorie e contrastanti « apparenze », al di sotto della negazione che le cose fanno così spesso della naturalità e razionalità del corso storico, queste, la naturalità e la razionalità, tuttavia permanessero intatte: sì che altro non restasse che richiamarle in vita, ossia trasferirle di nuovo nelle « apparenze » in modo che queste cessassero di contraddirle? No di certo: dal momento che dovrebbe pur sempre essere assegnato al volere di Dio questo suo sommergersi e scomparire al di sotto delle « apparenze ». E la questione, per certo, non sarebbe risolta.
16
Ep. VI 2 (p. 552). Lo si vede, per es., nelle parole pronunziate da Marco Lombardo in Purg. 67-105. Ma la domanda a cui il personaggio risponde è ai vv. 58-63. 17
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Percepita, sofferta, e, non di meno, né dominata né risolta, questa difficoltà è forse alla radice dell’epistola che, tre settimane dopo aver scritta quella diretta scelestessimis florentinis intrinsecis, Dante indirizzò all’Imperatore. Il tema della lettera è quello dell’indugio, dell’esitazione dimostrata dall’Imperatore a proseguire l’impresa, del sospetto che a questa, addirittura, avesse ormai voltate le spalle. « Verum quia sol noster, sive desiderii fervor hoc submoneat sive facies veritatis, aut morari iam creditur aut retrocedere supputatur, quasi Iosue denuo vel Amos filius imperaret, incertitudine dubitare compellimur et in vocem Precursoris irrumpere sic: ‘tu es qui venturus es, an alium expectamus?’ » 18. Ed è necessario, al riguardo, citare l’intero terzo paragrafo: Sed quid tam sera moretur segnities admiramur, quando iamdudum in valle victor Eridani non secus Tusciam derelinquis, pretermittis et negligis, quam si iura tutanda Imperii circumscribi Ligurum finibus arbitreris; non prorsus, ut suspicamur, advertens, quoniam Romanorum gloriosa potestas nec metis Ytalie nec tricornis Europe margine coarctatur. Nam etsi vim passa in angustum gubernacula sua contraxerit, undique tamen de inviolabili iure fluctus Amphitritis attingens vix ab inutili unda Oceani se circumcingi dignatur. Scriptum etenim nobis est: ‘nascetur pulcra Troyanus origine Cesar,/ imperium Oceano, famam qui terminet astris’. Et cum universaliter orbem describi edixisset Augustus, ut bos noster evangelizans accensus Ignis eterni flamma remugit, si non de iustissimi principatus aula prodiisset edictum, unigenitus Dei Filius homo factus ad profitendum secundum naturam assumptam edicto se subditum, nequaquam tunc nasci de Virgine voluisset ; non enim suasisset iniustum, quem ‘omnem iustitiam implere’ decebat 19.
Che questo passo esprima una delusione tanto più grande quanto più bruciante era stato l’ardore della speranza, è Dante stesso a dirlo. E questa sua delusione come si potrebbe non assegnarla alla elementare fenomenologia dei sentimenti politici, allo spegnersi di una speranza troppo presto accesasi, all’irrompere della disperazione e, insieme, dell’estremo monito di chi, dopo aver acceso la prima, aveva acconsentito a che, appunto, si spegnesse. Che sia così, è ovvio. Ma c’è, in questo passo, qualcosa di più. Poiché la questione del male è, per chi crede in un Dio giusto, buono, e provvidente, un’aspra questione, non è sorprendente che di lì proprio traesse origine il desiderio, e persino qualcosa
18 19
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Ep. VII 2 (p. 564). VII 3 (pp. 564-66). I versi citati da Dante sono tratti da Verg. aen. 1, 286-87.
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più del desiderio, che la sua presenza nel mondo fosse una breve presenza, una semplice parentesi, un fenomeno a cui nessuna autentica e duratura realtà corrispondesse. La provvidenza, di cui nel già ricordato ventisettesimo canto del Paradiso, si assicura che « soccorrerà tosto », è predicata della rapidità. E il mondo non può perciò tardare oltre ad assumere la forma che, per decreto divino, era la sua quando il figlio di Dio discese in terra. È un tema che, già presente nel Convivio, sarà ripreso, con svolgimenti non privi di paradossale audacia, nel secondo libro della Monarchia. Nell’Inferno, dove la polemica diretta contro Firenze, da una parte, e la Chiesa di Roma da un’altra, è non meno forte che qui, manca però in forma esplicita il tema dei due astri destinati a illuminare il cammino dell’umanità verso la vita felice; e se n’è indicata la possibile ragione. Intrecciandosi con la polemica antifiorentina e antipapale, questo tema è invece presente nel Purgatorio, dà segno di sé nel sesto canto del Paradiso, e chiede di essere messo a confronto con quelli ai quali massimo rilievo sarà conferito nel trattato latino. Poiché d’altra parte c’è da dubitare che periodizzazioni come quelle che, pur autorevolmente, sono state proposte del pensiero di Dante, aiutino sul serio a penetrare nell’estrema complessità del suo universo adulto, a un’osservazione conviene prestare ascolto. A un’osservazione che, per un verso, è, o dovrebbe essere, pressocché ovvia, e, per un altro, proprio per questo, sarebbe ben strano se non fosse proposta: come lo è, in effetti, che non lo sia stata. Fortemente inciso sul vivo legno delle tre cantiche, è leggibile un motivo che, al di là di ogni possibile differenza, le unifica. Ed è quello della pace; che, presente e attivo in una delle articolazioni teoriche dell’excursus politico contenuto nel quarto trattato del Convivio, altrettanto lo è nell’Inferno. E tanto più, si direbbe, quanto meno a Dante fosse necessario far uso della parola che lo designa e lo ritrae. In una cantica in cui così grande spazio è dedicato al tema delle lotte, delle discordie, degli odi, delle vendette, dei bandi, e in cui altresì, come tante volte è stato notato e detto, Dante scende nel vivo delle contese, si contrappone, ribatte alle offese e le restituisce senza, quasi, riguardi di parole, – in una cantica siffatta che, anche per questo, tanto piacque ai critici romantici 20, invocare la pace e, sopra tutto, nominarla,
20
Basterà citare dalla lezione che De Sanctis tenne a Torino il 23 marzo 1854 (Opere, V, Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, Torino 1955, pp. 240-41):
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non era necessario perché di questa fosse, sempre e dovunque, presente il desiderio. Nell’Inferno, e nelle battaglie che Dante vi descrisse e vi sostenne, la pace è in effetti presente come lo è nell’animo di ogni combattente; che mentre reca offesa, anche avverte e nutre la speranza che dall’offesa di oggi abbia, domani, a nascere l’amore. E conta poco, dunque, che nella prima cantica la pace non sia nominata tanto quanto lo è nella seconda e nella terza. O conta, se si preferisce. Ma solo se dell’indubitabile differenza che, per questo riguardo, segna queste ultime, si colga la ragione. E questa è che se, nell’ideale autobiografia che attraverso la Commedia Dante compose, se nella storia che vi narrò delle vicende della sua vita, l’Inferno rappresenta il momento della viva esperienza politica, delle violenze e degli odi che, a un certo punto, ebbero per effetto l’esilio e persino la condanna a morte 21, il Purgatorio e il Paradiso si pongono invece ormai al di là di questi eventi; e li contemplano bensì, ma dall’alto: il che significa nella consapevolezza della loro « perfezione » e, per il presente e per il futuro, del loro non poter essere trascesi. Il Purgatorio e il Paradiso sono le cantiche dell’esilio in un senso ulteriore a quello per il quale anche l’Inferno lo è. Lì, nella seconda e nella terza cantica, le parole, anche se identiche, non potevano avere lo stesso significato che nella prima. Se il gesto si ripeteva, ed era di rifiuto e di condanna del mondo che lo aveva rifiutato e condannato, se la parola che già era risuonata con la veemenza della passione risuonava ancora, e ancora era quella parola, vero è però che la vicenda a cui quello e questa, il gesto e la parola della politica militante, agìta cioè e non soltanto contemplata, si erano riferiti, si era ormai per sem-
« l’Inferno è il capolavoro di Dante », con quel che segue. Per una concisa e incisiva caratterizzazione della critica romantica e dei suoi gusti, cfr. B. Croce, La poesia di Dante, Bari 1921, pp. 182 ss. 21 Cfr. U. Cosmo, Vita di Dante, Bari 1930, pp. 97-98; Petrocchi, Vita di Dante, pp. 89-90: e cfr. Il libro del Chiodo, a cura di F. Ricciardelli, Roma 1998, pp. 10, 12, 13, 41, e quindi R. Piattoli, Codice diplomatico dantesco, Firenze 1950, pp. 90 e 91 (e cfr. Petrocchi, Biografia, ED, VI, Appendice: biografia, lingua e stile, opere, Roma 1984, p. 30 a e b). Condannato il 27 gennaio 1302, Dante lo fu di nuovo il 10 marzo dello stesso anno, e questa volta a morte: « igne comburatur sic quod moriatur » (Piattoli, Codice, p. 91). Una terza condanna a morte si ebbe, da parte del Comune di Firenze, e con estensione ai figli, il 15 ottobre 1315 (Piattoli, Codice, p. 114): cfr., al riguardo, M. Barbi, Una nuova opera sintetica su Dante (1904), in Problemi di critica dantesca, I (18931918), Firenze 1934, pp. 48-53 (sulla questione, sollevata da N. Zingarelli, Dante, Vallardi, Milano 1912 (ma la prima ed. è del 1899-1904), pp. 297 ss., e concernente la lettera all’amico fiorentino, Barbi, Problemi, I, 52-53), e Petrocchi, Biografia, p. 48 a.
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pre conclusa. Si era conclusa nella sua coscienza, nello spegnersi sempre più cupo della speranza che potesse invece riaprirsi e riaprire nuove vie. Si era conclusa in lui mentre, nella realtà delle cose, seguitava invece a dar segno di sé, perché, quali erano state ai tempi della sua partecipazione alla vita politica, tali le passioni seguitavano a essere. E Firenze era sempre lì, dilaniata e divisa dagli odi e dalle vendette, la Chiesa di Roma seguitava a deviare dalla strada che avrebbe dovuto essere l’unica sua nel momento in cui, dopo aver acceso il fuoco della speranza, anche l’Imperatore ripiegava, indugiava, e la sua missione, con chiari segni, mostrava di essere avviata al fallimento. Quando perciò, scendendo nel fondo di sé stesso e lì riscrivendo la storia sua nel quadro dell’altra, e più alta, di Firenze e dell’Italia, Dante riprendeva contatto con quel che egli era toccato in sorte, era un’esperienza complessa quella che egli era come costretto a vivere. La storia che egli aveva vissuta, e ora ripensava in sé, per un verso gli appariva come una storia conclusa, esaurita, insuscettibile di essere proseguita nella direzione del futuro. Ma, per un altro, e necessariamente, gli appariva con il segno opposto, come una storia che, lungi dall’essere conclusa, invece proseguiva, anche se per tanti aspetti la sensazione era che non gli appartenesse più. Di qui la complessità del suo sentimento. Poiché si era conclusa, e a lui non era dato se non di contemplarla per quel che era stata, il sentimento predominante era quello del distacco doloroso, della malinconia amara che così profondamente si accorda con il tono autunnale che segna di sé la seconda cantica 22. È vero bensì che la malinconia era accesa a tratti dai lampi violenti delle invettive. Ma restava malinconia. Restava il sentimento di chi, mentre guarda al presente, se ne esclude, è costretto ad escludersene, perché soltanto nel passato è la sua propria attualità. Per un altro verso, tuttavia, la storia, che egli aveva attraversata bruciandovi la sua vita, era non conclusa, ma inconclusa. E, nel distacco, egli avvertiva perciò violento il senso del suo appartenervi, malgrado tutto, ancora. La malinconia dell’esule si accendeva così di attuali passioni; che non erano più per altro, né potevano essere, quelle di colui che, giù sui campi, combatte le sue battaglie e, mentre dà e riceve colpi e rischia la morte, anche tuttavia va oltre questo momento, perché si combatte per qualcosa che appartiene al futuro e conferisce senso ai rischi che ora si affrontano per raggiunger-
22
Ricordo, su questo, finissime osservazioni in A. Momigliano, Il paesaggio nella ‘Divina Commedia’ (1932), in Dante, Manzoni, Verga, Messina-Firenze 1955, pp. 13 ss.
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lo. Le sue passioni Dante le viveva stando, non giù sulle pianure, ma in alto, su un colle, dove il viverle era essenzialmente un contemplarle. Ed esse erano perciò attuali in un quadro al quale chi tuttavia le viveva apparteneva senza poter sul serio appartenervi, e che, per questo, era come costretto a inseguire per potervi essere ricompreso. Attuali, perciò, erano nelle invettive e nelle alte lamentationes, che così di frequente s’incontrano nel Purgatorio, e anche nel Paradiso. Nelle invettive e nelle alte lamentationes; che sono esse, per un altro verso, un eloquente documento di inattualità. Di qui, dunque, dal complesso stato d’animo che si è cercato di ritrarre e di descrivere, l’emergere, o piuttosto il prevalere, del tema della pace. Un tema che, come s’è detto, nell’Inferno stava come intrecciato con quello di una battaglia combattuta nella fantasia, ma avvertita come ancora viva e aperta, perciò, al futuro; e che, nella seconda cantica, sopra tutto in questa, viva, attuale, aperta al futuro non era più: o, se si preferisce dire così, tale era solo attraverso la decantazione del suo esserlo. Un tema, che, per queste ragioni, consentiva che l’attuale inattualità delle invettive e delle rampogne apocalittiche dischiudesse di nuovo l’ambito di una più distesa disposizione alla teoria. Che Dante allora fosse, per questo riguardo, come la vox clamantis in deserto, è evidente; e come tale gli sarà accaduto di percepirsi. Ma il deserto che, per contrasto, le sollecitava e aspirava a esserne colmato, colmato non poteva essere solo dalle invettive, dalle lamentazioni, dalle rampogne apocalittiche. E Dante non era uomo da esaurirsi in queste. Intonando il tema della pace e facendolo risuonare al fondo della sua filosofia politica, per un verso indicava l’Impero come il luogo della vittoria, del prevalere della virtù sulle cieche passioni, sulla cupidigia che aveva deviato dalla vera mèta il cammino del genere umano. Ma, in questo stesso atto, e per la forza di quel sentimento che lo inclinava verso il passato, per un altro verso l’Impero assumeva il colore elegiaco e nostalgico della città « sobria e pudica » 23 cantata, nel Paradiso, da Cacciaguida. Retrocedeva nella direzione dell’origine, di qualcosa dunque che, collocandosi in un’età anteriore a quello della violenta politica fiorentina, collocandosi perciò in un tempo che non era un tempo, alludeva a un nuovo inizio della storia; e, per questa ragione, mentre per un verso indicava una storia ideale, tendeva a cancellare quella reale. Nel che sarebbe per altro gra-
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vemente fuorviante se soltanto un’espressione di nostalgia si pretendesse di cogliere e, come predicato, a questa si assegnasse la « reazionarietà » 24. Che, nello sforzo che compiva di guardare avanti e lontano, nella direzione del futuro, Dante non riuscisse in effetti a porre dinanzi a sé se non le care immagini di un mitico passato fiorentino non significa che in questa tendenza regressiva non debba cogliersi anche qualcosa di diverso, il segno di una più acuta consapevolezza, – di una valutazione, non mitica, non regressiva, ma realistica 25. Quella, si vuol dire, che è pur possibile intravedere al fondo delle sue invettive e degli stessi vagheggiamenti mitici delle origini: dal momento che al passato ci si rivolge con questa disposizione anche quando, l’intuizione storica non riuscendo a farsi filosofia e costruzione politica, del presente si avverta tuttavia, e si comprenda, che non ha in sé l’energia bastante a conservarsi nelle sue forme e nelle sue istituzioni, a essere il soggetto della sua propria continuità nel futuro. Senza dubbio. L’Impero si colorava di nostalgie cacciaguidiane. E non c’era niente, nel presente, da cui potesse trarsi l’indizio della sua possibile resurrezione politica 26. Ma se l’Impero apparteneva al passato, e a questo apparteneva il sogno che se ne
24 Da una rapida osservazione di A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. Gerratana, II, Torino 1975, p. 760, qualcuno ha voluto trarre il corollario della sua « reazionarietà ». In realtà, Gramsci aveva annotato soltanto che Dante voleva « superare il presente, ma con gli occhi rivolti al passato ». La questione della reazionarietà non è, per altro, cosa dei nostri tempi. Già De Sanctis, Lezioni e saggi, pp. 557-58, per un verso l’ammetteva, per un altro la negava; e polemizzava con F. Wegele, Dante Alighieris Leben und Werken. Kulturgeschichtlich dargestellt, Jena 1852. 25 Non arriverei comunque ad affermare con V. Russo, La Monarchia di Dante (diritto naturale e stato di diritto), « Lavoro critico », 15/16 (1978), pp. 167-208, che, sebbene inclinasse al moralismo necessariamente intrinseco a « una posizione antagonistica e problematica nei confronti della società umana del proprio tempo, giudicata corrotta e degradata », Dante riuscisse tuttavia, e « proprio in questa prospettiva », a individuare le « zone cancerose dell’organismo sociale » (p. 75). Ma la discussione dei criteri ai quali il Russo ispirò il suo saggio non può essere eseguita qui. 26 E non si aggiunge niente alla consapevolezza critica entro la quale il pensiero di Dante maturò se di questo si sottolinea la dimensione utopistica. Perché c’è utopia e utopia. C’è quella che, per così dire, consegue sé stessa ricavandosi dalla pura dimensione del sogno di ciò che si vorrebbe far essere. E c’è quella che, nel costruire il proprio modello, lo riempie tuttavia di quel che la mente abbia saputo discernere e criticare nel presente (e nel passato). E non è quest’ultimo il caso dell’Impero dantesco: il cui concetto può essere apprezzato solo se, uscendo dalla stretta considerazione teorico/politica, ci si volge a un altro ordine di questioni, che sarà, al momento opportuno, illustrato nella sua peculiarità.
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avesse, non perciò il mondo dei Comuni mostrava il segno della vitalità che dischiude l’avvenire. Quel che era nel fondo della realtà politica di cui Dante era stato parte, e che, ancora e sempre con quei caratteri, si mostrava a lui che dalle vie dell’esilio tornava a contemplarla, non consentiva illusioni. Non autorizzava il giudizio di chi avesse preteso di scorgervi il segno della vita e del progresso. L’Impero, certo, apparteneva al passato. Ma il mondo comunale non apparteneva se non al presente, nel quale era come prigioniero. E entrambi perciò erano chiusi al futuro. Se il primo non offriva lo strumento che bastasse a sanare le contraddizioni intrinseche al secondo, a risolverle e ad aprirlo al futuro, la ragione non era da ritrovarsi solo nella sua « irrealtà ». Era da ritrovarsi anche nella « realtà » del secondo; che, appunto, nel presente stava come prigioniero, e non era in grado se non di conservarvisi nel segno della crisi che dalle istituzioni passava nella vita politica e da questa tornava alle istituzioni. Di questa incapacità espansiva delle strutture comunali Dante fu a pieno consapevole; e nel leggere in esse il segno della crisi vedeva bene; anche se, come talvolta (e non di rado) accade, il suo veder bene non implicasse necessariamente l’individuazione e il possesso di un’idea costruttrice, e non evitasse, tutt’altro, il rischio del moralismo. E, a questo riguardo, sia lecita una piccola digressione; che non è, a guardar bene, una digressione, quanto piuttosto la ripresa e l’inizio di un necessario discorso 27. Nelle Istorie fiorentine 28 è notevole che Machiavelli facesse incominciare la storia della città di Dante e sua dal delitto di cui Buondelmonte de’ Buondelmonti fu vittima per mano degli Amidei; e quindi dal tempo in cui l’antico comune si divise e dette inizio alla sua vita violenta e convulsa. Dante aveva scritto:
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La casa di che nacque il vostro fleto, per lo giusto disdegno che v’ha morti, e puose fine al vostro viver lieto, era onorata, essa e suoi consorti: o Buondelmonte, quanto mal fuggisti le nozze süe per li altrui conforti! 29
27 L’avvio di questo discorso è nel mio Niccolò Machiavelli, II, La storiografia, pp. 219 ss. 28 Istorie fiorentine, II 1. 29 Par. XVI 136-41.
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Ebbene, la differenza che all’inizio del secondo libro Machiavelli stabilì nei confronti di Dante non consiste in una valutazione delle contese fiorentine che, presso di lui, fosse diversa e opposta a quella che trovava esposta nella Commedia. Se aveva rivendicata la positività dell’antico contendere patrizio/plebeo agli esordi della repubblica romana, e della città che, ospitandolo nel suo seno, attraverso quello si era formata ed era ascesa alla grandezza 30, proprio per questo, e cioè perché aveva in mente un simile modello, delle lotte fiorentine e del « metodo » a cui obbedivano non poteva non fare severo giudizio. Non per questo verso, dunque, il contrasto con Dante si accendeva. Ma per una tutt’altra ragione. Al di qua della morte violenta patita da Buondelmonte, Dante poneva la vita felice di Firenze, che quell’evento aveva distrutta per sempre, o per sempre, comunque, aveva consegnata alle più funeste e distruttive passioni. Vi vedeva la pace e la felicità; e Machiavelli, invece, niente che avesse l’aspetto della vita e della realtà, niente in cui, al di là del semplice esistere, potesse scorgersi un qualsiasi progetto politico. Non che, per lui, attraverso il delitto che insanguinò le relazioni intercorrenti tra le famiglie dei Buondelmonti e degli Amidei, Firenze nascesse a una vita politica che sarebbe stata vissuta, di lì in poi, nel segno della virtù. Anche per lui quello era l’atto inaugurale di una vita violenta e stentata, distruttiva delle grandi potenzialità che erano nascoste sotto la superficie delle cose, e non rivelatrice di questa. Ma anche era, tuttavia, l’atto inaugurale di una vita che d’ora in avanti sarebbe comunque stata vissuta nel segno dell’autonomia, della responsabilità: in una parola, della politica. La differenza è, per quanto concerne Machiavelli, di non piccola importanza. È, in realtà, quale soltanto da lui poteva essere stabilita con simile nettezza. E costituisce infatti il documento, non solo della distanza storica che in re lo teneva lontano dal pensiero del suo illustre concittadino, ma anche di quella che, nei suoi confronti, avvertiva lui che, nel riconoscerne la grandezza, pur non si asteneva dal farne oggetto di critica 31. Eppure, è singolare e dev’essere notato. Per tante ragioni, se, oltre che nella Commedia, anche nel Convivio e nella Monarchia l’avesse conosciuto, il concetto dantesco dell’Impero avrebbe suscitato il suo dissenso. Ed evitiamo, perché proprio a niente condurrebbero siffatte fanta-
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Niccolò Machiavelli, I, Il pensiero politico, Bologna 1993, pp. 448 ss. Mi si consenta di rinviare a Machiavelli e gli antichi e altri saggi, III, MilanoNapoli 1988, pp. 170-72. 31
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sie, di chiedere a noi stessi in che modo, se gli fosse stato sotto gli occhi, Machiavelli avrebbe postillato il testo dantesco: ossia con quali chiose. Resta, tuttavia, che la repubblica che egli aveva in mente non poteva non comportare, rischiosa ma inevitabile, la soluzione imperiale; e che se, rispetto alla repubblica che l’aveva reso possibile e, anzi, inevitabile, l’Impero poteva essere considerato anche come l’indizio della decadenza, niente questa era per lui rispetto a quella che poi, in seguito alla sua caduta, si sarebbe distesa sulle province italiane: una decadenza con la quale, per secoli, la storia della penisola avrebbe finito col coincidere. A rigore, nell’Inferno, la pace è evocata, in termini espliciti, una sola volta: e a proposito della Romagna, nel canto (ventisettesimo) dedicato a Guido da Montefeltro, il personaggio che, in termini di commedia, fa da pendant all’altro, eminentemente tragico, che, nel precedente canto, aveva raccontato il « folle volo ». Quando, dall’interno della fiamma che avvolge un dannato ancora senza nome, Dante e Virgilio udirono provenire queste parole:
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Se tu pur mo in questo mondo cieco caduto se’ di quella dolce terra latina ond’io mia colpa tutta reco, dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; ch’io fui d’i monti là intra Orbino e ’l giogo di che Tever si diserra.
la risposta non suonò polemica, ma, piuttosto, dolente: « o anima che se’ là giù nascosta,/ Romagna tua non è, e non fu mai,/ sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni » (vv. 36-38). E l’impossibilità che, con l’esempio della Romagna, il mondo latino fosse « sanza guerra », fu avvertita come una così tragica e assoluta impossibilità, che, subito dopo averla evocata, Dante avvertì l’esigenza di estenderla, questa impossibilità, ad altre parti della penisola, quasi per consolarne il peccatore, sottraendo a lui e alla sua gente l’unicità di quel grave peccato politico: non di quello specifico, dunque, di cui fu autore e poi anche, paradossalmente, vittima, ma dell’altro, che qui, appunto, si è definito politico. Nel canto ventisettesimo, nell’episodio di Guido da Montefeltro, la pace perduta intona una sorta di rapida e mesta lamentatio. Ma quasi che, come si è detto, a Dante non riuscisse di distaccarsi dal mondo di odio e di violenza che era stato il suo, e il tema della pace stesse come
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intrecciato con gli altri, della polemica, della contrapposizione feroce, dell’invettiva, così è lì, è nell’intreccio, appunto, che esso forma con gli altri, che occorre cercarlo. Occorre cercarlo nel tema opposto, quello della « tanta discordia » da cui, con il resto d’Italia, Firenze è stata assalita, e nei cui confronti si pone come una sorta di tenace controcanto. Per forza, quasi, di contrasto, occorre cercarlo, e lo si ritrova, nel fondo della rappresentazione che Dante fece della « città partita », ossia divisa; della cui sorte, ossia del futuro che l’attende, egli chiede, nel sesto canto, a Ciacco, ricevendone, in risposta, non soltanto la famosa profezia del suo stesso esilio, ma anche secche smentite al suo superstite ottimismo, all’idea, che ancora era viva in lui, dei buoni esempi di virtù che, nelle sue trascorse età, la storia fiorentina aveva saputo offrire. Non appena, con l’evocazione delle « tre faville », superbia invidia avarizia, « c’hanno i cuori accesi » 32, Ciacco ebbe conclusa la prima parte del suo discorso con la risposta data alla prima domanda che Dante gli aveva rivolta, un nuovo quesito quest’ultimo gli rivolse: 78
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e io a lui: – ‘ancor vo’ che m’insegni, e che di più parlar mi facci dono. Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni, Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca e li altri ch’a ben far puoser li’ ingegni, dimmi ove sono e fa ch’io li conosca; ché gran disio mi stringe di savere se il ciel li addolcia, o lo ’nferno li attosca.
È un quesito famoso, perché riguarda in primo luogo l’eroe magnanimo per eccellenza, Farinata degli Uberti. E sta lì, con piena evidenza, a dimostrare che, fosse stato il paradiso ad averne accolta l’anima, oppure l’inferno, l’ammirazione restava, perché nell’opinione che egli se ne era fatta, quello era comunque uno degli uomini che « a ben fare » avevano posto l’ingegno. Della qualità positiva del sentimento che (Farinata a parte) la memoria storica di questi personaggi aveva acceso, o riacceso, nella coscienza di Dante, è vano dunque tentare di dubitare, suggerendo che non senza qualche ulteriore riserva egli avesse formulato quel giudizio 33. La ragione del dubbio insorto nella mente di qualche 32
Inf. VI 74-75. La distinzione della virtù politica da quella morale, proposta, per es., nel commento scartazziniano rifatto dal Vandelli (Milano 1985, p. 49), e ripresa fra gli altri da 33
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critico sta in ciò, com’è ovvio: che, nel rivolgere a Ciacco quella sua domanda, Dante non poteva non sapere quale sorte avessero avuta, post mortem, quei personaggi e quale risposta, per conseguenza, il suo quesito stesse per ricevere. Ma se questa è la ragione del dubbio, deve pur dirsi che questo non ha alcuna ragione. Se il passo fosse interpretato in questa luce, e di Dante per esempio si dicesse che in questi personaggi distingueva l’attitudine politica (da salvare) da quella etica (da condannare), la forte drammaticità dell’episodio si stempererebbe fino a perdersi. E a perdersi, sopra tutto, sarebbe il senso del fosco pessimismo a cui, reso serio e tragico dalla pena, quel fatuo e frivolo personaggio invitava il suo giudice; che, se mai ancora avesse nutrita qualche illusione sulla storia di Firenze, bene avrebbe fatto a togliersela. « Ei son tra l’anime più nere » 34, con quel che segue. Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi, Jacopo Rusticucci sono sulla spiaggia infuocata che tormenta e martirizza i sodomiti 35. E senza che il nome di Arrigo Fifanti questa volta s’accompagnasse al suo, Mosca Lamberti si trova giù, nella cupa nona bolgia, fra i seminatori di scandali e di scismi, la cui pena trova l’espressione più drammatica in lui, che ha mozze le mani 36, e, sopra tutto, in Maometto e in Bertran de Born, che « di sé facea a sé stesso lucerna/ ed eran due in uno e uno in due/ com’esser può, quei sa che sì governa » 37. Si trova lì,
C. Grabher (I, Firenze 1940, p. 83), non ha nel contesto alcuna ragion d’essere, proprio a causa del dubbio che, invece che nell’Inferno, essi potessero trovarsi in Paradiso. È chiaro che occorre aver l’occhio alla scena drammatica che Dante costruì. 34 Inf. VI 85. 35 Inf. XVI 38-45. Non per pedanteria, spero, ma per scrupolo, andrà notato che, non ricordato ad nomen a VI 79-84, Guido Guerra riceve in XVI 39 almeno una predicazione positiva perché, oltre che di « spada », è detto uomo di « senno », mentre di Tegghiaio Aldobrandi si dice che la sua « voce/ nel mondo dovrìa esser gradita » (vv. 4142). Vero è che a parlare è uno di loro, è Jacopo Rusticucci; che, per suo conto, con evidente autoironia si definisce attraverso la citazione della « fiera moglie » (v. 45). In che senso, costei nuocesse al consorte, è materia di congettura perché fatti specifici, al riguardo, non sono noti e non soccorrono. Ma, considerando che forse Dante volle fare intendere che già in vita la moglie facesse scontare a lui, omosessuale, la conseguenza di questo « peccato », si rende anche giustizia all’antica glossa che, con qualche approssimativa ingenerosità, attribuì a lei la responsabilità delle tendenze manifestate dal marito. I commentatori antichi avevano toccato il punto dolente della questione: ma, nell’assegnazione delle « responsabilità », avrebbero dovuto procedere in senso contrario. Non vedo, francamente, perché il Sapegno, p. 187, giudichi questi, « ricami di fantasia » e, per suo conto, attribuisca, indeterminatamente, alla consorte l’eterno castigo di Jacopo Rusticucci. 36 Inf. XXVIII 103-108. 37 Inf. XXVIII 124-25.
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Mosca Lamberti, perché fu lui che, quando con i loro « consorti » gli Amidei convennero insieme per decidere in che modo si dovesse lavar via l’offesa che avevano patita da Buondelmonte, pronunziando la frase passata poi in sentenza dette il consiglio di ucciderlo, e mise con ciò fine, se ci si rammenta del sedicesimo del Paradiso, all’età felice della storia di Firenze:
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E un ch’avea l’una e l’altra man mozza, levando i moncherin per l’aura fosca, sì che ’l sangue facea la faccia sozza, gridò: – “ricordera’ti anche del Mosca, che disse, lasso!, ‘capo ha cosa fatta’ – che fu ’l mal seme per la gente tosca.” – E io li aggiunsi: – “e morte di tua schiatta.”
La terribile consapevolezza che, quasi aggiungendo pena a pena, il dannato ora dimostra della fatalità del suo atto, è come intensificata, resa più fosca e drammatica, dalla crudele ritorsione di Dante: « e morte di tua schiatta », che, mentre sembra riprendere i modi dell’ ντιλογ α del decimo canto, segna la distanza che divide i due personaggi, Farinata e Mosca Lamberti. Li divide e li colloca su piani in ogni senso diversi: Farinata che cerca Firenze al di sopra delle parti e nel suo animo, partigiano ma « magnanimo », fa penetrare la superiore luce della politica autentica; Mosca Lamberti che, con le sue mani tagliate e con il volto insanguinato, simboleggia, e patisce in sé, l’irreversibile e fatale « divisione » a cui per sempre l’aveva, invece, condannata. La crudele mutilazione che il personaggio subisce nell’inferno è il suo « contrappasso ». Ma quello, altresì, di Firenze. Intrecciato con quello della guerra, privo, in apparenza, di autonomia, il tema della pace si avverte poco. Ma è tuttavia sempre lì. E a tratti emerge con forza, all’improvviso. Esso ha, per esempio, un riscontro tanto più notevole quanto meno aspettato, nelle parole che l’anima del suicida nascosto nel cespuglio, con il quale Giacomo da Sant’Andrea aveva fatto « groppo », rivolge a Virgilio che gli aveva chiesto chi fosse. Inferno XIII 139-48:
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... ’O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto c’ha le mie fronde sì da me disgiunte, raccoglietele al piè del tristo cesto.
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I’ fui de la città che nel Batista mutò ’l primo padrone; ond’e’ per questo sempre con l’arte sua la farà trista; e se non fosse che ’n sul passo d’Arno rimane ancor di lui alcuna vista que’ cittadin che poi la rifondarno sovra ’l cener che d’Attila rimase, avrebber fatto lavorare indarno.
La « tristizia », ossia la cattiveria della guerra. La singolare malezione di Marte che diventa, malgrado la dedizione a san Giovanni Battista e anzi, paradossalmente, a causa di questa, il simbolo negativo di Firenze: la guerra, la discordia, la malizia, che tanto più, con il dominio che esercitano sul genere umano, accendono, nei buoni, il desiderio della pace. È un canto dolente, sommesso, cupo, che, con quei suoi toni e con la tendenza che rivela quasi a girare intorno a sé stesso, trova adeguata espressione nella lenta cadenza della perifrasi usata per nominare Firenza; e che è lunga, bensì, ma non, come ad altri apparve, oziosa 38. Con il decantarsi, che è cosa diversa dallo spegnersi, di questo sentimento, la riflessione di Dante acquistava in ampiezza quel che perdeva in immediata intensità. Acquistava in ampiezza. Il che significa che, venuta meno la violenza delle contrapposizioni, gli elementi del quadro si disponevano, l’uno nei confronti dell’altro, nel segno di una più alta armonia; che non è di per sé indizio di ottimismo, di un sentimento di fiducia che fosse subentrato al furore della polemica. Al contrario, si direbbe. La maggiore ampiezza della prospettiva, l’armonico coesistere degli elementi, il ritorno a un più disteso (anche se indiretto e mai compiuto) teorizzare nel quadro di una ricerca volta a rendere palesi le cause della decadenza e della miseria, – tutto questo non significava ottimismo. Mentre questi motivi si svolgevano e cercavano l’espressione, il sentimento di Dante accentuava, al contrario, il suo tono cupo. Non attingeva la tonalità amara del disinganno, dello scetticismo, dell’autodenigrazione, perché sono « modi », questi, che il suo animo né conosceva né poteva comunque consentire che gli passassero dentro. Ma attingeva bensì quella della condanna, della deplorazione, ora dolente ora rabbiosa, dell’invettiva; che non sono necessariamente indizio di moralismo, 38
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perché era pur sempre alla ricerca di « cagioni » che restassero nascoste, che la mente era diretta, anche se potesse accadere che a loro volta le « cagioni » non rivelassero, con immediatezza, se non il volto del male, la cupidiglia, l’invidia, la superbia, che avrebbero piuttosto dovuto esserne spiegate. Attingeva questa tonalità, e, con gli esiti di cui s’è detto, la rifletteva nel suo discorso. Il che deve per altro esser detto, non con il tono di benevola sufficienza con il quale non è infrequente che i « moderni » guardino alle diagnosi politiche e sociali tracciate dagli antichi scrittori, ma cercando invece di coinvolgere noi stessi nella difficoltà che riconosciamo in loro. La ricerca delle cause ha in sé, nell’impostazione che le è propria e per la forza di questa, la tendenza a trasformare regressivamente in « cagione » e in « ragion d’essere » quello stesso del quale ci si chiede come e perché abbia potuto prodursi. Se si dice che « sempre la confusion de le persone/principio fu del mal de le cittadi » 39, il rischio è insomma che di per sé la « confusion de le persone » sia essa il « male » che, quando quella si verifica, si dice che ne consegue. E se questo non avviene è comunque perché di questa causa che si è rivelata identica all’effetto si cerca una causa che sul serio la spieghi; e così, regressivamente, come si è detto, si va all’infinito: con la conseguenza che dalla tautologia si passa alla regressione che, proprio perché è costretta a perpetuarsi, mostra che dalla tautologia non è possibile uscire. Il momento della spiegazione non conosce perciò la sua ora. La luce non rischiara la tenebra. La quale del resto non viene rischiarata per la virtù di un autentico criterio nemmeno nel caso che la ricerca causale sia di per sé, ossia nel suo concetto, sottoposta a critica e il suo apparato categoriale sia dissolto nell’analisi dei fatti e della logica che questi hanno in sé. È pur sempre altro, infatti, cogliere e spiegare il perché della decadenza, altro descriverne il « come »; che può essere bensì ritratto con sapienza e raffinatezza, e sempre tuttavia resta un « come », mai si pone come risposta al « perché ». Non c’è ragione, dunque, di assumere i toni dell’insopportabile albagia metodologica, che ancor oggi non sono infrequenti. E dopo aver osservato che la diagnosi di Dante è tale che descrive più che non spieghi e che, anche come descrizione, è alquanto povera di elementi, è ripetitiva e monotona, converrà osservare come in concreto la sua riflessione si svolga nella seconda e anche nella terza cantica; quali toni assu-
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ma e come, rispetto a quanto era accaduto nel Convivio, e poi accadrà nella Monarchia, si dispongano e s’intreccino insieme i temi della storia romana e del suo ritmo provvidenziale, dell’Impero e della Chiesa, che, qualunque relazione intrattengano l’uno con l’altra, già nella prima di queste due opere erano stati pareggiati nel segno del loro concorde e simultaneo esser nati da un atto coerente del volere divino. E anche dovrà osservarsi e decidersi se, esplicito o implicito, anche in questa parte del poema operi, in connessione o no con quello politico, il tema dell’intelletto, al quale, proponendo la connessione, la Monarchia darà un particolare svolgimento. Un tema che, come già sappiamo, è di grande rilievo; che se, in ipotesi, si desse bensì nella Commedia, ma al di fuori della connessione in cui è posto nella Monarchia, la circostanza non potrebbe certo esser passata, come irrilevante, sotto silenzio: non fosse che per il modo, non rettilineo, non pacificamente ascendente, ma in varie forme intricato e non riducibile alla semplicità di quello schema geometrico, in cui il pensiero di Dante svolse i suoi temi. Del che occorre prendere atto, persuadendosi che non c’è escogitazione cronologica che di quel che Dante sostenne di peculiare nel suo trattato latino consenta di liberarsi come di cosa superata dall’evoluzione del suo pensiero, o passata comunque, per la sua purificazione o il suo emendamento, attraverso il grande filtro della Commedia. Che essa stessa, lo si ripeta ancora, non è affatto un filtro, – il luogo dove ogni peculiarità e ogni audacia sia recisa alla radice, o resa « pura ». Presente nella Monarchia, la connessione del tema dell’intelletto con quello politico nel Purgatorio è assente. Assente è altresì nel Paradiso. E se, nel nome e nel segno di un’astratta coerenza, le tesi filosofiche delineate in queste due cantiche fossero con immediatezza messe a confronto con quelle che Dante elaborò nel primo libro del trattato latino (ma anche, occorre ricordare, in alcune movenze del secondo e del terzo trattato del Convivio) a risultarne sarebbe piuttosto la disparità che non l’armonia: quasi che di quanto aveva detto o, se il trattato latino appartiene al periodo del Paradiso, si apprestava a dire, Dante avesse avuto l’intenzione di proporre la critica. Sarebbe interessante, certo, poter stabilire ad annum o, addirittura, ad mensem, se, quando scrisse il venticinquesimo del Purgatorio e immaginò che Stazio gli spiegasse le fasi della generazione dell’uomo, la Monarchia fosse già stata scritta o ancora dovesse esserlo: dal momento che diversamente, nell’un caso e nell’altro, risuonerebbe il famoso rilievo critico che qui (vv. 61-66) Dante rivolse a Averroè a proposito dell’intelletto. Ma la critica mossa su quel
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punto specifico al gran commentatore non implicava e non comportava che si potesse estenderla a tutto il suo pensiero (ché in tal caso definirlo più savio di Dante a Stazio non sarebbe stato possibile) 40. Dopo avere perciò sottolineata la necessità che sul senso delle confutazioni svolte in quei versi si torni a riflettere fin che non risulti chiaro se le difficoltà riscontrate nella teoria dell’intelletto separato non siano presenti anche in quella accolta da Dante e persino nelle formulazioni, da lui non condivise, di Tommaso d’Aquino, di qui, anche in questa sede e in attesa che più oltre la questione sia decisa, occorre trarre la necessaria conseguenza. E questa è che, accettato in certe sue movenze, respinto in altre, e forse anche accettato in quel che in altre circostanze era stato respinto, il pensiero di Averroè costituì, per Dante, un essenziale punto di riferimento. Un punto di riferimento, deve aggiungersi, costante; che non può perciò, e tanto più in quanto non si possa non constatarne la presenza in pagine tarde, essere diminuito, svalutato, ricacciato indietro nel tempo, – nel tempo delle audacie e degli esperimenti giovanili. In realtà, se l’occhio si volga a quel che i testi offrono, e l’audacia giovanile di pensieri pensati prima che l’opera della Commedia ricevesse il suo inizio non sia esagerata proprio perché più deciso risulti poi, con la ritrattazione, il ritorno all’ortodossia (tomistica), non può proprio dirsi che nell’esperienza intellettuale di Dante si diano situazioni analoghe, o anche soltanto simili, a quelle che, da parte di qualcuno, si sono immaginate. E altro invece vi si dà a vedere: non l’autocritica, e il conseguente, netto abbandono di quel che si fosse un tempo condiviso, ma tutt’altro. E cioè il persistere di tensioni concettuali irrisolte; del che ci si avvede se, per esempio, si pensi al modo in cui la questione del desiderio e del suo appagamento è svolta nel terzo trattato del Convivio e, quindi, nella Commedia, dove pure non è risolta. Quel che si legge nel terzo del Purgatorio rappresenta infatti soltanto un lato di quel che urgeva nella mente di Dante 41; e certo non è facile farlo andare d’accordo con le considerazioni, in sé stesse (a loro volta) problematiche, che su questo argomento si incontrano in altre parti della sua opera, e nella stessa seconda cantica 42. 40
Purg. XXV 63. Purg. III 34-45. 42 Rinvio, su questo delicato e anche, talvolta, sfuggente, problema, a quel che ne ho detto nel capitolo precedente. Ma poiché ho citato il terzo del Purgatorio, avendone naturalmente nella memoria i versi indicati qui su alla n. 41, vorrei aggiungere, al riguar41
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A molte delle questioni qui appena accennate, e anche ad altre che, trattate in precedenti pagine, richiedono tuttavia ulteriore attenzione, sarà necessario che si ritorni quando, finalmente, il discorso sarà pervenuto in vista della Monarchia, e l’analisi di questo testo avrà conseguito un grado apprezzabile di maturità. Ma ora occorre riprendere quella concernente la dimensione politica della seconda cantica. E qui a offrirsi al lettore è innanzi tutto la celeberrima, grande invettiva del sesto canto, che, come è stato ben detto, più ancora forse è una dolente lamentatio 43. Non riprenderemo qui la vecchia questione, cara un tempo ai critici, se questo sia un testo di alta, anzi splendida, oratoria, o se a illuminarla dal di dentro sia la luce della poesia 44. E una sola osservazione valga al riguardo: quella che concerne la potenza straordinaria della pausa che la sequenza stessa del testo suggerisce e pone subito dopo che Virgilio e Sordello si sono abbracciati (« ‘O Mantoano, io son Sordello/ de la tua terra!’ – e l’un l’altro abbracciava ») e prima dunque che, senza preparazione, fulmineamente insorta dalle cose stesse, l’invettiva prenda il suo avvio. « O serva Italia ... », con quel che segue. Con i significati che intreccia e aduna in sé, con le sue amare risonanze, con la catarsi che sta per offrire a sentimenti per troppo tempo lasciati senza espressione, questa pausa è sul serio il capolavoro del canto. E il resto ne consegue: senza, forse, che la potenza assoluta di questo inizio riesca ad esserne eguagliata, del tutto e fino in fondo. do, una semplice considerazione. E questa è che anche nel presente contesto, che pure è caratterizzato dal rilievo di follia (« matto è chi spera ... », etc.) rivolto a quanti pretendono di poter spiegare, per forza di ragione, il mistero della trinità, è implicito il riconoscimento della realtà della trasgressione; che sarà conseguenza di follia, e follia essa stessa, ma intanto si produce, e, se si produce, dovrà darsi per questo suo venire ed essere al mondo una ragione, che è poi il desiderare. Un desiderare tanto vivo e non domabile quanto più il suo insorgere si determini in coscienze cristiane, alle quali è pur dato di vedere fino a che punto avessero « disiato » sanza frutto uomini come Aristotele, Platone, lo stesso Virgilio, che a quella condizione di infelicità sarebbero certo stati sottratti se avessero conosciuto il vero Dio e il limite da lui imposto al comprendere e al sapere umani. – Cfr. anche Purg. XVIII 28-33. Non che, con questo chiarimento, la questione del desiderio sia risolta. Tutt’altro. E, con quelli che li precedono e li seguono, questi versi richiederebbero un più attento esame: al pari di quelli che si leggono in Par. XXXIII 46-47. 43 O un « compianto », come benissimo ha detto il Sapegno, p. 458. 44 Cfr. Croce, La poesia di Dante, pp. 112-13, che conclude nel primo senso. Ma, comunque si giudichi di questa sua scelta, resta che finissima è la delineazione del personaggio di Sordello, « Farinata del Purgatorio » (p. 112).
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Anche sul piano dei pensieri, e della diagnosi politica che ne risultava, non si può dire che la grande invettiva sia pari alla forza di quella pausa e di quell’inizio che sta dunque, in qualche modo, prima dell’inizio. E certo i temi che già erano in testi, o precedenti o coevi, qui trovano accenti potenti. Si pensi all’Italia che, squassata dalla furia delle lotte civili, è « nave sanza nocchiero in gran tempesta » (v. 77). Si pensi alla « vacatio » imperiale, il cui motivo, nel contesto dell’invettiva, è una sorta di basso ostinato, un suono cupo e doloroso che esprime anche una tal quale perplessità. Se infatti il non esserci dell’Impero è attribuito alla malizia, alla cupidigia, agli odi che oppongono le città alle città in una contesa senza soluzione, e fanno che sia parte quel che di per sé è il tutto, anche deve esserlo alla viltà degli imperatori, tardi a rispondere alla voce imperiosa dell’universale diritto e meritevoli perciò che, com’è detto, ai versi 97-102, di Alberto di Asburgo e della sua prole, su di loro « giusto giudicio da le stelle caggia ». L’invettiva, che a tratti si era stemperata nella luce autunnale della lamentatio, qui torna ad assumere il suo stile più proprio; che, con voce terribile, è quello della maledizione apocalittica. Lo è con tale forza che, toccato questo culmine, il discorso sembra esigere, e sul serio esige, una pausa; che è imposta infatti dalla quasi incomprensibile e inspiegabile desolazione delle cose. Com’è possibile che quel che è avvenuto lo sia sul serio?
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E se licito m’è, o sommo Giove che fosti in terra per noi crucifisso, son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? O è preparazion che nell’abisso del tuo consiglio fai per alcun bene in tutto de l’accorger nostro scisso?
Non era, per altro, una domanda alla quale la sospensione dell’invettiva consentisse, di per sé, di dare risposta. E anzi accadde il contrario. Toccando di Firenze e del popolo suo « che si sobbarca », da apocalittico che era, prima che la pausa imposta dalla domanda intervenisse a temperarne l’asprezza, il tono tornò ad innalzarsi; e si fece persino stridulo d’ironia, di aspro sarcasmo, tale che soltanto, forse, l’immagine della città malata che, vittima della sua stessa malizia, non può trovar « posa in su le piume,/ ma con dar volta suo dolore scherma », soltanto questa immagine lo attenuò, introducendovi una nota tenue di pietà.
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Si è detto nelle precedenti pagine del decantarsi, che non è tuttavia uno spegnersi, della passione polemica e politica che, sopra tutto nei confronti di Firenze, aveva acceso come un grande rogo nel centro della prima cantica. E si disse anche di qualche eccezione, del ritorno, dopo la decantazione, ai toni immediati dell’asprezza. L’esempio forse più alto di questa eccezione è costituito dal quattordicesimo canto, il canto di Guido del Duca; che sembra a tratti far precipitare nella tenebra il chiarore lunare della seconda cantica, richiamando in vita quello cupo della prima. Ma nel canto quattordicesimo c’è tuttavia dell’altro. Ed è l’estrema abilità della costruzione drammatica, l’entrare, l’uscire, il rientrare delle voci, il formidabile intreccio polifonico e, nello stesso tempo, una tal quale incertezza tonale, se è vero che l’asprezza di questi versi, sospesi, con studiata maestria, fra il tragico e il comico, è a tratti come interrotta dall’intervento di toni che alludono ad altre, più serene, prospettive, e questo che per tanti aspetti sembra appartenere all’Inferno torna, invece, a essere un canto del Purgatorio. Straordinaria, come si diceva, è la sapienza drammatica dell’attacco: con quelle due anime, quei due spiriti, Guido del Duca e Rinieri da Calboli, che alla vista di Dante che « ’l nostro monte cerchia/ prima che morte li abbia dato il volo » (vv. 1-2), si interrogano l’un l’altro sulla ragione del prodigio al quale stanno assistendo; e con Dante che, quasi avesse divinato quel che di lì a poco sarebbe accaduto e volesse esser lui a provocarlo, se deve nominare il suo luogo di nascita, dice che « per mezza Toscana si spazia/ un fiumicel che nasce in Falterona/ e cento miglia di corso nol sazia » 45, e non nomina Firenze, non nomina l’Arno, che per un verso è un « fiumicel », sebbene, per un altro, scorra per cento e più miglia, e un « fiumicel » perciò proprio non sia. Così lo scenario drammatico è delineato. E il tono è coperto, è minimizzante, perché Dante (che sta percorrendo il girone relativo a questo peccato) sa bene che cosa sia invidia; e, come questa innanzi tutto consista nello svalutare quel che si possiede di fronte a quel che sia posseduto da altri, così, quasi imitando i modi di coloro che ne sono affetti, anch’egli svaluta quel che è suo, il luogo stesso delle sue passioni più forti e drammatiche, e su quel « fiumicel » che, nella realtà, è tale solo se lo si osserva nella sua origine, consente che insorga l’equivoco che l’accenno al suo successivo corso non risolve. Mentre, infatti, per un verso, svela, per un altro copre, mentre per un verso il piccolo fiume è
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« predicato » di una ben maggiore lunghezza, per un altro resta, ciò non ostante, un piccolo fiume 46. Donde, appunto, il perdurare, malgrado il chiarimento, dell’equivoco; che è necessario, infatti, che permanga come conseguenza di un discorso che, per essere intonato alla natura di coloro ai quali si rivolge, personaggi per definizione minimizzanti e svalutanti, deve ripeterne i modi. Con straordinaria finezza psicologica, è un atto di autentica mimesi drammatica quello che, entrando lui stesso, come personaggio, nella scena, Dante compie. E questa è la ragione per la quale l’episodio ha questo inizio. Le altre, che sono state addotte, non valgono a spiegarlo; e si lasciano perciò sfuggire l’intenzione che altresì vi si nasconde, e che è di provocare all’invettiva, e al dileggio delle cose sue, Firenze, l’Arno, la Toscana, coloro che a lui avevano domandato chi fosse, e donde venisse. L’intenzione riesce al suo scopo perché, come il primo spirito interpreta la strana risposta che ha ricevuta, e nel « fiumicel » scopre subito l’Arno, così l’altro interviene lui pure con una risposta che è in realtà una chiosa. Perché « nascose/ questi il vocabol di quella riviera/ pur com’om fa de le orribili cose? », aveva domandato l’uno dei due, Rinieri di Calboli. E come, in tal modo, magistralmente, la scena era stata preparata, così Guido del Duca può rispondere. E lo fa nel modo più crudele:
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E l’ombra che di ciò domandata era si sdebitò così: – ’non so; ma degno ben è che ’l nome di tal valle pèra; ché dal principio suo, ov’è sì pregno l’alpestro monte ond’è tronco Peloro, che ’n pochi luoghi passa oltra quel segno, infin la ’ve si rende per ristoro di quel che ’l ciel de la marina asciuga, ond’hanno i fiumi ciò che va con loro, vertù così per nimica si fuga da tutti come biscia, o per sventura del luogo, o per mal uso che li fruga: ond’hanno sì mutata lor natura li abitator della misera valle, che par che Circe li avesse in pastura.
46 Nel suo commento (II, Torino-Milano etc. 1935, p. 178), il Pietrobono notò il nesso del diminutivo con l’invidia. Ma la spiegazione rimase tuttavia nell’estrinseco; e così, questa volta, anche quella del Sapegno, p. 550. Meglio, direi, il Grabher, II, 161.
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Tra brutti porci, più degni di galle che d’altro cibo fatto in uman uso, dirizza prima il suo povero calle. Botoli trova poi, venendo giuso, ringhiosi più che non chiede lor possa, e a lor disdegnosa torce il muso. Vassi caggendo; e quant’ella più ’ngrossa, tanto più trova di can farsi lupi la maladetta e sventurata fossa. Discesa poi per più pelaghi cupi, trova le volpi sì piene di froda, che non temono ingegno che le occùpi.
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È una sorta di tragico bestiario quello che, attraverso le parole di Guido del Duca, prende forma; ed è altresì un luogo d’inferno quello che quest’anima del Purgatorio delinea non senza che, terminata la descrizione della bestiale metamorfosi fiorentina, la parola sia rivolta a colpire la terra sua e di Rinieri, la Romagna che, lo si ricorderà, anche nella prima cantica era stata definita come sempre in guerra nel cuore dei suoi tiranni 47. A tal punto appaiono e sono degne di un inferno, o dell’inferno senz’altro, le scene che Guido del Duca ritrae, che quasi anche lui sentisse di appartenervi ancora, soltanto il pianto può esserne suggello. E le parole del congedo sono bellissime:
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Ma va via, Tosco, omai; ch’or mi diletta troppo di pianger più che di parlare, sì m’ha vostra ragion la mente stretta.
Vi si sente l’altra voce della coscienza di Dante: l’amore per la sua terra, corrotta, oggi, nei costumi, ma dolce nel ricordo di quelli di ieri, dolce nel ricordo dei luoghi:
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Non ti maravigliar s’io piango, Tosco, quando rimembro, con Guido da Prata, Ugolin d’Azzo, che vivette nosco, Federico Tignoso e sua brigata, la casa Traversara e li Anastagi (e l’una gente e l’altra è diretata),
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le donne e’ cavalier, li affanni e li agi che ne ’nvogliava amore e cortesia là dove i cuor son fatti sì malvagi.
Una sequenza impressionante: che se la paura delle retorica e, perché no, forse anche della poesia, non ci gelasse la parola sulle labbra, sarebbe giusto, in onore della verità, definire stupenda. Al di là di questo, altro, a rigore, nell’invettiva del sesto canto, al quale, dopo l’apertura della parentesi dedicata a Guido del Duca, può ora ritornarsi, non c’è. La centralità dell’Impero vi è bensì affermata con forza tanto più grande quanto più remota da quella del presente apparisse la sua realtà. Ma di accennare alla sostanza teorica della questione Dante non avvertì la necessità. Il nome di Giustiniano, ossia dell’Imperatore che occupa il centro del grande canto politico del Paradiso, è fatto qui per la prima volta nel poema, senza che, per altro, la citazione assuma particolare rilievo; né del coordinamento dei due poteri si dà, in questi versi, alcuna notizia. Il debole accenno che potrebbe scorgervisi se i versi 91-92 (« ahi gente che dovresti esser devota,/ e lasciar seder Cesare in la sella ») fossero riferiti alla gente di Chiesa, non potrebbe esser considerato tale ove, come il contesto sembra non escludere, vi si cogliesse piuttosto un’allusione generica ai popoli d’Italia 48, e, ancora e sempre, il tema fosse quello della vacatio Imperii, nonché della responsabilità che a quelli, oltre che agli imperatori, può esserne imputata. Del resto, che sia questa la nota dominante dell’invettiva può vedersi da quel che si dice nel canto successivo, nei famosi versi in cui, descrivendo la valletta che li accoglie, gli imperatori sono imputati della responsabilità di quanto di disastroso nelle cose politiche e morali si sia prodotto: Colui che più siede alto e fa sembianti d’aver negletto ciò che far dovea, 48
Questi versi sono per lo più, dai commentatori moderni, riferiti alla « gente di Chiesa ». Il punto di forza di questa interpretazione è nel v. 93: « se ben intendi ciò che Dio ti nota », che forse allude a Matth. 22, 21 (Sapegno, p. 460). Ma, fra gli antichi commentatori, l’Ottimo e il Lana intesero invece il riferimento in senso generico. E forse, anche per quel che si dice nel testo, non a torto: sebbene sia pur giusto osservare che, se il riferimento fosse generico, proprio per questo si potrebbe intendere che anche ai chierici fosse rivolto: in modo tale che di nuovo apparrebbe legittimo sostenere che, sia pure in modo tenue, un’allusione alla Chiesa non sia estranea ai versi in questione.
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e che non move bocca a li altrui canti, Rodolfo imperador fu, che potea sanar le piaghe c’hanno Italia morta sì che tardi per altro si ricerca 49.
E basti dunque, per quel che è del sesto canto e di quanto pur ne discende, – basti così. Il canto sedicesimo è, per una parte, anch’esso un’alta meditazione della decadenza. E per la prima volta nella Commedia accenna tuttavia, per un’altra, al tema dei due soli. Se ne parlerà fra breve. Ma si noti intanto come la questione della causa che il mondo « ha fatto reo » non desse pace a Dante, che di continuo infatti vi ritornò e mutò il punto della visione, cercò argomenti nuovi. Forse è soltanto un’impressione non confortata da altro e più solido indizio. Ma sembra che, proprio come a qualche suo critico moderno, a Dante spiegazioni come quelle che pur era impegnato a delineare, e che insistevano sulla cupidigia, e sui suoi derivati, non bastassero. Vi avvertiva, forse, lui pure, il rischio della tautologia, della modellazione della causa sull’effetto, e di questo sulla causa, senza dunque che dal circolo gli fosse dato di uscire stringendo in pugno quel che cercava, la spiegazione appunto. Provava perciò a variare il tema. E non di meno, com’era inevitabile, la variazione riconduceva a quello. Dopo averlo arricchito di parole, lo riproduceva tuttavia quale, nella sostanza, era innanzi che la variazione svolgesse sé stessa. La variazione qui è data dall’aspra polemica che, con le parole attribuite a Marco Lombardo, Dante svolse contro coloro che, nel segno della cecità del mondo, « ogni cagione » recano « pur suso al cielo, pur come se tutto/ movesse seco di necessitate », e così distruggono l’idea stessa del libero arbitrio, senza il quale « non fora giustizia/ per ben letizia, e per male aver lutto » 50. E che si tratti di una variazione proposta con il massimo impegno, si comprende non appena si pensi che per il suo tramite, e sia pure per rapidi accenni, Dante svolse il tema della necessità del cielo, « che i vostri movimenti inizia », ed è perciò, se è così (e posto che così possa essere), piuttosto una inclinazione che non un’ ν γκη, una necessità. Svolse questo tema, e, nello svolgimento, delineò una breve storia dell’anima che, dalla mano di Dio che la « vagheg49 50
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91-96. E vedine un’ottima illustrazione in Sapegno, p. 471. 67-72.
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gia/ prima che sia », esce « a guisa di fanciulla/ che piangendo e ridendo pargoleggia », e in questo atto non è se non un’« anima semplicetta che sa nulla » 51. Svolse questo tema, e delineò questa storia, perché risultasse chiaro quel che a lui premeva: e cioè che, come la sua « semplicità » significa purezza, ma il « saper nulla » la espone al rischio di scambiare per il fattore al quale aspira a ritornare cose che con questo niente hanno a che vedere, ecco che di qui nasce la possibilità dell’inganno a cui quella soggiace; con quella dell’inganno e, nel suo segno, l’altra del male. Con quel che altresì ne segue: ossia, con schietta movenza agostiniana, la necessità delle leggi, e del « rege » che « discernesse de la vera cittade almen la torre » (v. 96). La rappresentazione dell’« anima semplicetta che sa nulla », ed è come una « fanciulla/ che piangendo e ridendo pargoleggia », è quale solo dalla fantasia di Dante poteva nascere. L’immagine del re che della vera città discerne « almen la torre » ravviva di colpo, con una bella immagine, il discorso che stava per intraprendere la via della trattazione teorica 52, lo trattiene, mentre vi allude, al di qua di questa nell’atto stesso in cui ad accendersi è di nuovo il fuoco vivissimo della polemica. Che subito si spegne, per altro, o brucia bensì ancora, ma con meno forte vigore, perché a prender forma è ora, di nuovo, un tema, quello, come si è detto, dei due soli 53, che per la prima volta compare qui nella Commedia, e non tuttavia con intenzione teorica così forte che il quadro stesso dei relativi pensieri ne fosse rischiarato e meglio precisato. La questione che, se mai, al riguardo, può sorgere, concerne il senso della continuità che, come già si ebbe modo di osservare, per Dante sottende la storia di Roma; che non dal suo inizio, e nemmeno dal suo inizio imperiale, potrebbe dirsi che avesse due soli, i quali infatti non entrarono nel suo orizzonte se non quando, di pagano, l’Impero si fece cristiano 54. E anche qui non senza qualche difficoltà: dal momento che non è agevole discernere il punto cronologico in cui, per Dante, possa parlarsi della collaborazione, nel segno della reciproca autonomia, dei due poteri. 51 XVI
85-88. E cfr. Conv. IV XII 14-19: su cui Nardi, Dante e la cultura medievale cit., pp. 49-50. 52 La questione teorica è svolta soprattutto in Purg. XXV 37 ss. Ma, al riguardo, è fondamentale il saggio di Nardi, Sull’origine dell’anima umana (1938), in Dante e la cultura medievale, pp. 211-24; e L’origine dell’anima umana secondo Dante (1932), in Studi di filosofia medievale, Roma 1960, pp. 9-68. 53 Purg. XVI 95-96. 54 Cfr., in proposito, l’articolo citato qui su, n. 5.
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La glossa di Benvenuto, il quale sostenne che la distinzione dei poteri ÂŤ patuit in Costantino et Salvestro, in Iustiniano et Agapito, in Carolo et Alexandro Âť55, non ha alcun valore di spiegazione; e, francamente, non si capisce perchĂŠ sia stata qualche volta citata con favore. Costantino è pur sempre, per Dante, l’infirmator imperii (Mon. II XI 8), colui che, com’è detto nel ventesimo del Paradiso, 56-57, ÂŤ sotto buona intenzion che fe’ mal frutto,/ per cedere al pastor si fece greco Âť. E per quanto concerne Silvestro I, di lui che fu il primo pontefice a esser stato reso ricco (Inf. XIX 117) dalla nefasta donazione costantiniana, di lui non si dice certo che collaborasse con l’Imperatore realizzando in terra la dottrina dei due soli, ma si racconta solo, in un verso fulmineo, come questo ne fosse guarito dalla lebbra (Inf. XXVII 94-95). Che poi, lasciando Dante per collocarsi sul terreno della storia, nel titolo che Costantino si dette di Ď€ ĎƒÎşÎżĎ€ÎżĎ‚ Ď„ ν κτ Ď‚ 56, e cioè di sovrintendente dei laici, di questi soltanto e non anche degli episcopi, possa vedersi riflessa la consapevolezza della derivazione del suo potere, a Deo, soltanto nelle cose mondane 57, è certo possibile. Ma questo, per certo, Dante non lo sapeva perchĂŠ non era nella fonte a cui attingeva: nĂŠ sembra probabile che lo sapesse Benvenuto, il quale a torto, per altro, di questa consapevolezza lo avrebbe definito in possesso. Niente teoria dei due poteri, dunque; e a questo non allude certo quel che Dante disse di Giustiniano e di Agapito: al quale egli riconobbe bensĂŹ il merito di aver ÂŤ drizzato Âť l’imperatore alla fede sincera 58 persuadendolo dell’errore dei monofisiti, che in precedenza aveva condiviso 59, ma non certo quello di aver collaborato con lui nel segno della suddetta teoria dei sue soli. Per povera che, desunta da Martino Polono 60, la sua informazio55
Purg. XVI 106-107. Per le parole, qui su citate, di Benvenuto, si veda Comentum super D. Alagherii Comoediam, a cura di G. F. Lacaita, III, Firenze 1887, pp. 442-43. 56 Cfr., per questo, S. Mazzarino, L’Impero romano, Roma 1956, pp. 426-31 (ulteriori svolgimenti in Antico, tardoantico ed era costantiniana, I, Bari 1974, pp. 124 ss., 172 ss.). Un accenno a questa formula, nella quale riscontrava un tratto ironico, già nel lucido profilo di L. Salvatorelli, Costantino il Grande, Roma 1928, p. 61. Ma cfr. soprattutto, S. Calderone, Costantino e il cattolicesimo, I, Firenze 1952, p. XIV. 57 Mazzarino, L’Impero romano, p. 430. 58 Par. VI 16-18. 59 Sapegno, pp. 847-48. Che Giustiniano avesse condiviso il pensiero dei monofisiti era, al tempo di Dante, nozione comune: come può vedersi, oltre che dall’antica glossa, anche da Brunetto Latini, TrÊsor, I XXXVII 5. Cenni sulla politica seguÏta da Giustiniano nei confronti dei monofisiti in Mazzarino, L’Impero romano, p. 530. 60 Sestan, Italia medievale cit., p. 321; e, piÚ in generale, e con piÚ comprensiva impostazione, O. Capitani, Mondo della storia e senso della storia in Dante (1980), in Chiose minime dantesche, Bologna 1983, pp. 115-34.
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ne storica fosse e potesse essere, di storia Dante sapeva abbastanza per non ignorare quel di cui, in questo caso, il suo commentatore era viceversa all’oscuro. E lo stesso deve ripetersi per Carlomagno: del quale Dante disse soltanto che « quando il dente longobardo morse/ la Santa Chiesa, sotto le sue ali /, vincendo, la soccorse » 61. Se è così, e dal contesto, vicino o lontano, non si ricava elemento che valga a compiutamente spiegare quel che pure Dante asserì al v. 106, occorre dunque rassegnarsi al suo anacronismo? Oppure il senso del discorso è soltanto quello che, fino a quel momento, nella forma più compiuta, aveva trovato espressione nel quinto capitolo del quarto trattato del Convivio; e cioè che, contemporanei nell’atto della volontà divina che decise della loro esistenza, l’Impero e la Chiesa si erano bensì disposti nella storia κατ τ ν χρ νον, questa dunque di seguito a quello, ma in modo tale che l’esserci dell’Impero non poteva, anche nel rilievo storico, non implicare quel che certo, sul piano ideale della provvidenza, implicava, e cioè la Chiesa? Difficile decidere. Ma certo è che, se così fosse, del tutto fuorviante, dannosa oltre che inutile, sarebbe la ricerca dell’imperatore a cui avesse fatto riscontro, nel senso indicato dalla dottrina dei due soli, il pontefice, e del pontefice a cui avesse fatto riscontro l’imperatore. Ancora, se fosse così, ad altro occorrerebbe rivolgere la mente: e cioè alla particolare qualità poetica di questa nuova lamentatio dantesca; allo stemperarsi della veemenza polemica, dell’ira, della disperazione, dell’ironia amara, nella nostalgia del buon tempo antico, che anticipa a tratti quella, altissima e poeticamente irraggiungibile, che domina sovrana nei tre canti di Cacciaguida:
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In sul paese ch’Adice e Po riga, solea valore e cortesia trovarsi, prima che Federigo avesse briga: or può sicuramente indi passarsi per qualunque lasciasse, per vergogna di ragionar coi buoni o d’appressarsi. Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna l’antica età la nova, e par lor tardo che Dio a miglior vita li ripogna: Currado da Palazzo e ’l buon Gherardo e Guido da Castel, che mei si noma, francescamente, il semplice Lombardo.
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Di’ oggimai che la Chiesa di Roma, per confondere in sé due reggimenti, cade nel fango, e sé brutta e la soma.
Il ritorno polemico del tema delle due guide e dell’usurpazione che l’una (la Chiesa di Roma) aveva fatta e faceva dell’altra 62 interrompe, quasi all’improvviso, la contemplazione elegiaca dell’antica età. E la polemica politica che aveva ad oggetto il romano pontefice e il clero corrotto risuona alta nell’esempio che, e contrario, viene proposto dei « figli di Levì » che « dal retaggio » furono « essenti » 63, per interrompersi di nuovo e dar luogo, dopo la brevissima digressione sul « buon Gherardo » che Marco Lombardo dice di non conoscere « per altro sopranome », « s’io nol togliessi da sua figlia Gaia » 64, alla bellissima, di nuovo rasserenante, conclusione: « Dio sia con voi, ché più non vegno vosco./ Vedi l’albor che per lo fummo raia/ già biancheggiare, e me convien partirmi/ – (l’angelo è ivi) – prima ch’io li paia. – Così tornò, e più non volle udirmi » 65. Non a spunti teorici che direttamente concernano la distinzione e la connessione dei due poteri, o ad altro che alla teoria sia pertinente, dà luogo il lungo discorso che nel ventesimo canto Dante fece pronunziare a Ugo Capeto: la teoria infatti non vi è presente se non in forma implicita. Ma piuttosto, e di nuovo, alla ripresa dei temi polemici relativi alla passione antimperiale del regno di Francia 66, e all’azione nefasta che, 62 Deve per altro ribadirsi che il tema è assunto senza che a esso Dante conferisse, qui, alcun svolgimento teorico. 63 Purg. XVI 131-32. 64 Cfr., al riguardo, Barbi, Per Gaia da Camino, in Con Dante e i suoi interpreti, pp. 341-42. 65 Purg. XVI 141-45. 66 Un accenno esplicito alla posizione, come l’ho definita, antimperiale dei re francesi, a rigore, qui e altrove, manca. Ma la si può indirettamente cogliere ai vv. 43-45: « io [Ugo Capeto] fui radice de la mala pianta/ che la terra cristinana tutta aduggia,/ sì che buon frutto rado se ne schianta ». Non saprei dire se in questa veemente invettiva operi, sia pure obliquamente, l’avversione che forse Dante nutrì nei confronti dei giuristi francesi che fin dall’inizio del secolo decimoquarto (F. Ercole, Da Bartolo all’Althusio. Saggi sul pensiero pubblicistico del Rinascimento italiano, Firenze 1932, pp. 161 ss., e anche F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità, Milano 1957, pp. 43-45, 57 ss., passim) sostennero la tesi dell’autonomia della monarchia di Francia. Citazioni esplicite in questo senso nei suoi scritti non si trovano. Il passo di Mon. I XI 11-12, concernente la cupidiglia che, assente nell’Imperatore, caratterizza i regni particolari, esemplifica que-
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alle sue origini, questo personaggio svolse. A questi temi; e, quindi, agli altri che, con facilità, vi si connettono nel quadro di una concorde polemica, e che non solo la storia capetingia riguardano, ma anche, e sempre, l’avarizia che ha corrotto il vivere lieto dei cittadini. Non solo il demerito che la Francia conseguì per avere, con la forza e con l’astuzia, contribuito a far sì che la storia del mondo si svolgesse in senso opposto a quello che sarebbe stato giusto, ma anche l’arroganza blasfema della sua politica antiecclesiastica, l’oltraggio che, « in Alagna », Filippo IV il Bello recò a Bonifacio VIII. E qui, piuttosto che insistere su qualche tema, importante ma marginale, quale per esempio sarebbe l’umile nascita, secondo Dante, di Ugo Capeto (« figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi ») 67, su altro, in questa sede, converrà fermarsi. E, in particolare, sulla questione dell’oltraggio recato dal re di Francia al pontefice; che era bensì « nomato » Bonifacio VIII e, al secolo, era lui che, « principe d’i novi Farisei » 68, con la sua condotta aveva recato e recava offesa a Cristo e alla sua Chiesa, ma era tuttavia pur sempre il pontefice; così che ingiuriarlo e colpirlo, fino a provocarne la morte, che di lì a qualche tempo infatti seguì, era come ripetere e rinnovare, nella sua persona, la tragedia del Golgota;
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O avarizia, che puoi tu più farne, poscia ch’ha’ il mio sangue a te sì tratto, che non si cura de la propria carne? Perché men paia il mal futuro e ’l fatto, veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, e nel vicario suo Cristo esser catto. Veggiolo un’altra volta esser deriso; veggio rinnovellar l’aceto e ’l fiele, e tra vivi ladroni esser anciso. Veggio il nuovo Pilato sì crudele che ciò nol sazia, ma sanza decreto porta nel tempio le cupide vele.
Reca qualche sorpresa, in effetti, che, salvo errore, non si sia notato che in questi versi, che lo ritraggono come se nella sua si ripetesse la sti ultimi con il regno di Castiglia, non con quello di Francia (sul che, cfr. la persuasiva spiegazione suggerita da G. Arnaldi, Capetingi, ED, I, 816 b, che ritiene la citazione del primo regno meglio conforme, per l’estraneità alle sue vicende delle passioni dantesche, al tono « dimostrativo » del trattato), ma non accenna a questioni giuridiche. 67 Arnaldi, 1. c. 68 Inf. XXVII 85.
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storia stessa della passione di Cristo, Bonifacio VIII non è « nomato ». Reca meraviglia che a questo silenzio non si sia dato rilievo: perché lì è il punto culminante della questione. Non deve infatti dirsi che, « senza tener conto del fatto » che la dignità del pontefice « fosse allora tenuta dall’odiato Bonifacio VIII » 69, Dante guardava alla « dignità », e non all’uomo che la rappresentava e la incarnava. E, con più precisione, deve invece assumersi che, proprio perché ne teneva conto e non dimenticava chi Bonifacio VIII fosse stato e fosse, quale politica avesse esercitata e esercitasse, proprio per questo Dante evitava di citarlo per nome e solo al suo grado aveva riguardo. Con il silenzio mantenuto sul nome il maggiore, e anzi l’unico, risalto era dato all’istituzione, che viene prima della persona che la rappresenta e mai a questa può e deve esser ridotta. E tanto più di questo sarebbe stato giusto, secondo Dante, che avesse avuto cura di tener conto, e non dimenticarsi, chi, avendo usurpato i diritti dell’Imperatore e misconosciuta la sua « superiorità », avrebbe per certo raddoppiata la sua colpa se, come nel fatto accadeva, al disconoscimento dell’autorità terrena avesse aggiunto quello dell’autorità spirituale. Per Dante, cose come queste stavano al di fuori di ogni possibile dubbio. E se questa ne fosse la sede, sarebbe interessante soffermarsi alquanto sulla questione, sollevata dai francescani e, con altri argomenti, dibattuta dai giuristi del re di Francia, dell’illegittimità dell’elezione al papato di Bonifacio VIII 70. Una questione che, certo, nei suoi termini religiosi e, quindi, in quelli giuridici oltre che politici, a Dante non fu sconosciuta; e che non indusse tuttavia lui, che a quel pontefice aveva 69
N. Sapegno (La Divina Commedia, II, Purgatorio, Firenze 19853, p. 217). Sulla presenza in Francia dei temi giuridici e politici che alimentarono la veemente azione di Filippo il Bello contro Bonifacio VIII, cfr. Ercole, Da Bartolo all’Althusio cit., pp. 157 ss., e, sebbene in parte dissenziente da lui, Calasso, I glossatori cit., pp. 28-30, 79. Per la ricostruzione dei tentativi d’invalidazione dell’elezione, che ebbero come autori, non solo il re di Francia, ma anche parte dei francescani spirituali, nonché, com’è ben noto, i cardinali Giacomo e Pietro Colonna, cfr. L. Oliger, Petri Johannis Olivi de renuntiatione papae Coelestini. Quaestio et epistula, « Arch. franc. hist. », 11 (1918), pp. 357-58, 359; Manselli, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo cit., pp. 129-31, e Capitani, La polemica antibonifaciana cit., pp. 127-48. Ma cfr. anche E. Dupré Theseider, Roma dal comune di popolo alla signoria pontificia (1262/1377), Bologna 1952, pp. 312 ss.; e anche I papi di Avignone e la questione romana, Firenze 1939, pp. XII ss. – Sulla questione, invece, dal processo, che va naturalmente tenuta distinta da questa, anche se della stessa natura furono le passioni che gli furono alla radice, cfr. H. Finke, Aus den Tagen Bonifaz VIII. Funde und Forschungen, Münster i. W. 1902; e ora Boniface VIII en procès. Articles d’accusation et dépositions des témoins (1303/1311). Édition critique, introduction et notes par J. Coste, Roma 1995 (si veda pp. 24, 32-61, 886 ss.). 70
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preparato, in inferno, un luogo fra i simoniaci, a condividere i dubbi sulla legittimità del suo titolo. Perché, malgrado quel che sapeva e pensava di lui, egli evitasse di aderire alla tesi della illegittimità, può forse comprendersi se si considera che quella era l’opinione, non solo degli « spirituali », ma anche del re di Francia e dei suoi giuristi: ossia di un sovrano « particolare » e ribelle all’autorità imperiale. Ne conseguiva che, se la si fosse condivisa, il rischio sarebbe stato che altresì, e in linea di principio, si finisse col consentire a chi, dopo aver oscurato il sole imperiale, anche quello pontificio si preparava a spegnere. E per questo, ossia per evitare che questo paradosso si determinasse, e la cosa andasse ben oltre l’intenzione, Dante scelse di non colpire Bonifacio VIII con quell’accusa che, con la persona, avrebbe finito per coinvolgere l’istituzione, e di astenersi, al riguardo, dal prendere una posizione esplicita 71. Per questo preferì che, anche nel caso di Benedetto Caetani, la dignità e la sacralità del grado non fossero contaminate dal sospetto che altri aveva sollevato circa il modo in cui erano stati conseguiti. Altresì preferì che non lo fossero dall’indegnità del personaggio e stessero al di sopra di questo; che se, al contrario, fosse stato chiamato in causa, le negative conseguenze che per certo ne sarebbero derivate non avrebbero potuto essere evitate. È una spiegazione, un’ipotesi (se si preferisce) di spiegazione; e non si dice che sia tale da toglier via ogni dubbio quando, sopra tutto, si pensi a quel che di questo papa aveva detto, persino a volte con feroce sarcasmo, lo scrittore che lo aveva considerato degno dell’inferno. I dubbi, dunque, restano. Ma anche, ciò nonostante, resta l’interpretazione; che, se non li elimina e li lascia sussistere, nemmeno tuttavia ne è confutata. Quel che qui infatti si dice del silenzio che Dante mantenne sugli argomenti relativi all’illegittimità dell’elezione pontificia di Benedetto Caetani coincide perfettamente con quanto sembra doversi ricavare dal canto ventesimo, e dalla violenta critica che egli vi delineò della politica francese, nemica della Chiesa, ma non meno, per certo, dell’Impero. E a questo riguardo sia consentita un’ultima osservazione. Se sia questo il punto da cui si guarda al discorso di Ugo Capeto, può comprendersi perché, nell’iniziarne la breve analisi, si dicesse che, in forma diretta no, ma indirettamente, tuttavia, vi sono contenuti, e possono ritrovarvisi, spunti teorici di rilievo. In forma diretta, infatti, non vi sono contenuti: 71 Convinto della « formale » legittimità dell’elezione fu anche l’Olivi (Manselli, op. cit., p. 132): ma per una più sfumata interpretazione, si vedano gli articoli di Capitani citati qui su n. 3.
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e si deve ribadirlo. Ma indirettamente, sì. Indirettamente, è pur sempre il tema dei due soli a costituire l’orizzonte del discorso. Questo tema, dunque; e l’altro della duplice eclissi che ne fu provocata dalla perversa politica dei re francesi, dei Luigi, e dei Filippi, nati dal sangue di Ugo Capeto. Se è vero quel che qui si è sostenuto, e cioè che nel Purgatorio la passione politica, drammaticamente partecipata nella prima cantica, si decantò bensì, senza tuttavia depotenziarvisi; se è vero che nella seconda cantica Dante appare nella figura di un combattente che, terminata la battaglia, da un colle contempla la pianura sulla quale si è svolta, e dove gli è accaduto di dar colpi e riceverne tanto più rivive il dramma delle contrapposte passioni quanto più gli appaia chiaro che le speranze, o sono tramontate, o sono soltanto speranze, destinate perciò a nutrirsi unicamente di sé stesse, – se questo è vero, allora si capisce anche perché la seconda cantica conceda spazio piuttosto all’invettiva e al lamento che non, sul tema dei sue soli, a precisazioni e a approfondimenti teorici. Anche la questione della provvidenzialità interna alla storia di Roma, che nel quarto trattato del Convivio aveva ricevuta la sua prima, organica, trattazione e definizione, restò per conseguenza, nel Purgatorio, sullo sfondo; e Dante vi alluse bensì, ma, come avviene nel discorso di Marco Lombardo, in modo così rapido e contratto da far persino insorgere i dubbi ai quali, quando l’occasione si presentò, demmo rilievo senza che sul serio sapessimo risolverli. Soltanto parziale è l’eccezione che, rispetto a quel che si è detto fin qui, è costituita dall’allegoria dell’albero che, non senza qualche fatica, Dante delineò e costruì nel trentaduesimo canto. Che questa allegoria sia un’articolazione, o un momento, di quella più ampia che ha inizio, nel canto ventinovesimo, con la mistica processione che prepara l’arrivo di Beatrice e che, fra le sue figure costitutive, presenta il carro trionfale, il grifone, le sette donne e i sette vecchi, è ovvio. Meno ovvia l’interpretazione, e della prima e della seconda. Che, per restare alle figure principali della prima, il carro trionfale 72 rappresenti la Chiesa, fu concordemente sostenuto dai commentatori antichi 73. Ed è opinione largamente condivisa dai moderni che, d’accordo con i primi, identificano
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Purg. XXIX 107 (ma cfr. vv. 88 ss.). Sapegno, p. 729.
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nel grifone, « animal binato », metà uccello e metà leone, il Cristo; nel quale la natura divina, rappresentata dall’uccello, si congiunge con quella umana, rappresentata dal leone, mentre le parti vermiglie che appaiono in quest’ultima simboleggiano forse il sangue e la passione del figlio di Dio. Se questa che, nella sua forma più compiuta, si legge in Benvenuto 74, è la spiegazione meno implausibile dell’allegoria del carro e del grifone, quale significato occorre invece attribuire all’albero? Rappresenta, esso, la scienza del bene e del male, e quindi secondo l’esegesi « morale » che, a XXXIII 67-72, Dante ne propose, la giustizia stessa di Dio che nel simbolo dell’albero indica l’interdetto, e cioè il divieto rivolto all’uomo di toccarlo e, con ciò, di contaminarlo? Oppure, secondo l’interpretazione che ne fu delineata nei « tempi moderni », poiché la giustizia divina significa Impero, che è infatti lo stesso ius a Deo volitum, deve intendersi che questo, in ultima analisi, l’albero significhi, e cioè, appunto, l’Impero 75: il cui concetto, quando componeva i canti finali del Purgatorio, Dante si stava preparando a svolgere nel suo trattato latino concernente la monarchia universale? In realtà, se si osservi come sia prospettata, ragionata e svolta nelle pagine dello studioso che, meglio e con più forza di convinzione, la sostenne tra i moderni 76, non è difficile comprendere quale sia il limite di questa tesi. Essa lo incontra infatti, e non riesce a superarlo, nel suo stesso andamento deduttivo; o meglio, nel suo porsi in concreto come la conclusione di un argomento che ha la sua premessa non, come dovrebbe, nei versi del trentaduesimo canto, ma fuori e al di là di questi: e cioè nella Monarchia. La quale, idealmente o no, viene comunque presupposta; e poiché lì Dante sostenne che Dio vuole la giustizia, e la giustizia significa l’Impero, che è perciò anch’esso voluto da Dio, ecco che l’albero, che della giustizia è il simbolo, anche dell’Impero necessariamente lo è. Ma, valida per la Monarchia, che variamente infatti l’argomenta 77, non perciò la deduzione lo è per il trentaduesimo canto del Purgatorio. Lo sarebbe se del nesso deduttivo « Dio giustizia Impero » vi fosse nei suoi versi almeno una traccia, un indizio, un segnale; se, almeno in forma implicita e indiretta, vi si trovasse qualcosa che a questo nesso rinviasse e facesse riferimento. Ma tracce, indizi, segnali della sua, anche se nascosta, presenza, in questi versi non s’in74 75 76 77
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Benvenuti Comentum, IV, 197. Parodi, Poesia e storia cit., pp. 327-38. E cioè il Parodi, citato qui su, n. 75. Mon. II II 4-5.
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contrano. Niente vi si trova che consenta di interpretarli alla luce del nesso che la Monarchia stabilisce fra Dio ius e imperium. Che tale nesso fosse presente, quando Dante scriveva questo canto, nella sua mente, è possibile, forse anche probabile. Ma non perciò è lecito vederlo all’opera anche là dove vederlo è impossibile. Le forti riserve che questa tesi suscita non si risolvono, per altro, nella delineazione di un argomento fondato sul non esserci di qualcosa e sul relativo silenzio. Ma si risolvono invece, e consistono, nell’indicazione di difficoltà a cui ci si verrebbe a trovare di fronte se nell’albero s’indicasse il simbolo dell’Impero. La prima difficoltà si dà a vedere subito, e cioè nel punto in cui la santa processione viene a trovarsi in cospetto dell’albero e, prima ancora che cominci a « cerchiarlo », un mormorio si leva da essa, che diceva « Adamo ». E l’albero era dispogliato. Era, come Dante dirà poco dopo, con potente espressione, una « vedova frasca » (v. 50). Ebbene, se l’albero rappresentasse l’Impero, perché mai i suoi rami sarebbero secchi e dispogliati? Forse perché la processione si svolge nel tempo stesso in cui Dante era giunto, col suo viaggio, là dove poteva contemplarla, ossia sul Paradiso terrestre; e questo era il tempo della vacatio imperii, così che bene a ragione i rami dell’albero dovevano apparire ed essere spogli e aridi? Ma, se così s’interpretasse, troppe cose allora resterebbero incomprensibili. A cominciare dal nome di Adamo che, giunta in cospetto dell’albero e avendo cominciato a « cerchiarlo », la santa processione pronunzia. Perché, infatti, Adamo? Se l’albero significasse quel che gli antichi commentatori per lo più intesero, e cioè la pianta del bene e del male, la menzione del primo uomo sarebbe al suo giusto posto; e l’esser quello spoglio e arido bene si spiegherebbe con la violazione dell’« interdetto » divino. Ma se, invece, significasse l’Impero, perché allora (si ripete) Adamo? Per rendere plausibile la citazione del primo uomo, occorrerebbe intendere che il suo nome fosse assunto qui come il simbolo di quell’originario peccato che la donazione di Costantino replicò, di nuovo rendendo necessaria l’azione rigeneratrice e salvifica che, in effetti, soltanto allora, ossia dopo che il peccato di Adamo fu replicato, potrà, quando che sia, avere, nella storia umana, il suo corso 78. E sarebbe, senza dubbio, spie78
Ridotta alla sua linea essenziale, è questa la tesi che il Pietrobono, Il Poema sacro, I, 23 ss., propose e poi appassionatamente difese (cfr., per es., il suo saggio La donazione di Costantino e il peccato originale, 1921, in Saggi danteschi cit., pp. 233-51). Poiché il dispogliamento dell’albero è, per il Pietrobono, conseguenza del « secondo » peccato originale, quello appunto commesso da Costantino, di qui la necessità della seconda
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gazione ingegnosa: da completare, forse, con l’osservazione che l’esser spoglio dell’albero rinvia, non soltanto all’aspetto generico del peccato che vi è rappresentato, ma anche all’aspetto specifico del momento in cui, trasferendo le ricchezze dall’Impero alla Chiesa, Costantino rese questa ricca e quello povero. Se questa, per altro, fosse l’interpretazione, a non risultar chiaro sarebbe non tanto l’accenno al grifone che non lacera col becco la dolce corteccia dell’albero e, in tal modo, o rende omaggio all’integrità dell’Impero o offre l’esempio di chi non contamina le cose spirituali con le temporali, ma quel che segue. Perché, infatti, se l’albero simboleggiasse l’Impero, il grifone, ossia Cristo, legherebbe a questo, servendosi del suo legno, il legno del carro, e cioè la Chiesa? È possibile intendere che, legando legno con legno 79, Cristo compisse il gesto simbolico di chi, nello stesso atto, segna una differenza, perché i legni sono due, ma anche pone l’unità, perché i due legni sono uno stesso legno 80? E si può intendere che questo gesto alluda alla distinzione delle due guide, e, insieme, al loro essere unite nel compito che Dio affidò loro di condurre il genere umano alla vita felice? L’interpretazione non è forse, se la si considera nel più ristretto contesto formato dai vv. 4651, impossibile. Ma, per un verso, è troppo sottile 81; per un altro, dà
redenzione affidata al Veltro. Generalmente contestata, la tesi è stata accolta, con qualche attenuazione, dal Nardi, La donazione di Costantino e Dante, in Nel mondo di Dante, pp. 109-69 (ma 153-55), e anche Dante profeta, in Dante e la cultura medievale, pp. 276-82, e Dal ‘Convivio’ alla ‘Commedia’, pp. 238-57. La tesi del Pietrobono fu, fra gli altri, criticata con particolare durezza dal Barbi, Con Dante cit., pp. 58-71. 79 Purg. XXXII 51: « e quel di lei a lei lasciò legato ». Il verso è, al solito, potente; ma alquanto contorto; e l’esegesi più perspicua è forse quella del Del Lungo (La Divina Commedia, p. 631: « e lo lasciò [‘quel’, ossia il « temo », il timone] legato a lei con (‘di’) uno dei rami di lei ». Più diffusamente il Parodi, Poesia e storia, p. 333: « gli [il grifone] lega al piede dell’Albero, con una fronda dell’Albero, una fronda del Carro ». 80 Il che, per altro, presuppone che si sia accolta la glossa del Buti che intende il « di lei » nel significato di « fatto col legno della stessa pianta » (Commento sopra la Divina Commedia di Dante, per cura di C. Giannini, II, Pisa 1838, pp. 784-85). Il riferimento è alla leggenda dell’Albero della Croce (che il Parodi, Poesia e storia, p. 333 n. 1, giudicò fuori di proposito in questo contesto): « la Croce di Cristo fu fatta di quello arbore: e veramente la Croce è il timone della Santa Chiesa ». E sebbene il Sapegno la giudicasse suggestiva, di accoglierla non c’è alcuna necessità. 81 La glossa più acuta è, al riguardo, quella del Pietrobono, II, 427, che delle tre ipotesi a cui l’interpretazione del verso dà luogo – 1) Cristo lasciò la Chiesa legata all’Impero per mezzo di un vincolo derivante dalla natura stessa dell’Impero; 2) il timone del carro è stato fatto del legno della pianta, appunto perché tutti vedessero chiara-
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luogo a inconvenienti di non poco conto. Si consideri infatti che, se fosse così, anche dovrebbe ammettersi che, alla radice dell’allegoria, fosse riconoscibile il nesso che, nel Convivio e, oltre che nella Monarchia, anche nell’Inferno, Dante aveva stabilito e tornerà a stabilire fra la pienezza dei tempi, rappresentata dall’Impero romano durante il regno di Tiberio, e la venuta di Cristo sulla terra. Ma, in questo caso, anche dovrebbe ammettersi che il nesso, e l’ordine delle precedenze, risulterebbero, nel canto trentaduesimo, sconvolti. Nello schema delineato nel Convivio, e poi confermato nella Monarchia, l’albero dell’Impero è florido, e per questo Cristo può scendere dal cielo sulla terra. Nello schema, segretamente operante in questo canto, da arido e dispogliato che era, l’albero dell’Impero tornerebbe a fiorire in seguito alla discesa di Cristo 82; che lungi, dunque, dal presupporre un’umanità unificata come condizione della sua nascita e della sua morte, porrebbe lui, con la sua nascita e la sua morte, le condizioni per il rifiorire suo nell’unità. Se, dunque, fosse così, la sconcordanza cronologica fra i due schemi sarebbe insanabile. Nel primo caso, l’età è quella di Tiberio e della nascita storica del Cristo. Nel secondo è un’età attesa e non ancora venuta: insomma, rispetto a quella in cui Dante scriveva, soffriva e sperava, futura. E dopo averla constatata, questa discordanza, nella sua inspiegabilità, occorrerebbe dar corso a queste due considerazioni. La prima è che, se l’albero simboleggiasse l’Impero, il grifone, che a esso restituisce le foglie che ne erano cadute in seguito alla donazione di Costantino, dovrebbe a sua volta rappresentare, in luogo del Cristo, un imperatore (o il famoso Veltro) che, da lui ispirato, fosse in grado di ripeterne nei mente che essa deve rimaner unita all’Impero, e riconfermare così il principio tante volte ribadito che la Chiesa e l’Impero sono ambedue di origine divina; 3) il timone del carro appartiene all’Impero –, a ragione, direi, escluse quest’ultima, mentre, accogliendo le prime due, è alla seconda che accordò la sua preferenza. Dal punto di vista puramente concettuale, fra queste due ipotesi non si dà, per altro, sostanziale differenza: almeno se per « punto di vista concettuale » s’intende il nesso necessario dell’Impero e della Chiesa. Che poi, per suo conto, il Pietrobono tendesse a interpretarlo, questo nesso, in termini di identità, e questa quindi intendesse come tale in quanto entrambi di origine divina sono i termini che vi si rivelano identici, è, a tratti, evidente: con la conseguenza, essa pure, mi sembra, evidente, che, alla Chiesa in primo luogo appartenendo questo carattere, l’Impero finisce per dissolvervisi. Resta che alle due ipotesi del Pietrobono le obiezioni derivano da quel che è detto nel canto: come è spiegato nel testo. 82 Ma Cristo dovrebbe allora essere interpretato come il Veltro, autore umano e, sebbene inviato da Dio, non divino, della seconda redenzione. Il che potrebbe concedersi se il grifone non fosse allegoria del Cristo. Ma lo è: come dunque potrebbe vedervisi il Veltro?
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presenti tempi il gesto e di ridare vita al corpo desolato dell’Impero. Ma se si tiene fermo al punto che il grifone rappresenta il figlio di Dio, come potrebbe vedervisi un imperatore, di là, ancora, da venire? La seconda considerazione riguarda il curioso dislocarsi in due ipotesi diverse dei termini, l’uno con l’altro non armonizzabili, che costituiscono lo schema in cui, come soggetti e autori, entrano, nel segno della volontà divina, l’Impero, Cristo, l’umanità. Nello schema delineato nel Convivio e nella Monarchia, « disformata » da Dio a causa del peccato originale, quest’ultima è, ciò non ostante, pervenuta, sotto il regno di Tiberio, al grado massimo dell’unità (che significa, in questo contesto, vita felice). Nel secondo, per essersi allontanata dal creatore in seguito alla trasgressione dell’« antica matre » 83, l’umanità è, come l’albero, spogliata e inaridita; e per questo richiede l’intervento salvifico del « figliuol di Dio ». Nel primo schema accade perciò che, se lo si pensa con la logica intrinseca al secondo, non si arrivi a spiegare la congruenza che pur dovrebbe stabilirsi tra unità e peccato originale: o, se preferisce, fra peccato originale e unità. Nel secondo, se si provi a pensarlo con la logica che presiede al primo, risulta impossibile spiegare il nesso che pur deve porsi fra la spoglia e desolata infelicità dell’albero e la venuta salvifica del Cristo. C’è, dunque, già a questo punto, più di una ragione per dubitare che l’albero simboleggi l’Impero. Per dubitarne, e anche per dubitare della nostra qualsiasi capacità di pervenire al chiarimento dei significati nascosti sotto la veste allegorica: a tal punto che, se fosse assistito da giusta modestia, ciascuno potrebbe ripetere quel che a un certo punto Dante disse di sé stesso e del canto che pur gli giungeva alle orecchie: « io non lo ’ntesi, né qui non si canta/ l’inno che quella gente allor cantaro,/ né la nota soffersi tutta quanta » 84. Alle difficoltà che sono state elencate qui su, altre infatti possono, e debbono, aggiungersi. Se, ferma restando l’interpretazione allegorica del grifone, nell’albero s’insistesse nell’indicare l’Impero, sul serio incomprensibile riuscirebbe il comportamento che quello, l’« animal binato », mise in atto astenendosi dal 83
Purg. XXX 52. Purg. XXXII 61-63. Questa così fitta foresta di simboli e allegorie non poteva non irritare il gusto di Croce; che questa irritazione non riuscì infatti a nascondere (La poesia di Dante, pp. 129-30). Ma, come si sa, a seguire il filo del pensiero di Dante anche attraverso i luoghi in cui la poesia tacesse, Croce non era disposto: anche e sopra tutto perché al pensiero del poeta non era incline a riconoscere importanza. 84
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« discinderlo ». Non sarebbe infatti concepibile che l’ossequio del Cristo fosse rivolto a un Impero decaduto, dispogliato dei suoi diritti, usurpato, contaminato e corrotto. Né, a rigore, può essere « dolce » un albero che sia stato privato dei suoi frutti, e sia incapace di produrne. Nella visione rigidamente provvidenzialistica che Dante ne ebbe, la vita di Cristo si svolse nel quadro di un Impero, non solo legittimo, ma, come si è detto, giunto al vertice della sua unità universale: al punto che persino la condanna a morte che gli fu inflitta, persino la croce e il Golgota sarebbero stati « ingiusti », e non de iure, se a decretarli fosse stato un non giusto e non legittimo tribunale dell’Impero 85. Non a questo può dunque considerarsi rivolto il gesto del grifone; che, per oscuro che sia e rimanga, certo appare più comprensibile se lo si intenda diretto a confermare e sottolineare l’unità non « discindibile » della sapienza divina riflessa nel simbolo unitario del bene e del male. Di non semplice e non lineare interpretazione, questi versi significherebbero allora che, cibandosi della sapienza del padre, Cristo non la scisse, non la lacerò, non la diminuì, ma la lasciò, qual era, intatta, perché quella del padre è, nell’unità delle persone divine, la sapienza stessa del figlio. L’identificazione dell’albero con l’Impero risulterebbe altresì problematica se a questo, all’Impero, dovesse essere riferito il simbolo dell’aquila, l’« uccel di Giove » del v. 112, l’« aguglia » del v. 125. Se dell’albero si mantenesse l’identità simbolica con l’Impero, come potrebbe intendersi che anche l’aquila lo rappresentasse? L’aquila è vista « calar » « per l’alber giù », « rompendo de la scorza, / non che d’i fiori e de le foglie nove » (vv. 112 e 113-114); è vista ferire « ’l carro di tutta sua forza,/ ond’ el piegò come nave in fortuna,/ vinta da l’onda, or da poggia, or da orza » (11517). Se, con i più dei commentatori, in questi versi si legge un’allusione alle persecuzioni cui gli imperatori romani sottoposero i cristiani, la identificazione dell’albero con l’Impero risulta impossibile. L’albero non può essere la stessa cosa dell’Impero; che, se in questo, e da questo, fosse rappresentato, verrebbe contemporaneamente a essere il soggetto e l’oggetto della persecuzione. Il suo simbolo, il simbolo dell’albero, risulta perciò assai più trasparente, e molto più ragionevolmente lo s’interpreta, se vi si legge quel che s’è detto; e cioè la giustizia di Dio, offesa dalla violenza anticristiana degli imperatori romani. Per intendere diversamente, e mantenere l’identificazione dell’albero con l’Impero, occorrerebbe infatti intendere che, perseguitando i cristiani, l’Impero finisse in realtà
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per volgersi contro la missione che gli era stata assegnata da Dio, e, quindi, contro la sua stessa essenza. Ma sarebbe, palesemente, interpretazione piuttosto sofistica che non sottile. Sarebbe, in definitiva, un’interpretazione stentata; e anche assurda, dal momento che non assumibili nella sua luce sono i « soggetti » che qui entrano in campo. In questa sequenza, il soggetto è l’aquila, l’oggetto è il carro, ossia la Chiesa, che ne riceve l’urto violento ed è sul punto di essere travolta, come nave dalla tempesta; mentre le ferite che l’albero riceve dall’artiglio dell’aquila non sono se non l’indiretta conseguenza di un’offesa che, rivolta contro la Chiesa, non poteva non esserlo anche contro la giustizia di Dio. Se s’interpreta così, il discorso dischiude alquanto i suoi sigilli; e, almeno in parte, la sua cripticità è vinta. Se nel primo intervento dell’« uccel di Giove » si indica la persecuzione anticristiana, e nel secondo, descritto ai versi 124-29, la donazione di Costantino e i suoi effetti perversi (« o navicella mia, come mal se’ carca »), anche la cronologia risulta meglio rispettata; dal momento che le penne lasciate sul carro dall’aquila, e cioè il potere imperiale e la stessa città di Roma dati in proprietà al pontefice romano, sono anche il segno che l’età delle persecuzioni era finita, sebbene, per un altro verso, gravi mali fossero per derivare al mondo, non dall’Impero, ma dalla Chiesa, divenuta ricca, potenta e corrotta. Se ora, passando ai versi 85-105, si provasse a scioglierne il significato in un discorso razionalmente esplicito, non sarebbe facile aver ragione della forza con cui lo tengono chiuso in sé. Beatrice siede ai piedi dell’albero, sotto la sua « fronda nova », ossia appena rinverdita dal sacrificio di Cristo; e sembra che ne stia a guardia, mentre, simbolo del figlio di Dio, il grifone vola in cielo. E poi ci sono le « sette ninfe, con quei lumi in mano/ che son sicuri d’Aquilone e d’Austro ». (vv. 9899). Che il punto centrale della rappresentazione stia nella funzione assegnata a Beatrice che, con il ritorno in cielo del Cristo, è la suprema garante della giustizia divina, e riceve con ciò il più grande dei riconoscimenti 86, sembra evidente. E se è così, non sorprende che, dopo aver86 Sulla grandezza e, starei per dire, straordinarietà di questo riconoscimento, credo sia giusto insistere. Il nesso ideale che qui Dante stabilì fra Beatrice, che fa da presidio alla giustizia, e Cristo di nuovo volato in cielo, è ricco di significati molteplici. E potrebbe forse, a questo riguardo, farsi riferimento a uno dei luoghi più singolari e anche, si direbbe, impressionanti di Dante: a quello della Vita nuova, XXIV 3-6, in cui, dopo aver detto della donna di Guido Cavalcanti, ossia di monna Vanna, alla quale, « secondo che
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la posta a guardia dell’albero, Dante faccia sì che dinanzi a lei, in rapida sequenza, si svolgano alcuni essenziali momenti della storia della Chiesa. Alle persecuzioni anticristiane, rappresentate dalla rovinosa discesa dell’aquila e dai danni inferti al carro 87, si è già accennato. E ora deve dirsi delle eresie, simboleggiate dalla volpe che, avventatasi « nella cuna/ del triunfal veiculo », è messa in fuga dalla guardiana dell’albero e del carro, da Beatrice dunque, vittoriosa confutatrice delle sue « laide colpe » 88. Deve dirsi, dopo aver di nuovo accennato al secondo volo dell’aquila simboleggiante la fatale donazione di Costantino, del drago che, venendo su dalla terra che parve aprirsi « tr’ambo le ruote », « per lo carro su la coda fisse »: del drago, ossia del draco magnus dell’Apocalisse 89, di Satana, che trasformò « così ’l dificio santo » da farne un « monstro » quale « visto ancor non fue ». La potente rappresentazione della Chiesa, la meretrix magna dell’Apocalisse 90, che, nel crudo linguaggio realistico di Dante, diviene la « puttana sciolta [...] con le ciglia intorno pronte » 91, – questa rappresentazione conclude la sequenza delle altri crede, imposto [...] l’era nome Primavera » e della « mirabile Beatrice, che « appreso lei » veniva, si spiega, per la bocca di Amore che « quella prima è nominata Primavera solo per questa venuta d’oggi; ché io mossi lo imponitore del nome a chiamarla così Primavera, cioé prima verrà lo die che Beatrice si mosterrà dopo la imaginazione del suo fedele. E se anche vogli considerare lo primo nome suo, tanto è quanto dire ‘prima verrà’, però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo quale precedette la verace luce, dicendo: ‘ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini’. Ed anche mi parve che mi dicesse, dopo queste parole: ‘e chi volesse sottilmente considerare, quella Beatrice chiamerebbe Amore per molta simiglianza che ha meco’ ». L’identificazione è qui di Beatrice con Cristo; e vale per questo il gioco Giovanna/Giovanni (Battista). Giovanna (Primavera, « prima verrà ») annunzia Beatrice, come il Battista Gesù (ma cfr. anche XXIX 1-4, con le variazioni sul numero nove, etc.). « Il maggiore sarà sottomesso al minore » (Gen. 25, 23). Il primo è in realtà il secondo, perché è questo ad essere il primo: cfr. san Paolo in Rom. 9, 12. 87 Purg. XXXII 109-17. 88 XXXII 118-23. 89 Apocal. 12, 3-9. 90 Ibid., 18, 1-5. 91 E con « l’occhio cupido e vagante » (Purg. XXXII 154). Per il nesso certo sussistente fra, da una parte, queste rappresentazioni e le idee che ne sono presupposte, e, da un’altra, quanto sostenuto da spirituali francescani e gioachimiti, rinvio a Manselli, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo cit., pp. 55 ss., 129 ss., 338 ss., passim. Ma cfr. le equilibrate osservazioni del Nardi, Dante e la cultura medievale cit., pp. 27278. – Conviene fermarsi sul significato dello sguardo che la meretrice rivolge a Dante: « a me », dice il v. 155, con improvvisa personalizzazione del discorso. L’antica glossa, e così quella moderna, furono in genere concordi nel ritenere che nel « me », ossia in
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allegorie, o, se si preferisce, dei simboli. E dopo che si siano letti i vv. 148-60, ogni ulteriore commento sarebbe superfluo se, invece, non ci si dovesse fermare alquanto sul singolare rapporto che, ritraducendo il simbolo in termini di realtà e correndo perciò il rischio che la « prosa » ne banalizzi alquanto i sensi risposti, deve pur stabilirsi fra Beatrice, messa a presidio della sapienza divina, e il corso delle cose, irresistibilmente inclinate verso la catastrofe. In un solo caso, infatti, il presidio ebbe ragione dell’assalto che gli era stato mosso contro; e fu quello delle eresie, che Beatrice confutò e vinse. Negli altri, e sarà lei a darne preciso ragguaglio, occorrerà invece attendere con fiducia, e nella certezza che, com’è detto nell’ultimo canto, « non sarà tutto tempo sanza reda/ l’aguglia che lasciò le penne al carro,/ per che divenne monstro e poscia preda » (vv. 37-39). Ebbene, se la spiegazione fornita nel canto trentatreesimo può essere accolta senza che ne nascano sostanziali difficoltà (si tratta, dopo tutto, di una profezia, e non ex eventu), non altrettanto potrebbe dirsi di quel che, nel trentaduesimo, si asserisce delle eresie e della vittoria conseguita, su queste, da Beatrice. Che qui Dante si riferisse non, in particolare, come da alcuni fu inteso, alla eresia di Ario, ma sì invece all’assai più ampio e vario « complesso » di fenomeni ereticali che caratterizzò il periodo seguìto alle persecuzioni e « accompagnò le grandi sistemazioni dottrinali della patristica », sembra ragionevole supporre 92. E potrebbe
Dante, dovesse vedersi il « popolo cristiano » (o forse, come fu specificato dal D’Ancona, quello d’Italia). La spiegazione, per un verso, è ovvia. Per un altro, tuttavia, non convincente. Che il « me » rappresenti il « popolo cristiano » non può senz’altro concedersi, se si considera che di questo anche quello francese era parte; e nel gigante che tiene nella sua soggezione la meretrice è opinione pressoché concorde che debba vedersi il re di Francia. Né persuade la specificazione proposta dal D’Ancona: troppo debole, nei confronti del gigante, della meretrice e della scena, cruda e violenta, di cui sono protagonisti, il « me » del v. 155. Nella scena anzidetta, il re di Francia e la Chiesa vivono in un’esplicita rappresentazione allegorica: il « me » richiede, per contro, di essere come integrato in una rappresentazione rimasta non più che implicita. Per uscire dalla difficoltà, e dar conto della flessione che, in questo punto, la rappresentazione allegorica, e la sua coerenza, fanno registrare, proporrei che la difficoltà fosse condotta fino al suo limite e, quindi, risolta in altro; e che nel « me » si vedesse quel che grammaticalmente il verso indica: Dante, dunque, proprio lui che, intervenendo all’improvviso in una scena che non prevedeva la sua presenza, vi introduce una dissonante, ma geniale, nota realistica, in forza della quale la meretrice è bensì sempre la Chiesa, ma è poi anche la meretrice che, per la sua natura, di fronte al nuovo venuto, non può che confermarla, non può essere diversa da quel che è, e dal rivolgergli l’occhio « cupido e vagante » non può trattenersi. 92 All’eresia ariana in particolare pensavano Scartazzini/Vandelli, ed. cit., p. 591: ma cfr. R. Manselli, Eresia, ED, II, 720 a. E si veda già F. Tocco, Il canto XXXII del Purga-
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aggiungersi che tanto meno il riferimento può andare a questa o a quella eresia in quanto il trofeo della vittoria è da Dante assegnato a un personaggio simbolico, e non storico, nel quale può perciò ben vedersi come una sintesi delle varie vittorie ottenute nel tempo sulle varie eresie che via via vi si manifestarono: fino, per altro, a quelle più recenti, che in effetti non si comprende perché non dovrebbero essere state nella sua mente; che anche queste perciò includeva e ritraeva nel simbolo biblico della « volpe » (« capite nobis vulpes parvulas, quae demoliuntur vineas »). Se è così, perché allora di Beatrice si dice che mise in fuga la volpe, vincendone dunque per sempre l’insidia, e non invece che questa ne sarebbe stata vinta ogni volta che si fosse ripresentata a mettere in pericolo la vigna del Signore? Non è forse vero che l’eresia sta come intrecciata, nella storia della Chiesa, alla verità attestata dalla fede, e che di questo Dante era per certo ben consapevole? L’ipotesi che, per superare questa difficoltà, si può proporre, è beninteso soltanto un’ipotesi, niente di più. E, con questa consapevolezza del suo limite, la si formula argomentando che se da Dante Beatrice era stata innalzata a presidio della fede, il torto che in altri tempi le si fosse recato poteva ben essere interpretato come una deviazione dal suo comando, e quindi, lato sensu come una forma di eresia. Non si dimentichi che, nel canto trentesimo, le prime parole che Dante si sentì rivolgere da lei furono come attraversate dalla lama di un’ironia tagliente, che quasi fu sul punto di trapassare e risolversi in sarcasmo:
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– Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice. Come degnasti d’accedere al monte? non sapei tu che qui è l’uom felice? –
E altresì occorre non dimenticare i versi, per altro celeberrimi e, in riferimento alla biografia intellettuale di Dante, assai disputati, nei quali
torio, Firenze 1902, p. 20. Nell’appendice apposta alla sua lectura, il Tocco citò un luogo della Lectura super Apocalipsim dell’Olivi (lo trasse dal ms. laur., Conv. soppr. 397, 163 a, c. 2: cfr., in proposito, Manselli, Da Gioacchino da Fiore cit., p. 627 n. 1), rilevandone la stretta affinità con il testo dantesco. In realtà, nel caso specifico, l’affinità è, non con Dante, ma con il modo in cui (p. 20) il Tocco ne esplicò il senso. Se, com’è probabile, la volpe simboleggia non una, ma varie eresie, resta che queste sono simboleggiate, genericamente, da una volpe; e nè alla loro molteplicità, nè, tanto meno, a una loro quadripartizione (Tocco, art. cit., p. 39), si accenna in alcun modo.
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Beatrice pose con nettezza la questione del traviamento, e la prospettò in termini di estrema radicalità:
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questi fu tal ne la sua vita nova virtüalmente, ch’ogne abito destro fatto avrebbe in lui mirabil prova. Ma tanto più maligno e più silvestro si fa ’l terren col mal seme e non cólto, quant’elli ha più di buon vigor terrestro. Alcun tempo il sostenni col mio volto: mostrando li occhi giovanetti a lui, meco il menava in dritta parte vòlto. Sì tosto come in su la soglia fui di mia seconda etade e mutai vita, questi si tolse a me, e diessi altrui. Quando di carne a spirto era salita e bellezza e virtù cresciuta m’era, fu’ io a lui men cara e men gradita; e volse i passi suoi per via non vera, imagini di ben seguendo false, che nulla promession rendono intera. Né l’impetrare ispirazion mi valse, con le quali e in sogno e altrimenti lo rivocai; sì poco a lui ne calse! Tanto giù cadde, che tutti argomenti a la salute sua eran già corti, fuor che mostrarli le perdute genti. Per questo visitai l’uscio d’i morti, e a colui che l’ha qua su condotto, li prieghi miei, piangendo, furon porti.
Di quali colpe, in particolare, Beatrice qui rimproverasse il suo « fedele », non è possibile dire perché, quanto è, nella sua estrema asprezza, solenne e, in senso forte, definitivo, altrettanto il suo discorso è alieno dal concedere esempi. A tal punto, potrebbe dirsi, che se la disparità che si nota tra la formulazione dell’accusa e la sua specificazione non fosse invece posta in piena luce, di quello non si coglierebbe il tratto essenziale. Il discorso allude a colpe intellettuali e a colpe morali, allude al bene e allude al male; e non entra, tuttavia, in argomento. Allude al bene (la « dritta parte »), che Dante seguiva quando a sostenere lui giovane era, « con il suo volto », la stessa Beatrice. Allude al male che, salita costei « di carne a spirto », e quasi che a lui non fosse dato
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di sostenere il peso della sua « cresciuta » virtù e bellezza, Dante cominciò a praticare, « immagini di ben seguendo false ». Ma, appunto, come se la cosa dovesse di per sé esser nota ed evidente, non aggiunse altro. Il che può constatarsi anche nel seguito: ossia nel punto in cui, a questa prima coppia di opposti (il bene e il male), un’altra Beatrice ne aggiunse: quella che ha suoi estremi il vero e il falso. Alla « dritta parte » del v. 123, che è il bene, ma inclusivo altresì della verità, corrisponde infatti, al v. 129, la « via non vera ». È dunque a un traviamento, morale, e anche tuttavia intellettuale, che Beatrice ebbe la mira. Ma, per dire così, a quali contenuti del primo, a quali contenuti, e aspetti, del secondo? Se, in senso generico, per traviamento morale può intendersi l’essersi, Dante, « allontanato » da Beatrice, forse che per traviamento intellettuale deve assumersi il suo essersi messo, dopo la morte di lei, alla scuola dei « religiosi » e dei « filosofanti » 93. Che i due traviamenti potessero essere entrambi assunti nell’ambito dell’unica causa che li aveva prodotti, e cioè nell’oblio dantesco di Beatrice, è ovvio; e si 93 Ovvio, a questo punto, il riferimento, oltre a Conv. II XII 7, a Purg. XXXIII 85-90. Sono questi, com’è noto, i versi sui quali, molto altro naturalmente aggiungendo, il Pietrobono, Il poema sacro, I, 140 ss. (e cfr. il commento, II, 484) costruì la sua idea del « traviamento », non solo morale, ma anche intellettuale, di Dante (per suo conto, discutendo il libro di J. S. Carroll sul Purgatorio, London 1906, E. G. Parodi, « Bull. Soc. dant. », 16, 1909, pp. 82-83, aveva proposto che la scuola dei religiosi fosse quella dei curialisti, assertori della supremazia del papa sull’imperatore: ma con deboli argomenti). Le tesi del Pietrobono provocò la dura, e già ricordata, reazione del Barbi, Problemi di critica dantesca, II, 1-86, che di traviamenti intellettuali non volle assolutamente riconoscere l’esistenza. Ma, traviamento o no, che attraverso le parole di Beatrice Dante se ne attribuisse uno, realizzatosi nel campo del pensiero e delle teorie, è indubbio: « e veggi vostra via da la divina/ distar cotanto, quanto si discorda/ da terra il ciel che più alto festina » (XXXIII 88-90). Gli argomenti opposti dal Barbi sono, in realtà, deboli. Ma su un punto egli aveva ragione. Ed è quello che ribadì quando sostenne che ogni opera di Dante va considerata a sé, e che erronea è la tendenza, che fu del Pietrobono e poi anche del Nardi, a costruire linee di svolgimento in cui, nel dare e nel ricevere, ciascuna acquisti il suo senso. Erronea è sopra tutto la pretesa che, culmine e perfezione, anche in senso autocritico, di ogni pensiero che fosse stato altrimenti pensato, la Commedia debba essere letta in chiave mistica e profetica. Ed è su questo che, al di là delle specifiche tesi barbiane, è impossibile convenire con il Pietrobono e con il Nardi; e con l’idea che, überhaupt, sorregge le loro ricostruzioni. Quella del « traviamento » è essenzialmente un’idea drammatica e retorica di Dante, che come tale va considerata e non come se, in ogni suo aspetto, avesse il suo corrispettivo nella vicenda biografica, positivamente intesa. Va considerata per quel che è, assumendo, come essenziale al suo « genere », le genericità delle accuse delle quali s’intesse. – Per gli argomenti del Barbi, Problemi, II, 44, ss.
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dirà allora che fu il « male », che furono le false « immagini » del bene, a generare i falsi pensieri. Ma se traviamento morale significa il trionfo del male e l’oblio del bene, potrebbe mai, con perfetta simmetria, sostenersi che, nella vita di Dante il trionfo del falso fosse stato determinato dalla passione filosofica che, dopo la morte di Beatrice, si accese nel suo animo e nella sua mente 94? Oppure occorrerà intendere che non alla filosofia in generale Beatrice alludesse, e al suo studio, come causa e fonte di traviamento e di errore, ma ad alcune « tesi » che, condivise da Dante, ebbero per effetto il suo traviamento intellettuale e, perciò, anche morale? Ipotesi, quest’ultima, che certo, sarebbe da giudicare ragionevole se non fosse, nella circostanza specifica, impraticabile. Essa suppone infatti, l’indicazione di « luoghi » specifici, e Beatrice invece, nel suo discorso, non concede esempi. Ne consegue, se è così, che la questione si presenta, sotto questo riguardo, abbastanza intricata da richiedere l’apertura di una parentesi, e un rapido supplemento d’indagine. Nell’opera di Dante si trovano tre excursus autobiografici: tutti e tre, com’è facile comprendere, incentrati sulle conseguenze provocate dalla morte di Beatrice. Il primo, il più lungo, sta nella Vita nuova; e coincide con i capitoli nei quali è narrata la vicenda della « donna gentile » e, quindi, del ritorno, dopo lo smarrimento, da parte di Dante, alla giusta via, di Beatrice. Il secondo, il più breve, è nel secondo capitolo del secondo trattato del Convivio; nel quale la « donna gentile » è, o è reinterpretata come, la stessa cosa della filosofia a cui, non senza che il ricordo di Beatrice gli suscitasse dentro pena e rimorso, Dante decisamente indirizzò il suo nuovo pensiero. Il terzo è un profilo (già in parte esaminato) di autobiografia indiretta: sta nell’allocazione accusatoria che Beatrice pronunzia sul vertice del Purgatorio. Su questi tre excursus occorrerà fermarsi quanto basti a far emergere il senso autentico dell’invettiva che, alludendo al traviamento di Dante e drammatizzandolo, Beatrice svolse nel suo ampio discorso.
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In altri termini: potrà sul serio sostenersi che la frequentazione di « dottrine » remote dalla « divina » via fosse determinata dal medesimo stato d’animo da cui Dante fu inclinato verso la « pargoletta »? Vero è che, nel dantismo di ogni tempo, domina anche, insieme a tante belle virtù, quello che definirei l’eroismo dell’assurdo. E così è accaduto che il Pietrobono, II, 446-47, considerasse nel segno dell’identità la donna gentile e la pargoletta. E vedi, contra, Barbi, Problemi, II, 47.
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Sulla congruenza, o piuttosto l’incongruenza, emergente dal confronto che si esegua del primo excursus con il secondo si sono scritte decine e decine di pagine 95: per sostenere la congruenza, oppure l’incongruenza », della prima « donna gentile », quella « pietosa » e soccorrevole della Vita nuova, con l’altra, quella di cui si dice nel Convivio. In realtà, fra le due donne non si dà né congruenza, né incongruenza. Perché si desse congruenza, o anche incongruenza, sarebbe necessario che fra le due fosse comune l’identità: e invece esse sono, semplicemente, due donne diverse, e diversamente, dunque, « gentili ». Reinterpretando nel Convivio il dato biografico offerto dalla Vita nuova, Dante trasformò una donna reale, idealizzata sì, ma reale 96, in una donna, idealizzata anch’essa, ma non « reale » nello stesso senso dell’altra. Se la « donna gentile » della Vita nuova era una creatura umana che, in nessun momento della narrazione, assumeva agli occhi di Dante il volto concettuale della filosofia 97, quella del Convivio proprio e solo questo volto mostrava. E che tale fosse il suo volto, ed essa fosse perciò non una donna reale, ma la filosofia nella sua pura essenza, è così vero che se mai, 95
Le tesi in contrasto sono state egregiamente schematizzate da G. Petrocchi, Donna gentile, ED, II, 547-77, e dal Vasoli, Introd. cit., pp. III-VIII. Ma cfr. anche D. Mattalìa, La critica dantesca, Firenze 1950, pp. 123-36. 96 Reale, beninteso, nel senso della biografia, o, se si preferisce, della fictio, intellettuale, non in quello che sul serio la donna pietosa e gentile fosse stata incontrata da Dante per le vie di Firenze (la qual cosa, anche se fosse avvenuta, avrebbe comunque diverso significato). 97 Lo stesso Pietrobono, che del significato allegorico della donna pietosa e gentile della Vita nuova è stato il più deciso sostenitore, non riuscì tuttavia a indicare un solo passo nel quale questa sua interpretazione trovasse qualche appiglio. E dovette far ricorso al sonetto Parole mie, interpretando il v. 3, « a dir per quella donna in cui errai », come se Dante vi alludesse a un errore filosofico, e lo confessasse. Ma, come il Barbi ha ben osservato (Problemi, II, 44), questo sonetto è esplicitamente smentito dal successivo, O dolci rime che parlando andate, in modo tale che « un così rapido mutamento » non « s’intenderebbe o potrebbe giustificarsi » se Dante « si fosse in coscienza sentito reo d’avere disconosciuto il più alto valore della verità rilevata, o d’aver preteso di penetrare con la sola ragione i misteri nascosti all’uomo in questa vita; e reo a tal punto da farne, per penitenza, pubblica confessione ». Si aggiunga, ed è, mi pare, il punto fondamentale, che se l’« errore » indicato al v. 3 di Parole mie fosse « filosofico », come vuole il Pietrobono, e non « amoroso », come intende il Barbi, Problemi, II, 43-44, allora la sua retractatio nel successivo, O dolci rime, indicherebbe che, poiché in quanto detto in Parole mie, « non dimora/ cosa che amica sia di veritate » (vv. 7-8), quell’errore non sarebbe stato a sufficienza confutato. Cauto nella presentazione generale di Parole mie, il Contini (Rime, p. 114) è invece con il Barbi nell’interpretazione del v. 3.
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nel Convivio, avesse dovuto subire il ritorno vittorioso di Beatrice, nella struttura logica di quest’opera si sarebbe aperta, questa volta sì, un’incongruenza insanabile. La filosofia è, nel Convivio, figlia dell’altissimo creatore dell’universo. È perciò un’essenza divina; e perché mai avrebbe dovuto subire il ritorno di Beatrice? Insomma, tornando sul momento più doloroso della sua giovinezza, quando il sole di Beatrice si era spento e, com’è detto nella Vita nuova, egli fu consolato da una donna, gentile bensì e anche « savia » 98, ma reale tuttavia e umana, Dante nel Convivio lo isolò dalla conclusione che ad esso aveva dato nell’operetta giovanile. Lo isolò, lo tenne al di qua del conclusivo ritorno di Beatrice, lo prese per sé stesso come se, nella reinterpretazione 99 che intanto ne forniva, in sé stesso avesse e potesse avere la sua propria catarsi. E in tal modo, per un verso l’identità del nome cedette alla differenza intrinseca alla cosa che ne era designata, non senza tuttavia che, per un altro, a sua volta la differenza della cosa rischiasse di essere come riassorbita dall’identità, e di dare così luogo a un sottile equivoco. Reinterpretandosi, Dante fece infatti come se il racconto della Vita nuova fosse stato, non già reinterpretato e transvalutato, ma piuttosto esplicato nel suo unico senso: nel senso che, fin dal98 Insieme al sostantivo « riposo », che non sarebbe concepibile, in questo contesto, se non lo si riferisse alla filosofia che lo procura, gli aggettivi « nobilissima » e « savia », detti della donna gentile, starebbero, per la Corti, La felicità mentale, pp. 148-50, a provare che costei è una donna allegorica. Ma, francamente, e anche a prescindere da quel che la Corti stessa rileva in senso contrario a questa tesi (p. 150), non sembra proprio che le sue « spie testuali » scoprano qui grandi verità. Che, per es., possa essere considerato un « riposo » la tregua che l’amorevole compassione della donna gentile impose all’acerbo dolore di Dante, è ovvio: senza che perciò vi sia alcuna necessità di farne un’allegoria della filosofia. E lo stesso vale per l’aggettivo « nobilissima », che da solo non basta ad elevare a quel segno la pietà della donna gentile. Il che non è detto per una qualsiasi inclinazione che debba riconoscermi verso quel « ‘genere’ di dantisti che non sopportano l’incertezza e si sentono sicuri nel giungere a conclusioni opposte » (p. 146). Ma solo perché, per poter discernere la filosofia nel volto della donna gentile che agisce nella Vita nuova, occorrerebbe in effetti qualche elemento in più. 99 Su questo punto della reinterpretazione che, attraverso il racconto del Convivio, Dante fece di quello della Vita nuova, mi pare necessario insistere: anche e, anzi, sopra tutto, in relazione a quegli interpreti con i quali, poiché insistono sulla disparità dell’uno e dell’altro, più larghi sono l’accordo e il consenso. Penso, naturalmente, in primo luogo al Barbi; e quindi, per fare qualche altro esempio, a quel che scrissero sia M. Simonelli, Donna pietosa e Donna gentile fra Vita nuova e Convivio, in Atti del Convegno di studi su aspetti e problemi della critica dantesca, Roma 1967, pp. 146-59, sia U. Bosco, Dante vicino, Caltanissetta-Roma 1966, pp. 16-17. La forza e, quasi direi, la prepotenza dell’autointerpretazione sono evidenti, per es., in Conv. II II 1-9. Ma su questo, altrove.
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l’inizio, gli era intrinseco. Il che recava con sé una conseguenza inquietante: e cioè che sul ritorno di Beatrice potesse ormai sorvolarsi come su cosa non essenziale. Fu, il suo, un gioco molto abilmente costruito 100. Un gioco, per intendere il quale è perciò necessario comprendere che in comune i due racconti hanno quel che, in riferimento alla vita di Dante, che ne è il protagonista, non avrebbero comunque potuto non avere. Hanno in comune la morte di Beatrice, il dolore grandissimo che ne era conseguito, la consolazione offerta dalla donna pietosa e gentile, che in un caso tuttavia era una donna e nell’altro, invece, era la filosofia, il rimorso provato dal poeta mentre, suo malgrado, avvertiva che, per effetto della consolazione, il dolore scemava e in qualche modo volava altrove. Ma in comune non hanno, né potevano avere, il resto: ossia il ritorno di Beatrice che, in un’opera, come la Vita nuova, scritta in suo onore, era impossibile che fin dall’inizio non fosse stato previsto come il suo esito inevitabile 101, e infatti si determinò; e nel Convivio invece non si determinò perché la donna gentile era ormai diventata la filosofia, e con l’altra non condivideva se non il nome. La questione che ci sta dinanzi non è semplice. È, al contrario, alquanto intricata. E a renderla tale fu, con il gioco sottile della sua autointerpretazione, proprio Dante. La si può, senza semplificarla, schematizzare così. Qualunque cosa fosse e simboleggiasse, nella Vita nuova la donna gentile e pietosa offrì al vedovo cuore di Dante una consolazione che non fu tuttavia definitiva perché, dopo un discreto periodo di smarrimento, Beatrice tornò in sogno a visitare la sua mente e a dare al suo animo il vero conforto. Nel Convivio, la donna gentile è la filosofia; che consola innalzando la mente verso lo spettacolo di Dio; e poiché questo è il modo suo di consolare, si comprende bene perché, in questo quadro, di Beatrice non fosse concepibile, e non fosse perciò atteso, il ritorno. Nella Commedia, dove il ritorno di Beatrice è in qualche modo coincidente con, e interno al, viaggio che Dante intraprese per raggiungerla, è lo schema della Vita nuova che, estremamente potenziato e arricchito, ripropone sé stesso. Ma con questa essenziale differenza: che 100
È questo, forse, l’argomento più forte che può addursi contro la tesi della doppia redazione, sostenuta dal Pietrobono, dal Nardi, e in forma parziale e « problematica », dalla Corti, La felicità mentale, pp. 150-51. Ancora mi sembra persuasivo il saggio di M. Marti, Vita e morte della presunta doppia redazione della ‘Vita nuova’, in Studi in onore di Alfredo Schiaffini (« Rivista di cultura classica e medievale »), 7, 1965), II, 657-69. 101 Sulla questione mi propongo di ritornare per un ulteriore esame dei testi.
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quel che ora Beatrice si trovava di fronte era bensì ancora, come nella Vita nuova, Dante e la sua esperienza; nella quale a essere sopra tutto presente era tuttavia non tanto la donna gentile e pietosa del libello giovanile, quanto piuttosto l’altra donna gentile, quella in cui, nel Convivio, era stata individuata la filosofia. La questione che si pone, e alla quale si dovrà, poco alla volta, tentar di dare una risposta, concerne perciò questo punto: quando, con parole forti e terribili, Beatrice rimprovera a Dante il suo traviamento, intendeva che questo coincidesse con la filosofia? È evidente dunque che fu proprio Dante che, reinterpretando, come si è detto, e unificando i due diversi excursus della Vita nuova e del Convivio, ossia presentando due cose diverse, come se fossero una cosa sola, contribuì potentemente a mettere fuori strada i critici che, per apprezzarne il gioco sottile, avrebbero dovuto non soggiacervi e, dove quello unificava, non perdere di vista la differenza. Non, beninteso, che nel discorso di Beatrice esplicitamente le due donne fossero confuse in una o prese, se si preferisce, come se fossero, nello stesso atto e nello stesso segno, una umana donna gentile e una non umana, sebbene gentile, donna, la cui essenza è la filosofia. È vero bensì che, in qualche passaggio (e in un contesto singolare), il suo alto e divino discorso non sdegnò di atteggiarsi nella forma di un sacro, come potrebbe esser definito, « pettegolezzo »: basti pensare, a XXXI 59-60, all’accenno lasciato cadere sulla « pargoletta » o su « altra novità con sì breve uso » 102. Ma anche è vero, tuttavia, che, alludendo alla « via non vera » lungo la quale, perduto dietro a « false » immagini di bene, Dante si era messo, Beatrice lasciava intendere che quella fosse stata, e potesse perciò essere ritratta come, una via filosofica: anzi come quella che, in quanto tale, la filosofia traccia e « nulla promession » rende « intera » 103. Se è così, e, 102
Vero è che il Pietrobono, II, 447, interpreta la Pargoletta, e anche la donna Pietra, come « una persona sola con la Donna gentile », intesa a sua volta come allegoria della Sapienza/filosofia. Ma vorrei ricordare che fin dalla prima edizione (1939) delle Rime, a proposito di I’ son pargoletta bella e nova, messosi di fronte a tanti e vari tentativi volti a identificarla, il Contini (Rime, Torino 1939, p. 101) osservò che, poiché anche qui (v. 19) la « pargoletta » è « pure angioletta », « tanto varrebbe allora, alla stessa stregua, riconoscerla in Beatrice » che, nella Vita nuova (II VIII) è « un’angiola giovanissima ». « Nell’uso di pargoletta sarà » perciò « da scorgere una semplice preferenza lessicale ». 103 Purg. XXX 130-32. E cfr. l’accenno alla « scuola ch’hai seguita » (Purg. XXXIII 8586) che certo non può essere inteso, nel senso « minimizzante » del Barbi, Problemi, II, 47-48, come scelta dei beni mondani in luogo di quelli spirituali: quasi che il testo non
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nella sua voluta indeterminatezza, è ben possibile che così il discorso sia interpretato; se la filosofia vi è presentata come una sorta di sirena allettatrice che volge in sofferenza di chi le riceve le promesse che elargisce agli incauti, allora è evidente che essa è qui insieme causa e conseguenza del dramma esistenziale in cui Dante si coinvolse e del baratro dal quale si fece attrarre. E anche è evidente che fu il crudo estremismo delle accuse rivoltegli a travolgere, con la distinzione che pur si sarebbe dovuta altrimenti mantenere fra le due donne gentili, ogni altra determinata realtà biografica 104. A quali concrete esperienze che, per quel che si sa, Dante ebbe a compiere nel tempo intercorso dalla morte di Beatrice all’inizio della Commedia, potrebbe mai farsi risalire il « male » da cui, secondo l’atto di accusa pronunziato da Beatrice, sarebbe stato travolto se a indirizzarlo lungo la strada faticosa della salvezza non avesse provveduto, nelle note forme, la grazia di Dio? Per disponibile che potesse esser stato a rispondere con gli sguardi a quelli soccorrevoli della « donna gentile » e pietosa e per quante « pargolette » potesse avere di volta in volta vagheggiate, fra queste esperienze e il male imputatogli da Beatrice non c’era, né poteva esserci, alcuna proporzione: sì che sarebbe segno di miopia intellettuale una ricerca che si intraprendesse per tentar di ritradurre il suo discorso in termini di determinata realtà esistenziale e biografica. Lo stesso si dica per la filosofia; che non solo, in tutta l’estensione della Commedia, non incontra un giudizio qual è quello che Beatrice sembra dare di essa, ma vi mantiene integro il suo prestigio; e se offre qualche sua parte, e qualche sua tesi, alla ritrattazione, è pur sempre per via filosofica che questa esegue sé stessa e raggiunge il traguardo. Chi, nel tentativo di legare il discorso di Beatrice a dati concreti della biografia di Dante, ha immaginato che questi avesse, da giovane, intrapreso, per qualche parte, un cammino conducente all’eresia 105, ha scambiato con questa l’audacia intellettuale che fu, sempre, una caratteristica del suo ingegno; e, per il resto, è stato vittima dei suoi drammi interpretativi. contenesse un rinvio interno a Conv. II XII 7. Importante è tuttavia, e su questo mi permetto di insistere, che non si dimentichi la studiata oltranza, ed « esagerazione », caratterizzanti il discorso di Beatrice. 104 Nell’aver assunto il dato biografico come se, con scrupolo storiografico, a questo Beatrice si riferisse nella sua requisitoria, sta il limite del Barbi, Problemi, II, 50-51, passim. Con il che, avendo di necessità, da una parte, « indebolita » la « colpa », era ovvio che, da un’altra, la gravità delle accuse rivolte a Dante da Beatrice gli sfuggisse nel suo significato. 105 Vanno tenute presenti, a questo riguardo, le importanti osservazioni del Manselli, Da Gioacchino da Fiore cit., p. 215.
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E allora? Perché, nei confronti del suo fedele, Beatrice si comporta proprio come un critico incapace di resistere alla seduzione del dramma spirituale, del male che attrae a sé il bene in modo che, dopo aspre prove, questo possa trionfarne e, con la grazia di Dio, vincerlo? In realtà, il discorso di Beatrice è così estremistico, così « esagerato », e a tal punto costruito al di sopra delle righe, che, per comprenderlo, proprio a questo suo carattere occorre che lo sguardo sia rivolto: a questo carattere e a ciò che lo determina. Ossia, alla logica, per dire così, generalizzante che lo percorre da cima a fondo. A quella, insomma, in forza e in ragione della quale poco alla volta Dante venne a significare la stessa cosa dell’umanità e del cammino storico da essa compiuto: dell’umanità che al suo nome riferisce le sue nefandezze, i suoi crimini, le sue colpe, e in quello ricerca la sua espiazione 106. La discesa di un uomo vivo agli inferi, e quindi la sua risalita verso il cielo e la luce di Dio, costituiscono bensì un’essenziale esperienza di salvazione. Ma, riferite a lui, e alla sua viva carne, anche presuppongono il paradosso per il quale l’individualità si scioglie nell’unità del genere umano: il paradosso, in altri termini, in virtù del quale, come in quello di Cristo, così anche nel nome di Dante tutti i nomi confluiscono, tutti sono compresi, e il suo vale solo come un simbolo della totalità. Se è così, cade opportuna, a questo punto, una precisazione. Nell’ultimo capitolo della Vita nuova Dante aveva accennato a una « mirabile visione » apparsagli subito dopo che aveva composto il sonetto Oltre la spera che più larga gira: una « visione », confidava, che, quando lo studio necessario a trasferirla in parole fosse stato compiuto, avrebbe mostrato di Beatrice quel che a nessun altro poeta era riuscito di dire in onore della sua donna 107. Quando Dante ebbe questa visione, Beatrice era già, miracolosamente, tornata ad abitare la sua mente; e la « donna » gentile e pietosa era ormai uscita di scena. Il breve smarrimento, o erramento, che il dolore provocato della morte di Beatrice aveva pro-
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Vorrei precisare che, nel proporre questa considerazione, sono lontanissimo dal condividere il discorso che su Dante come Idealtypus del genere umano, come « tipizzazione » dell’individuo, etc., fu svolto da S. Battaglia, Linguaggio reale e linguaggio figurato nella Divina Commedia, in Atti del I Congresso nazionale di studi danteschi, Firenze 1962, pp. 26-27: anche se le critiche rivoltegli dal Nardi, Sull’interpretazione allegorica e sulla struttura della Commedia, in Saggi e note cit., pp. 110 ss., suonino decisamente eccessive. 107 Vita nuova, XLII 2-3.
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dotto nella sua mente e nel suo cuore, era perciò finito. Dal dolore che permaneva nel centro dell’anima stava per nascere qualcosa che, con simili accenti, mai si era udito prima. La « mirabile visione » è un presentimento, anzi la vera e propria premessa, l’annunzio, della Commedia 108? Quand’anche fosse, o così si giudicasse che sia, tanto più occorrerebbe cogliere le differenze, metterle al centro del quadro, e insistervi come sulla cosa essenziale. Si dà infatti fra le due visioni una differenza profonda; ed è proprio Beatrice che, senza che esplicitamente se lo proponesse, la mise in forte rilievo. Nella Vita nuova, la « visione » si determina quando già il ritorno di Beatrice è avvenuto; e il poeta che ne è stato messo sulla giusta via non deve perciò conquistarla attraverso le prove che nella Commedia sono invece giudicate essenziali: il viaggio attraverso le « perdute genti ». Il dramma, se con questo termine può essere definito lo smarrimento di Dante, è già risolto al di qua della « visione ». Nella Commedia è interno alla « visione », della quale scandisce i momenti essenziali. E si dà, a guardar bene, un’altra ragione di differenza: un’assai forte ragione. Quando, a XXX 133-35 (« né l’impetrare ispirazion mi valse,/ con le quali e in sogno e altrimenti/ lo rivocai: sì poco a lui ne calse! »), Beatrice accennò ai tentativi invano compiuti per ricondurre Dante sulla retta via, l’« altrimenti » implicò il riferimento e il rinvio a qualcosa che, al di là di quella intrinseca al « sogno », possiede l’efficacia della « visione ». La quale, in questo caso, non ne ebbe tuttavia alcuna: tanto poco, ormai, a Dante importava di lei. Ne consegue che è Beatrice stessa a rilevare, fra la Vita nuova e la Commedia, la differenza. Lì, nella Vita nuova, il suo « ritorno » era stato presentato come definitivo. Qui, nella Commedia, è presentato come non
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Cfr., in questo senso, e per un esempio di ieri, G. Federzoni, Studi e diporti danteschi, Bologna 1902, pp. 73 ss., il quale ne trasse conclusioni circa la cronologia del « libello », che furono puntualmente discusse dal Barbi, La data della ‘Vita nuova’ e i primi germi della ‘Commedia’ (1903), in Problemi di critica dantesca, I, 99-112. E cfr., a p. 104, il forte dubbio avanzato a proposito del coordinamento della « mirabile visione » alla Commedia. Nella Vita nuova « abbiamo la promessa, determinata da una visione qualsiasi, di dire di Beatrice quello che mai non fu detto d’alcuna ». Nella Commedia, « un fatale andare ai regni ultraterreni, nella descrizione del quale il poeta ha modo, e come degnamente!, di attuare il suo proposito ». Ma cfr. anche, p. 107. Questo giudizio del Barbi, in sé stesso ineccepibile, potrà essere messo a raffronto con quel che (di diverso) è detto nel testo. Il coordinamento è pacificamente ammesso (« profezia di una profezia ») da G. Gorni, Alighieri Vita nuova, in Letteratura italiana. Le Opere, I, Dalle origini al Cinquecento, Torino 1992, p. 177. E cfr. F. Mazzoni, Nota introduttiva alla Vita nuova, Tallone, Alpignano 1965.
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più che provvisorio: a tal punto che ad esso tenne dietro un nuovo congedo. Lungi dall’aver dedicato il resto della sua vita a dire di Beatrice quel che mai, per nessun’altra donna, altri avesse detto, Dante si « smarrì » nella « selva oscura » del peccato. La « visione » svanì. Beatrice fu di nuovo, e più gravemente, dimenticata. E su questo deve insistersi. Se mai a visitare le menti tornasse l’idea secondo cui Dante non poté, nel Convivio, aver alluso se non a una Vita nuova priva del « finale » che solo in un secondo tempo le aggiunse per renderla, con l’accenno alla « mirabile visione », coerente alla Commedia che ormai si era delineata nella sua mente, – ebbene, se questa idea tornasse, proprio Beatrice imporrebbe, con il suo discorso, di respingerne la tentazione. È lei infatti a suggerire quel che è stato osservato: e cioè che la « visione » di cui si dice nel libello giovanile non fu quale avrebbe dovuto; e da una di ben altra potenza era perciò necessario che Dante fosse visitato. Anche per questo aspetto, l’elemento che i due racconti, quello della Vita nuova e l’altro della Commedia, hanno in comune, non regge alla prova della differenza. L’elemento comune risiede soltanto in un sostantivo e in un aggettivo. È costituito dalla « donna gentile » che Beatrice non ricorda nel suo discorso, ed è tuttavia quella che, sollecita della sorte di Dante, le si rivolse perché provvedesse alla sua salvazione. È fornito dunque, questo elemento comune, da Lucia, che anch’essa è definita « gentile »; ed è quella che, « nimica di ciascun crudele », si mosse dal suo e « venne al loco » dove, con Rachele, Beatrice si « sedea » 109. Ma basta che dalla « gentilezza » l’occhio trascorra a considerare l’essenza della sua sollecitudine perché, subito, la differenza faccia valere i suoi diritti. Il « luogo » dove le due donne, Lucia e Beatrice, si trovano è il cielo. E a differenza della « donna gentile » che, nella Vita nuova, soccorse Dante con la premurosa gentilezza del suo sguardo, e al pari di quella che interviene nel racconto del Convivio, questa non è una donna umana, sebbene anche da quest’ultima differisca in modo radicale. La « donna gentile » del Convivio è il simbolo della filosofia. Lucia è una santa del Paradiso. Si aggiunga, perché il quadro riesca completo nelle sue differenze, che, diversamente dalla « donna gentile » della Vita nuova, Lucia non è una rivale di Beatrice. È una sua collaboratrice nell’opera di redenzione, alla quale, senza che all’inizio Dante ne sapesse alcunché, dette l’avvio. Se perciò, per un verso, anch’essa è, in quanto
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Inf.
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soccorritrice, affine alla « donna gentile » della Vita nuova, per un altro tanto più ne differisce quanto meno potrebbe essere considerata come una causa, magari involontaria, di smarrimento o, addirittura, di traviamento. Né del resto potrebbe mai dimenticarsi e passarsi sotto silenzio che, nella valutazione della sofferenza e del rischio mortale a cui Dante era stato esposto dal peccato che l’aveva condotto sulla « fiumana ove il mar non ha vanto », Lucia non differisce in nulla da Beatrice. E come potrebbe? È lei che dall’alto osserva il dramma in cui Dante è stato coinvolto. È lei che ne misura le pericolosità e che considera senza speranza la battaglia che, da solo, era impegnato a sostenere. E con questo si torna a una questione, quella della natura intrinseca al « peccato » di Dante, che già fu delineata nei suoi termini essenziali, e deve ora, comunque, essere riformulata e pensata di nuovo. Agli occhi di Lucia, e quindi di Beatrice, il peccato di Dante è tanto meno riferibile a episodi specifici della sua biografia quanto più il gioco drammatico inviti il lettore a ricercarveli e a ritrovarveli. Il peccato di Dante fu causa, ed effetto, di perdizione, di autentica perdizione. E tanto più la sua radice consistette nell’infedeltà alla memoria di Beatrice, quanto più la morte che l’aveva sottratta al suo amore avrebbe pur dovuto insegnargli quale conto fosse da farsi di ciò che quaggiù passa, e non dura. È un argomento, quello di Beatrice, che si svolge quasi sul filo di un paradosso: e se ’l sommo piacer sì ti fallìo per la mia morte, qual cosa mortale dovea poi trarre te nel suo disio? Ben ti dovevi, per lo primo strale de le cose fallaci, levar suso di retro a me che non era più tale. Non ti dovea gravar le penne in giuso, ad aspettar più colpi, o pargoletta o altra vanità con sì breve uso 110.
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E la favola che ne viene narrata è quella della vanità dei beni mondani, dell’illusione che fra questi, e con questi, possa trovarsi la felicità. Se, nella sua vita mortale, persino Beatrice aveva dovuto soggiacere alla legge della vanità e dell’illusione, perché non trarre di qui la semplice e coerente lezione? Perché non rivolgere lo sguardo al cielo, soltanto al 110
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Par.
XXXI
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cielo; e a quanto pur si svolgesse quaggiù non concedere se non l’importanza che in effetti merita? Ma a questa lezione Dante non aveva saputo prestare ascolto; e di gradino in gradino era sceso così in basso che soltanto attraverso l’esperienza radicale del male avrebbe poi potuto, con l’aiuto di Dio e degli strumenti da lui provvidenzialmente disposti, risalire in alto e purificarsi. « Tanto giù cadde, che tutti argomenti / a la salute eran già corti,/ fuor che mostrarli le perdute genti » (XXX 136-38). A due questioni, se è così, deve darsi il conveniente risalto: l’una e l’altra connesse al radicale estremismo del concetto a cui Beatrice ispirò il suo discorso accusatorio. La prima questione è quella della coerenza intrinseca al poema e, in generale, al pensiero di Dante. Una coerenza che certo, se a quel concetto si concedesse il primato e se ne facesse il criterio interpretativo dell’intero edificio, sarebbe tradita; e il suo luogo sarebbe con violenza occupato dal suo contrario. Se per « bene spirituale » s’intendesse infatti quello soltanto che ha il suo luogo nel cielo e che quaggiù non si ottiene se non volgendo in alto gli sguardi e le intenzioni, che ne sarebbe allora dell’eccellenza che pure, secondo Dante, deve riconoscersi alla felicità terrena e allo strumento, l’Impero, con il quale, nel segno della ragione dispiegata e per decreto divino, la si consegue? È ben vero, senza dubbio, e corrisponde a una delle tonalità fondamentali della seconda cantica, che il tema della vanità di quel che è mondano vi risuona con mesto e poetico accento; e basterà, al riguardo, pensare al canto di Oderisi e alla malinconia della fama che rapida fugge via (« la vostra nominanza è color d’erba,/ che viene e va ... » con quel che segue) 111. E chi potrebbe dimenticare i versi 13-18 del nono canto, bellissimi e altamente espressivi di questa idea della mente che, libera dal peso della carne, « a le sue vision quasi è divina »? Ma vera non è anche, per altro verso, la passione politica; che, certo, e lo si vide, predomina di gran lunga, nel Purgatorio, sul suo fondamento teorico, ma non tanto che non lo lasci affiorare e comparire per quel che è? Forse che, presente nel Convivio, ribadita e approfondita nella Monarchia, l’idea della felicità terrena che l’Impero universale garantisce al genere umano non è presente anche nella Commedia? Alla secchezza dell’alternativa che nel suo discorso Beatrice stabilì fra i beni spirituali, che non conoscono tramonto, e quelli mondani, intessuti di vanità e illusione, e al rilievo di incoerenza che, se fosse accolta come criterio di giudizio, ne
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deriverebbe all’insieme delle tesi dantesche, può provarsi a sfuggire mercé l’osservazione che non è il perseguimento, secondo le regole, della felicità terrena a generare di per sé la corruzione e il traviamento, perché sono piuttosto queste malvage potenze dell’umanità che, una volta che si siano prodotte nel segno comprensivo della cupidiglia, corrompono le regole e di quel che pure è lecito fanno cosa illecita. Senonché, evitata (forse), lungo questa via per certo non agevole e non segnata con il criterio della più rigorosa coerenza, la prima difficoltà, è inevitabile che si incorra in un’altra. Che è, per farla breve e per passare così alla seconda questione, quella che consiste nell’estrema dilatazione del « peccato » di Dante; che, come si è detto, nelle parole di Beatrice finisce per essere prospettato assai più come il peccato dell’umanità nel suo attuale momento storico, che non come il suo, specifico. A differenza della prima, che, al di qua di ogni argomentazione che si produca in vista del suo superamento, resta una difficoltà, questa seconda è tale solo se a Dante, in senso specifico, e alla sua vicenda biografica, il discorso di Beatrice sia riferito. A Dante, e non al simbolo che vi agisce e che, come si è detto, emerge nel suo tratto specifico attraverso la veemente estremizzazione dell’accusa. La difficoltà perde infatti questo suo carattere se, come pure è necessario, si considera quel che accade sulla soglia del Purgatorio, nella grande scena del rito penitenziale, con Virgilio che spiega all’angelo guardiano il perché del loro esser lì, e con Dante che, « divoto » si getta « a’ santi piedi », « misericordia » chiedendo e « ch’el m’aprisse »: con l’angelo, infine, che « sette P ne la fronte » gli « descrisse/ col punton de la spada » 112. I sette P incisi sulla fronte penitente di Dante sono i sette peccati capitali che dovranno essere via via lavati e cancellati lungo le balze del monte. E sono peccati suoi, di Dante, solo nel senso che, partecipe dell’umanità 113, egli ne condivide il destino: sì che può ben rappresentarla, coincidendovi e sciogliendovi la sua peculiare individualità, mentre sale verso la cima del monte, a quel modo stesso che l’aveva rappresentata nella sua discesa fra le « perdute genti ». Se è così, è evidente che, mentre alla prima delle due difficoltà, o questioni, è in ogni senso impossibile arrecare la nota della definitiva risoluzione, non altrettanto potrebbe dirsi della seconda. Che si risolve 112
Purg., IX 109-10, 112-13. A ragione, in riferimento a questi versi, il Pietrobono, II, 120, definì Dante « simbolo dell’umanità ». 113
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infatti se, con sobrietà, nel discorso di Beatrice si riconosca tuttavia l’ampiezza accusatoria; che stonerebbe se allo specifico « caso » biografico di Dante fosse riferita. Ma, sull’irresolubilità della prima questione, insistere è invece necessario. Stabilito l’assoluto primato dell’eterno sul contingente, e dei beni spirituali, che non conoscono tramonto, sulla vanità di quelli mondani, anche l’Impero che, sebbene voluto da Dio, è pur sempre cosa di quaggiù, verrebbe ad essere incluso nel loro ambito. E con un effetto tanto più singolare e stridente in quanto è per altro verso innegabile che, se è nella storia che quello prende corpo, come potrebbe dimenticarsi che questa è lo strumento della provvidenza che ne realizza il senso? Ne deriva, da questo punto di vista, la sostanziale ambiguità, o l’irrisolta tensione, che in Dante, o anche in lui, il concetto della provvidenza chiude in sé e rivela: dal momento che, per un verso, essa pone il mondano come mondano, ma, per un altro, invece, lo consacra, e in questo atto vi distingue l’apparenza dal senso, quel che appartiene al tempo, e vi si rende visibile, da quel che, operandovi, lo trascende nella direzione dell’eterno. Per un verso, consacra il mondano, e, nel segno del volere di Dio, la storia appare come storia « sacra ». Per un altro, richiama quest’ultima alla dimensione del mondano, del contingente; e le toglie quel che prima le aveva riconosciuto. Ancora due considerazioni; e su questo punto il discorso potrà considerarsi concluso. La prima riguarda il tema autobiografico, il gioco sottile delle identificazioni, e delle sotterranee distinzioni, che, tornando sul racconto della Vita nuova, Dante condusse nell’intesserne la simbolica unità. Si dà innanzi tutto l’identità, che è sopra tutto differenza, delle tre donne gentili che compaiono nei tre excursus. Si dà, in secondo luogo, la differenza, rivelata dall’allontanamento da Beatrice, che una cosa è nella Vita nuova, un’altra nel Convivio, un’altra ancora nel Purgatorio, e, in genere, nella Commedia. La differenza risulta nettissima se si considera il racconto della Vita nuova e, quindi, il discorso di Beatrice nel Purgatorio. È come se, lo si è in parte già notato, tornando sull’opera giovanile scritta in sua lode e sul secondo capitolo del secondo trattato del Convivio, senza distinguere quel che richiedeva di esserlo, Beatrice in sostanza suggerisse che, come l’episodio della « donna gentile » e pietosa del giovanile libello significava in realtà ben altro da quel che la lettera lascerebbe intendere, così a profondità assai maggiori Dante avrebbe dovuto scendere per potersi sul serio proclamare suo. In poche parole: il discorso di Beatrice costituisce, in uno dei suoi sensi, e rende manifesta, la ragion d’essere della Commedia.
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La seconda considerazione riguarda l’ulteriore significato che l’allontanamento di Dante da Beatrice racchiude in sé. E per intenderlo, di nuovo dovrà insistersi sulla netta trasfigurazione universalizzante che, pur presenti alla radice del discorso, i dati essenziali della biografia di Dante subiscono nella dura rampogna pronunziata contro di lui sul vertice del Purgatorio. Questo ulteriore significato emerge se si considera che, elevata Beatrice, nella Commedia (e in particolare nell’allegoria dell’albero), a guardiana della fede, l’allontanamento da lei implicava che a essere stato abbandonato, e tradito, fosse stato, nella sua essenza più profonda, il Cristianesimo stesso. Guardiana della fede, Beatrice è anche l’eterna vincitrice dell’eresia, il lucente presidio innalzato nel cielo a difesa della verità contro i subdoli ritorni di quella. In questo senso, ma solo dopo essere stato innalzato a simbolo dell’umanità che, sprofondata nelle tenebre del peccato, faticosamente cerca, con il sussidio della grazia, le vie della salvezza e della redenzione, nella vicenda di Dante possono essere indicati aspetti ereticali. In questo senso. E non, dunque, perché, in quanto determinato e specifico individuo, egli si fosse fatto aperto e consapevole sostenitore di tesi eterodosse, e, sul modello di quel che il Boccaccio ebbe a scrivere di Guido Cavalcanti, di lui potesse dirsi che, da giovane, avesse cercato di dimostrare « che Dio non fusse » 114. Se ora, avendo l’occhio a quel che fu detto nel dare inizio a questa analisi, si consideri nel suo insieme il profilo che Dante tracciò della storia della Chiesa, non si può non rimanere colpiti dalla drastica negatività con la quale questa ne fu segnata. Una negatività che, se così potesse dirsi, emerge sia nella fase antecedente il suo vero e proprio inizio, sia in quella che poi ne conseguì. Dalla caduta dell’umanità nel peccato nato dalla colpa dei due suoi progenitori fino all’avvento di Cristo, l’albero fu spoglio: alto bensì, e imponente, ma arido, sterile di foglie e di frutti. Il che, se si considera quel che pur Dante pensava della « perfezione » raggiunta dalla storia umana nell’età che da Augusto va fino a Tiberio, non può non recare con sé ben più che una complicazione. Alla luce di quel che è detto nel trentaduesimo del Purgatorio, che giudizio dovrebbe darsi del momento della storia in cui, come si legge nel Convivio, il mondo era così ben disposto che il figlio di Dio poté discendervi a compiere la sua opera redentrice 115? Che, come
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G. Boccaccio, Decameron VI 9, 9 (ed. Branca, Torino 1980, p. 756). Conv. IV V 3 ss.
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a suo tempo si vide, fra l’« ottima disposizione » nella quale allora il mondo si trovava e il « peccato » a cui la « prevaricazione del primo uomo » l’aveva condannato possa esservi, o senz’altro vi sia, non perfetta congruenza, è vero. E a suo tempo ne ragionammo. Ma il contrasto, esso proprio, teneva fermo, dinanzi a quello negativo, il termine positivo; del quale sarebbe stato, quindi, impossibile dubitare. Per un verso, il mondo versava nel peccato, gli uomini si erano, per la colpa di Adamo, « disformati » da Dio; e per questo, per riconformare al creatore l’umana creatura, Cristo fu inviato in terra. Per un altro, tuttavia, il mondo era in « ottima disposizione », nella migliore, possibile disposizione. E per questo Cristo poté discendervi. Il che significa che, se non può dubitarsi del primo punto, nemmeno del secondo, e cioè dell’« ottima disposizione », si potrebbe. Ma, si ripete, alla luce di quel che è detto nel trentaduesimo del Purgatorio, in che modo all’anima agostiniana che Dante vi rivelò, potrebbe restituirsi la dimensione aristotelica che, con tanta forza, si era affermata nel Convivio? Non è forse vero che, nel quarto trattato di quell’opera, la storia dei Romani era stata delineata nel segno di ciò che è, non semplicemente umano, ma « sacro »? E sacro, deve aggiungersi, non soltanto per decreto provvidenziale, ma anche per le positive virtù alle quali, coltivandole nel loro petto, i Romani ispirarono il loro comportamento, in guerra e in pace, e virgilianamente si resero degni dell’Impero che poi infatti conseguirono? Forse che non è così? Certo che è così. E, si ripete, nella prima parte di questa indagine, ne ragionammo. Eppure, è anche vero che, vinto dall’urgenza della polemica, signoreggiato dalla passione, persuaso che, non solo nell’età precristiana, ma anche in quella che il sacrificio di Cristo aveva illuminata, l’umanità avesse deviato dal giusto cammino per tener dietro ai beni mondani indicati dalla cupidiglia, per la storia dei Romani, per la loro virgiliana dolcezza, per il grande Impero che ne conseguì, in questo canto Dante non ebbe occhi. In questo canto, e lo si è visto, l’Impero compare solo come persecutore della Chiesa, per un verso. Come il suo involontario corruttore, per un altro. E la prospettiva della storia, delineata nel Convivio, radicalizzata e approfondita nella Monarchia, presente, di scorcio, in altre parti della Commedia, vi è, in sostanza, dimenticata. Non che, anche per quanto concerne la storia della Chiesa, in linea generale, e ponendosi al di fuori del quadro apocalittico potentemente delineato nel trentaduesimo del Purgatorio, Dante non sapesse volgere lo sguardo nella direzione di coloro che pur avevano cercato di resistere alla negativa potenza della corruzione, di combatterla, di opporle l’esem-
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pio della loro combattente santità. I canti undecimo e duodecimo del Paradiso sono, fra le altre cose, dedicati alle due figure che, nel modo più puro e radicale, rappresentarono questa linea di resistenza, la grande alternativa virtuosa alla decadenza e alla corruzione. Sono san Francesco e san Domenico: l’uno « tutto serafico in ardore », l’altro che « per sapienza in terra fue/ di cherubica luce uno splendore » (XI 38-39). Il primo, che per « amante » prese la Povertà, in modo tale che « la lor concordia e i lor lieti sembianti/ amore e maraviglia e dolce sguardo/ facìeno esser cagion di pensier santi » (vv. 76-78). Il secondo, che fu « l’amoroso drudo/ de la fede cristiana, il santo atleta/ benigno a’ suoi e a’ nemici crudo » (XII 55-57). Che, per altro, pur elevandole entrambe ai vertici della perfezione cristiana, sopra tutto alla figura del primo, di san Francesco, Dante fosse sensibile, è forse provato dalla concordanza che, per quanto concerne la storia della Chiesa e il giudizio che dovesse darsene, può notarsi fra la sua concezione e quella degli spirituali francescani e dei gioachimiti. Concordanza non significa per altro identità 116. La simiglianza, 116
Mi riferisco sopra tutto agli studi più volte citati del Manselli, del Capitani, e di altri che già sono stati o saranno in seguito ricordati; e a quanto dalla loro dottrina ho appreso su Pietro di Giovanni Olivi e Ubertino da Casale. Ma è giusto intanto non dimenticare quel che al riguardo scrisse il Davis, Dante and his Idea of Rome, Oxford 1957, pp. 195-235, 236-38. – Non prendo qui in esame la questione, tuttora indecisa e assai controversa, della possibile, e probabile, frequentazione da parte di Dante (che potrebbe avervi accennato nel passo del Convivio, II XII 7) delle « scuole » di Santa Maria Novella e di Santa Croce (cfr. ora, da ultimo, il dotto articolo di S. Piron, Le poète et le théologien. Une recontre dans le Studium de Santa Croce, « Picenum seraphicum », n.s., 19 (2000), pp. 87-134: ma non si dimentichi il riepilogo offerto da Ch. T. Davis, La scuola al tempo di Dante, ED, V, 106-109). – Nemmeno rientra nei limiti di questo discorso la determinazione delle influenze che su Dante esercitarono i temi « spirituali » e gioachimitici; e che sono innegabili, o non negabili, almeno, alla maniera dei Barbi. Del resto, il rilievo dato alla presenza, nella sua opera, di questi temi, risale assai indietro nel tempo; e basti pensare a quel che si legge nel libro di F. X. Kraus, Dante. Sein Leben und sein Werk, sein Verhältniss zur Kunst und Politik, Berlin 1897, pp. 47580, 736-46; e qui, in Italia, non solo nelle cose del Tocco, ma anche nel saggio, pressoché dimenticato per questo riguarda, di V. Cian, Sulle orme del Veltro. Studio dantesco, Messina 1897, pp. 19 ss., che traeva per altro la sua informazione da J. von Döllinger, Kleinere Schriften, Stuttgart 1890, pp. 451-558, e Dante als Prophet (1887), negli Akademische Vorträge, I, Nördlingen s.d., pp. 78 ss. Ne parlò anche E. G. Parodi, « Bull. soc. dant. », 12 (1903), pp. 97-117. E si vedano poi per il nesso con l’Olivi e con Ubertino, le osservazioni di U. Cosmo, L’ultima ascesa, n. ed., Firenze 1969, pp. 121 ss., 141 ss.; di E. Buonaiuti, Dante come profeta, Modena 1936, pp. 147-50 (e anche Gioacchino da Fiore. I tempi, la vita, il messaggio, Roma 1931, pp. V-XI; H. Grundmann, Dante und
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per esempio, che è stata riscontrata e notata fra « parole » della Commedia e la Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi non comporta che quella debba e possa essere letta, intesa e interpretata entro l’ambito concettuale e teologico di questa. La veemenza della condanna non andava esente in lui da una quasi puntigliosa ricerca delle simmetrie, non per contrasto ma per concordanza. Si sa, per esempio, che il fulmineo, stupendo elogio di Sigieri di Brabante (« questi onde a me ritorna il tuo riguardo,/ è ’l lume d’uno spirto che ’n pensieri/gravi a morir li parve venir tardo:/ essa è la luce etterna di Sigieri,/ che, leggendo nel vico de li strami,/ sillogizzò invidiosi veri »: X 133-38) 117, è pronunziato in Paradiso da Tommaso d’Aquino, il suo grande avversario. E sarà ancora lui, Tommaso, un domenicano dunque, a fare l’elogio di san Francesco, mentre toccherà a un grande francescano, a san Bonaventura, recitare quello di san Domenico. Il che per altro non significa che la rivendicazione della grandezza di questi due santi sia da interpretare come se di lì dovesse provenire la tendenza a riequilibrare un discorso che troppo, nella sua accensione apocalittica, si era sbilanciato Joachim von Fiore zu Paradiso XI-XII, « Deutsches Dante-Jahrbuch », 14 (1932), pp. 210-36; L. Tondelli, Il libro delle figure dell’abate Gioacchino da Fiore, I, Torino 1953, pp. 350-56 (e cfr. Nardi, Dante e Gioacchino da Fiore, 1965, in ‘Lecturae’ e altri studi danteschi cit., pp. 278-280, e anche Pretese fonti della ‘Divina Commedia’ (1955), in Dal ‘Convivio’ alla ‘Commedia’ cit., pp. 354-56). – Per, in particolare, i rapporti fra Dante e l’Olivi, cfr. A. Forni, Pietro di Giovanni Olivi e Dante, ovvero il panno e la gonna, in Pierre de Jean Olivi (1248-1298). Pensée scolastique, dissidence spirituelle et société, a cura di A. Boureau e S. Piron, Paris 1999, pp. 341-73 (uno studio che potrà essere a pieno valutato quando l’autore avrà reso noto il risultato conclusivo del suo lungo lavoro). 117 Non è questa la sede nella quale ci si possa intrattenere sul significato degli « invidiosi veri » sillogizzati da Sigieri « nel vico de li strami ». Ma sembra evidente e incontrovertibile che, come ben dicono, per es., Sapegno, p. 915, Pasquini/Quaglio (La Divina Commedia, III, Paradiso, Milano 2001, p. 413), A. M. Chiavacci Leonardi (La Divina Commedia, III, Paradiso, Milano 1997, p. 229), « invidioso » ha qui valore passivo, e che il verso significa che i « veri » sillogizzati, ossia rigorosamente dedotti, provocarono a colui che li teorizzava l’invidia, e perciò, l’ostilità e la persecuzione dei teologi. È perciò sorprendente che uno studioso esperto come R. Morghen, Dante e Sigieri, in L’Averroismo in Italia (Atti del Convegno linceo, 40), Roma 1979, p. 62, abbia invece sostenuto che i « veri sillogizzati da Sigieri, cioè ridotti negli schemi rigidi del sillogismo scolastico, sono invidiosi e ciechi, in quanto non vedono le verità eterne ». Al Morghen basterebbe osservare, non tanto che Sigieri è in Paradiso (cfr., per es., Gilson, Dante et la philosophie, pp. 256-79), quanto piuttosto che, in questo contesto, il sillogismo deduce il vero che, per definizione, non può essere cieco, ossia falso! Cfr., in proposito, anche O. Capitani, Dante politico, in ‘Per correr miglior acque ... ’. Bilanci e prospettive degli studi danteschi alle soglie del nuovo millennio, I, Roma 1999, p. 62.
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nel senso della polemica e della condanna. Nel quadro dantesco, Francesco e Domenico sono anch’essi figure della polemica, esempi di bene e di virtù che a questa, alla polemica, conferiscono nuova energia, una voce ancora più persuasiva e profonda. Figure che, con la loro eccellenza, contribuiscono non già a riequilibrare il quadro nel senso della giustizia storica, ma a far risaltare ancor di più quel che nel vasto mondo della corruzione l’occhio di Dante scorgeva e condannava. Dante, del resto, questa natura aveva, non un’altra: e l’estremismo, l’oltranza, la violenza accecante della luce che, oscurando perciò il resto, faceva cadere su quel che più gli stava a cuore, non erano fatti per conferire equilibrio e disposizione storiografica alle sue pagine. Di qui anche la tendenza che, come si è visto e documentato, nella Commedia domina sovrana, a dar rilievo piuttosto alle invettive, alle condanne senza appello, ai lamenti, che non all’approfondimento di temi che pure, in diversi contesti, l’avevano ben ricevuto. Il che, del resto, si rende evidente anche nel Paradiso, anche nel sesto canto, il canto di Giustiniano, dell’aquila, dell’Impero. Un canto importante, senza dubbio, almeno quant’è difficile; e che, nella prospettiva di questa ricerca, si deve comunque cercar d’interpretare. Potrà sembrare segno di grettezza che, nell’accingersi al commento di un canto così solenne, tutto scandito nel segno della provvidenza, si cominci col rilevarvi un’assenza, un silenzio, e anche, in relazione alla precedente cantica, un’imperfetta (si badi: imperfetta) simmetria. Se nel Purgatorio l’accento era caduto sopra tutto sulle colpe della Chiesa e, sia pure per linee oblique e per accenni indiretti, la questione dell’Impero si era tuttavia delineata sullo sfondo dando segno di sé, qui, nel sesto canto e, in genere, nella terza cantica, è la questione dell’altra guida spirituale del genere umano, e della sua connessione con quella temporale, con il « documento », per dirla alla maniera della Monarchia118, filosofico, a ricevere debole attenzione. Per quanto riguarda la Chiesa, a prevalere è infatti l’invettiva; che, si rivolga contro l’avarizia dei chierici, contro i costumi dei moderni pastori (XXI 124-41), o, ancora, contro la decadenza degli ordini domenicano e francescano, esprime bensì una nota profonda e costante della mente e dell’animo di Dante, ma resta un’invettiva, qualche volta, come nel Purgatorio, una lamentatio, e non ritrova, perché non lo cerca, il contatto con i temi della riflessione fi-
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losofica e politica. Nel sesto canto si ha perciò la delineazione della storia provvidenziale dell’Impero, non la teoria della sua distinzione dalla Chiesa e del nesso che pur deve legare questa e quello. Una sola volta la Chiesa è nominata; ed è per ricordare il soccorso che essa ricevette, al tempo dei Longobardi, da Carlomagno 119, – non, come si è detto, per ricordarne e sottolinearne la funzione specifica nel quadro della storia umana. Allo stesso modo, se si pensa che, dopo la veloce e controversa battuta del secondo dell’Inferno, questo è il solo luogo in cui, nel poema, Dante tornasse, in forma esplicita e non contratta, sulla vicenda provvidenziale dell’Impero e del suo esser voluto direttamente da Dio, impossibile, anche qui, sarebbe non rilevare la completa assenza di ogni accenno che fosse relativo al pontefice romano: al luogo, insomma, « u’ siede il successor del maggior Piero » 120. C’è bensì (e come avrebbe potuto non esserci?) un accenno fulmineo, e consegnato a due versi bellissimi (« poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle/ redur lo mondo a suo modo sereno ») 121, alla disposizione del mondo al momento della discesa in terra del « figliuol di Dio »; ed è vero che l’accenno fu ripreso poco dopo, quando Dante disse della felice condizione conseguita dal mondo in seguito alla battaglia di Azio, e del vincitore di Antonio e Cleopatra, ossia di Ottaviano 122, con il quale l’aquila « corse fino al lito rubro » e « puose il mondo in tanta pace,/ che fu serrato a Giano il suo delubro » (vv. 79-81), per essere confermato e innalzato al più alto segno subito dopo:
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Ma ciò che ’l segno che parlar mi face fatto avea prima e poi era fatturo per lo regno mortal ch’a lui soggiace diventa in apparenza poco e scuro, se in mano al terzo Cesare si mira con occhio chiaro e con affetto puro; ché la viva giustizia che mi spira, li concedette, in mano a quel ch’i’ dico, gloria di far vendetta a la sua ira.
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Par. VI 93-96; « e quando il dente longobardo morse/ la Santa Chiesa, sotto le sue ali/ Carlo Magno, vincendo, la soccorse ». 120 Inf. II 24. 121 Par. VI 55-56. 122 VI 73-81.
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Vero, dunque, che all’ottima disposizione del mondo nel tempo che, da Augusto, va fino al « terzo Cesare », e cioè a Tiberio, anche qui Dante accennò, sulla provvidenzialità del quadro insistendo al punto che non solo alla divina vendetta del peccato di Adamo si riferì, ma anche all’altra, quella che, anche lui per decreto provvidenziale, l’imperatore Tito fece del « peccato » degli Ebrei con la distruzione del tempio di Gerusalemme 123. Vero è anche, tuttavia, che è proprio l’insistenza messa nel dar rilievo a questo momento, unico e supremo, della storia umana a far più risaltare l’assenza, nel quadro, del « loco santo » dove il successore di Pietro pose la sua sede. E vero è infine che all’attenzione concessa al tema dell’avvento di Cristo non fece riscontro l’altra che avrebbe potuto esser concessa a quello del papato romano che, invece, non ne ricevette alcuna. Difficile, per altro, di questa assenza e del correlativo silenzio, dare una spiegazione che non si risolva nel fattuale rilievo che così stanno le cose e che a questo loro « stato » il giudizio deve, dopo averne preso atto, inchinarsi. Chi, per contro, da questa assenza, e dal correlativo silenzio, intendesse ricavare la diversa conclusione che, attraverso la mancata menzione del papato, Dante volesse evitare che, nominandolo in questo contesto, le sue parole fossero interpretate come se avesse voluto insinuare che a quello il potere imperiale fosse non più che funzionale, e dunque subordinato, dovrebbe pur sempre ammonire sé stesso circa i rischi ai quali lungo questa via si esporrebbe. Del silenzio non è infatti lecito fare un dramma. Non è lecito pretendere di ricavarne una tesi. Come si diceva, l’assenza e il silenzio non possono se non essere constatati. Se, fra l’altro, al silenzio e all’assenza si pretendesse di assegnare un positivo valore, e un altrettanto specifico significato, occorrerebbe che, nel secondo dell’Inferno, la menzione del papato fosse interpretata come documento di guelfismo, in modo tale, appunto, che dalla non menzione fosse lecito e possibile ricavare il (tacito) superamento di quella posizione. Ma che nel secondo dell’Inferno Dante facesse professione di guelfismo fu, a suo tempo, dimostrato non vero 124. E così, anche per questa ragione, la conclusione non può mantenere sé stessa. Il silenzio resta silenzio. E l’assenza non è che un’assenza. Niente di ulteriore è lecito ricavarne.
123 VI 91-93. 124 Cfr. qui su
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Di un’altra assenza e di un altro silenzio, occorre render conto: ossia constatarli e porli, in quanto tali, in luce. E altresì occorre soffermarsi, brevemente, sul significato dei primi versi del canto, nei quali si allude a Costantino che « l’aquila volse/ contr’al corso del ciel/ ch’ella seguìo/ dietro a l’antico che Lavina tolse ». L’assenza e il silenzio riguardano la famosa donazione e la sequela dei mali di cui fu « matre ». E si spiegano forse, questa volta, con l’inopportunità che a menzionarla fosse un imperatore che, regnando sul mondo dalla nuova capitale dell’Impero, e cioè dall’Oriente, era il diretto erede della situazione che Costantino aveva determinata con il trasferimento del governo imperiale da Roma a Bisanzio. E, su questo punto, quel che si è detto forse può bastare: anche perché ogni volta che gli accadde di parlarne, a Costantino Dante imputò bensì il « mal frutto » nato dalla « buona intenzione », ma non dunque quest’ultima che, conseguenza, nel suo giudizio, della sua conversione al Cristianesimo, cattiva non poteva essere e, in quanto non cattiva, fu infatti, e senz’altro, buona. Anche il verso che, nel canto ventesimo del Paradiso (nel quale ci siamo per un momento trasferiti), si riferisce al suo essersi fatto « greco » (« per cedere al pastor si fece greco ») 125 e quindi al trasferimento sul Bosforo della sede imperiale, non sembra proprio che, nei confronti di quell’atto, contenga in sé un giudizio negativo: e s’intende, beninteso, il trasferimento, non la donazione. Il giudizio rileva infatti la punta della negatività se lo si riferisca, non all’imperatore, ma al pontefice, per « cedere » al quale, e cioè per compiacere alle sue subdole pressioni, il primo si fece greco, e se ne andò in Oriente. E, sopra tutto, questa punta negativa emerge nella implicita rappresentazione del perverso agire di un soggetto (il pontefice) che, per amore dei beni mondani, e per la fiamma della cupidiglia che s’era accesa nel suo cuore, fece sì che alla sua « voglia » l’altro cedesse. Quel che, se mai, deve anche qui notarsi è l’abissale differenza che, nel caso di Costantino, divise l’intenzione dal risultato, la purezza della prima dalla perversità del secondo. L’intenzione fu infatti, secondo Dante, pura; al punto che lo rese degno del Paradiso. Il risultato fu invece perverso. A partire dal momento in cui il patrimonio imperiale fu trasferito al pontefice, il mondo fu « distrutto » (v. 59). Ragioni serie di perplessità sono invece quelle che stanno alla radice dell’altra, e persino più grave, questione: quella, si vuol dire, che insor-
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ge quando ci si interroghi sul significato che, in relazione al volo provvidenziale dell’aquila, i versi iniziali racchiudono in sé. La questione è grave perché, anche se, com’è nettamente preferibile, al v. 2, « contr’al corso del ciel, ch’ella seguìo », si legge così, e cioè con « ella » in luogo di « la » 126, e s’intende perciò che non il corso del cielo « segue » il volo dell’aquila, ma è questo, il volo, a seguire il corso del cielo, resta che, a un certo punto, dopo essersi diretto da Oriente a Occidente, da Troia, insomma, ad lavina litora 127, l’uccello di Dio invertì la direzione del suo procedere, e da Occidente tornò in Oriente. Il che, certo, non darebbe luogo ad apprezzabili difficoltà se in questione fosse il volo di un semplice uccello che, per quanto munito di ali e di penne così maestose da farlo apparire un simbolo, può ben intendersi che possa, a un certo punto, invertire il senso del suo volo. Ma ne solleva certamente una non piccola dal momento che l’aquila è qui il simbolo dell’Impero, non un semplice uccello, e il suo volo non può mutare per una qualsiasi, empirica, circostanza; intrinseca a quello, o estrinseca, che si voglia considerarla. Per procedere nella direzione inversa a quella presa all’inizio, è necessario, in altri termini, che vi sia una ragione provvidenziale; e che questa sia, almeno nelle grandi linee, indicata come altrettanto necessaria di quella che aveva determinato il primo volo, da Oriente a Occidente. Una difficoltà, dunque, come si vede, non piccola. E destinata a ulteriormente complicarsi quando, tenendo fermo al concetto che provvidenziale è il volo dell’aquila, e diretto perciò e sorretto da Dio, ci si faccia a considerare quel che ne deriva. A derivarne è che, se il volo dell’aquila è in sé stesso provvidenziale, ed è perciò qualcosa come una metafora del concetto della provvidenza, per intero risolubile in, o coincidente con, questo, non si procederebbe allora nel segno del rigore se, distinguendo fra volo e provvidenza, si dicesse che quello è guidato da questa. Se il volo dell’aquila 126
Sulla questione, cfr. G. Petrocchi nella sua edizione della Commedia, IV, Paradiso, Milano 1967, p. 83. Il Sapegno, che nella prima edizione del suo commento aveva scelto la lezione la, preferita dal Casella, dette poi il consenso all’altra nella terza (III, Paradiso, Firenze 1985, p. 71): cfr. anche E. Paratore, Il canto VI del Paradiso (1956), in Nuovi saggi danteschi, Roma 1973, p. 202 n. 23. Ma vedi, per ulteriori discussioni, quel che è detto nel testo. 127 Verg. aen. 1, 2-3. Per lavina, invece di lavinia, secondo la netta indicazione di Servio (Lavina legendum est, non Lavinia) e contro la secunda manus del Mediceo indicante la seconda lezione accolta da Ermolao Barbaro, cfr. C. Dionisotti, ‘Lavinia venit litora’. Polemica virgiliana di M. Filetico, « Italia medievale e umanistica », 1 (1958), pp. 283-315. E cfr. il commento di E. Paratore a Virgilio, Eneide (I e II), Milano 1978, p. 128.
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non è che una metafora della provvidenza, allora è evidente che, distinti in questa, il volo e la provvidenza nel concetto non si distinguono. Ma se fra il volo dell’aquila e la provvidenza non si dà, nel concetto, differenza; se, a sua volta, il « cielo » può bene, in questo contesto, essere inteso come la stessa cosa di Dio e della provvidenza, dai quali solo in senso metaforico può distinguersi, la conseguenza allora è che l’autentica lectio difficilior non è « ella », e la facilior « la », ma è bensì questo concetto stesso che non può avere, nelle metafore, e nelle parole in cui si esprime, una resa che sia adeguata al suo rigore. Se quindi si assume che la lezione « la » sia da escludere, e a testo debba perciò figurare l’altra (« ella ») che s’è detta, la scelta è legittima solo se si considera che questa seconda lezione è più propinqua al concetto. Che se, al contrario, si dicesse che la lezione « ella » è preferibile perché è ben possibile che l’aquila segua il corso del cielo, ma non che sia questo a seguire il volo dell’aquila, non si direbbe bene. Si direbbe invece male, perché, come del cielo, così nemmeno dell’aquila può assumersi che « segua » alcunché. Cielo e aquila sono infatti, nel concetto, la stessa cosa. Poiché, d’altra parte, la differenza della metafora dal concetto, e di questo da quella, è determinabile in sede esagetica senza che, per altro, Dante ne abbia fornito il criterio, la vera questione consiste nel discendere di nuovo fra le metafore del testo e di decidere quale senso debba attribuirsi alla loro presenza. La vera questione consiste nel decidere se e fino a che punto le metafore si pongano sulla stessa linea del concetto, al quale alludono, non lo adeguano ma nemmeno lo tradiscono; o se, invece, e fino a che punto, nell’alludervi, anche tuttavia indichino una tal quale tendenza a divergerne. Quando, per esempio, Dante scrisse che, con la decisione costantiniana di trasferire in Oriente la sede dell’Impero, l’aquila prese a volare in senso inverso a quello che, nel segno della provvidenza, aveva seguito prima, ebbene che significato egli dava a questo « inverso » volo? Per un lato, infatti, è vero che, nel concetto, il volo dell’aquila e il cielo in cui questo si svolge sono lo stesso, tali altresì essendo in Dio e nel suo decreto provvidenziale. Ed è vero, dunque, quel che qui sopra si disse, e cioè che come aquila, cielo, provvidenza di Dio coincidono nel segno dell’identità, così non può dirsi, secondo il concetto, che si dia un cielo nel quale il volo dell’aquila si svolga. Ma, per un altro, è anche vero che nel testo si parla di un volo e di una sua direzione che, all’interno di un unico cielo, a un certo punto inverte sé stessa in modo tale che del punto d’arrivo fa un punto di partenza. Se è così, deve chiedersi: che cosa significa « cielo »?
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In riferimento all’uso che Dante ne fece all’inizio del sesto canto del Paradiso, in « cielo » possono distinguersi almeno tre significati possibili. Due appartenenti all’ordine del concetto. Il terzo, alla dimensione della metafora. In relazione al concetto, « cielo » significa, in primo luogo, la stessa cosa dello strumento di Dio, che, non residuando a questo, vi coincide ed è la stessa cosa di lui e del suo concreto atto provvidenziale. È il significato al quale già è stata prestata attenzione; e che, anche se nel testo rimanga implicito, non può tuttavia non esservi compreso. È infatti, necessariamente, un volo provvidenziale, da Oriente a Occidente, e da Occidente a Oriente, quello che l’aquila compie. « Cielo » significa, in secondo luogo, il suo movimento specifico, che è circolare, per altro, non lineare, e destinato perciò in eterno a ritornare su sé stesso. In terzo luogo, invece, e qui a prevalere nettamente è il senso metaforico, « cielo » significa la stessa cosa del sole che, al pari dell’eroe troiano, da Oriente va a Occidente, e dalla Troade, dunque, raggiunge il litorale che poi fu detto romano. – Ebbene, se il significato di « cielo » si restringesse a quest’ultimo, e l’uso metaforico nettamente prevalesse su quello concettuale distinto qui su, la conseguenza sarebbe senza dubbio imbarazzante. Poiché provvidenziale e voluto da Dio è il volo dell’aquila, e, manifestandosi nella natura, non può accadere che lo strumento vada in senso inverso alla direzione che gli è stata conferita, ne consegue che alla metafora occorre mantenere il suo carattere, che consiste nella libertà (e irresponsabilità) che essa manifesta nei confronti del concetto. Che se invece alla metafora si conferisse il medesimo rigore che si dà a vedere nel concetto, la conseguenza sarebbe la contraddittorietà: dal momento che, il corso del sole essendo la stessa cosa della provvidenza, la sua inversione imporrebbe la irrazionalità; o, se si preferisce, la contradditorietà di una provvidenza che, in sé stessa, negasse la sua propria direzione. Ne consegue che né il concetto può essere pensato secondo la « logica » della metafora, né la metafora secondo la logica del concetto. Nell’espressione dantesca occorre dunque distinguere. E ribadire che se, non distinguendo ma contaminando, a prevalere sul concetto fosse la metafora, il discorso accennato nei primi versi del canto risulterebbe contraddittorio. Che se invece, com’è necessario, ai concetti si avesse la mente, e non alle metafore, nessuna contraddizione ne conseguirebbe. Alla luce del concetto, infatti, e occorre ripeterlo, il volo dell’aquila, che non è perciò un qualsiasi volo, si svolge all’interno della dimensione provvidenziale, che non è un cielo in cui liberamente gli uccelli volino. E la direzione della provvidenza è interna alla provvidenza, che non ha
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perciò una direzione geometricamente prospettabile come una linea che sempre prosegua sé stessa e non ammetta ritorni e inversioni. In questo senso è perciò evidente che il tratto di negatività che, fuorviati dalle loro personali opinioni, alcuni interpreti hanno creduto di ravvisare in questi versi 128, deve essere definito insussistente. In una visione rigorosamente provvidenzialistica qual è quella che, sempre, Dante ebbe in mente, è impossibile che un qualsiasi momento dell’accadere storico possa far eccezione al principio da cui dipende. È impossibile che possa disporsi contro il principio in ragione del quale l’accadere è l’accadere. Che, del resto, e converrà osservarlo prima di passare all’analisi specifica dei primi due punti, dai versi iniziali del canto non possa affatto dedursi che Dante considerasse come una maledizione, o una sciagura analoga a quella rappresentata dalla donazione di Costantino, il trasferimento della sede imperiale in Oriente, dovrebbe risultare evidente quando si considerasse che, per quante difficoltà egli incontrasse nel pensare la prima nel quadro della provvidenza divina, l’aquila era pur sempre l’« uccel di Giove »; e impossibile era che il suo corso non fosse voluto e determinato da Dio. La difficoltà che, per questa parte, Dante incontrava nell’assegnare ragione provvidenziale alla donazione di Costantino era intrinseca a questa concezione stessa; che la produceva, in effetti, ogni volta che di ciò che appare con i segni della più nera negatività dovesse invece mostrarsi la positività, nascosta ma reale. A rigore, come tutto ciò che nella storia si presenti con il volto del negativo, la donazione di Costantino non dovrebbe essere considerata altrimenti dalle « violenze » che, punteggiando la storia di Roma, sono violenze, e debbono tuttavia essere pensate all’interno del fine provvidenziale da cui non si distinguono e con il quale, invece, coincidono nel segno della positività. E se, per le note ragioni, passionali e polemiche, a Dante questo non riusciva, e la donazione di Costantino costituiva perciò ai suoi occhi qualcosa come l’origine della corruzione della Chiesa e di ogni sua deviazione dalla via segnata da Cristo, non perciò sarebbe giusto arguirne che la sua fede nella provvidenza fosse venuta meno e, con questa, anche si fosse estinta l’idea di razionalità che il relativo concetto reca con sé. Che è, viceversa, la conclusione a cui dovrebbe pervenirsi se, legando insieme la donazione di Costantino e il trasferimento dell’Impe128 Cfr., per es., Paratore, Il canto VI del Paradiso cit., pp. 166 (« il c. VI del Paradiso, il canto del Giustiniano, parla dei mali dell’Impero »), e 173 (« Dante considerava ‘illegittima e dannosa’ la sede orientale »).
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ro in Oriente, la negatività della prima fosse assegnata anche al secondo evento, e l’inversione del volo che a un certo punto l’aquila rese manifesto fosse perciò considerato come il segno dell’essere state, le cose del mondo, abbandonate da Dio alla potenza dell’irrazionale. Sebbene, per un verso, e se l’occhio si rivolga a una connessione che, essendo nelle cose, anche si ritiene che fosse e dovesse essere nella mete di Dante, possa apparire strano che da lui, che all’autenticità della donazione credeva, il collegamento non fosse stabilito, per un altro è ben comprensibile che le cose andassero così. E soltanto chi non arrivi a comprendere che alla storia dell’Impero era impossibile che Dante sottraesse la razionalità, e che per questo, in un modo o nell’altro, era inevitabile che egli la vedesse riflessa in ciascuna delle sue fasi, – soltanto chi non arrivi a comprender questo può sostenere che i duecento e più anni che l’« uccel di Dio » « ne lo stremo d’Europa si ritenne/ vicino a’ monti de’ quai prima uscìo », e cioè, si badi, gli anni che precedettero l’avvento di Giustiniano al trono imperiale, fossero segnati da negatività, non contingente, ma intrinseca. Qualunque cosa si ritenga che Dante pensasse, in termini di valutazione storica e politica, di questo esordio dell’Impero romano/bizantino, resta che non negativo dovette di necessità essere il giudizio che, in termini di valutazione provvidenziale, egli ne dette. Non avrebbe scritto, se così non fosse stato, che, « sotto l’ombra delle sacre penne », l’Impero « governò ’l mondo di mano in mano,/ e, sì cangiando, in su la mia pervenne » (vv. 7-9). Ebbene, pregiudizi degli interpreti a parte, dov’è la negatività? Le penne dell’aquila seguitano a esser « sacre » anche « ne lo stremo d’Europa ». E ne risulta chiaro perciò che, come il suo aver volato contro il corso del cielo, non significa (che sarebbe stato impossibile) aver deviato dalla disposizione provvidenziale della divina volontà, così è a quest’ultima che occorre tener ferma la mente senza lasciarsi prendere nel gioco ambiguo delle metafore. L’ultima considerazione che, a proposito dei versi iniziali del canto, e in particolare dei primi tre, si renda necessaria, concerne l’altro significato che può, in astratto, essere attribuito a « cielo »; che se coincide (è il primo e già visto dei suoi sensi possibili) con la provvidenza e, in ultima analisi, con Dio, non consente che si parli di movimento, e se di questo si assume che sia circolare, dà allora luogo a questi rilievi. Se circolare è il moto che il cielo compie, andare contro questo movimento non si potrebbe se il movimento contrario fosse considerato in tutto e per tutto coincidente con quello a cui è contrario (o si dice, almeno,
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che lo è). Questa coincidenza sarebbe infatti, identità; ma allora ai due movimenti, e al loro essere contrari, sarebbe impossibile riconoscere la nota della realtà. Oppure è coincidenza di due movimenti considerati come reali; ma allora è evidente che, nel coincidere con l’altro, ciascuno escluderebbe, con questo, anche sé stesso: dal momento che era con l’altro che si assumeva che coincidesse; e, in forza della coincidenza, l’altro non c’è. Ne consegue che anche questa seconda ipotesi riconduce alla prima; all’identità che la caratterizza e che, in quanto tale, rappresenta il punto ideale in cui i due movimenti contrari era stato assunto che coincidessero. Per rendere plausibile la contemporaneità di due circoli semoventi in senso opposto, occorrerebbe che la contemporaneità non fosse identità; e nemmeno coincidenza, perché identità, e solo identità, è l’esito logico a cui quella è destinata. Ma, per sfuggire all’identità e alla coincidenza, che è identità, per sfuggire al destino, che ne consegue, dell’immobilità, occorrerebbe che i due circoli fossero realmente due; e che perciò l’uno si inscrivesse nell’altro. In questo caso, per altro, la salvezza della coerenza sarebbe ottenuta a discapito del rispetto dovuto al testo di Dante, che non a questa ipotesi allude, ma a un volo che l’aquila compie in senso inverso a quello del cielo. Da quel che s’è detto fin qui emerge una conseguenza che, essendosi già manifestata, richiede tuttavia di essere ribadita con forza. Se, nel concetto e non nella metafora, provvidenza, cielo, volo dell’aquila sono termini equivalenti che, tutti, alludono al volere di Dio, e anzi vi si rivelano identici, ne discende che quel che, per un verso (per il verso, si vuol dire, della rappresentazione), va « contr’al corso del ciel », per un altro (che è quello dischiuso dal concetto), deve invece intendersi che vada non « contro », ma nell’unica direzione possibile, che è quella, appunto, indicata dal volere di Dio e coincidente con questo. Il volere di Dio si attuò infatti sia nel percorso che l’aquila tracciò quando dalla Troade volò ad lavina litora, sia quando, con percorso inverso, dall’Occidente tornò in Oriente per posarsi « nello stremo d’Europa ». I due percorsi debbono, infatti, e possono considerarsi opposti quando il loro segno sia tracciato sulla superficie piana di un foglio, sulla sabbia, su una lavagna, e lì la loro contradditorietà sia resa visibile. Ma ogni volta che si cerchi di ridurlo alla dimensione del rigore geometrico, o logico/ formale, il concetto della provvidenza, che qui tiene il campo, rivela la sua forte paradossalità. Nell’ambito dischiuso da questo concetto, la premessa del discorso non è assumibile nella forma del necessario e inevitabile contraddirsi di una direzione unica (la provvidenza divina) che
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perciò si pretenda abbia in sé, e nella sua unicità, due opposte direzioni. La premessa del discorso è invece l’insondabile volontà divina, la quale culmina ai nostri occhi nel paradosso secondo cui quel che per la rappresentazione geometrica, o logico/formale, è contraddittorio, nella logica intrinseca a quella volontà, è nient’altro che il suo insondabile abisso. Nel quale è ben possibile che a realizzarsi sia l’« impossibile » della contraddizione che si rivela quando in un’unica accezione siano immanenti due direzioni opposte; e che è in effetti non già il realizzarsi logico della contraddizione (perché è impossibile che l’impossibile non sia impossibile e si realizzi), ma soltanto il paradossale trasferimento all’insondabile di ciò che, per sé, è impossibile che abbia quel carattere. Ne fosse o no fino in fondo consapevole, a questo aspetto della concezione provvidenzialistica che anche era sua Dante fu costretto a riferirsi nei versi iniziali del sesto canto. Versi difficili a intendersi; assai più, comunque, di quanto l’espressione questa volta non comportasse. Una difficoltà nuova si muoveva infatti nel loro fondo. Finché, nel Convivio e nella Monarchia, aveva dovuto conferire dimensione provvidenziale alla storia di Roma e alle fasi attraverso le quali era culminata nell’Impero; finché il punto più alto di questo processo era stato, per le note ragioni, collocato nella condizione di cose che s’era venuta a determinare nell’età di Tiberio, difficoltà non erano insorte. Tutto, infatti, si era mantenuto in un unico quadro. Al ritorno dell’aquila in Oriente Dante aveva potuto, in quelle opere, non prestare attenzione, perché altro, mentre le scriveva, si agitava nella sua mente. In effetti, nel Convivio e nella Monarchia non solo Giustiniano non è mai citato, nemmeno per incidens. Ma a non esserlo sono, al pari di lui, tutti gli imperatori che, in Occidente prima e poi in Oriente, successero a Tiberio: l’unico in effetti, se si eccettua Tito, a essere ricordato con Giulio Cesare e Ottaviano Augusto, ma solo perché, con lui, il mondo aveva assunto la forma richiesta per la discesa in terra di Cristo. Anche di questi tre non accadde infatti che Dante dicesse di più. E nessuna impresa che essi pur avessero compiuta per rendere l’Impero idoneo al prodursi di quell’evento unico ed eccezionale fu ricordata per sé stessa e per la sua storica peculiarità. Forse perché non sono presenti nel grande quadro della agostiniana Civitas dei 129, che, quanto più se ne allontanava, di altrettanto Dante aveva in mente. Ma certo è che a essere ricordati in
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Civitas Dei 5, 18; e cfr. E. Moore, Studies in Dante, I, Oxford 1896, pp. 187-89.
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questa sua apoteosi dell’Impero romano sono, non coloro che lo ressero, lo governarono, lo ampliarono, ma quelli piuttosto che di lontano lo prepararono e, senza che si proponessero di realizzarlo, di fatto lo resero possibile. Non gli imperatori, dunque, che, a parte i primi tre, sono tutti ignorati; ma, oltre i re, gli eroi dell’età repubblicana, da Giunio Lucio Bruto a Fabrizio, ai Deci, ai Drusi, a Cincinnato, a Catone, e così via 130. Eroi che, del resto, anche nel sesto del Paradiso sono presenti: come presenti sono gli exempla delle Sabine e di Lucrezia, della quale, a differenza che nel Convivio e nella Monarchia, dove ne tacque Dante sottolineò « il dolor » (v. 41), la sorte infelice 131. Ai tre imperatori, il cui nome ricorre nel suo testo, Dante aggiunse Tito; che completò in effetti la loro opera, ed era necessario perciò che venisse citato, perché, come quelli fecero quel che s’è detto e consentirono che del « peccato antico » si prendesse vendetta, così a lui di questa fu a sua volta dato di far vendetta, con la grave punizione inflitta agli Ebrei e al loro tempio in Gerusalemme 132. Per quanto riguarda il resto, il grande salto che Dante compì quando da Tito passò a Carlomagno, e da questo, se si vuole, ai Guelfi e ai Ghibellini, è certamente, nei riguardi di un normale racconto storico, un grande salto. Ma, per un verso, non è vero che, compiendolo, Giustiniano, ossia il personaggio che nel sesto canto narra le imprese dell’aquila, finisse per fare paradossalmente sparire nel grande baratro che il salto rivelava la sua stessa opera 133. Di questa, anche se non esaurientamente, aveva infatti parlato all’inizio, quando, appunto, accanto alla grande impresa della riforma dei codici, e alle operazioni militari condotte in Italia dal « suo » Belisario, aveva ricordato la correzione che il « benedetto Agapito » aveva eseguita delle sue false opinioni relative alla natura del Cristo 134. Per un altro, non dovrà credersi che qui Dante intendesse narrare per filo e 130
Nell’elenco compilato in Mon. II V 9 ss., mancano Manlio Curio Dentato, Muzio Scevola, Tito Manlio Torquato, i Drusi, Camillo, ricordati invece in Conv. IV V 1314. Ma non credo che debba nascerne un problema. 131 Che, a proposito di Lucrezia e del suo suicidio, Dante ignorasse del tutto, in questo caso, ossia non ricordasse in questo canto, la complessa discussione che ne fece Aug. civ. Dei 1, 16-27, non sorprende. Altro qui era il suo intento; e, nel suo racconto, Lucrezia ha non più che una funzione periodizzante. Sul « mal de le Sabine » (v. 40), cfr. S. Mariotti, Sul canto VI del Paradiso (1972), in Scritti medievali e umanistici, Roma 1976, p. 101, con la citazione di Aug. civ. Dei 3, 13. 132 Par. VI 92-93. 133 Come sostiene invece, a torto, il Paratore, op. cit., p. 173. 134 Par. VI 10-27.
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per segno la storia di Roma: dalle origini troiane fino ai suoi giorni. Altro, e posto che di narrarla, quella storia, fosse stato in grado 135, era il suo scopo; e con l’occhio rivolto a questo, il suo quadro dev’essere valutato cogliendone, come fin qui si è tentato, le peculiarità. Perché poi proprio a Giustiniano Dante pensasse di dover affidare il compito di questa concisa, eppure grandiosa, rievocazione della storia di Roma, non è del tutto agevole dire. Ma, per quel che può ricavarsi dal modo stesso in cui la sua figura è presentata, forse non si va troppo lontano dal vero se si assume che la scelta di lui fu determinata dal suo essere, in quanto restauratore del profilo giuridico dell’Impero, un modello più che mai attuale per chi anche era atteso dal compito di restaurarlo, e, in quanto leale collaboratore del pontefice nelle cose concernenti la fede, un esempio; che tanto più avrebbe dovuto valere per tutti: laici ed ecclesiastici, imperatori e papi. Il percorso non sempre agevole che si è compiuto attraverso la seconda cantica e il sesto canto della terza, è valso, senza dubbio, a mettere in chiaro qualche luogo che di meglio esserlo ancora, forse, richiedeva; e anche a mostrare quella che è ormai una ferma convinzione dello scrivente. E cioè che se nel Purgatorio, e poi anche nel Paradiso, le passioni si decantano senza perdere vigore, e da personaggio, protagonista e antagonista, di un violento dramma politico e morale Dante sale al di sopra delle contese, per coinvolgerle tutte in un giudizio che riguarda tutti perché ha di mira la decadenza delle istituzioni, mondane e religiose, non perciò alla definizione teorica delle questioni concernenti l’Impero, la Chiesa, il loro filosofico fondamento, le due ultime cantiche forniscono un contributo tale da rendere superfluo quel che si trova scritto nel Convivio e meno che mai, lo vedremo, nella Monarchia. Rispetto a quel che, sopra tutto nel primo e anche nel secondo libro di 135
Sui limiti della cultura storica di Dante rinvio ancora a Sestan, Dante e il mondo della storia, pp. 313-33. Ma a Giustiniano il Sestan accenna appena (pp. 329-30). Che a questo studioso la figura di Giustiniano apparisse « scialba », è un fatto; e si potrebbe su questo convenire con lui che, viceversa, ha certamente torto nel considerare « ricca la preparazione provvidenziale dell’impero » (p. 330). La « preparazione provvidenziale dell’Impero » è un concetto, non è una rappresentazione storica. E per quel che concerne il sostegno dei « fatti » dei quali Dante si servì per intesserne il concetto, è ovvio che non potesse essere se non quello che, con i limiti segnalati in essa dal Sestan, la sua cultura storica gli consentiva di fornigli. Ma il saggio del Sestan soffre di una tal quale angustia; e del senso della storia in Dante assai meglio, in generale, ragiona il Capitani, Chiose minime dantesche cit., pp. 115-34.
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quest’ultima opera, può leggersi, quanto sta scritto nella Commedia non consentirebbe mai, se quelle fossero andate perdute, di reintegrarlo. E non solo per il profilo giuridico e politico: anche per quello filosofico. Quel che Dante scrisse nel terzo capitolo del primo libro della Monarchia è pur possibile che, nel quadro complessivo della sua opera, rappresenti una sorta di oasi, non di pace, ma di radicale estremismo. Proprio per questo, tuttavia, proprio perché ha questo carattere ed esplica la sua funzione in un punto vitale della sua riflessione, come potrebbe farsene a meno? Come, se il documento non ne rimanesse, si potrebbe reintegrarlo e ricostruirlo? Questo, beninteso, non significa qualcosa come un’implicita svalutazione della Commedia. Una simile sciocchezza non passerebbe per il capo nemmeno del più ottuso codificatore di concetti, del più mortificante cacciatore di formule. Il significato di quanto s’è detto sta, in realtà, in tutt’altro: ossia nella constatazione di quel che, per quanto riguarda la riflessione filosofico/politica, nella Commedia accade e prende rilievo. Sta nella constatazione del netto prevalere sui concetti, per quanto attiene alle questioni connesse con l’Impero e con l’intelletto, della passione. Nella Commedia, in effetti, mentre la teoria dell’Impero resta sullo sfondo, e solo indirettamente e per accenni dà segni di sé, le passioni si essenzializzano; e via via che narrano di sé stesse e si storicizzano attraverso il ripetersi delle invettive e l’inseguirsi delle lamentazioni, finiscono per delineare un percorso che è come una sorta di patetico controcanto di quel che, con aspra intransigenza, in altre sedi la teoria costruiva e indicava. Il fine ultimo della teoria era del resto, se il gran nemico è la cupidigia, è la sete di potere, è l’amore sfrenato delle ricchezze, l’estremo depotenziamento di questi vizi; che ingegnosamente, e sul filo di un lucido pessimismo, Dante riteneva che potessero essere vinti mediante, non la contrapposizione a essi della bontà, della virtù, dei supremi valori, ma il loro esaudimento, piuttosto, nella persona stessa dell’Imperatore che, tutto possiede, e niente più ha perciò da desiderare. Agiva, in questa sua idea, un’istanza antimoralistica che è necessario cogliere e mettere in luce; e anche la passione vi trovava posto. Ma, in un intreccio singolare, l’antimoralismo si combinava insieme con il più schietto intellettualismo; e in questo trovava espressione, in questo si sublimava. Dante era troppo persuaso del carattere ascendente e progressivo delle istituzioni statali, e del valore catartico assegnato all’Imperatore, per poter dubitare di tutto questo. Era troppo fiducioso nella forza di siffatte gerarchie concettuali e spirituali per poter nutrire il sospetto che, lungi dall’estinguersi in tutti in ragione del
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loro essersi estinte nell’anima dell’Imperatore, tanto più le passioni, le cupidigie, le brame esasperate della ricchezza e del potere, avessero a risorgere nell’animo dei sudditi che, privati di ciò che quello invece possedeva, perché non avrebbero essi dovuto e potuto farne oggetto di invidia, di desiderio, e perciò di ribellione? Alla massima concentrazione corrispondendo la più radicale privazione, come poteva escludersi che da questa, e dallo stato d’animo che determinava in chi era costretto a subirla, avesse origine la brama più devastante? Lungi perciò dal rappresentare l’estinguersi del desiderio attraverso la pienezza del suo appagamento, la teoria di Dante avrebbe potuto mostrare un volto tanto più inquietante quanto meno aspettato, e tanto più paradossale quanto meno voluto; e rivelare perciò in sé stessa la presenza di un pensiero diverso da quello che in essa si riteneva che fosse stato pensato: il pensiero, non dell’ordine, della felicità, della pace, ma, al contrario, di tutto ciò che contribuiva al sovvertimento dell’ordine e della pace, alla distruzione di ogni possibile felicità. A pensieri come questi, a dubbi così inquietanti, Dante tuttavia non dette spazio. La teoria era, nelle sue parti più segrete, meno dichiarate, meno esplicite, diretta a una sorta di neutralizzazione della politica, intesa come scontro e passione dallo scontro; e dalla neutralizzazione, dalla negazione di cui era fatta oggetto, quella, la politica, risorgeva, con il suo volto ferito, con la terribile violenza che Dante aveva sperimentata sopra di sé e che tanto più perciò, in un sogno grandioso e ingenuo, intendeva debellare. Di tutto questo, ossia di avere di nuovo aperto il varco a quel che più desiderava annientare, Dante non si accorse mai. Era convinto, profondamente convinto, del contrario. Per questo, e nel segno della più stringente necessità, era inevitabile che la teoria aristotelica, e in alcuni tratti averroistica, della politica, trovasse il suo compimento in un mito: quello della Firenze antica, delineato nei tre canti di Cacciaguida. Un mito che come un solenne fiume poetico trovò innanzi tutto espressione nei tre canti dedicati da Dante al suo antenato. Ma che anche nella funzione sua di mito dev’essere colto e valutato. Via via che l’aspra, solitaria, nobile e insieme rabbiosa, riflessione che, mentre l’esilio alimentava nel suo animo l’amore e l’odio, il rimpianto e l’orgoglio della solitudine, Dante svolgeva con implacabile tenacia, i sentimenti nel suo animo si intrecciavano, passavano l’uno nell’altro, erano sottoposti a qualcosa come un’incessante metamorfosi. E come l’odio, il rancore, l’amarezza che erano in lui gli ingiungevano di elevare la « città partita » a simbolo di ogni male, così l’amore e il rimpianto facevano sì che,
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ripercorrendo all’indietro la sua storia, egli scavalcasse il momento doloroso e cruento dal quale questa aveva preso il suo inizio, e procedesse verso il mondo delle origini, verso il tempo felice in cui, non la corruzione, ma la sobria virtù aveva governata Firenze. Nel marzo 1315, o giù di lì, all’amico fiorentino che aveva auspicato e forse proposto il suo ritorno a Firenze, Dante aveva risposto che non vi sarebbe rientrato se non alle condizioni che a lui parevano le sole accettabili e non lesive del suo onore di cittadino. Altrimenti no. « Non est hec via redeundi ad patriam, pater mi; sed si alia per vos ante aut deinde per alios invenitur, que fame Dantisque honori non deroget, illam non lentis passibus acceptabo; quod si per nullam talem Florentia introitur, numquam Florentiam introibo ». E subito dopo, stupendamente: « quidni? Nonne solis astrorumque specula ubique conspiciam? Nonne dulcissimas veritates potero speculari ubique sub celo, ni prius inglorium, ymo ignominiosum populo florentino, civitati me reddam? Quippe nec panis deficiet » 136. Ma per quante stelle gli fosse dato di contemplare pur che avesse sul capo un cielo a cui levare gli occhi, Firenze era sempre lì, nella sua fantasia e nel suo rimpianto. E poiché la via dell’entrarvi era impedita, egli ne costruiva un’altra che, invece, gli consentiva e anzi gli chiedeva che vi entrasse. Una città diversa da quella in cui aveva vissuto e sofferto; che era tuttavia pur sempre quella; una città più piccola, meno ricca, chiusa entro la « cerchia antica », presidio di onestà e di virtù. Alla Firenze nata dalle lotte e dagli odi, dai bandi e dagli esili, dalle vendette, dal delitto che in Buondelmonte de’ Buondelmonti punì l’oltraggio recato alla famiglia degli Amidei e per sempre la divise in due, Dante contrapponeva così il mito di una città virtuosa, in cui uomini onesti e donne costumate avevano vissuto contenti di quel che avevano. E la sua non era soltanto una contrapposizione fondata sull’eterno tema del rimpianto temporis acti, di quel che era stato e non era più. Non era soltanto il paragone istituito fra la purezza dell’origine e la decadenza che sempre più aveva segnate le fasi successive della sua storia. Non era soltanto l’alternativa che egli stabiliva fra la storia reale di Firenze e la sua storia possibile, fra quel che era stato e quel che avrebbe potuto essere. Era tutte queste cose, e poi anche altro: era il congiungimento del « possibile » virtuoso, che la realtà delle cose aveva impedito che si attuasse, con un possibile che di nuovo, tenacemente, gli brillava dinan136 Ep. XII 4, 9. Leggo populo florentino, civitati etc. (e non, come nell’ed. del 1921, populo florentineque civitati), seguendo E. G. Parodi, « Bull. Soc. dant. », 22 (1915), p. 143, e Frugoni (Opere minori, I, 596-97).
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zi agli occhi con quel carattere. Era, in altri termini, la ricerca di un nuovo inizio. Era la riapertura di spente potenzialità in un futuro non lontano, e che tale egli sperava che fosse. È vero che Dante guardava al passato di Bellincion Berti, e con nostalgia ripensava al suo andar « cinto di cuoio e osso », e al « venir da lo specchio/ la donna sua sanza ’l viso dipinto » (XV 112-113). È vero che, quanto quelli erano oggetto del suo amore e del suo rimpianto, di altrettanto egli odiava la Firenze di Cianghella della Tosa e di Lapo Saltarelli, personaggi inconcepibili al tempo di Cacciaguida quanto erano reali ai tempi suoi. Ma intanto, attraverso le forme ora passionali, ora teoriche, che di volta in volta la sua riflessione assumeva, il passato rifluiva nel presente avendo dinanzi a sé la dimensione del futuro. Del futuro che, nel fuoco delle sue passioni, Dante intendeva appunto, non come un’astratta possibilità, aperta a questa o a quest’altra, opposta, realizzazione, ma come ciò che presto l’Impero avrebbe compiuto nella sua forma, – nella forma della pace, innanzi tutto, trionfante sugli odi e sulle cupidigie. Non che nella sua coscienza il nesso fosse necessariamente chiaro, ed esplicito. Ma quando si legge la Monarchia e vi si ripercorre il tema della pace, quando ci si mette di fronte alla dolente, bellissima chiusa del primo libro: O genus humanum, quantis procellis atque iacturis quantisque naufragiis agitari te necesse est dum, bellua multorum capitum factum, in diversa conaris! Intellectu egrotas utroque, similiter et affectu; rationibus irrefragabilibus intellectum superierem non curas, nec experientie vultu inferiorem, sed nec affectum dulcedine divine suasionis, cum per tubam Sancti Spiritus tibi effletur: ‘ecce quam bonum et quam iocundum, habitare fratres in unum’ 137.
quando si legge questo passo, il pensiero va certo al grande lamento del sesto del Purgatorio, all’immagine dell’inferma « che non può trovar posa in su le piume » 138, ma anche, e sopra tutto, va alla Firenze di Cacciaguida, al suo colore tenue e autunnale, ai suoi uomini austeri, alle sue donne, delle quali « l’una vegghiava a studio de la culla,/ e, consolando, usava l’idioma che prima i padri e le madri trastulla; l’altra, traendo a la rocca la chioma, favoleggiava con la sua famiglia/ d’i Troiani, di Fiesole e di Roma » 139. 137 138 139
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Mon. I XVI 4. Purg. VI 150. Par. XV 121-126.
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APPENDICE Che quella del Veltro sia una profezia indecifrabile risulta, direi, con forza tanto più grande quanto più la considerazione e lo sfruttamento esegetico di alcuni dei suoi tratti dia, per un istante, l’illusione che il velo si sia squarciato e la figura appaia nella sua piena evidenza. Inutile ripercorrere e indicare le molteplici « soluzioni » che l’industria e, talvolta, l’immaginazione dei dantisti hanno proposte: basterà, al riguardo, rinviare all’articolo di Ch.T. Davis, ED, V, 908-12, e considerare brevemente le tre ipotesi che, malgrado l’impossibilità di conferire all’una il primato sulle altre due, hanno tuttavia, per sé stesse, elementi sufficienti di ragionevolezza. Il Veltro è un imperatore? È un pontefice? È un messo imperiale inviato direttamente da Dio perché realizzi lui quel che al primo e al secondo competerebbe di condurre all’attuazione? Difficile, in realtà, se non addirittura impossibile, che il Veltro possa nascondere in sé un imperatore. Se la cupidigia rappresentata dalla lupa è quella, o anche quella, della Chiesa corrotta e insaziabile di beni mondani, come a prendersene cura, a combatterla e a vincerla potrebbe essere un imperatore: ossia il personaggio il cui compito è bensì di combatterla e di domarla, ma nell’ambito delle cose che sono di sua spettanza e delle quali non può oltrepassare il confine? Come, in effetti, mantenendosi all’interno del quadro dantesco, sarebbe concepibile un imperatore al quale fosse affidata la riforma moralizzatrice della Chiesa? Un imperatore, cioè, che, procedendo in senso inverso a quello tenuto da Costantino, sottraesse alla Chiesa il patrimonio che quello aveva alienato all’Impero e che, di cupidigia in cupidigia, questa sempre più aveva esteso? Occorre in effetti considerare che se illegittimo fu, per Dante (almeno quando scriveva la Monarchia) l’atto mediante il quale Costantino dette luogo alla sciagurata donazione, inconcepibile, perché inevitabilmente contesto di violenza, sarebbe stato, ai suoi occhi, quello opposto, volto a togliere e a sottrarre. E allora, com’è possibile che, nello scrivere il primo dell’Inferno e nel delinearvi la profezia del Veltro, Dante alludesse a un imperatore? Per ritenere possibile che questo accadesse, anche dovrebbe pensarci che, quando componeva quei versi e costruiva la sua profezia, l’idea che, sia pure nella sua forma più semplice, due, e l’uno indipendente dall’altro, sono i poteri a cui l’umanità affida il suo destino, nemmeno in aenigmate a Dante fosse balenata. Ma pensarlo è impossibile. Se è vero che nel quarto trattato del Convivio aveva dissertato dell’imperatore senza che alla guida spirituale del genere umano avesse avvertita la necessità di alludere, vero è anche che a questo silenzio egli dovette essere indotto dalla natura del quesito che aveva dato luogo alla « disgressione » concernente l’Impero. E vero è comunque che, come che si debba interpretarla, alle due guide l’allusione è, in Inf. II 16-24, più che chiara. Il Veltro, per conseguenza, non è un imperatore.
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Si deve, dunque, senz’altro accedere alla tesi che fu, fra i primi, sostenuta da A. D’Ancona, Il Veltro di Dante, in Varietà storiche e letterarie, II, Milano 1885, pp. 33-53, e secondo la quale nel Veltro Dante avrebbe adombrata la figura di un papa santo volto a restituire alla Chiesa la purezza che ben presto ne era stata perduta? Alla Chiesa: ma poi anche (e in questo punto l’argomento incomincia a rivelare la sua fragilità) alle « cose » politiche, inclinate, e più che inclinate, alla corruzione dalla vacatio Imperii? Non è infatti alla corruzione della Chiesa che, a quanto risulta dal contesto del primo canto, il Veltro deve metter fine. Ma a quella dell’intera umanità a cui la lupa impedisce l’ascesa al monte e, tenendovela prigioniera, la respinge « là dove ’l sol tace » (v. 59): non soltanto, dunque, alla corruzione intervenuta nell’istituzione ecclesiastica, bensì anche a quella operante all’interno dei corpi politici. E allora, si ripete, come potrebbe questo secondo compito essere assegnato a un pontefice? Si aggiunga che, a sostegno della tesi di quanti nel Veltro hanno visto, e vedono, il volto di un imperatore, potrebbe essere citato il v. 103 « questi non ciberà terra né peltro »; nel quale, e a notarlo fu, seguìto da V. Cian, Sulle orme del Veltro, Messina 1897, pp. 60 ss. (che per suo conto aggiunse, ma non del tutto a ragione, il passo dell’epistola ai Fiorentini (VI 25) in cui Arrigo VII è definito romane rei bajulus hic divus et triumphator [...], non sua privata, sed publica mundi commoda sitiens), A. Medina, La profezia del Veltro, « Atti e memorie dell’Accademia di Padova », 1889, p. 4 (dell’estr.), sembra trasparire il segno della tesi, sostenuta nel Convivio, e puntualmente ripresa nella Monarchia, secondo cui l’essere l’Imperatore privo di ogni cupidigia deriva dall’essere il suo potere, e il relativo possesso, limitati soltanto dall’Oceano. Ma, in questo caso, tornando alla tesi « imperialistica », anche si tornerebbe alle obiezioni che la rivelano insostenibile. Si dovrà dunque ripiegare sulla congettura che il Veltro non sia, propriamente, né un imperatore né un pontefice, perché piuttosto deve vedervisi un non meglio precisabile messo provvidenziale che, in linea d’ipotesi, tenga e dell’uno e dell’altro, e, nel segno unitario della distinzione, realizzi quel che, di per sé, appartiene e all’imperatore e al papa? Si avrebbe, se a questa ipotesi si conferisse la dignità di una tesi, una sorta di sospensione, di « messa fra parentesi », della teoria dei due poteri. La quale sarebbe bensì presupposta, ma nell’atto in cui, per particolari e non chiarite ragioni, anche la si abbandonerebbe per dar luogo a una figura ulteriore a quelle sia dell’Imperatore sia del pontefice, e da queste comunque diversa. Ma, a parte il forte disagio che dal suo accoglimento comunque deriverebbe, resta che, implicando una sorta di μεταξ imperial/pontificio, questa tesi reca visibile in sé il segno della più pura astrattezza. Essa si configura infatti come una costruzione intellettuale, nella quale l’impossibilità che il Veltro sia un imperatore, ed anche tuttavia un papa, è presentata come la possibilità che sia invece un tertium quid, reso concreto, rappresentabile e visibile nella figura di un messo divino. Donde poi forse, l’immaginazione andando al galoppo, la tendenza, che si è resa manifesta in alcuni studiosi, a vedere nel Veltro il Cristo della seconda parousia. Non è
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possibile, in questa sede, e da parte poi di chi non trovi di suo gusto l’abito interpretativo indossato e esibito da R. E. Kaske, Dante’s DXV and ‘Veltro’, « Tradito », 17 (1961), pp. 185-254 e da G. R. Sarolli, Prolegomena alla ‘Divina’ Commedia’, Firenze 1971, pp. 189-336, discutere nel dettaglio le interpretazioni, sostanzialmente convergenti, che ne furono proposte e che, come il Davis, art. cit., p. 911, ha ben osservato, riconducono, malgrado l’enorme dispiegamento di ingegnosità e lambiccate sottigliezze, all’antica glossa di Pietro Alighieri e di Benvenuto da Imola. Ma qualcosa può tuttavia osservarsi. Si aggiunga per esempio che se ovvio è, ed è stato in passato, il rinvio di questi versi dell’Inferno a Purg. XXXIII 43, non perciò a derivargliene è stata una migliore luce. Il « cinquecento diece e cinque », che persino al Pietrobono nel suo commento (Torino 1935, p. 442) parve un « vero e proprio criptogramma, rispetto al quale solamente è giusto ripetere che la ‘vera sentenza non si può vedere’ se l’autore ‘non la conta’ », resta, in effetti, un enigma. Spiegare la sua con l’allegoria del Veltro vale infatti quanto obscurum explicare per obscurum, anzi, per obscurius: il che, del resto, anche dovrebbe e potrebbe dirsi per il caso inverso. E passi, tuttavia, per il Pietrobono. Il quale, dopo aver posta questa savia premessa, a spiegare l’enigma non rinunziò; e solo si restrinse ad ammonire che non c’è ragione di derivarne il Dux (perché se questa ne fosse stata l’intenzione, Dante non avrebbe incontrata alcuna difficoltà a scrivere « cinquecento cinque e diece »), che egli interpretò, per altro, come, al pari del Veltro, un imperatore che, insieme alla « fuia » (v. 44), ossia al ladrocinio ecclesiastico, « anciderà » « quel gigante che con lei delinque », e cioè, com’è noto, il re di Francia. Dove, sia detto en passant e come fra parentesi, il campo d’azione del « cinquecento diece e cinque » sembra essere, se s’intende così, alquanto più ristretto di quanto non sia quello del Veltro, che all’intera umanità, e non soltanto al perverso « gigante » francese signoreggiante la Chiesa, rivolgerà il suo atto salvifico. Passi, dunque, per il Pietrobono. Ma deve osservarsi che se, riprendendo del resto le antiche glosse del Lana e dell’Ottimo, nel « cinquecento diece e cinque », e cioè nel DXV, alla maniera del Kaske e del Sarolli si vedesse e indicasse essenzialmente un « simbolo cristomimetico », e dunque l’annunzio della imminente seconda parousia del Cristo e della conseguente fine del mondo, la profezia si definirebbe bensì nel segno forte, e anzi fortissimo, dell’escatologia, ma poco comprensibili, o senz’altro incomprensibili, riuscirebbero i versi in cui è detto che il Veltro arrecherà salute all’« umile Italia », per cui « morì la vergine Camilla,/ Eurialo e Turno e Niso di ferute ». Forse che è verisimile che la « salute » dell’« umile » Italia Dante la indicasse nel finire del mondo che, nella sua rovina, trae con sé ogni parziale sofferenza? E, se tale fosse l’ampiezza dell’apocalisse annunziata dal Veltro, non avrebbe un rilievo pedantesco quel suo perseguire la lupa « di villa in villa » per ricacciarla infine « ne lo ’nferno,/ là onde ’nvidia prima dipartilla » (vv. 109-10)? In realtà, a sostenere l’idea di una così larga, e finale, apocalisse, non si dà, nei versi del primo canto, alcun
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indizio. E non c’è nessuna ragione che autorizzi a sostenere la tesi secondo lui, nell’allegoria del Veltro, è adombrata la seconda parousia del Cristo. Se è così, non solo con quanti hanno indicato questa via, è ragionevole concludere che, per la sua dura e voluta impenetrabilità, la profezia del Veltro non si lascia spiegare se non all’interno di un giuoco di ipotesi, l’una delle quale infirma l’altra, e tutte all’interpretazione recano ostacolo, ma deve dirsi qualcosa di più. A causa della sua oscurità, la profezia del Veltro non consente di dire né che la teoria della reciproca indipendenza dei poteri vi è contenuta, essendone tuttavia velata e resa non bene percepibile dal manto allegorico che l’avvolge, né che vi risulta velata e non ben percepibile in ragione del suo non essere ancora giunta, nella mente di Dante, a compiuta chiarezza interna. Al di là di questo, dubito che nell’interpretazione del Veltro allegorico possa andarsi: sempre che, beninteso, l’intenzione sia di pensarlo nel quadro delle concezioni dantesche, e non di farne il pretesto per un gioco contesto di acrobazie esegetiche più oscure, e senza alcuna seria, interna, ragione, di quel che il testo già di per sé non sia.
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Capitolo IV L’INTELLETTO E L’IMPERO
Il viaggio che abbiamo compiuto attraverso la Commedia e, in particolare, la seconda cantica, ha mostrato che, quando scriveva il poema, Dante era bensì, senza dubbio, in possesso dei princìpi essenziali del suo pensiero, sia filosofico sia politico, ma che, per quanto riguarda quest’ultimo, non aveva avuto modo di darne, insieme all’enunciazione, anche la argomentata dimostrazione. Sia la delineazione dei caratteri provvidenziali che riteneva dovessero riconoscersi nel corso della storia romana, sia la tesi relativa alla necessità razionale dell’Impero, erano rimaste, nella Commedia, entrambe in ombra: in modo tale che, anche rispetto al Convivio e al così detto excursus del quarto trattato, quel che si legge nel poema non possiede altrettanta compiutezza e fa supporre che tanto più fortemente, nell’animo dell’autore, si formasse il desiderio di riprenderlo e di svolgerlo in un discorso unitario quanto meno lì, nel poema appunto, a quest’ultimo fosse stato possibile dar corso. Si aggiunga che, dopo anni che quel tema gli stava in mente, il desiderio di assumerlo con decisione nella sua specificità e di arricchirlo, nello stesso tempo, dei tanti pensieri che la passione stessa dell’esilio aveva resi maturi in lui, dovette esso pure farsi tanto più profondo quanto più chiara gli apparisse la parzialità di quel che aveva scritto nel Convivio e, per ragioni diverse, nella stessa Commedia. Di qui, forse, assai più che da occasioni offerte dalle vicende della storia politica, la composizione della Monarchia, ossia di un’opera che, comunque si ritenga di doverla interpretare, si presenta con il tratto indiscutibile, non solo della compiutezza formale, ma anche dell’impegno argomentativo; che forse non si sarebbe nel torto se addirittura lo si assumesse nel segno e nel senso dell’oltranza e quasi del furore. Che quindi anche da queste semplici e, salvo errore, non dubitabili, considerazioni, si ricavi che la Monarchia appartiene, non agli inizi della riflessione filosofica di Dante, e cioè, come si è pur autorevolmente sostenuto, al periodo intercorso fra l’interruzione del Convivio e la com-
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posizione dell’Inferno 1, ma ad una fase decisamente più tarda della sua vita, sembra, ed è, ragionevole supposizione. E si dice così, ragionevole supposizione, e non, senz’altro, certezza, perché, esaminati i dati utilizzabili, o ritenuti tali, per la datazione, è pur necessario ammettere che, con un’eccezione (per altro assai rilevante), tutti sono da giudicare non conclusivi. Con quell’eccezione che, se è tale, non fa parte del quadro, e richiede di essere considerata a parte 2, si tratta infatti di dati così detti « interni »: consistenti cioè o in assonanze che si siano colte fra il testo della Monarchia e quello di qualche epistola politica, o in espressioni nelle quali sia sembrato di poter avvertire accenni a eventi contemporanei che, quando siano richiamati, le rendono comunque meglio comprensibili. Ma il guaio è che, in materie come queste, che riguardano i fatti, e solo con i fatti possono essere trattate, i dati « interni » sono in realtà, e il più delle volte, i più estrinseci, e, per conseguenza, i più ingannevoli e produttivi di vario sconforto. Lo si vede senza alcuno sforzo se si considera con quanta forza di convinzione la Monarchia sia stata assegnata da alcuni o al tempo dell’elezione imperiale di Arrigo VII o anche innanzi a questa, e da altri invece a quello successivo alla sua morte 3. Il che induce a osservare che se, come riteneva il più grande dei poeti tedeschi, l’umanità ha senza dubbio un ottimo orecchio e un fine udito, non altrettanto potrebbe dirsi di coloro che esercitano la critica affidandosi a quel loro organo, evidentemente, nella sua particolarità, più che fallace. In realtà, una data non può essere stabilita se non sul fondamento di elementi esterni, gli unici che, in effetti, si rivelino idonei alla sua individuazione; e non attraverso connessioni proposte, o negate, fra un testo e eventi che potrebbero averne sollecitata la composizione: come, per esempio, la pubblicazione della bolla In nostra et fratrum nell’aprile del 1317 4. Connessioni (o, per contro, non connessioni) di questa qua1
È la tesi sostenuta, e sempre (pur se con minime differenze) ribadita, da Nardi: per un quadro completo cfr. la Bibliografia essenziale di P. Mazzantini nell’ed. della Monarchia cit., p. 275. 2 È la nota citazione del Paradiso che s’incontra in Mon. I XII 6. 3 Cfr., per informazioni, le efficaci messe a punto, con indicazioni bibliografiche essenziali, del Vinay, La cronologia del trattato, nella sua ed. cit. della Monarchia, pp. XXIXXXXVIII, e del Mazzoni, Teoresi e prassi in Dante politico cit., pp. LX-XIV. 4 Cfr., per es., Mazzoni, Teoresi e prassi, pp. LXIII-IV, il quale, in polemica con lo Zingarelli, Dante cit., pp. 681-88, ha negato che la Monarchia risenta della bolla In nostra et fratrum di Giovanni XXII, e senz’altro la ritiene scritta innanzi a questa, non essendovene « assolutamente traccia nel corso del trattato ». È giusto per altro ricordare
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lità dimostrano soltanto quanto tenue sia il confine che talvolta separa dalla fantasia la congettura erudita. E non parliamo poi di quanti, variamente persuasi della difficoltà di ricondurre la Monarchia nell’alveo delle concezioni delineate nella Commedia, e di mantenervela, hanno svolta in sé stessi la tendenza a escludervela e a considerarla in sé, a parte: in senso, se non cronologico, ideale. Contro questa idea vari rilievi sono stati mossi in altre parti di questa ricerca; e non occorre che li si ripeta. Più infatti importa soffermarsi, in breve, sull’unico elemento che, sul serio, essendo interno al testo, si presenta tuttavia come un fatto. Questo elemento si trova in un luogo, I XII 6, del testo. E si può considerarlo un « fatto » perché, consistendo in una citazione del Paradiso, consente di collocare la Monarchia in un periodo successivo all’inizio della composizione della terza cantica; e quindi, con buona approssimazione, non anteriormente all’Inferno, non nel 1312, non dopo il 1313, e nemmeno subito a ridosso di questa data. Non prima dell’Inferno, dunque, anche se dopo il Convivio; non nella stagione del Purgatorio 5. Ma, e per ragioni diverse da quelle addotte da chi propose il nesso con la già ricordata bolla In nostra et fratrum 6, intorno al 1317/18; o, con più approssimazione, a Paradiso, se non proprio ultimato, certo già condotto per un trattato al di là del suo inizio 7. Occorre tuttavia osservare il testo, in cui la citazione 8 è contenuta, più da vicino; e considerare perciò che l’accenno alla terza cantica (« siche, per il Mazzoni, non v’è dubbio « che Mon. I XII 6 sia posteriore a Par. V 19-24 » (p. LXI): sì che è sul criterio volto alla valorizzazione degli indizi interni, della presenza o dell’assenza di riscontri con eventi vicini nel tempo, o ritenuti tali, che formulò il dubbio circa la loro legittima assunzione in dispute concernenti le date (e su questo penserei che avesse ragione P. G. Ricci, Monarchia, ED, III, 1001 b, per quanto poi quest’ultimo avesse torto nel presentare come le presentava le tesi, certo discutibili ma serissime, di uno studioso come il Nardi [p. 1001 a-b]). 5 Secondo, appunto, la tesi del Nardi (cfr., con varie attenuazioni, M. Pastore Stocchi, Monarchia. Testi e cronologia, « Cultura e scuola », 4, 13/14 (1965), pp. 714-21 [ma 71819], e, anche qui con attenuazioni, Vallone, Dante cit., pp. 213, 224). Decisamente tramontata la proposta di datazione altissima di C. Witte, Dante Forschungen, I, Halle 1869, pp. 79-86, che dal silenzio mantenuto sulla bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII deduceva una data anteriore al 1300. Non sono riuscito a vedere il saggo di E. J. Kocken, Ter Dateering von Dante’s Monarchia, Nijmegen-Utrecht 1927, che, a quanto apprendo dal Mazzoni, Teoresi e prassi, p. LXI, ritiene che Dante componesse il trattato nel 1301. 6 Zingarelli, Dante, pp. 683-84. 7 Secondo la nota tesi del Parodi, Poesia e storia, pp. 278-81, 315-24. 8 Decisissimo nel ritenere dirimente l’autocitazione di Mon. I XII 6, fu il Mariotti, Scritti medievali e umanistici cit., p. 93.
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cut in Paradiso meo iam dixi ») ricorre in un capitolo, il duodecimo del primo libro che, avendo a tema la libertà del genere umano, asserisce che tanto più e tanto meglio questo la consegue, quanto più si trovi a essere governato in un sistema, e questo è quello che solo dall’Imperatore può essere stabilito e garantito, nel quale esso appartenga a sé stesso e non ad altri: in modo tale, appunto, che la sua libertà rifulga come la sua più alta e propria essenza. Si tratta dunque di un capitolo impegnativo, o fra i più impegnativi di questo del resto assai serrato libro della Monarchia. Un capitolo che a un certo punto richiese che non, in genere, il Paradiso Dante richiamasse, ma un suo luogo specifico. E cioè il quinto canto, e la parte di questo in cui Beatrice disserta intorno alla libertà umana. Un capitolo che, in tanto richiese che quel punto del Paradiso fosse richiamato e citato, in quanto, mentre scriveva il suo testo latino e lì, terminata la prima parte dell’argomentazione, osservava che, « hoc viso, iterum manifestum esse potest quod hec libertas sive principium hoc totius nostre libertaris est maximum donum humane nature a Deo collatum » 9, nella mente gli balenò il ricordo di quel che aveva scritto in Paradiso, V 19-22: « lo maggior don che Dio per sua larghezza/ fesse creando e a la sua bontate/ più conformato e quel ch’e’ più apprezza/ fu de la volontà la libertate ». Che lo « maggior don che Dio per sua larghezza/ fesse » ritorni, alla lettera, in donum maximum humane nature a Deo collatum, è evidente, e anche ovvio. Ma fondamentale, tuttavia, per la questione che abbiamo di fronte: dal momento che, così stando le cose, è sul serio impossibile ripetere quel che talvolta fu detto, e cioè che, lungi dall’esser tale, quell’autocitazione avrebbe ben potuto essere una semplice glossa apposta in margine da una mano estranea e quindi, per interpolazione ulteriore, passata nel testo. La citazione del Paradiso è di fatto così puntuale che a Dante soltanto era consentito di proporla come un’autocitazione, e, con le parole che usò, di collocarla in quello specifico luogo del testo. Non è infatti soltanto il lettore a essere così spesso soggiogato dalla potenza dei suoi versi. Sarà accaduto anche a lui. E l’impressione è addirittura che quando, nel trattato latino, gli avvenne di scrivere del donum maximum e, in quell’atto, si accorse di star quasi volgendo in un’altra lingua quel che aveva detto, iam, nella sua, i versi fossero stati composti da poco e per questo, con particolare urgenza, gli tornassero nella memoria. Può provarlo anche l’avverbio iam, che è tale, in effetti, da escludere, o da
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rendere quanto meno improbabile, non solo che a usarlo fosse stato l’interpolatore, ma che ad aggiungere in un secondo tempo l’autocitazione, fosse stato lo stesso Dante che, scritto il quinto del Paradiso, avrebbe avvertita la necessità di ricordarlo in quel luogo. Non che, in termini astratti, questa ipotesi debba essere assolutamente esclusa. Ma non si vede perché debba essere preferita all’altra, che si presenta, in effetti, come assai più semplice e lineare. Un autore che, per qualche ragione, intervenendo su un’opera di ieri, vi inserisca la citazione di uno scritto suo di oggi, necessariamente opera in modo che il vecchio non sia preso per nuovo. Ma chi cita sé stesso dicendo iam scripsi, o iam dixi, non può lasciar dubbi, e non li lascia infatti, sul punto che, e tanto più se preceduto dall’avverbio, il tempo del verbo consegna al passato il testo a cui si fa riferimento 10. Si aggiunga, e non sembra sia cosa di trascurabile interesse, che in realtà la citazione del Paradiso ha, se si guarda a quel che in concreto ne viene riferito, un carattere ancora più specifico di quello che fin qui non sia emerso. A prima vista, questa citazione sembra riguardare non, in genere, la terza cantica, ma un suo luogo particolare, la teoria della libertà delineata nel quinto canto. A guardar meglio, si vede, tuttavia, che non proprio così stanno le cose. La questione dibattuta nel quinto del Paradiso concerne bensì la libertà, il dono più grande che gli uomini e gli angeli abbiano ricevuto da Dio. Ma la concerne in modo indiretto: all’interno, deve dirsi, di un’altra questione. Dopo quel che ne aveva detto nel terzo e nel quarto canto, qui, nel quinto, Dante seguitò infatti a dibattere il problema dei voti e se, da parte dell’uomo, fosse possibile compensare, e quasi si direbbe, ripagare il creatore di un’inadempienza che fosse intervenuta nel rispetto di quelli. Nel capitolo della Monarchia in discussione non è la quaestio dei voti. Ma è senz’altro, e direttamente, la libertà; che è tale nella sua più autentica essenza, quando l’uomo la realizza e la vive nell’unico contesto politico che a quella sia conforme: e cioè nell’Impero. A essere citato, nella Monarchia, non è dunque il Paradiso in generale. E nemmeno, con la sua specifica dottrina, il quinto canto e gli altri due che lo precedono. Ma è bensì il concetto espresso al v. 19, quello secondo cui la libertà è il dono più grande che l’uomo abbia ricevuto da Dio. Se è così, è evidente che fu proprio la memoria specifica di questo verso, e del concetto che vi era affermato, a modellare il passo del
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Cfr., a proposito del iam, Mariotti, Scritti, p. 93 n. 3.
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trattato latino. È questo verso a costituire il contenuto specifico della citazione. E questa è altresì la ragione per la quale l’ipotesi che, da lui o da altri, la citazione fosse stata inserita in quel punto dopo che da tempo il capitolo della Monarchia era stato scritto, sembra, difensiva com’è, francamente improponibile. Nessuno (deve di nuovo osservarsi) che non fosse Dante poteva possedere, anche se dotto ed esperto conoscitore del poema, un orecchio così sensibile da cogliere quella assonanza, da avvertire quella concordanza e da introdurla, in quella forma, nel testo. E perché mai, poi, avrebbe dovuto? A quale riconoscibile interesse quel suo gesto si ricondurrebbe? È ragionevole perciò supporre che la Monarchia fosse composta tardi, quando il Paradiso era in piena lavorazione, o, addirittura, già concluso. E non solo è ragionevole, ma piuttosto è necessario, tornare a insistere sul furore argomentativo che caratterizza quest’opera: un furore, un’oltranza, un impeto che al discorso conferiscono a tratti il carattere di una tal quale ansiosità. Così grande era, in effetti, stata la sofferenza, così profondo il dramma vissuto, giorno dopo giorno, da anni, così acuta e condivisa la consapevolezza di aver data, delle ragioni che il mondo avevano fatto reo, la vera diagnosi, che lo strumento intellettuale apprestato per il riscatto doveva esser provato e dimostrato perfetto in ciascuna, anche la più esigua, delle sue articolazioni, niente doveva restare escluso dal circolo argomentativo, e tutto invece doveva rientrarvi in modo che qualsiasi tesi gli si fosse opposta ne riuscisse immediatamente confutata. Di qui, fra le altre cose, il carattere di quest’opera singolare; e che proprio non dovrebbe esser considerata « minore »: sebbene sia questo il destino a cui la presenza della Commedia condanna ogni altra cosa che si inscriva nell’ambito a cui quella pure appartiene. È anche vero, per altro, che di questo carattere non si comprenderebbe fino in fondo il carattere, dell’oltranza e del furore argomentativi non s’intenderebbe la ragione, se non si accennasse a scendere verso la radice, per osservarvi quel che in effetti vi si dà a vedere. E cioè che quell’oltranza, quel furore, quella quasi angosciosa esigenza di compiutezza formale, erano rivolti bensì a ottenere il consenso di quanti alle sue idee riluttassero, le rifiutassero, addirittura le combattessero, ma anche erano diretti a rafforzarle con nuovi e più strimgenti argomenti, ad assicurare lui, che pur ne era l’autore, della loro irresistibilità e della vittoria che, prima o poi, ne sarebbe stata conseguita. Del dramma filosofico che, con quelle parole, e con la loro insistita connessione logica, metteva in scena in quel suo singolare trattato, Dante era perciò l’auto-
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re, ma anche il personaggio. E sulla distesa degli argomenti non riusciva ad innalzarsi tanto che, di tratto in tratto, la passione non ve lo reimmergesse, e quelli, gli argomenti, gli si trasformassero in altrettante spade, o, se si preferisce, nel coltello di cui, a proposito della nobiltà e del suo concetto, aveva parlato nel Convivio 11. Si aggiunga, infine, la paradossalità; che spesso emerge dal tessuto argomentativo, e che, con il suo mezzo inconsueto, richiama l’attenzione sul punto che più preme, perché, attraverso la sorpresa e magari lo scandalo, entri nella coscienza, vi permanga e produca le sue conseguenze. Elementi utili alla cronologia, se si esclude quello discusso qui su, non se ne danno, nel trattato dantesco. C’è tuttavia qualcosa, nel primo capitolo che, forse anche a questo fine, merita di essere notato e messo in rilievo. Questo capitolo contiene infatti un tenue indizio; un elemento che, certo, non rinvia ad alcunché che sia a sua volta riferibile a un evento determinato e positivamente individuabile nella trama del tempo, ma lascia tuttavia intendere che quello in cui Dante scriveva era da lui considerato come il momento di un’attesa lunga e non imminente, e che solo a quel che un giorno sarebbe potuto accadere egli destinava il suo trattato. Non si spiegherebbe, se non fosse così, il periodo nel quale egli scrisse del dovere a cui per certo verrebbe meno colui che, « publicis documentis imbutus, ad rem publicam aliquid afferre non curat », e, così comportandosi, non all’albero si rende simile, che secus decursus aquarum fructificat in tempore suo, ma sì invece a una perniciosa vorago semper ingurgitans et nunquam ingurgitata refundens 12. Una bella immagine, forte, e, a qualsiasi fonte l’avesse attinta 13, in tutto degna di lui. Ma tale anche che proprio non sembra risentire in sé il brivido dell’urgenza, dell’imminenza, di qualcosa appunto che sta per accadere e, perché, il più che sia possibile, nell’accadere sia conforme a ragione, richiede che con la teoria ragionata e dispiegata si sia pronti ad accoglierlo. Invece che dall’urgenza, dall’imminenza di quel che a lungo, magari, si era aspettato che accadesse, il tono di questo passo sembra 11 Conv. IV XIV 11: « e se l’aversario volesse dicere che nell’altre cose nobilità s’intende per la bontà della cosa, ma nelli uomini s’intende perché di sua bassa condizione non è memoria, rispondere si vorrebbe non colle parole ma col coltello a tanta bestilitade, quanta è dare alla nobilitade dell’altre cose bontade per cagione, e a quella delli uomini per principio dimenticanza ». 12 Mon. I I 2-3. 13 Vinay, p. 4, citò Ps., 1, 3. Nardi, p. 282, aggiunse Val. Max. 9, 4, 1.
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piuttosto esser stato determinato dall’idea secondo cui chi, nelle materie attinenti alla res publica, abbia accumulate dottrine e esperienze, anche abbia il dovere di restituire a vantaggio dell’umanità quel che di buono gli fosse accaduto di pensare e di apprendere nel corso di lunghe vigilie. Il che, se ci si fa attenzione, implica non solo che molto tempo chi parla così avesse trascorso nella meditazione e fra le cose del mondo, ma anche che (e occorre ribadirlo) non al presente e all’immediato futuro destinasse il frutto di quel che gli fosse occorso di pensare. Anche lungo questa via sembra dunque che riceva conferma quel che già fu osservato. La Monarchia è opera tarda. Appartiene non già al tempo delle speranze accese dall’incoronazione di Arrigo VII, e troppo presto tramontate; ma a quello bensì in cui Dante attendeva al Paradiso e forse, chi sa, già aveva terminato di comporlo. Delineata la questione in questo capitolo proemiale, che non era superfluo, forse, leggere con qualche attenzione, il trattato entra subito in medias res. E dopo aver accennato a quel che, « typo ut dicam secundum intentionem » 14, debba intendersi per temporalis Monarchia, e dopo aver chiarito che, detta altrimenti Impero, questa è unicus principatus et super omnes in tempore vel in hiis et super hiis que tempore mensurantur 15, Dante pose le tre quaestiones alle quali, in tre distinti libri, si proponeva di rispondere. Nello svolgerle, e nell’indicare di ciascuna la risoluzione autentica, anche quel che si dice typo et secundum intentionem avrebbe ricevuta la definizione che più gli convenisse. Ma fin di qui è chiaro che nei confronti dei regni particolari, che sono quelli sopra i quali, tutti e nessuno escluso, la Monarchia universale esercita il suo legittimo potere, Dante non usò alcuna particolare indulgenza. Se, al pari dell’Impero, anch’essi sono « misurati » dal tempo, e appartengono al suo ambito, questa è l’unica parità che possano vantare nei confronti di quello, al quale sono in tutto e per tutto sottomessi. Il chiarimento di questo punto è essenziale perché, fin dall’inizio, pone al margine un capitolo della critica dantesca che, se passioni « allotrie » non avessero invaso il campo, per la buona sorte dei più non sarebbe stato scritto: tanto è assurda l’idea che in un sistema qual è quello che in
14 Mon. I II 1. A proposito di questa espressione mi sembra esauriente quel che ne disse il Nardi, Nel mondo di Dante, pp. 93-96, e nel commento, pp. 284-85: e persuasivo anche nei confronti di quel che, a torto, gli fu obiettato dal Vinay, p. 8 n. 1. 15 Mon. I II 2-3.
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ogni suo aspetto Dante costruì e definì nel segno della più rigorosa unità, possa godere di autonomia, nei confronti del tutto, quel che di questo non è se non la parte. La questione essenziale non è dunque questa; che nemmeno, a rigore, è una questione. Ma è bensì l’altra, che, articolata in tre punti o, se si preferisce, in tre specifiche questioni, è delineata dalle tre domande alle quali Dante s’impegnò a dare risposta, e che vertono sul punto se, sì o no, la Monarchia universale sia necessaria ad bene esse mundi; se de iure il popolo romano Monarche offitium sibi asciverit; se l’autorità di questo dependeat a Deo immediate vel ab alio, Dei ministro seu vicario 16. L’autentica quaestio consiste dunque e si articola in queste tre quaestiones. E ne implica, alla radice, un’altra che, posta esplicitamente da Dante, richiede di essere indagata con qualche cura, perché contiene aspetti che altrimenti potrebbe darsi che o sfuggissero o restassero, confusi, sullo sfondo. La questione che esplicitamente Dante pose è quella che, con parole desunte dal suo testo, potrebbe dirsi del principium inquisitionis directivum (I III 3). E nasce da ciò che, poiché ogni verità che non sia di per sé un principio ex veritate alicuius principii fit manifesta 17, e richiede perciò quest’ultimo come condizione, se non del suo essere, almeno del suo rendersi evidente (manifesta) a qualcuno che in questo suo carattere la percepisca, di qui, dunque, la necessità che a questo principio si pervenga: a un principio, insomma, che, senza provenire e dipendere da nessun altro, ogni altra verità renda possibile: il che significa conforme alla sua autentica natura di verità. Che, in questo ragionamento, Dante fosse tanto più largamente tributario della tradizione aristotelica quanto meno è probabile che, nello svolgerlo, si riferisse a un luogo specifico di quella, è evidente. E non è del resto su questo punto specifico della questione che conviene insistere. Meno che mai, deve aggiungersi, conviene insistere sul modo filosoficamente sommario in cui, in linea generale, la questione stessa è impostata e trattata. Il discorso sul principio, o i princìpi, è in realtà propedeutico ad altro; e corre via veloce, senza che Dante avvertisse in sé la disposizione a chiedersi quel che pure Aristotele stesso si chiedeva, ossia in quale modo nella ricerca, progressiva o regressiva, di un principio che sia tale e non dipenda perciò da un altro che gli sottragga, in questo atto, il suo carattere, si giunga a stabilire che l’inizio senza inizio
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sia stato raggiunto e che di procedere oltre, all’indietro o in avanti, non si dĂ piĂš nĂŠ la possibilitĂ nĂŠ la necessitĂ . Non senza un atto di quasi deliberato arbitrio, Aristotele aveva al riguardo pronunziato il suo ν γκΡ ĎƒĎ„ νιΚ 18; e, senza che, per tante ragioni, ne avesse sul serio il diritto, chiuse la partita che, se non fosse stata chiusa e definita cosĂŹ, non sarebbe piĂš uscita dalle sabbie mobili del cosĂŹ detto regresso all’infinito 19. Per parte sua, Dante non pronunziò parole che a queste siano simili; e, lungi dal chiudere comunque la partita, evitò anche di considerare il punto essenziale; che consiste in ciò, che la ÂŤ necessitĂ Âť della progressione, o della regressione, Îľ Ď‚ Ď€ÎľÎšĎ ÎżÎ˝, all’infinito, non è se non il simbolo, costruito mediante queste due opposte rappresentazioni del movimento, della contraddizione che si rivela intrinseca all’idea stessa del principio. Del principio che, se è un’idea quella che se ne ha e se ne delinea, necessariamente deve presupporla a sĂŠ, contraddicendo in tal modo la sua pretesa di esserlo. E se non è un’idea, se è una semplice rappresentazione geometrica, allora di nuovo non è un principio quello che cosĂŹ si rappresenta. Ăˆ un qualsiasi segno che, in quanto si renda manifesto, di necessità è preceduto da alcunchĂŠ, e di quel che lo precede non può perciò esser lui il principio. Di questa, e di altre difficoltĂ , che l’idea del principio reca con sĂŠ, Dante, dunque, non si occupò. Posto che l’occuparsene e il darsene pensiero non rientrassero nell’economia della sua mente, rilevare che la questione faceva invece, e fa, parte della ÂŤ cosa Âť e del contesto storico nel quale si presenta, – rilevare questo non è dunque, come qualcuno potrebbe forse credere, cosa arbitraria. Rilevarlo è, al contrario, necessario perchĂŠ chiari appaiano la complessitĂ e l’intreccio delle questioni che quella che egli si pose quando evocò il concetto del ÂŤ principio Âť includeva in sĂŠ. Tanto piĂš, in effetti, conferirle rilievo è necessario in quanto, se delle conseguenze intrinseche alla questione del principio, 18
Cfr., per es., Arist. Metaph. Γ 4, 1006 a 5-11. Γ 4, 1006 a 8-9 Νως Îź ν Îł Ď Ď€ ντων δ νιτον Ď€ δξΚΞΚν Îľ νιΚ (Îľ Ď‚ Ď€ÎľÎšĎ ÎżÎ˝ Îł Ď !ν βιδ#ΜοΚ, %ĎƒĎ„Îľ ΟΡδ’ο&τως Îľ νιΚ Ď€ δξΚΞΚν). E cfr. anche quel che su questo punto si legge nell’Expositio di Tommaso d’Aquino (In Metaph. 168 b, § 607): ÂŤ si omnia enim demonstrarentur, cum idem per se ipsum non demonstraretur, sed per aliud, oportet esse circulus in demonstrationibus. Quod esse non potest: quia sic idem esset notius et minus notum, ut patet in primo Posteriorum. Vel oportet procedere in infinitum. Sed si in infinitum procederetur, non esset demonstratio, quia quaelibet demonstrationis conclusio redditur certa per reductionem eius in primum demonstrationis principium: quod non esset si in infinitum demonstratio sursum procederet Âť. Il luogo di Tommaso si riferisce con ogni probabilitĂ a Anal. post. 19, 99 b 20 ss. 19
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che Aristotele aveva trattate, per esempio, anche in un luogo della Fisica 20 , e cioè in un’opera da lui, in tutto o in parte, conosciuta, Dante non si dette pensiero, sarebbe grave errore ritenere che alle cose della filosofia il suo sguardo si volgesse per trarne formule e non per sondarne la possibilità. E basti pensare alla questione alla quale, in questo stesso contesto, dedicò invece molta cura: anche se il modo in cui la impostò e la risolse non sia del tutto conforme a quello in cui avrebbe dovuto esserlo. Dante ne avviò l’esame quando, subito dopo aver richiamata la necessità del principio, e della deduzione da esso della verità, ricorse a una distinzione. E, facendo proprio un argomento in cui s’è indicata una movenza avicenniana 21, da una parte pose le cose che, poiché non sono in nostro potere, possiamo bensì conoscere (speculari tantummodo possumus), ma non fare, o, come si dice, produrre (operari autem non). E queste sono le cose naturali, le matematiche, le divine; che, quand’anche al conoscerle per quel che sono aggiungessimo un atto di volontà in forza del quale pretendessimo che riuscissero diverse, questa sarebbe non una volontà, ma una velleità, una pretesa, appunto, vana e assurda. Da un’altra, invece, pose quelle che non solo sono da noi conosciute, ma da noi altresì sono operabili; e in questo caso, infatti, non operatio propter speculationem, sed hec propter illam assummitur, quoniam in talibus operatio finis 22. La distinzione, come si ricorderà, era anche nel Convivio 23. Costituisce perciò, nel suo pensiero, un punto fermo. E comunque egli poi la articolasse e svolgesse, a quella rimandava che, da un lato, colloca l’intelletto, da un’altra la volontà, da un lato la contemplazione di quel che è, da un altro l’atto volitivo volto a mutarne il volto. Ma, Dante argomentava, come la materia che gli stava dinanzi, ed egli si accingeva a trattare, riguardava le cose politiche, anzi la fonte e il principio rectarum politiarum, et omne politicum che nostre potestati subiace[a]t 24, così doveva esser considerato ovvio che quella, non l’intelletto riguardasse, ma la volontà: e cioè l’insieme delle operazioni che, articolandolo e costituendolo, conferiscono realtà all’universo politico. Non dunque alle cose naturali, matematiche, divine; le quali ultime, poiché del quadro di ciò che è conoscibile fanno parte, è pur
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Phys. 1, 209 a 23-25. Dal Nardi, comm. cit., pp. 287-89. Mon. I II 5-6. Conv. IV IX 4-7. Mon. I II 6.
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necessario che diano luogo all’ulteriore distinzione che dalla filosofia separa la teologia. Ma sì invece alle cose politiche e al loro fine intrinseco; che è, nello stesso atto, la causa e la ragione per cui sono ciò che sono. Non appartiene, se non in modo indiretto, alla qualità e allo scopo di questa ricerca una discussione che, überhaupt, svolga il tema della concepibilità di una siffatta distinzione. E converrà perciò osservarne più da vicino le modalità, ossia il modo specifico che essa assume nell’argomentazione di Dante. Il che in concreto richiede che con decisione si entri nel più audace dei capitoli del trattato, quello che ne costituisce qualcosa come la cellula generatrice, il tema conduttore, o come altrimenti si voglia dire: il terzo del primo libro. Vi si entri e, se possibile, con spregiudicatezza, si osservi quel che in effetti vi si determini. È notevole, innanzi tutto, che, nell’accingersi alla dimostrazione e, se così potesse dirsi, all’esibizione del fine ultimo totius humane civilitatis 25, Dante riprendesse, abbreviandolo e aggiungendovi tuttavia un paragone, quel che, a proposito dello svolgimento progressivo e ascendente delle forme politiche, aveva scritto nel Convivio. Proponendosi di rendere questo svolgimento più chiaro e comprensibile di quanto di per sé stesso già non fosse, subito, all’inizio, Dante istituì il paragone con un membro o una parte del corpo umano, – con il pollice, a cui la natura assegna un fine, che è il suo ed è diverso da quello che assegna alla mano e quindi al braccio; che infatti ha il suo e non può essere confuso con quello intrinseco agli altri organi che, tutti insieme, producono l’uomo 26. Il paragone era volto, com’è ovvio, a mettere in luce che il finalismo della natura si compie attraverso il complesso, distinto e razionale, formarsi e realizzarsi di fini particolari, ciascuno dei quali, senza perdere la sua propria fisionomia, non è tale da poter tuttavia stare per sé, al di fuori del contesto nel quale soltanto la sua autonomia realizza, nel segno dunque della « relatività », sé stessa. E, come del pollice, questo è vero di ogni altra parte, più piccola o più grande che, rispetto a quello, si presenti. Autonoma perché ha un fine, la parte è tuttavia la parte. E se « autonomia » ha necessariamente, in questo contesto, il senso di « parzialità », ecco che il significato del primo termine dev’essere assunto e dispiegato nell’ambito del secondo: in modo tale, dunque, che
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tutto possa riconoscerglisi, ma non certo quel che nella sua etimologia rifulge, l’esser legge a sé stesso. Insistere su questo punto non sarebbe necessario se di qui, con assoluta certezza, non si deducesse anche che, trasferendo questo concetto alla serie ascendente e progressiva delle forme politiche, e istituendone così il paragone, con l’eccezione dell’ultima e culminante, a nessuna di queste potrebbe riconoscersi l’autonomia raffigurata nel segno dell’indipendenza, o, per usare la celebre formula nella quale si riassunse il concetto della sovranità, in quella del superiorem non recognoscens. Il fine che alle parti può e deve essere riconosciuto non è tale che possa realizzarsi in queste se non in quanto al loro esser parti si tenga fermo; e, perciò, al tutto in cui quelle sono reali e ottengono la loro definizione. In realtà, e conviene notarlo per chiudere definitivamente il discorso relativo ai così detti Stati particolari, se a questi si pretendesse di riconoscere l’autonomia e di intendere tuttavia quest’ultima nel quadro in cui ogni altra autonomia rientra, ebbene, la conseguenza sarebbe logicamente disastrosa. Per un verso, infatti, restando sé stesse nella loro pretesa di essere autonome nel tutto, e altrettanto autonome perciò di questo, le parti non potrebbero non accentuare il loro carattere di parti: la loro separazione, per conseguenza, e la loro lontananza dal tutto, del quale seguiterebbero tuttavia a essere le parti. Sarebbero altrettanti pollici, altrettante mani, altrettante braccia: organi particolari senza organismo e senza, perciò, ragion d’essere, privi, ciascuno, della vita che a ciascuno deriva dal tutto, incapaci per conseguenza di esser altro da disiecta membra, e usurpanti persino queste parole, perché non si danno membra se non si dà il loro organismo, non si danno parti se non si dà il tutto; e qui, quanto più le membra e le parti rivendichino a sé il diritto di essere, come il tutto, titolari di autonomia, di altrettanto questo, il tutto, si allontana, dilegua e con lui dileguano le parti, con lui dileguano le membra. Per un altro verso, e se cioè non lo si assumesse se non come un semplice quadro includente le autonomie, il tutto non sarebbe il tutto. Sarebbe esso stesso una parte; e priva, per di più, del carattere consistente nel superiorem non recognoscere rivendicato dalle altre, che pure, per un altro verso, si pretende gli stiano dentro. Priva di questo carattere perché, sottratte a esso le parti che lo costituiscono nell’atto in cui ne sono costituite, il tutto non è se non un puro spazio geografico; politicamente determinato, non in sé, ma solo attraverso i contrasti che si svolgono nel suo interno e che, come potrebbero pretendersi regolati e governati dall’autorità imperiale se, a produrli è in ultima analisi una fonte legittima e autonoma a cui altre fonti, legittime
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e autonome, si contrappongono? Se sul serio all’interno del tutto si desse e potesse darsi autonomia, tante sarebbero le autonomie, tante le legittimità, quante sono le parti che vi sono ospitate. E parlare di una legittimità più alta che, senza spegnere quelle che pur si assume ne siano regolate e mediate, stia, appunto, al di sopra di queste, sarebbe in questo quadro tanto necessario quanto assurdo. Sarebbe necessario perché, nella tesi che è oggetto di questa riflessione, il rientrare delle parti nel tutto senza che in questo quelle perdano la loro autonomia costituisce la premessa esplicita, o implicita, della tesi. Sarebbe assurdo perché, appunto, che senso logico potrebbe mai darsi a un’autonomia che, dipendendo pur sempre, per il suo esser tale, da un’autonomia definita più alta, inesorabilmente dovesse dissolvervisi? In realtà, se a questa rappresentazione delle cose, se a questa tesi interpretativa del trattato dantesco, si concedesse il credito che per certo non merita, a un rilievo, almeno a questo, dovrebbe darsi corso. E il rilievo è che, pensata secondo la logica da cui la tesi è retta, la Monarchia finirebbe con l’assumere proprio il volto che meno le conviene, quello della realtà politica contro la quale il suo strale era diretto, – il volto presente dell’Europa che in Dante suscitava la fiamma oscura della preoccupazione, gli provocava avversione e sgomento: talché è sul serio una pretesa fra le più assurde che, fermo restando quel che pensava e diceva dell’Impero, anche i regni particolari avessero ai suoi occhi ragione di esistere come altrettanti centri di autonoma decisione. Una pretesa nascente dallo spirito deteriore del compromesso; e non si sa se più assurda, come si è detto, o più frivola 27.
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Poiché della questione concernente l’Impero e gli Stati particolari (Italia compresa) Dante parlò da filosofo, e solo in modo subordinato e indiretto (molto subordinato e molto, in questo caso, indiretto) da giurista, – per questo ho conferito alle pagine che precedono il carattere e l’andamento che ciascuno può osservarvi. Vorrei per altro aggiungere che le distinzioni delle quali i giuristi interpreti di Dante si servono, o si servirono, per dimostrare che la preminenza dell’Impero non andava in lui disgiunta dal riconoscimento della legittimità intrinseca agli Stati particolari, non hanno nel suo testo alcun riscontro effettivo. Per esempio, la distinzione che, discutendo il libro di E. Flori, Dell’idea imperiale di Dante, Bologna 1921, nel « Bull. Soc. dant. », 20 (1921), p. 53, il Solmi affermò fra l’autonomia, che è « il diritto di ogni corporazione, legalmente riconosciuta, a dettare legge a sé stessa », e la sovranità, che definisce il diritto originario dello Stato, è ignota a Dante, che non ne conosce i termini. Il che è tanto più notevole in quanto, ben sapendo di usarli in accezione moderna, il Solmi ne fece tuttavia un criterio per intendere Dante: conseguendo in questo caso persino il risultato di persuaderne il Barbi che, a sua volta, finì col peggiorare le cose. Parlò infatti, seguendo il Solmi critico
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Era necessario ribadirlo, questo punto, perché, dopo aver osservato nel suo processo costitutivo questo primo tratto dell’argomentazione dantesca, anche possa notarsi quel che all’improvviso vi si determina e lo differenzia da quel che si legge nel Convivio. Con l’aggiunta infatti di un elemento inaspettato, non solo Dante conferì a un aspetto della sua tesi una netta tonalità averroistica 28, che nell’opera precedente si sarebbe ricercata invano; ma, fra le altre cose che ne derivano e dovranno perciò essere individuate e poste in evidenza, una, innanzi tutto, rese palese. Questa: che alla luce di quel che il suo concetto recava con sé, a rivelarsi indifendibile, ad attenuarsi, per conseguenza, fino a sparire, fu proprio la tesi dalla quale egli era partito. Fu la tesi della distinzione: quella secondo la quale, poiché altro è conoscere quel che, naturale matematico divino, sta con il suo carattere e non può essere né prodotto né mutato, altro invece è fare, produrre, mutare quel che di ciò sia passibile e, fra queste cose, quelle che appartengono all’ordine civile e politico, deve preliminarmente dirsi che conoscere non è la stessa cosa che operare, e operare non è lo stesso che conoscere. Ebbene, se, confermata nella Monarchia, e proprio nel suo avvio proemiale, questa è una schietta, e, formalmente, mai smentita tesi dantesca, perché si dice che, nel suo svolgimento concreto, il trattato invece la smentì? Per amore del paradosso? No di certo. Ma per le ragioni, paradossali in sé, e non perché a esse si sia deciso di conferire tale carattere, che ora, punto per punto, saranno esposte.
del Flori, della « illegittima identificazione, operata » da quest’ultimo, dei due concetti: senza preoccuparsi, per altro, di entrare sul serio nella questione e di chiedersi quali concrete conseguenze politiche il concetto dell’autonomia e la sua assunzione recassero con sé (Barbi, Problemi fondamentali, pp. 69-70). Il Flori, per suo conto, ebbe per certo torto nell’assumere, a proposito dell’idea dantesca dell’Impero, il concetto dell’assolutismo: non però, e sia pure nei limiti della sua impostazione, nel far battere con forza l’accento sulla centralità del potere imperiale. – Allo stesso modo, non ha, direi, alcun fondamento nel testo di Dante, dov’è addirittura assente, la distinzione che il Solmi, Il pensiero politico di Dante, Firenze 1922, pp. 37-38, formulò fra imperium, « potere supremo stabilito da Dio », e regimen, « governo degli uomini, variamente rappresentati nelle communitates particulares descritte da Aristotele e dai filosofi della Scolastica ». Imperium e regimen non si distinguono l’uno dall’altro nel senso indicato dal Solmi; e l’imperium può ben essere definito un regimen, come nel caso dei duo luminaria, che sono regimina, spirituale et temporale (Mon. III IV 3; 13-4; 21). 28 Sul carattere e sulle peculiarità, anche sui limiti, di questa tesi dantesca, si discute a lungo nel testo.
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E si cominci con quella che, fra queste ragioni, appartiene, non al giro specifico del terzo capitolo, ma sì invece a un contesto nel quale anche quest’ultimo in qualche modo si colloca, si include e trova il suo posto. A che cosa si allude? Se, anche nella forma che assunse nel quarto trattato del Convivio, si osserva il ritmo ascendente delle forme politiche 29, e ci si chieda da che cosa sia determinato, se dalla volontà umana che così le cose procedano, di grado in grado e fino all’ultima, e perfetta, o invece dalla natura che, intrinseca a ciascuna di esse nel segno del fine, le rende successive in questo ordine, come potrebbe la risposta non essere conforme a questa seconda alternativa? A determinare in quell’ordine la successione delle forme, è certamente la natura, che è lo strumento, docile e non ribelle, della volontà di Dio 30. Ossia della provvidenza, dalla quale in ultima analisi dipende ogni cosa che quaggiù accada; e dunque anche le volontà umane che, conformi che siano, o appaiono, al volere divino, oppure difformi, sempre sono contenute in questo, da questo dipendono, a questo, anche se ne siano difformi, sono conformi, e, per sforzi che si compiano per restituire a esse autonomia e libertà di scelta, né a quella possono sul serio aspirare, né a questa. Quella della provvidenza è una logica inesorabile. Ciò che sembra liberarsene, o prescinderne, sembra, appunto, che se ne liberi e ne prescinda: e in realtà le obbedisce, accade come momento del suo imperscrutabile dover accadere. Se è così, la conseguenza è che non si dà, in Dante, nessuna possibilità di contrapporre l’uno all’altra, nel segno della distinzione, l’intelletto, organo della teoreticità, o, che si preferisca, della pura contemplazione, e la volontà, organo della produzione e della modificazione delle cose. Che dalla prima cellula della vita sociale si salga, di grado in grado, fino a raggiungere la più complessa fra le organizzazioni sociali, e cioè l’Impero, – questa è una necessità, all’interno della quale la vo-
29 Il ritmo delle forme politiche è ascendente, nel Convivio, dalla famiglia alla monarchia universale, senza che il passaggio dall’una all’altra avvenga e si compia attraverso la degenerazione della forma retta nell’obliqua. Che a Dante la distinzione derivasse essenzialmente da Arist. Pol. Γ 1279 b 4 ss., e anche da Tol. Luc. de regimine principum, III 20; IV 1, è ovvio. Ma a lui fu estranea l’esigenza di costruire il quadro delle corrispondenze positivo/negative; e il suo pensiero è che la signoria debba essere unica anche in obliqua politia. 30 Che la natura sia strumento di Dio e del suo volere è, in Dante, nozione costante: cfr., per es., Conv. I I 1; III II 8; III IV 10 (« la natura universale, cioè Iddio »), etc. E cfr. Mon. I III 1; I XV 1; II I 2: nonché de vulg. eloq. I VI 2.
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lontà umana, comunque appaia orientata, non è che lo strumento di quello strumento che, nei confronti di Dio e della provvidenza, anche la natura è. È uno strumento necessario, che a questa necessità, alla necessità della sua natura, certo non può fare eccezione nel segno della libertà: uno strumento in tutto analogo, in questo, all’intelletto e agli strumenti logici attraverso i quali questo si attua ed è l’intelletto. Se questo infatti contempla e non produce, nemmeno della volontà, che non contempla, può dirsi che produca secondo libertà e, in questo segno, modifichi quel che è, altresì facendo che sia quel che, qui ed ora, non è. Già per questa via, forse paradossale ma necessaria, senza che esplicitamente Dante lo volesse o lo avvertisse, la distinzione che, così netta, era stata da lui posta all’inizio, dell’intelletto dalla volontà, mostra il suo alto grado di problematicità interna. Non riesce a mantenere sé stessa. E a rivelarne la problematicità è, se così potesse dirsi, il suo stesso obiettivo venir meno a sé stessa. La volontà e la libertà possono bensì, infatti, essere affermate con le parole, di esse può persino farsi l’elogio, e, definendole il dono più grande che l’uomo abbia ricevuto da Dio, proclamarne l’eccellenza. Ma non per questo l’una e l’altra corrispondono al concetto quando, nell’intrinseco, se ne faccia lo strumento, attraverso la natura, di Dio e della sua pervasiva volontà. Se è strumento, la volontà non è volontà, la libertà non è libertà. E l’una e l’altra in effetti sarebbero, in questo quadro, strumento, anche nel caso in cui, per esempio, la successione ascendente delle forme verso quella perfetta tardasse a realizzarsi, e, resosi via via tortuoso, il cammino apparisse ingombro, la virtù mostrasse di aver ceduto al vizio, la cupidigia celebrasse il suo cupo trionfo, Lapo Saltarelli avesse preso il posto di Bellincion Berti. Strumento della provvidenza, le strade che la volontà umana percorre, nel segno della virtù o in quello del vizio, sono segnate da quella: donde l’impossibilità che, nel suo senso più profondo, sia male quel che pur appare con questo carattere, e secondo questo richiede di essere giudicato. Nell’abisso insondabile del giudizio divino la buona e la non buona volontà umana si unificano nel loro essere entrambe strumento di un fine che, se tarda a realizzarsi, la ragione dev’esserne trovata, non in un’opposizione che nel non buono volere umano quello divino incontri e subisca, ma proprio in questo volere, che è l’unico autentico e, quali che siano le ulteriori difficoltà di ordine generale che al suo concetto possano derivare, è l’unico e coincide con il suo atto eterno. Se, per altro, è così, non è allora evidente quel che già qui su si notava, e cioè che, a causa del ritrarsi della volontà umana nell’ambito
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della volontà divina, della quale è niente più che uno strumento, un termine della distinzione (la volontà) viene meno, e, non più distinto, l’intelletto resta, per così dire, solo? Non è inoltre evidente, se è così, che a impallidire fino a perdere ogni colore e a venir meno, è la distinzione stessa che Dante aveva, nel Convivio, stabilita fra l’Imperatore e Aristotele, l’uno « cavalcatore della umana voluntade », l’altro guida dell’intelletto, l’uno a cui si deve reverenza e obbedienza nelle cose concernenti il volere, e non l’intelletto, l’altro a cui obbedienza e reverenza sono dovuti in ciò che riguarda l’intelletto, non il volere e l’agire? Le complicazioni che, se questo concetto fosse stato spinto alle estreme conseguenze, al quadro teorico tracciato nel Convivio sarebbero derivate, non sono evitabili. Sono anzi destinate a rivelare l’impossibilità che il quadro sia mantenuto, e sia perciò pensabile la questione stessa che Dante vi prospettava, quella relativa alla definizione della nobiltà; che egli sottraeva alla « giurisdizione » imperiale nell’atto in cui, assegnandola alla autorità del filosofo, all’altra autorità, all’autorità dell’Imperatore, attribuiva, come assoluta prerogativa, l’intero ambito del volere e dell’agire. In realtà, la logica provvidenzialistica che Dante aveva delineata conteneva in sé, rispetto alla questione che egli poneva e che culminava nella delineazione di una coppia di autorità distinte, un radicale paradosso. Conduceva infatti alla dimostrazione dell’insussistenza della coppia e del correlativo vanificarsi della questione. E sul serio rivelava un tratto di cruda paradossalità. Strumento del volere divino, le volontà umane. Strumento di questo volere, e a fortiori, lo stesso Imperatore, che pure di quelle era definito il « cavalcatore ». Dov’era dunque la sua volontà, se questa gli era delegata da Dio in modo tale che, comunque la governasse e dovunque la dirigesse, era pur sempre espressione di quel supremo volere il suo governarla e dirigerla? E dov’era, a rigore, la sua auctoritas, se, provenendogli da Dio, in nessun momento la si sarebbe potuta considerare come cosa sul serio sua? Erano paradossi assai crudi questi che, nel fondo, la sua impostazione teneva come celati. E non implicavano la crisi della idea imperiale più di quanto rivelassero, a ben guardare, quella della più generale idea che alla storia umana potesse assegnarsi un valore che, rispetto al valore vero, intrinseco e autentico, non fosse se non una sorta di sovrapposto velo allegorico. In realtà, se, in luogo di seguire questo concetto fino alla sua estrema conseguenza, si resti aderenti al testo, e della « consapevolezza » dantesca non si oltrepassi il confine; se alla coerenza di quello si guardi bensì, ma senza raggiungerne il vertice, è pur vero che di crisi dell’idea imperiale sarebbe assurdo se si parlasse. E piuttosto dovrebbe
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dirsi che a entrare in crisi fu, nella Monarchia, soltanto la dualità delle giurisdizioni, quella politica e l’altra, filosofica, che nel Convivio era stata al centro dell’attenzione e aveva ricevute le cure più convinte. Insomma, accanto all’Imperatore, e distinto da lui, non si delineava più, nel trattato latino, la figura di Aristotele. E i due poli, che prima erano stati posti in reciproca, rispettosa, contrapposizione, non riuscivano più a sostenere il peso della loro dualità. Rientravano l’uno nell’altro. Non nel senso che sul serio vi rientrassero: e cioè nel modo che si dà a vedere nella rappresentazione geometrica di un circolo che si inscriva in un altro, più grande, e vi si renda visibile, oppure vi coincida tanto che, se non si sapesse della sua esistenza, nessuno riuscirebbe a discernerne la linea in quella con cui è andato, appunto, a coincidere. Ma nel senso invece che dei due poli, di uno (e questo è Aristotele) si dà la pensabilità, dell’altro (ed è l’Imperatore) no: senza che perciò possa dirsi che il personaggio che ne è rappresentato esca di scena. L’Imperatore non esce di scena perché, in effetti, non vi era mai entrato. E la sua identità ha perciò, se si guarda alla cosa, un nome diverso. Quello di Aristotele; che è lui, in realtà, l’Imperatore. Meglio ancora: quello dell’intelletto, che è l’atto supremo dell’umanità, simul sumpta. Ma che cosa è Aristotele? Nel Convivio, si ricorderà, l’analisi dei testi dimostrò che, quanto la fisionomia dell’Imperatore appariva forte e definita, altrettanto non avrebbe potuto dirsi di quella di Aristotele. La cui fisionomia in effetti oscillava fra la quasi divinità dell’intelletto di cui era il simbolo e la riduzione di questo alla discontinuità propria di ciò che è umano e al suo conseguente, ulteriore limite; consistente nell’incapacità sua di rendere unita nel suo atto la totalità del genere umano 31. Tale, ossia segnato da questi discordi caratteri, era, nel Convivio, l’intelletto; che soltanto in pochi individui, a ciò predisposti dalla particolare felicità della loro natura, era comunque in grado di realizzare il suo carattere, garantendo a costoro, nei confronti dei più, il privilegio dell’eccellenza 32. Nella Monarchia, e qui, innanzi tutto, sta la sua peculiarità, quel che la rende diversa da ogni altra opera di Dante, questo stato di cose subì una correzione decisa e, comunque, assai forte; che può cominciarsi ad apprezzare se, anche in questo caso, si segua la via lungo la quale si fa manifesto che la distinzione della volontà dall’in-
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Cfr. il secondo capitolo. Cfr., per es., Conv. IV XX 9.
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telletto, del velle dall’intelligere, non ha in questo contesto, e se, invece che all’intenzione, si guarda alla cosa, alcuna seria ragion d’essere. Che qui, infatti, per le cose pertinenti la volontà e connesse con il suo esercizio, non ci sia, né possa esserci, alcun posto, si vede se l’occhio resti fermo a quel che nel ragionamento di Dante concretamente avviene. Per un verso, in questo ragionamento si ripete, e torna ad accadere, quel che già nel Convivio era accaduto; e cioè la provvidenziale naturalità del processo ascendente delle forme politiche, rispetto al quale un intervento specifico della volontà umana non potrebbe essere ammesso se non in quanto lo si intendesse operante, come puro strumento, all’interno del volere divino. Per un altro, a determinarsi è un’ulteriore articolazione, alla quale, per quanto concerne l’individuazione del principio e del fine, non è estranea, a guardar bene, l’esigenza di una più stringente considerazione, relativa al nesso sussistente tra il fine, o lo scopo, e l’operazione essenziale. Converrà avere il testo sott’occhio: Nunc autem videndum est quid sit finis totius humane civilitatis: quo viso, plus quam dimidium laboris erit transactum, iuxta Phylosophum ad Nicomacum. Et ad evidentiam eius quod queritur advertendum quod, quemadmodum est finis aliquis ad quem natura producit pollicem, et alius ab hoc ad quem manum totam, et rursus alius ab utroque ad quem brachium, aliusque ob omnibus ad quem totum hominem; sic alius est finis ad quem totum hominem; sic alius est finis ad quem singularem hominem, alius ad quem ordinat domesticam comunitatem, alius ad quem viciniam, et alius ad quem civitatem, et alius ad quem regnum, et denique optimus ad quem universaliter genus humanum Deus ecternus arte sua, que natura est, in esse producit. Et hoc queritur hic tanquam principium inquisitionis directivum. Propter quod sciendum primo quod Deus et natura nil otiosum facit, sed quicquid prodit in esse est ad aliquam operationem. Non enim essentia ulla creata ultimus finis est in intentione creantis, in quantum creans, sed propria essentie operatio: unde est quod non operatio propria propter essentiam, sed hec propter illam habet ut sit. Est ergo aliqua propria operatio humane universitatis, ad quam ipsa universitas hominum in tanta multitudine ordinatur; ad quam quidem operationem nec homo unus, nec domus una, nec una vicinia, nec una civitas, nec regnum particulare pertingere potest. Quae autem sit illa, manifestum fiet si ultimum de potentia totius humanitatis appareat 33.
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Quel che in questo passo, assai abilmente costruito, Dante disse, già, in parte, è stato chiarito. Ma soltanto in parte. E occorre infatti aggiungere che se a ciascuna delle particolari essenze che qui sono numerate e assunte come esempio è intrinseco uno scopo che, a sua volta, implica un’operazione atta a conseguirlo, non solo scopi e operazioni si rivelano come ciò in vista di cui le essenze sono quel che sono (« non operatio propria propter essentiam », dice infatti il testo, « sed hec propter illam »), ma altro si dà a vedere e dev’essere messo in rilievo. Quel che si dà a vedere e dev’essere posto in rilievo emerge, in effetti, là dove, in questo passo, si parla di un fine che, com’è proprio a ciascuna delle particolari essenze rispondenti ai nomi dell’uomo, della domestica comunitas, della vicinia, della civitas, del regnum, così anche lo è, e deve esserlo, dell’intero genere umano. Il fine, si legge in questo passo, che Deus ecternus arte sua, que natura est, in esse producit, è quello in vista del quale quello, il genere umano, è stato creato. E poiché, come anche qui su si legge, Dio e la natura niente fanno di vano e di ozioso 34, e quel che da essi riceve l’esistenza est ad aliquam operationem, ecco che la tesi alla quale si accennava comincia a prender forma. A quel modo infatti che ciascuna essenza particolare è per il fine in vista del cui raggiungimento svolge la sua particolare operazione, così anche l’umanità totaliter accepta ne ha uno, e, per conseguirlo, svolge la sua operazione. Alla quale nessuna operazione particolare può essere sufficiente; perché, appunto, le operazioni particolari sono particolari e non conseguono che il fine al 34
I III 3: « Deus et natura nil otiosum facit ». E cfr. Arist. de coelo A 4, 271 a 33 ' δ θε)ς κα* + φ σις ο.δ ν μ θην ποιο/σιν; e la nota di Nardi, p. 291. Ma per la nozione della non oziosità della natura, in riferimento a Arist. de an. 470 B 20 e 24, si veda Averrois Comentarium magnum in Arist. de anima libros, I, 53, 14-22 (ed. Stuart Crawford, Cambridge Mass. 1953, pp. 74-75): « videmus enim quod quidlibet habet formam propriam et corpus proprium, idest animam propriam et corpus animalis proprium. Et hoc quod dicit est manifestum in speciebus valde. Membra enim leonis non differunt a membris cervi nisi propter diversitatem anime cervi ab anima leonis. Et si esset possibile ut anima leonis existeret in corpore cervi, tunc Natura ociose ageret. Et hoc etiam manifestum est in individuis eiusdem speciei; et ideo diversi sunt mores ». E cfr. III, 60, 24 ss. : « deinde dixit: necesse est igitur ut sensus sit in animalibus, etc. Idest, et apparet quod necesse est ut sensus sit in omni animali; et hoc quia Natura nichil facit ociose. Omnia enim naturalia aut sunt propter aliquid, aut sunt accidentia consequentia naturam de necessitate, et non intenduntur, v.g. pili qui oriuntur in locis non determinatis in corpore. Et cum ita sit, si animal non haberet sensum, cum hoc quod est ambulans, statim corrumperetur antequam perveniret ad complementum; et tunc Natura ageret ociose, cum incepit generare entia que non possunt pervenire ad finem in maiori parte, aut omnino » (ed. cit., p. 533: e cfr. p. 534).
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quale sono destinate, laddove quella che concerne l’umanità tutt’intera da questa soltanto può essere avviata verso il suo compimento. L’ulteriore svolgimento che Dante impresse alla questione è affidato ai successivi paragrafi di questo terzo capitolo; e, fra breve, ne sarà affrontato l’esame. Non prima, per altro, che di quanto è stato fin qui argomentato non si sia dato il commento. La questione che incomincia a delinearsi non è, in effetti, semplice; e ha almeno due aspetti. Se ogni singola essenza ha, intrinseco ad essa, il suo fine e svolge perciò un’operazione che al conseguimento di questo è conforme, ebbene che cosa s’intende per « singolo »? E come, nel quadro del tutto, richiede di essere valutata la sua specifica operazione? Se, senza preoccuparsi per ora di cercare nelle fonti, possibili e probabili, alle quali Dante attinse, e di stabilire fino a che punto vi concordasse o ne divergesse, si guarda innanzi tutto al modo in cui il suo argomento si presenta, l’attenzione dovrà concentrarsi su due punti. Il primo riguarda l’analogia, e l’attendibilità dell’analogia, che, in concreto, egli stabilì fra i termini che, in quanto tale, la costituiscono. Il secondo, assai più complesso, ha una radice nel primo; e riguarda l’assunzione dell’umanità come autrice e soggetto dell’operazione richiesta dal fine al quale Dio e la natura l’hanno disposta e destinata. I termini dell’analogia sono, da una parte, il pollice, la mano, il braccio e, infine, l’uomo. Da un’altra, l’uomo stesso che, vertice della prima serie, si pone, nei confronti della seconda, come il suo inizio. E dopo l’uomo, ecco infatti le forme ascendenti che, di grado in grado, conducono alla forma più alta e complessa dell’organizzazione sociale e politica, all’Impero. Per sé stessa, l’analogia è un’analogia; e non pone particolari problemi. È in sostanza una similitudine che, nel realizzarsi, mantiene sé stessa e non trapassa in identità, né pretende di essere la stessa cosa di questa. Il pollice è un pollice, e non l’uomo a cui, stabilita l’analogia, corrisponde. E così via. Il « come ... così », che dell’analogia è il simbolo grammaticale, lascia insomma, fra l’un termine e l’altro che gli corrisponde, uno spazio non riducibile, che segna la differenza e ne è segnato. Se in una parte di sé, e senza tuttavia la pretesa di trascendervisi, l’analogia allude all’identità e in qualche modo ambisce a raggiungerla, non per questo si avrebbe ragione se si assumesse che sia questo lo scopo che Dante si prefisse, e il senso che conferì al suo discorso. È vero, senza dubbio, che se il pollice non è l’uomo, e questo non è il pollice, sia l’uno sia l’altro sono parti di un organismo. È vero che entrambi, e l’uno non meno dell’altro, hanno un fine, per conseguire il quale svolgono la conforme operazione. È vero, dunque, che per questo aspetto l’analogia tende a
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trapassare in identità (e lo si dice, beninteso, senza che in questa sede sia necessario assumersi la responsabilità dei relativi concetti e del modo in cui, a causa del contesto, li si tratta). Ma, si ripete, non perciò sarebbe giusto sostenere che sia Dante a considerare come identità l’analogia. Fra le due « parti » dell’analogia, fra la prima serie e la seconda, la differenza è, e rimane, netta. E a segnarla è proprio ciò che, in un punto, unifica le due serie: il punto d’arrivo della prima, l’uomo, che è altresì il punto di partenza della seconda. Come vertice della prima serie, e punto d’inizio della seconda, l’uomo possiede infatti quel che, di per sé, nessuna delle sue parti possiede: sebbene ciascuna compia un’operazione in vista del suo fine e possa, non illegittimamente, essere anch’essa considerata un’unità di parti. Possiede infatti l’intelletto. Ed è su questo che, passando a considerare la seconda delle due questioni delineate all’inizio, ci si deve intrattenere. Resta infatti da stabilire se, come vertice e perfezione della prima serie, l’uomo mantenga questo carattere anche in quanto sia, e sia considerato, come il punto di inizio della seconda serie, quella che culmina nell’Impero. Resta da stabilire se, l’operazione intellettuale essendo quella che definisce la sua essenza e il fine che a questa è intrinseco, l’intelletto sia in grado di eseguirla in quanto singolo intelletto, o, come singolo intelletto, di eseguirla non sia in grado, e altro perciò si richieda. Resta da stabilire se, superiore alle parti che in lui, e nell’intelletto che a lui solo appartiene, trovano la loro perfezione, l’uomo non stia, all’interno della seconda serie, nella posizione stessa che, nella prima, compete a una delle sue parti. Insomma, per realizzare nella sua massima potenza l’intelletto possibile, è sufficiente che a pensare sia l’uomo? È, come si vede, un problema assai delicato. Converrà perciò, innanzi tutto, leggere il passo 35 che ne enunzia i termini, e li svolge verso la soluzione che Dante credette di darne: 35 Senza dimenticare, per altro, le linee (Mon. I III 4-5) che immediatamente lo precedono: « est ergo aliqua propria operatio humane universitatis, ad quam ipsa universitas hominum in tanta moltitudine ordinatur; ad quam quidem operationem nec homo unus, nec domus una, nec una vicinia, nec una civitas, nec regnum particolare pertingere potest. Que autem sit illa, manifestum fiet si ultimum de potenzia totius humanitatis appareat ». Queste linee sono importanti sopra tutto perché tolgono, o dovrebbero togliere, di mezzo ogni equivoco che si determinasse in chi fosse incline a pensare che l’operatio, della quale qui Dante parla, sia cosa diversa dalla potentia ultima totius humanitatis. Non è in realtà cosa diversa: il che importerebbe che fosse l’operatio a far sì che questa potentia ultima si realizzasse. È la stessa cosa: quale che sia l’ulteriore condizione (il concorso di ogni uomo all’impresa comune) che, a giudizio di Dante, si richiede al suo realizzarsi. Per le complicazioni, non poche né di poco conto, a cui questo concetto della collaborazione degli individui va incontro, cfr. infra, nel testo.
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Dico ergo quod nulla vis a pluribus spetie diversis participata ultimum est de potentia alicuius illorum; quia, cum illud quod est ultimum tale sit constitutivum spetiei, sequeretur quod una essentia pluribus spetiebus esset specificata: quod est inpossibile. Non est ergo vis ultima in homine ipsum esse simpliciter sumptum, quia etiam sic sumptum ab elementis participatur; nec esse complexionatum, quia hoc reperitur in mineralibus; nec esse animatum, quia sic etiam in plantis; nec esse apprehensivum, quia sic etiam participatur a brutis; sed esse apprehensivum per intellectum possibilem: quod quidem esse nulli ab homine alii competit vel supra vel infra. Nam, etsi alie sunt essentie intellectum participantes, non tamen intellectus earum est possibilis ut hominis, quia essentie tales speties quedam sunt intellectuales et non aliud, et earum esse nichil est aliud quam intelligere quod est quod sunt; quod est sine interpolatione, aliter sempiterne non essent. Patet igitur quod ultimum de potentia ipsius humanitatis est potentia sive virtus intellectiva. Et quia potentia ista per unum hominem seu per aliquam particularium comunitatum superius distinctarum tota simul in actum reduci non potest, necesse est multitudinem esse in humano genere, per quam quidem tota potentia hec actuetur ; sicut necesse est multitudinem rerum generabilium ut potentia tota materie prime semper sub actu sit : aliter esset dare potentiam separatam, quod est inpossibile. Et huic sententie concordat Averrois in comento super hiis que de anima 36.
È un passo importante; e, come si vede, pone questioni di grande delicatezza. Richiede perciò di essere considerato con particolare attenzione perché, per un verso, la questione che vi è dibattuta riguarda la specie, ossia l’umanità assunta come tale, nella sua interezza, e in vista, per conseguenza, dell’operazione che, come tale, ossia nella sua interezza, le è propria e ne è compiuta. Ma, per un altro, riguarda l’uomo nella sua singolarità, e l’intelletto che, in questa, gli appartiene. Ed è una questione sul serio difficile, perché, e di questo dovrà appunto discutersi, se, come specie, ossia come tota sumpta, l’umanità realizza, semper et simul 37, l’intelletto, è pur sempre l’intelletto dell’uomo, l’intelletto 36
Mon. I III 5-9. I due avverbi ricorrono, e sempre riferiti al soggetto humanitas, humanum genus, a distanza di poche linee l’uno dall’altro: sì che non è arbitrario accomunarli in una formula interpretativa unica. Il cui senso non si risolve per altro in una pedanteria per la ragione che risulta chiara se si va a riscontrare Arist. de an. B 4, 415 b 3-5 0πε* ο1ν 37
κοινωνε2ν δυνατε2 το/ ε* κα* το/ θε#ου τ4 συνεχε#6α, δι τ) μηδ ν 0νδ7χεσθαι τ8ν φθαρτ8ν τα.τ) κα* 9ν ριθμ8 διαμ7νειν, : 4 δ ναται μετ7χειν ;καστον, κοινωνε2 τα τ4η, τ) μ ν μ<λλον τ) δ’:ττον, κα* διαμ7νει ο.κ α.τ) λλ’ο=ον α.τ , ριθμ>8 μ ν ο.χ ;ν, ε?δει δ’;ν. Qui, a rigore, Aristotele pone l’ε?δος, la species, e gli individui che vi sono inclusi, non in termini di
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possibile, che essa realizza in atto: ossia un intelletto che, di per sé, e in quanto è « possibile », non sempre è in atto: dal momento che, se lo fosse, sarebbe identico a quello, sine interpolatione, delle sostanze separate, e il singolo uomo sarebbe eterno nel quadro dell’eterna umanità. Una questione difficile: da affrontare, quindi, con cautela, e per gradi. Senza, sopra tutto, impazienza. Che, comunque lo si determini, sia l’intelletto a costituire quel che dell’uomo è proprio nei riguardi di ciò che gli sta o sopra o sotto, si vede con chiarezza se si osserva l’esclusione che Dante fece degli elementi che a torto, a suo giudizio, si addurrebbero alla sua definizione. Non è attraverso l’essere, infatti, che l’uomo potrebbe riceverne una che fosse adeguata alla sua essenza: dal momento che dell’essere partecipano anche gli elementi. Non è attraverso l’esse complexionatum; che si ritrova infatti anche nei minerali. Non attraverso l’esse animatum, che altresì appartiene alle piante; e nemmeno attraverso quello apprehensivum che, in quanto tale, è possesso anche degli animali bruti. Ma è bensì per il suo essere apprehensivum per intellectum possibilem che l’uomo è l’uomo 38. È dunque per questa via che può pervenirsi alla comprensione di quale sia vis ultima in homine 39. Ed è ancora per questa che, mentre per un verso, definito attraverso l’intelletto possibile, l’uomo può a giusto titolo essere considerato come il culmine delle parti che lo costituisimultaneità e compresenza, ma, per dire così, diacronicamente: ossia come quell’individuo simile, ma non identico, al precedente che, morto, seguita a vivere in lui, che gli è simile ( μοιος), e non « uno » ριθμ>8. In questo senso, impossibile nell’individuo considerato nella sua numerica identità, l’adeguazione al divino si realizza nella successione degli individui: con la conseguenza che se la species è intesa come l’eterna generazione di individui simili, di adeguazione al divino non può parlarsi se non alla drastica condizione che a quella, alla species, si guardi con occhio sincronico, e la diacronia sia contratta e risolta nella simultaneità. Che è quello a cui, in questo capitolo della Monarchia (e non nell’altro del Conv. IV XV 2 ss.), Dante fu indotto dall’esigenza di mantener fermo il suo concetto dell’attualità dell’intelletto: sotto l’influsso di suggestioni averroistiche (cfr., per es. Commentum magnum, II, 34, 51-56: « ... ista virtus [generativa] existit in vivo ut generabile et corruptibile communicet cum sempiterno secundum suum posse. Sollicitudo enim divina, com non potuti facere ipsum permanere secundum indviduum, miserta est in dando ei virtutem qua potest permanere in specie »: pp. 182-83). Ma, anche nei confronti di Averroè, il discorso di Dante fu tanto più radicale nell’accentuare il carattere sincronico (tota et simul) della specie, quanto più si teneva lontano dalla specificità del testo aristotelico e, piuttosto, delineava l’idea dell’Impero; che vive bensì nel tempo, ma essendo, totum et simul, l’Impero. 38 Mon. I III 6-7. 39 I III 6.
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scono e da lui ricevono l’unità, per un altro verso si pone come tale che mai la potenza dell’intelletto potrebbe pervenire alla compiutezza del suo atto se soggetto della conforme operazione fosse o lui o anche una delle « parti » in cui, al qua della totalità che assume il nome politico di « impero », l’umanità si raccoglie senza che mai perciò l’unità sia raggiunta. Soggetto dell’operazione volta a realizzare tutta, sempre e simul, la potenza dell’intelletto, dev’essere dunque l’umanità stessa nel suo atto unitario. E qui, più volte affiorate nel corso dell’analisi, le questioni cominciano ad assumere la loro forma, a rivelare la grande difficoltà che chiudono in sé. Siamo, senza dubbio, giunti in presenza di un luogo concettuale di particolare audacia, e di altrettanto grande problematicità; che dev’essere bensì studiato in relazione all’uso che, per la delineazione della sua teoria, con grande spregiudicatezza Dante fece di Averroè 40, ma anche, e innanzi tutto, nella sua specifica tessitura: perché, palesemente, l’indicazione della fonte o delle fonti basta, alla sua comprensione autentica, altrettanto poco della sua (ideologica) assegnazione al versante dell’aristotelismo radicale o di quello, piuttosto, della tradizione tomistica. Il punto essenziale sta nel passaggio che qui, come se, d’altra parte, si trattasse di cosa ovvia, Dante eseguì dalla considerazione dell’uomo, come di quell’essere il cui intelletto è possibile, alla considerazione dell’umanità e dell’operazione intellettuale che, in quanto tale, ad essa compete e appartiene. E poiché, per linee interne, Dante lo eseguì, questo passaggio, con estrema velocità e concisione, una qualche cura dev’essere messa per evitare che quel che in lui è un pregio si trasformi, presso l’interprete, nel suo contrario. Occorre dunque chiedersi che cosa, almeno nelle grandi linee, qui s’intenda per intelletto: per quello che è proprio dell’uomo, innanzi tutto, e per l’altro che, sia o no lo stesso, l’umanità reca, con il suo attuale esser una, all’atto. La risposta al primo quesito fu fornita da Dante, con la più grande chiarezza, là dove scrisse che la peculiarità dell’uomo come essere intellettuale risiede in ciò che, sebbene vi siano alie [...] essentie intellectum participantes, l’intelletto di queste non è, come quello dell’uomo, possibile (o in potenza), dal momento che la loro caratteristica è nichil aliud quam intelligere, ossia di essere intelletto e nient’altro che intelletto, il loro intendere essendo al-
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Cfr. qui su n. 37. Che, anche nei confronti di Averroè, la spregiudicatezza consista nel concetto della totalità/simultaneità, è, se ci si pensa bene, evidente.
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tresì, e di conseguenza, sine interpolatione, aliter sempiterne non essent 41. « Altrimenti non sarebbero sempiterne ». Ma poiché lo sono, e il loro è quindi un intelletto rigorosamente separato da ogni condizionamento corporeo; poiché non si dà oggetto sensibile che s’interponga fra l’atto dell’intendere e il suo oggetto, che è Dio, ne consegue altresì che la sempiternitas di cui godono è la stessa cosa dell’attualità senza tramonto di quel loro specifico intendere che, in quanto tale, è in ogni senso privo di potenza; e assai diverso, quindi, da quello umano. È una tesi, questa, che per questa parte ripete alla lettera quel che già Dante aveva scritto nel Convivio, e ripetuto nella Commedia 42. E poiché consiste nel ribadimento della differenza sussistente fra la peculiarità dell’intendere umano e quella dell’intelletto, continuo, ininterrotto e perciò sempre in atto, delle sostanze separate, ne consegue che, se a questa ci si fermasse, nessuna sorpresa o meraviglia potrebbe mai derivarne. Ma fermarsi qui non è lecito, perché il testo contiene altro, che ne costituisce anzi il tratto essenziale e, in ogni senso, peculiare. Quel che infatti, né nel Convivio né, quale che ne fosse la ragione, nella Commedia, era giunto all’espressione, a questa invece giunse qui, nel terzo capitolo del primo libro della Monarchia. Vi giunse con chiarezza; e lungo una via che presenta bensì, in alcuni suoi tratti, difficoltà non lievi, ma fu non di meno, per quel che concerne lo scopo ultimo, segnata con nettezza, e con estrema audacia. Che, al di là dei difficiliora che la caratterizzano, il vero interesse della tesi stia, per l’interprete laico, nei tratti immanentistici che vi furono indicati e che rifulgerebbero nell’idea dell’autonomia della ragione e, quindi, dell’indipendenza, l’uno dall’altro, dei duo luminaria magna 43, è evidente. Evidente è altresì che, nella mente di interpreti orientati nel senso che s’è detto, lo spunto immanentistico facesse tutt’uno con il tratto eterodosso 44 che anche può 41
Mon. I III 7. Cfr., per es., Conv. III XIII 5-6. Ma rinvio, per questa parte, al secondo capitolo di questo libro. Per la Commedia, cfr. Par. XXIX 76-84. 43 È la tesi proposta per la prima volta, credo, da G. Gentile, La Filosofia (« Storia dei generi letterari italiani »), Milano 1904, p. 140 = Storia della filosofia italiana (fino a Lorenzo Valla), Firenze 1962, p. 183. E cfr. I problemi della Scolastica e il pensiero italiano, Firenze 1963, pp. 27-28; nonché, per un altro esempio, Pensiero e poesia nella Divina Commedia, in Studi su Dante, Firenze 1965, p. 107 (questa parte del saggio risale al 1909). Alla tesi gentiliana dette il suo assenso il Nardi, Saggi di filosofia dantesca cit., p. 256. 44 Non però presso Gentile; che a questo aspetto della questione non dette, e non a torto, rilievo, a lui interessando lo spunto immanentistico e l’anticipazione conseguente 42
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notarsi nella movenza più profonda del terzo capitolo e che ricevette la sua conferma dall’esplicita citazione del commento di Averroè al de anima. Ma comunque si giudichi del tratto immentistico, nonché di quello eterodosso, comunque sia di Averroè e dell’uso che, in questo capitolo, pur Dante ne fece, il discorso non può fermarsi qui. Altro occorre notare. Innanzi tutto, la difficoltà che sempre il pensiero cristiano incontrò nel tentativo che esperì di stabilire un nesso non estrinseco con la filosofia aristotelica. In secondo luogo, la forma specifica di queste difficoltà. Che, si badi, non sono conseguenti all’essersi Dante allontanato, per qualche ragione, dalla retta via. Ma sono difficoltà, difficoltà logiche, e basta: nate dal modo, e consistenti nel modo, in cui l’istanza che lo dominava, quella della filosofica dimostrazione della necessità dell’Impero, prese forma nella sua mente. È dunque a queste che ci si deve ora rivolgere. E notare, innanzi tutto, e sottolineare, il particolare inconveniens che a Dante forse si presentò quando, mosso dall’ambizione di fornire alla necessità dell’Impero il fondamento di una dimostrazione rigorosa e irresistibile, gli venne fatto di considerare che se quello, il fondamento, fosse stato indicato nell’intelletto del quale l’uomo è in possesso, e che, poiché è possibile che passi all’atto, proprio per questo è impossibile che lo sia sempre, la sua discontinuità si sarebbe inevitabilmente ripercossa sull’oggetto della dimostrazione: sull’Impero e sulla sua conseguente necessità. Se, insomma, a criterio della dimostrazione fosse stato assunto l’intelletto possibile, la dimostrazione ne sarebbe paradossalmente conseguita tanto più rigorosa quanto più nell’oggetto avesse messo in luce la discontinuità; che dell’intelletto possibile è, nell’idea che Dante ne ebbe, il carattere precipuo. La dimostrazione, in altri termini, sarebbe risultata conforme sia a sé stessa, e alla sua logica intrinseca, sia, se si vuole, alla realistica condizione delle cose umane, nelle quali le forme politiche, e quella imperiale fra queste, si costituiscono e poi spariscono, come avviene ai « liti » che « ’l volger del ciel della luna/ cuopre e discuopre
del pensiero moderno. Non so se Gentile avesse nozione diretta del trattatello antidantesco del Vernani che, del carattere eterodosso della Monarchia, fece, come si sa, il Leitmotiv della sua alquanto meschina requisitoria: in particolare sul terzo capitolo del primo libro, cfr. il suo de reprobatione Monarchie, ed. in N. Matteini, Il più antico oppositore politico di Dante: Guido Vernani da Rimini, Padova 1958, pp. 97-98. Sul Vernani, Nardi, Saggi e note, p. 377-85. E anche A. Vallone, Antidantismo politico nel XIV secolo, Napoli 1973.
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[...] sanza posa » 45. Ma a tutto Dante era disposto fuor che ad accogliere questa idea, che l’Impero potesse subire la sorte delle cose che, sul grande palcoscenico del mondo, entrano ed escono, si accendono e si spengono, si danno a vedere per poi sottrarsi allo sguardo e sparire per sempre. La battaglia che conduceva dentro la sua mente, e nella quale impegnava tutte le energie della sua logica, era per la necessità dell’Impero: non, semplicemente, per la sua possibilità. Di qui il tentativo che, autore di un sogno grandioso di assolutezza, e vittima al tempo stesso della logica paradossale che gli si era formata nella testa e con la quale era impegnato a farne una filosofia, Dante mise in atto di oltrepassare il limite segnato dalla discontinuità e di navigare, al di là di quello, su acque, occorre dire, mai navigate da alcuno. Se fossimo in vena di ingegnosità, e il talento fosse comunque quello che presiede a interpretazioni miste di metaforicità e allegoria, potremmo suggerire che il limite costituito dall’intelletto possibile e dalla sua discontinuità fu per Dante la « foce stretta » che, audacemente, come Ulisse, egli forzò in sé stesso per arrivare, non tanto, come l’eroe greco, al naufragio, quanto piuttosto alla delineazione di una più alta e radicale verità. Ma non c’è bisogno di dir male delle interpretazioni intessute con il fragile filo delle metafore e delle allegorie per mettersi al riparo delle critiche che a questo dirne male potrebbero esser dirette, e per affermare che, anche nella forma che le è stata conferita, in questa tesi c’è del vero. Ulisse a parte, non implausibile è l’interpretazione che qui si propone. Non è audacia eccessiva dire che, certo, non senza audacia, Dante esperì, in questo punto, un radicale tentativo di andar oltre. Se l’intelletto possibile è per un verso il pregio dell’uomo e, per un altro, il suo limite, se di questo e non di quello l’Impero risentirebbe se del limite non si potesse procedere al superamento, era a questo, dunque, era al superamento, che occorreva dar corso. Occorreva che non sulla « parte », ma sul « tutto », l’Impero si fondasse per pervenire alla pienezza del suo atto. Occorreva che non l’individuo e il suo « individuale » intelletto conducessero l’operazione, ma la specie. La quale, deve dirsi, è costituita bensì dagli individui che la abitano, le stanno dentro e in tal modo danno luogo al suo essere. Ma poiché, come Aristotele aveva detto chiaro nelle Categorie, τ) [...] ε δος κατ το/ τ μου κατηγορε2ται 46, la specie si predica dell’individuo (mentre il ge-
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Par. XVI 82-83. Arist. Cat. 3a 38-39.
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nere e della specie e dell’individuo) 47, di qui si ricavava con sufficiente chiarezza che della questione non si sarebbe colto l’aspetto essenziale, e più profondo, se della specie ci si fosse ristretti a dare la prima di queste due definizioni, e di essa si fosse detto che, in quanto a costituirla sono gli individui, è da questi che la sua realtà dipende, è a questi che perciò è posteriore. È vero infatti che, non la specie è posteriore agli individui, ma questi sono posteriori alla specie della quale, essendone perciò definiti come individui, si predicano. Il punto è estremamente delicato perché, a parte gli sviluppi che la questione assume nella filosofia di Aristotele, se è vero che la specie non si risolve negli individui che la costituiscono, se è vero che non ne è la somma, ed è invece idealmente anteriore al loro esserci, la conseguenza è che l’operazione che le sia attribuita dev’essere considerata nel segno non della collaborazione che l’uno dia all’altro in vista del raggiungimento di qualcosa che, con altri mezzi, conseguibile non sarebbe, ma di tutt’altro. Dev’essere considerata nel segno di un’operazone intellettuale che, in quanto tale, la specie compie nella prospettiva di un risultato che sarebbe da giudicare inconseguibile se, per ipotesi, lo si assegnasse all’iniziativa di un individuo, o di un soggetto, comunque, che di quella, della specie, non possedesse l’estensione. La distinzione che qui si propone è, salvo errore, per penetrare nella cosa stessa del pensiero dantesco, essenziale. E altro infatti è dire che un risultato, in questo caso la realizzazione in atto di tutt’intera la potenza dell’intelletto, è conseguibile attraverso il coordinamento e la collaborazione degli individui, e perciò degli intelletti che ciascuno possiede come il suo proprio. Altro è dire che, conseguito dall’operazione intellettuale che ha come soggetto la specie, il fine che questa consegue non è raggiungibile da un soggetto, come qui su lo si è definito, meno esteso. A quale di queste due prospettive, divise da una linea sottile, senza dubbio, ma nettissima, si ispirò il pensiero di Dante? A questo punto, il testo deve tornare, nella sua parte conclusiva, sotto gli occhi del lettore: Potentia etiam intellectiva, de qua loquor, non solum est ad formas universales aut speties, sed etiam per quandam exstensionem ad particulares: unde solet dici quod intellectus speculativus extensione fit practicus, cuius finis est agere atque facere. Quod dico propter agibilia, que politica prudentia regulantur, et propter factibilia, que regulantur arte: que omnia speculationi ancillantur tanquam optimo ad quod humanum genus Prima 47
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τ) δ γ7νος κα* κατ το/ ε?δους κα* κατ το/ τ μου (Cat. 3 a 39).
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Bonitas in esse produxit; ex quo iam innotescit illud Politice: intellectu, scilicet, vigentes aliis naturaliter principari 48.
Ebbene, ora che anche la parte conclusiva del terzo capitolo è stata citata e che il quadro è perciò completo, una considerazione d’insieme s’impone. E anche su quel che già si sia, almeno in parte, commentato deve tornarsi. A seguire il capitolo nel suo punto culminante, e, a cominciare da quello indicato dalla citazione averroistica, senza per il momento troppo preoccuparsi delle sue possibili, o addirittura probabili, ascendenze filosofiche, un elemento emerge con nettezza. Ed è il carattere fortemente problematico dell’intelletto del quale l’uomo vanta il possesso, e che dovrebbe perciò esser detto e inteso come individuale, soltanto individuale. Il che significa appartenente a questo, e non a quello, a quell’altro ancora e non ai precedenti due e, quindi, a ogni altro che a questi si aggiunga con lo stesso carattere dell’individualità. Tanti individui, tanti intelletti. Il che, ancora, significa che questi sono non solo numerabili al pari degli individui fra i quali, per appartenervi e potervi appartenere, si dividono, ma tali anche che, per essere conformi alla definizione che se ne dà, dovrebbero, tutti e ciascuno, essere segnati da un’intrinseca capacità di negazione. Se in quell’intelletto questo intelletto non negasse qualcosa che a lui non appartiene e, in questo atto, non ricevesse, da quello negato, e subisse la negazione, nessun intelletto potrebbe sfuggire al destino di non essere quel che presume e pretende: un individuale e individuabile intelletto. C’è un altro modo per rendere pensabile questo arduo concetto dell’individualità dell’intelletto, che non sia questo che rifulge nella negazione, nel « non », che ciascuno è nei riguardi dell’altro? Forse che basterebbe invece dire che all’indubitabile molteplicità degli individui corrisponde, nella sfera intellettuale della quale tutti partecipano, la molteplicità, altrettanto perciò indubitabile, degli intelletti? Certo che no. Ma basta, tuttavia, un minimo di riflessione per avvedersi che nemmeno il « modo » della negazione risolve la difficoltà: ché, anzi, rigorizzato attraverso quello, il problema si mostra chiuso ad ogni possibile tentativo di soluzione. Non sono infatti se non la stessa, e identica, negazione, le negazioni che dall’uno intelletto si dirigono verso l’altro: che, proprio per questa ragione, non è e non può essere un altro intelletto, non è e non può essere negato nell’atto stesso in cui impossibile altresì si rivela la negazione della quale, a torto, lo si considera il soggetto. Se,
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nei confronti dell’altro (del presunto altro), ogni intelletto è segnato dalla negazione, della quale è il soggetto e, non meno, l’oggetto, non è dunque evidente che ciascuno è identico all’altro, è lo stesso intelletto, che non può per conseguenza essere definito come quel particolare e, anzi, individuale intelletto? In realtà, sebbene questo giro argomentativo per certo, in quanto tale, non gli appartenesse, e della particolarità e individualità di coloro che dell’intelletto sono dichiarati individuali possessori a dubitare Dante non giungesse mai, nessuno (sia consentito dirlo) dovrebbe per sé stesso essere così poco disposto al rigore da assumere che, poiché era estraneo alla sua consapevolezza, il concetto che di quel giro argomentativo costituisce il criterio non contribuisca alla comprensione di quel che, se non l’intenzione, la res include in sé. Nessuno. E perciò si prosegua. Si prosegua osservando che a essere proprietà di questo individuo, di quello e poi, ancora, di quell’altro, è infatti pur sempre l’intelletto; che se esso stesso fosse un « individuo », ne verrebbe la conseguenza, per un verso assurda ma, per un altro, necessaria, che l’individuo non potrebbe non coincidere con quel che possiede. Ossia con l’individuo stesso e quindi, in questo contesto, con « niente »: dal momento che di niente che non fosse l’individuo questo verrebbe predicato quando si dicesse che « individuale » è il suo intelletto. Se, viceversa, in luogo di farne un individuo, dell’intelletto si assume e si tiene fermo che sia l’intelletto, e sempre in possesso perciò di un carattere che, se mutasse, l’intelletto stesso muterebbe e non sarebbe quel che si definisce con quel nome, allora la conseguenza dev’essere tratta con rigore. E questa è che, come l’intelletto non può essere l’individuo se si tiene fermo al punto che è l’intelletto, e non l’individuo, quel che questi possiede, di qui ne discende un’altra, inevitabile. E questa è che se sul serio si assume che l’individuo, ogni individuo, si predichi di un intelletto che è l’intelletto, e non l’individuo, allora non solo l’intelletto non è moltiplicabile per gli individui che lo posseggono, e non ne sarebbero in possesso se la moltiplicazione avesse luogo, ma nemmeno gli individui lo sono: per sé stessi e in quanto individui. Nemmeno gli individui sono gli individui. Neppure di essi può dirsi, se non in virtù del dogma asserente la loro molteplicità, che sono molteplici. E non si dà pertanto se non un individuo, senza intelletto. E un intelletto senza individuo: senza cioè che, per esser tale, gli occorra un individuo che lo pensi, e pensandolo, lo realizzi 49.
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Alle questioni delineate qui su basterà in questa sede avere accennato: che, se le si svolgesse, a ben altro che a una nota dovrebbe darsi forma.
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Astrattezze, violenze esegetiche, sovrapposizioni, discorsi che conducono lontano dal testo? E perché mai? Queste non sono astrattezze se non per chi, dopo aver parafrasato il testo, si contenti di indicarne le fonti possibili o probabili, e altro non chieda, di altro non si prenda cura. Non sono discorsi condotti al di là della linea storica del testo e irriferibili, per conseguenza, a quel che vi sia stato pensato. Non sono violenze esegetiche. Concedendo al testo la possibilità di esprimere quel che contiene in sé e, in forma esplicita, non dice, il tentativo che qui si compie di farlo parlare tiene conto del « non detto » come di ciò che costituisce la condizione del suo venire, o affiorare, alla luce. Facendolo affiorare, lo storicizza. In realtà, se l’intelletto è l’intelletto, se possiede una struttura necessaria, e cioè tale che, se a questa dovesse rinunziarsi, anche all’intelletto si rinunzierebbe, la conseguenza dev’essere tratta con rigore. E con rigore deve essere messa in luce l’impossibilità che, essendo quello che è e si dice che sia, l’intelletto sia conforme e conformabile alla molteplicità degli individuali soggetti ai quali lo si attribuisce. Reso conforme agli individui, l’intelletto (deve ripetersi) non è l’intelletto: è un individuo. È la stessa difficoltà, e non paia paradossale, vale anche per l’altro assunto: che per tutti, ossia per tutti gli individui fra i quali di volta in volta, e di tempo in tempo, l’umanità si divide nell’atto in cui li unifica, si dia un unico intelletto. Anche questo svolgimento averroistico di una cruciale tesi aristotelica è, infatti, aporetico. Se per « tutti » l’intelletto è lo stesso intelletto, non si danno se non due alternative. O si assume che « tutti » e intelletto siano lo stesso, e che per conseguenza si dia bensì l’intelletto ma non, diversi da lui, i « tutti » ai quali quello sarebbe comune. Oppure che vi siano e si diano i « tutti », i quali, divisi in altrettanti « ciascuno », danno come somma i « tutti ». E allora a esserci saranno bensì questi (tutti e ciascuno), ma non l’intelletto; che, si ripete, se rigorosamente fosse assunto come unico, i « tutti » non potrebbero dividersi nei « ciascuno », e a esserci non sarebbe se non lui: l’intelletto, con la sua perenne e non tramontabile attualità. La difficoltà che qui si è delineata è, d’altra parte, del tutto analoga, anzi identica, a quella che dà segno di sé nella questione della potenza e dell’atto; che, nel contesto del terzo capitolo del primo libro della Monarchia, assume un tutt’affatto specifico carattere. La virtus intellectiva della quale si fa parola in questo capitolo (§ 8) è insieme potenza e atto. È, si potrebbe dire, potenza e potenza dell’atto. E, come inevitabilmente avviene nelle derivazioni aristoteliche della teoria, non senza
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ambiguità l’atto presuppone bensì l’esserci della potenza che ne viene, appunto, recata all’atto, ma non senza che, a sua volta, quella, la potenza, presupponga l’atto del quale è la potenza: nel duplice, e irrisolto, senso che ne è la materia e anche, tuttavia, qualcosa di più, e cioè la condizione (per la quale l’atto è l’atto). Il che non va, se ci si pensa (e come perciò non è difficile constatare), senza un grado assai alto di ambiguità: dal momento che nella prima di queste due accezioni la potenza si configura come materia e passività, mentre nell’altra, poiché è condizione, si rivela come essa stessa, in qualche modo, atto: come l’atto che fa sì che l’atto la conduca all’atto. Insomma, per un verso la potenza è materia, è passività; e, in quanto tale, è meno di una « condizione ». Per un altro, è condizione; e, in quanto tale, è più di materia e di passività: anche se non fino al punto (ed ecco che perciò l’ambiguità si conferma e persiste) che, unificandosi con l’atto, questo possa liberarsi dalla sudditanza che lo lega alla materia come alla condizione del suo poter sul serio, e nel senso pieno della parola, essere l’atto. È la stessa ambiguità che, quando si cerchi di andare alla radice della questione che concerne la natura dell’intelletto, e dell’anima, si rende manifesta nella teoria in forza della quale quest’ultima si tripartisce nella funzione vegetativa, in quella sensitiva e, infine, nella suprema e conclusiva, nella funzione, appunto, intellettiva, esibendo un percorso che dal grado più basso la conduce al più alto e, in questo segno, la realizza. Che anche qui vi sia ambiguità, e di un segno assai alto nella scala, è evidente. Per un verso, e Dante lo disse, nel Convivio, III II 12, nel modo più chiaro, l’anima vegetativa, « per la quale si vive, è fondamento sopra ’l quale si sente ». Ossia è fondamento dell’anima sensitiva che, a sua volta, lo è dell’intellettiva: in modo tale che, mentre la seconda delle tre non può stare senza la prima, la terza non può stare senza la seconda: con la conseguenza che sono, di volta in volta, le funzioni inferiori a godere, rispetto alle superiori, di un grado più alto di indipendenza e, in questo senso, di autonomia. Non questa è la sede nella quale convenga chiedersi se la situazione che qui è stata definita mediante il nome dell’indipendenza e dell’autonomia possa sul serio, e cioè nei riguardi del concetto, essere definita così. Ma non può invece non darsi rilievo a quel che, in questo medesimo contesto concettuale, si dà a vedere e prende forma. Per un altro verso, infatti, Dante disse anche che « quella anima che tutte queste potenze comprende, ed è perfettissima di tutte l’altre, è l’anima umana, la quale colla nobilitade della potenza ultima, cioè ragione, participa della divina natura a guisa di sempiterna Intelligenza: però che l’anima è tanto in quella sovrana
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potenza nobilitata e dinudata da materia, che la divina luce, come in angelo, raggia in quella: e però è l’uomo divino animale dalli filosofi chiamato » (III II 14). Ebbene, che in questo passo, nel quale l’audacia teoretica di Dante toccò uno dei suoi vertici, proprio in questo l’ambiguità raggiungesse anch’essa il suo grado più alto, non è difficile comprendere. Non si tratta solo dell’ambiguità che, appunto, si manifesta nella doppia accezione in cui il concetto di « anima » qui venne preso: se è vero che, per un verso, l’anima intellettiva è soltanto una parte, e sia pure la più nobile, di un tutto al quale, con lei, concorrono le anime sia vegetativa sia sensitiva, e, per un altro, è invece la perfezione di queste anime, e coincide perciò, non con la parte che essa pure occupa nell’organismo, ma con il tutto. Si tratta di questo e, sopra tutto, delle conseguenze che ne scaturiscono; e che si rendono manifeste quando, andando al di là dell’ambiguo gioco per il quale quel che è parte, e perciò s’include nel tutto, include in sé le parti, ed è il tutto, si consideri con attenzione il carattere che alla parte intellettiva fu, in questo contesto, assegnata. L’anima intellettiva è, in effetti, tale che, partecipando della divina natura, è in sé stessa analoga, o, se si preferisce l’espressione più radicale, identica alle sempiterne intelligenze: ossia alle intelligenze separate da materia, le quali sono anche dette « angeli ». Ma se tale è la sua natura, se « tanto in quella sovrana » sua « potenza » è « nobilitata e dinudata da materia », come può essere possibile assumere che a questo, che è il suo carattere, essa tuttavia venga meno, e da trasparente e lucente e sempiterna che era in questi caratteri sia tratta indietro verso la materia e qui sia resa spessa e opaca? Come può essere possibile che, scevro di per sé di tempo (se è sempiterno), l’atto intellettivo ne sia riafferrato e ricondotto là dove il processo della sua realizzazione ritrova il suo inizio, ossia, e per meglio dire, un inizio che non dovrebbe poter essere un inizio? Come può infatti essere possibile che ciò che, essendo « sempiterno », non ha inizio, ne abbia invece, in qualche modo, uno nella « materia », o nella potenza intesa come materia? Risolverle, tali questioni, nel quadro della teoria che le ospita, era in effetti impossibile. È questa, se ben si guarda, è la teoria che costituisce la ragion d’essere della loro insolubilità. E Dante, che la accoglieva, non poteva non esserne vittima. La difficoltà che, in questo giro delicato di questioni, egli incontrava e, poiché non riusciva a riconoscerla, era costretto a subire, – questa difficoltà era ed è inscritta nella teoria aristotelica della potenza e dell’atto riprospettata, come si è visto, nell’altra concernente l’anima e le sue interne articolazioni e divisioni. E, conver-
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rà ripeterlo in sintesi, consisteva in una duplice « impossibilità ». Per un verso, era infatti impossibile, restando in quel quadro, spiegare come accadesse che, perfetto in sé stesso e scevro dunque di elementi che ne contrastassero e ritardassero la compiutezza e, appunto, la perfezione, l’atto potesse tuttavia esser preda di qualcosa che a queste lo sottraesse. Per un altro, era ed è impossibile capire come mai, dal comunque conseguito traguardo della imperfezione, dal vedere, al quale l’interpolazione dell’oggetto aveva sottratta l’essenziale capacità, e cioè il vedere stesso nella sua purezza, si passasse tuttavia a una situazione nella quale, di nuovo, l’atto oscurato si rischiarava e tornava ad esercitare la sua schietta operazione intellettuale. Sia infatti lo spegnimento dell’atto, o, per dirla con la potente espressione dantesca, l’uscita dell’uomo dall’atto della speculazione, sia il processo uguale e contrario, e cioè la risalita dalla potenza all’atto, non sono, in questo quadro, spiegabili se non ricorrendo a qualcosa che, assunto come indubitabile e di per sé stesso evidente, sia definito, per esempio, come il limite intrinseco alla natura umana, la discontinuità appunto della sua virtù, l’accendersi, in essa, e poi lo spegnersi o l’attenuarsi della luce intellettuale. In altre parole: come qualcosa che, assunto a criterio di spiegazione, ne presuppone, senza poterlo tuttavia né indicare né dimostrare, uno che lo spieghi. Del che ci si può di nuovo rendere conto se si torna a considerare quel che già si ebbe occasione di osservare a proposito di analoghe questioni dibattute nel Convivio 50: e cioè che la discontinuità del vedere intellettuale umano è essa a presupporre il « fatto » della perfezione che cede all’imperfezione, e di questa che cede a quella: con la conseguenza che, le due cagioni rinviando l’una all’altra in un circolo, e questo a sua volta presentandosi come un fatto insuscettibile di spiegazione, l’ombra dell’irrazionalità si allunga sull’argomento, dal quale non riesce a essere vinta. In realtà, la questione è tanto più pungente, e meno risolubile, in quanto, a paragone di quello che è proprio delle sostanze separate, l’intelletto che viene assegnato all’uomo è meno perfetto a causa, non della minore luminosità del suo atto, non di un limite che sia intrinseco a questo e alla sua costituzione, ma di altro, che, si ripete, non si riesce a spiegare. Di altro, e cioè del non spiegabile offuscamento che nel suo ambito si produce per l’insorgere in lui, o dinanzi a lui, di un oggetto
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Nel secondo capitolo.
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sensibile che ne contrasta la visione. Considerato in sé, nella sua struttura, l’intelletto dell’uomo è pur sempre, nel suo atto, quello stesso che, nelle sostanze separate, gode della continua e indisturbata visione di Dio. Separato da ciò che, in altri momenti, lo trae giù, nell’oscurità del vegetativo e del sensitivo, anche l’intelletto umano è, in quanto sia in atto, risolto nel suo atto. E poiché a lui l’imperfezione deriva non dalla sua stessa costituzione, ma dall’azione che si assume sia costretto a subire dalle potenze che di tempo in tempo si affermano su di lui e lo traggono in basso, ecco che il paradosso intrinseco a questa situazione si delinea, o torna a delinearsi. Lo si può esprimere attraverso questa domanda, – una domanda che, conviene dire subito, non è suscettibile di alcuna risposta: se, nel suo atto, l’intelletto che si dice umano attinge la perfezione e non è meno atto di quanto ogni atto così concepito lo sia, ebbene com’è possibile che su ciò che è perfetto operi l’imperfezione? Non è forse evidente che se, nella perfezione dell’atto, si postulasse, per spiegarne la decadenza, qualcosa come un nascosto germe d’imperfezione, quello non sarebbe un atto: con la conseguenza che, per ciò stesso che la si postula, non in lui, ma in altro, si postulerebbe la presenza di quel germe? Ne deriva, come si vede, una situazione di evidente instabilità concettuale. Il cui carattere potrebbe, in breve, essere definito come l’intrusione, in un ambiente che ne era stato in ogni senso purificato, ed elevato perciò al segno della perfezione intellettuale, di ciò che è « antropologico » e, nell’intrinseco, è segnato dal carattere opposto. Quel che infatti, per un verso si presenta nel segno della separazione dal vegetativo e dal sensitivo, e perciò della perfezione intellettuale, viene, per un altro, reintrodotto nel quadro da cui era stato, appunto, separato. Come con chiarezza si vede se si considera la situazione dell’anima; che, mentre si definisce mediante una tripartizione che separa e non consente né la comunicazione né il contatto, in questo medesimo atto reintroduce e quella e questo. Le anime sono infatti separate, rette ciascuna da un principio interno che solo a quella che lo possiede appartiene e alle altre no. Ma stanno anche l’una sull’altra, e dunque anche nella posizione del fondamento: come si ricava dall’osservazione dell’uomo, che viene in tal modo violentemente reintrodotto, nella sua unità, in questo contesto; e che è infatti, se lo si consideri così, qualcosa come il vincolo fattuale, e non razionale, delle sue stesse separazioni. Se non si dà vita vegetativa e sensitiva, se, in altri, termini non vive, non può dirsi che l’uomo pensi. Ma, attraverso una via del tutto diversa, l’idea del pensiero
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implica il suo assoluto « esser separato »; e la conseguente impossibilità, per esso, di entrare, senza contraddizione, in un contesto costituito, oltre che da lui, anima intellettiva, dalle altre due. Da una parte, dunque, – dalla parte dell’intelletto, l’antropologia cancellata dalla logica. Da un’altra, – dalla parte dell’uomo, la logica cancellata dall’antropologia. Di qui l’altra, inevitabile, conseguenza. Per un verso, infatti, in quanto si presenta con il carattere della purezza intellettuale e dell’universalità non contaminata (e non contaminabile) dal sensibile, l’intelletto non può essere che unico. Unico, s’intende, non in relazione agli individui; che, appunto, se, come si dice, lo avessero in comune, sarebbero essi l’unico intelletto, e non sarebbero gli individui che lo hanno in comune. Ma unico nel senso che, oltre l’intelletto, non si dà se non l’intelletto stesso. Unico nel senso che, nella sua universalità, l’intelletto non può essere criterio di distinzione e di individuazione. Per un altro, invece, quel che non può ammettersi viene ammesso. Non solo ciò che è « unico » viene assunto nell’impossibile relazione con i tutti, ma, per un altro verso, la perfezione, che dell’« unicità » può a giusto titolo essere considerata come un trasparente sinonimo, è presa come tale che di tempo in tempo la sua luce può essere spenta, il suo atto può essere reincluso nella potenza. Presente in Aristotele, il pregiudizio che è stato definito antropologico opera anche nel pensiero dei suoi commentatori e ideali discepoli: e anche perciò nella tradizione averroistica. Del che, e dell’aspra difficoltà che ne deriva, deve prendersi atto: anche per quel che concerne Dante e questo, per certi aspetti, enigmatico capitolo del suo trattato politico. Un capitolo che di molte difficoltà si pone al bivio; e che, nello svolgimento di queste considerazioni, non è stato certo perduto di vista. Se a questa linea argomentativa si concede l’attenzione che forse merita, non è allora difficile comprendere quel che già in qualche modo vi è stato anticipato; e cioè che la difficoltà che stiamo cercando di illustrare nel suo riflesso dantesco è antica. Non appartiene soltanto a Dante, che certo profondamente ne partecipò e, senza arrivare ad avvertirla come tale e a dominarla, ebbe il merito di renderla, in re, trasparente a sé stessa. Ma appartiene, quanto meno, proprio ad Aristotele, nel quale il pregiudizio, che qui su è stato definito antropologico, interviene nel quadro e ne oscura la purezza: come del resto appare evidente se si paragona il pensiero puro, il pensiero, come in un luogo celebre lo definì, di pensiero, che, νευ τ ς &λης, privo di materia, è
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perciò sempre in atto 51, con il pensiero che non ha questo carattere ed è sottoposto alla discontinuità 52, e non dovrebbe tuttavia esserlo, non dovrebbe patire questa condizione. Non è forse vero che, in quanto e quando sia in atto, il pensiero è in ogni senso identico al pensiero che non è mai in potenza? Non è forse vero che, se è così, e il suo atto è l’atto, la sua decadenza a materia dovrebbe, nel suo caso, essere altrettanto impossibile che nell’altro: nel caso del pensiero che, sempre in atto, non è mai in potenza? E quel che vale per Aristotele, anche vale per coloro che, riprendendo nell’età di Tommaso, di Sigieri e quindi di Dante, la questione dell’intelletto, si posero altresì quella dell’accordo, possibile o impossibile, della sua universalità con la molteplicità dei soggetti pensanti. Quel che vale per questi ultimi vale anche, risalendo per qualche tratto indietro nel tempo, per il gran commentatore, per Averroè, anche lui tormentato, e non poco, dalla questione dell’unicità dell’intelletto, e dall’altra, tuttavia, degli individui 53 che, comunque nella sua ardua speculazione ciò sia spiegato, come individui ne partecipano. E vale, naturalmente, per Aristotele, al quale conviene in breve ritornare. Fortemente avvertita fu, presso di lui, la necessità che agli individui fosse riconosciuto il possesso di un intelletto che, essendo tale, anche fosse l’intelletto di ciascuno, di Callia e di Corisco, di Alcibiade e di Diotìma, e non soltanto l’intelletto dell’intelletto, il pensiero del pensiero, il νο/ς del νο/ς. Ma a questa necessità, che per un verso gli s’imponeva con la forza dell’evidenza e alla quale cercò perciò di conferire dignità di ragione, egli non fu tuttavia in grado di sottendere un fondamento che sul serio fosse tale; che la dimostrasse e non ne rivelasse piuttosto la fragilità. Invece di provare la possibilità di un intelletto che, essendo un intelletto, anche fosse « individuale », e, essendo individuale, anche fosse un intelletto, di questo suo assunto giunse, senza che lo volesse e se ne accorgesse, a provare l’impossibilità e l’impensabilità. Il che, del resto, non deve sorprendere se si considerino con attenzione le categorie delle quali egli si servì per provare la tesi che gli stava a cuore; e che infatti, invece di esserne provata, ne fu distrutta. La peculiarità dell’intelletto che si dice umano ha la sua radice, o la condizione, 51
Arist. Metaph. Λ 1072 b 19-32. Cfr., per es., de an. A 415 b 19-21; e cfr. Phys. A 194 a 27-36 e Metaph. Ζ 1072 b 1-3, dov’è chiarito che gli esseri naturali e, fra questi, gli uomini, tutti tendono all’eternità, che possono per altro conseguire, non in sé, ma nella prosecuzione della specie. 53 Averrois Commentarium magnum in Aristotelis de anima III, 5 (ed. cit., pp. 387 ss.). 52
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se si preferisce, della sua possibilità, in una distinzione; che cade, come si sa, fra la potenza e l’atto, anzi, addirittura, fra i due intelletti che costituiscono la regione alta dell’anima, quella, appunto, intellettuale. Da una parte si dà infatti un intelletto che, sebbene (e lo si tenga bene a mente) sia anche esso slegato e separato dal corpo, del quale non risente perciò in sé le particolari passioni, è tuttavia analogo alla materia e, come tale che in sé stesso è in potenza, è quindi disposto a π ντα γ#νεσθαι, a diventare tutte le cose. Da un’altra si dà invece un intelletto ποιητικ ς, attivo o agente. « Questo intelletto », si legge nel de anima Γ 5, 430 a 17 ss. « è separato (χωριστ ς) e impassibile ( παθBς) e puro ( μιγBς), essendo atto per essenza (τ4 ο.σ#6α Cν 0ν7ργεια): sempre infatti ciò che fa (τ) ποιο/ν) è più pregevole di ciò che patisce (το/ π σχοντος), e il principio è superiore alla materia. La scienza in atto (κατ’0ν7ργειαν) è identica all’oggetto (τ>8 πρ γματι). Quella in potenza è, per il tempo anteriore nell’individuo, ma, in generale ( λως), neppure per il tempo (ο.δ χρ ν>ω). E non è che questo intelletto ora pensi e ora no ('τ μ ν νοε2 'τ δ’ο. νοε2). Separato, è solo quello che veramente è, e questo solo è immortale ( θ νατον) e eterno ( Dδιον): ma noi non ricordiamo perché questo intelletto è impassibile, mentre quello passivo (παθητικ ς) è corruttibile (φθαρτ ς). Senza questo, niente pensa ( νευ το του ο.θ ν νοε2) ». Ebbene, che queste linee famose siano tutte di facile e lineare interpretazione non si direbbe. Se, per un verso, è comprensibile che, sempre che si riferisca all’intelletto in atto, Aristotele escluda che questo ora pensi e ora no, per un altro l’esclusione risulterebbe assai meno comprensibile se la s’intendesse riferita all’intelletto possibile: il quale non è forse vero che pensa « quando » pensa, e cioè quando a attivarne la possibilità o potenzialità sia l’intelletto agente, che di per sé, è separato e sempre pensa? Ma non per questo, e anche dunque se si interpretasse così, la difficoltà sarebbe appianata: ché anzi, proprio in questo caso, si mostrebbe nel segno della più grande asprezza. Se si dà, nell’anima, o per l’anima, un intelletto che è sempre in atto e sempre quindi è nel pieno possesso di sé stesso; se, per questa ragione, non si dà in lui, o fuori di lui, altra potenza da quella che ab aeterno è stata ridotta all’atto ed è dunque impossibile che gli sia esterna, perché mai e come ad esso spetterebbe di discendere sull’altro intelletto, sull’intelletto possibile o in potenza e di estrarne le forme intellettuali che vi sono contenute? Com’è possibile che, invece di essere, come secondo la sua definizione dovrebbe, risolto nella sua propria perfezione, al suo atto, che non dovrebbe poter essere trasceso, l’atto ne aggiunga un altro
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mediante il quale l’intelletto possibile è esso pure recato in atto? E com’è possibile che gli ε δη che quest’ultimo intelletto, il νο/ς, come Aristotele lo chiamò, παθητικ ς, tiene chiusi in sé, vi stiano come ε δη e non, invece, come essi stessi potenze? E se vi stessero come « potenze di ε δη », a quale energia « estraente » l’intelletto agente ricorrerebbe per estrarre quel che, se non fosse in atto, mai potrebbe esserne estratto? Se d’altra parte la δ ναμις includesse in sé l’attualità degli ε δη, come si potrebbe definirla con quel nome e secondo il relativo concetto? Insomma, se nella potenza gli ε δη stessero in potenza, dalla potenza che si assume li accolga non potrebbero in alcun modo distinguersi: e nemmeno perciò potrebbe parlarsene. Se vi stessero in atto, sarebbe la potenza a non poter essere in potenza. Come nell’atto non c’è, e non si dà, se non l’atto, che è eterno perciò, e indistinguibile in atti, così è della potenza; che (e quale che sia la difficoltà che questo asserto reca con sé) non contiene se non sé stessa, e nient’altro che sé stessa. Questa è, fra l’altro, la ragione per la quale, a Γ 4, 429 b 21-25, accogliendo la tesi di Anassagora, Aristotele escludeva che, proprio perché πλο/ν Eστ* κα* παθ7ς, il νο/ς (παθητικ ς), l’intelletto possibile, sia mescolato: è semplice, infatti, è impassibile: πλο/ν κα* παθ7ς. Ma come mai allora di questo stesso intelletto, che è in potenza e non in atto, si dice in un altro luogo (Γ 5, 430 a 24-25) che, a differenza di quello attivo che, esso solo, è θ νατος κα* Dδιος, è φθαρτ ς, mortale? Forse che, per definire mortale quel che è in potenza, non si dovrebbe anche assumere che sia in potenza la mortalità della potenza: in potenza, e dunque, in quanto tale, non mortale? Se quindi, dopo questa rapida corsa attraverso alcuni luoghi cruciali del de anima, si torna alla questione dell’individuo e del suo particolare intelletto, è facile comprendere perché qui su si escludesse che, con le categorie impiegate da Aristotele, l’atto, la potenza, il νο/ς ποιητικ ς, e l’altro, παθητικ ς, la si potesse risolvere in senso positivo. Separato, impassibile, slegato quindi dalle particolarità individuali, è l’intelletto in atto: che, si badi, è comune non agli individui individualmente considerati, ma soltanto a sé stesso, a quell’unico individuo, se si vuol ricorrere a questa metafora, che è lui, l’intelletto. Ma separata dagli individui, e non certo partecipata da questi, è altresì la potenza. E la conseguenza è allora che, come, in questo contesto, la questione degli individui rivela di essere stata dogmaticamente presupposta all’indagine filosofica e di essere perciò, nel quadro di questa, insolubile, così il medesimo avviene nel testo dantesco; che da quel contesto deriva le sue linee essenziali.
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Insomma, e per concludere su questo punto. Degli individui si dice che, poiché esistono, richiedono che la filosofia risolva il problema che così, lungo questa via, essi pongono. Ma, presentato in questi termini, il problema è attualmente sottratto alla sua stessa problematicità. Non si giunge mai infatti, in questo ambito categoriale, a dubitare che non costituisca un problema, il vero problema, un problema che, ricevuto e imposto dall’esperienza antropologica, la filosofia debba appunto accogliere nel suo ambito, imporre a sé stessa, e ridurre perciò ai suoi termini specifici. L’esegesi del terzo capitolo del primo libro della Monarchia ha finito con l’imporre, perché il suo scopo fosse compreso, il confronto con questi luoghi disputatissimi dell’aristotelico de anima. E occorrerebbe ora che il confronto fosse esteso agli altri testi che, per conoscenza diretta o indiretta, alimentarono l’esperienza filosofica di Dante, la costituirono e la orientarono nella direzione lungo la quale si mosse e definì sé stessa. Ma, con la riserva di entrare di volta in volta, e quando il discorso lo richieda, nei particolari, e di addurre i testi necessari, valga, per intanto, una considerazione essenziale; che, con Dante, riguarda le sue fonti possibili, e, fra queste, anche le due che più (e a ragione, naturalmente, per tanti aspetti) sono considerate, e sono, l’una opposta all’altra, – quella tomistica e l’altra averroistica. Senza alcun dubbio, infatti, come in Aristotele, così la questione degli individui e della loro molteplicità, è presente in tutti i pensatori che nella forma del commento o in quella della libera trattazione filosofica, la ripresero da lui e da lui ne derivarono i termini essenziali. Ma altrettanto indubitabile è che, con poche eccezioni, tutti ebbero in comune un’idea dell’intelletto che anch’essa derivava da quella fonte. Pur senza che il proposito sia di delineare una qualsiasi concordantia, deve dirsi che questo suo carattere rifulse anche in coloro che, combattendo la tesi averroistica relativa all’unità e unicità dell’intelletto, non perciò si adattarono a farne qualcosa di contingente, di empiricamente diverso per ciascun individuo: in modo tale che, stante questa originaria diversità, l’idea stessa della partecipazione finisse per esserne, alla radice, resa impossibile. Se, in effetti, si dicesse che, nel dividersi fra gli individui che ne partecipano, l’intelletto non fosse perciò, di volta in volta, se non l’intelletto di questo o di quello, l’assunto della divisione risulterebbe, esso proprio, impossibile. Per potersi dividere, e posto che questo atto del dividersi sia concepibile, l’intelletto deve offrire alla divisione la sua intera estensione: il che significa la sua unità e totalità di intelletto. Se, per contro, fin dall’ini-
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zio, o, come qui si è detto, originariamente, l’intelletto fosse diviso, come non capire che di una divisione dell’intelletto parlare sarebbe impossibile? E come non capire, se così le cose stessero, che altrettanto impossibile sarebbe parlare di « partecipazione »? L’idea della partecipazione incontra in sé stessa non poche, e anzi insormontabili, difficoltà. Basti considerare che non potrebbero esser mai concepibili come privi di intelletto gli individui che, per dotarsi di un intelletto, ne partecipassero. Basti, in altri termini, considerare che necessariamente la partecipazione e il suo atto presuppongono alla loro radice ciò che viceversa dovrebbe conseguirne ed esserne il risultato. Ma se poi, addirittura, al partecipante si sottraesse ciò di cui dovrebbe partecipare, non è allora evidente che il discorso verrebbe a trovarsi in una sorta di zona neutra, concettualmente inerte, nella quale, e dalla quale, nemmeno sarebbe possibile che le difficoltà mostrassero il loro volto specifico? Che, a parte questi suoi più specifici, possibili svolgimenti, il punto della questione sia quello che si è individuato qui su, e, da un lato l’intelletto aristotelico, da un altro l’individuo che esperienza ed evidenza spingono innanzi al proscenio della riflessione, siano tali che, se si tiene fermo alla logica del primo (dell’intelletto), è l’individuo a scomparire, e, se si tiene fermo alla logica di questo, è l’intelletto a perdere o a non poter mantenere più il suo carattere, è, a guardar bene, risultato di nuovo evidente. E evidente è anche, al riguardo, risultata la difficoltà in cui, per esempio, Tommaso d’Aquino incorse quando, al fine di non perdere l’intelletto per l’individuo, e l’individuo per l’intelletto, sostenne che quest’ultimo sta nell’anima che è forma sostanziale del corpo; e di qui trasse la conseguenza nota, e cioè che, se sta nell’anima che è forma del corpo e perciò è anche individuale, all’intelletto questo carattere dell’individualità non può essere negato, deve al contrario essere riconosciuto. L’intelletto, per conseguenza, è l’intelletto. Ma anche è individuale 54. 54
È noto che alla tesi averroistica dell’unità e unicità dell’intelletto, a più riprese Tommaso d’Aquino obiettò, per es. nel commento al de anima, III, lez. 7, che l’uomo singolo intende: dal momento che, se così non fosse, allora dovrebbe conseguirne che a chi sostenga questa opinione non dovrebbe prestarsi alcun ascolto. Non intelligit aliquid, infatti, et ideo non est audiendus. E cfr. anche il de unitate intellectus contra averroistas, V 107 e 109. Ma proprio nel punto in cui Tommaso svolgeva la sua argomentazione la difficoltà si faceva più evidente: dal momento che se al pensiero affermante la verità della tesi relativa all’individualità dell’intelletto si fosse voluto sottrarre il carattere dell’arbitrarietà soggettiva, assegnargli l’universalità era inevitabile; e se questa gli fosse stata
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La difficoltà è in effetti evidente. E, per coglierla, basta considerare che se è pur sempre intelletto quello di cui pur si dice che è individuale; se è intelletto, e qualcosa cioè che, non appartenendo ad alcun organo sensibile, non può non riposare che su sé stesso ed essere perciò, in questa accezione, separato; se è intelletto, e tale dunque che con questo carattere è presente in tutti gli intelletti che pur vogliano considerarsi secondo la loro individualità, – ebbene, dov’è allora il criterio per assumere e dimostrare che, essendo intelletto, questo può anche essere individuale? Forse che il criterio potrebbe essere trovato se si assumesse nell’intelletto una capacità di individuazione e moltiplicazione di sé stesso negli individui? No di certo. Delle due, infatti, l’una. Se, nel moltiplicarsi e individuarsi, l’intelletto resta sé stesso e a sé stesso non sottrae quel che nell’individuazione non potrebbe mai essere contenuto, allora non è l’intelletto che si individua, ma è piuttosto l’individuo che dilata sé stesso fino a coincidere con l’intelletto: con la conseguenza che se nell’individuo l’intelletto ha mantenuta intera la sua estensione, è impossibile che si diano e l’individuo e l’intelletto individuato. Se, per contro, nel moltiplicarsi e individuarsi, l’intelletto sottrae a sé stesso quel che nella individualità non può essere incluso, allora ci sarà bensì l’individuo che ha ridotto a sé l’intelletto, ma non l’intelletto, che solo nella sua compiuta estensione è l’intelletto. E queste sono difficoltà gravi. Difficoltà che non possono essere superate e che, in questo loro carattere, sarebbe relativamente agevole, se questa ne fosse la sede, seguire nell’intrico delle argomentazioni e controargomentazioni tomistiche. Si aggiunga che, se è così, nemmeno potrebbe dirsi che sia in ogni senso pertinente l’osservazione che tante volte è stata proposta in merito alla « immanentizzazione » che, sulla scia di Aristotele, Tommaso avrebbe fatto delle idee platoniche 55. Questa osservazione pertiene bensì, infatti, all’intento e al programma. Non certo al risultato e alla « cosa » stessa che, già in Aristotele, non li confermano e anzi, nell’insieme, li smentiscono entrambi. Non solo, infatti, senza l’anteriorità dell’atto alla potenza, e dell’intelletto agente a quello possibile, non si darebbe il passaggio dalla potenza all’atto, e l’intelletto possibile resterebbe, senza poter pensare, chiuso in sé stesso: con la conseguenza che, non appena l’una e l’altro fossero stati attuati, il modo dell’attuazione e il risolversi assegnata, come sarebbe stato possibile mantenere l’assunto della sua individualità, numericamente, per giunta, intesa? 55 Cfr., per es., Nardi, Dante e la cultura medievale, pp. 146-47; e Gentile, I problemi della Scolastica cit., pp. 110-11, 115.
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in atto sia della potenza sia dell’intelletto rivelerebbero la non originarietà della sintesi. Ma si darebbe in realtà a vedere qualcosa di ancor più paradossale. A tal segno infatti la perfezione della forma è chiusa in sé stessa, e tanto poco è in grado di comunicare al corpo quel che è suo, che dalla sua « costrizione » quello si scioglie, e quindi si dissolve e muore, rendendo estrema testimonianza, in questo suo atto del dissolversi e morire e non esser più, di ciò che, nell’intrinseco, della forma costituisce l’essenza, – la perfezione e la sterilità. Se è così, non aveva torto e, oltre che a veder meglio in Aristotele, anche nella filosofia e nelle sue ragioni penetrava con sguardo più profondo, il gran commentatore di Cordova, nel prospettare come le prospettava le questioni dell’anima. Non solo, infatti, Averroè obbedì a quelle ragioni, e all’esigenza di rigore che caratterizza ogni sua pagina quando, riprendendo la tesi di Temistio, assunse come anch’esso eterno e incorruttibile l’intelletto che definì materiale; ma quando, sopra tutto, al di sopra di questo pose, francamente separato e atto a non pensare se non nel segno dell’universalità, l’intelletto agente: il solo che dalla materia intelligibile rappresentata dall’altro intelletto giudicò che fosse in grado di ricavare, e recare all’atto, gli intelligibili che vi sono nascosti. Non, beninteso, che tutto qui corresse, senza incontrare ostacoli, al « disiato porto » dell’assoluta coerenza. Quel che di non pensato era in Aristotele, tale tornava a essere in Averroè. E difficoltà non lievi incontrerebbe in effetti chi, nell’analizzare la trama concettuale della dottrina, dovesse constatare che anche in questa la coppia fatale della potenza e dell’atto seguita a produrre le sue cospicue complicazioni e anomalie. Il che, per altro, non toglie che notevole sia l’energia con la quale Averroè affisò il carattere essenziale dell’intelletto aristotelico, traendone, le conseguenze. E mostra per converso, con più netta evidenza, la problematicità intrinseca al suo tentativo di tenere in qualche modo fermo agli individui e alla loro molteplicità nell’atto stesso in cui assumeva che l’identica luce intellettuale penetrasse nelle loro menti e le unificasse nel segno della verità. Su questo intreccio di questioni potrebbe, ed è ovvio, discutersi ancora e a lungo. Ma quel che se n’è detto può forse consentire che, tornando sul capitolo dantesco, si colga meglio il punto che in esso si presenta come il più critico. E che consiste non tanto nel carattere, che altri giudicò per intero averroistico, della teoria qui esposta dell’intelletto, ma nel modo piuttosto in cui la concezione che egli ne aveva data nel Convivio entrò in contatto con una tesi del Commentatore fino a
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subirne un forte e assai audace contraccolpo. Si osservi il punto in cui le due teorie si congiungono e l’una (la prima) trapassa, trasfigurandovisi, nell’altra. È quello nel quale, subito dopo aver distinto l’intelletto umano, che è in potenza, o possibile, da quello delle sostanze separate, che non soffre il difetto dell’interpolazione, ed è sempre in atto, Dante riprese l’accenno che già aveva rivolto all’operazione propria humane universitatis: quella stessa della quale, in tanto aveva delineato questo carattere, in quanto aveva ritenuto impossibile che a eseguirla fosse non il tutto, ma, appunto, una delle parti in cui, rifacendo a ritroso il camino lungo il quale era stato conseguito, quello, il tutto, può essere scomposto. Che questa operazione abbia a che fare con l’intelletto, e sia anzi la sua operazione, già lo si è visto e detto. Ma, anche questo lo si è detto e visto, per un verso l’intelletto è quello umano e possibile. È l’intelletto in virtù del quale, restando tuttavia un individuo, l’uomo merita il primo posto nella scala degli esseri viventi. Per un altro, invece, è un’operazione intellettuale che, in quanto tale, appartiene all’umanità, non all’uomo: alla specie, non all’individuo. E la conseguenza è allora che, come l’operazione, attraverso la quale il « possibile intelletto » si realizza, è compiuta dall’intelletto, non dell’uomo, ma dell’umanità, non dell’individuo, ma della specie, così, in quanto soggetto di un’operazione che solo alla sua totalità appartiene, e alle parti no, l’umanità e la specie assumono il volto e la fisionomia di quell’unico intelletto, la cui teorizzazione è opera degli averroisti, non certo degli avversari di questi. Ne consegue perciò che, descrittivamente giusta, l’osservazione del grande studioso che, a proposito di questo cruciale passaggio, asserì che quel che per Averroè è « un être », è per Dante l’umanità o la societas hominum 56, richiede di essere, almeno per un aspetto, modificata. Per un verso, infatti, l’umanità totaliter sumpta è un’operazione intellettuale. È un intelletto che, al pari (si direbbe) di quello ποιητικ ς della tradizione aristotelica, vive della sua propria attualità e non conosce pause, né cadute, nella potenza. È un intelletto che, realizzato, tutto e sempre, nel presente, altrettanto lo è nel futuro (se pure di un futuro sia, in questo quadro, lecito parlare). Per un altro verso, tuttavia, è anche vero che, sebbene la si predichi unitariamente di una sua specifica operazione, la humana universitas, che la compie, non è in quanto tale né un intelletto, né l’unitaria energia che lo caratterizza ed è come l’atto del suo atto. È pur sempre, infatti, e così Dante la presenta, l’umanità, il
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genere umano. La cui totalità è bensì, senza dubbio, la totalità: ma non tale tuttavia che il suo conseguimento possa avvenire altrimenti che aggiungendo la parte alla parte. La totalità, se è così, è una somma, un insieme. Non è l’universale. Per quanto le si consideri nella loro meno esigua e più complessa costituzione, le parti sono pur sempre le parti, ed esistono, di per sé stesse, in quanto tali. Esistono, in primo luogo, negli individui che le costituiscono. E gli individui sono, ciascuno, dotati di un intelletto; che anche qui, in questo capitolo « averroistico », è l’intelletto di ciascuno, con il suo limite, con la sua inevitabile « interpolazione », con la sua discontinuità fra potenza e atto. Ne deriva, perciò, una conseguenza grave e singolare, che richiede di essere colta con nettezza, e posta in evidenza. Per un verso, l’umanità, la società, è l’unitario soggetto dell’operazione intellettuale, che le è propria e a lei sola appartiene, da lei soltanto può essere eseguita. Ma, per un altro, l’umanità è pur sempre pensata come un « insieme », come una somma di individui particolari e di altrettanti intelletti, ciascuno segnato dal limite che non può non riconoscersi nella sua individualità e particolarità. E la conseguenza è allora, in primo luogo, che se l’operazione intellettuale assegnata all’umanità, e non all’individuo, che ne è incapace, fosse bensì l’operazione di quella, e non di questo, ma il suo soggetto fosse tuttavia concepito e inteso come il risultato di una somma di individui e di correlativi intellettivi, nel suo conseguimento non potrebbe non riflettersi, analiticamente, il difetto che è in ciascuno di essi. Il limite, in altri termini, che è del singolo intelletto possibile, si ritroverebbe identico nella somma degli intelletti; che sarebbe infatti niente più che una somma di limiti, non il loro superamento 57. Che è poi quel che, per un altro verso, e spostando lo sguardo sull’altro argomento che qui Dante impiegò, risulta dalla considerazione del processo ascendente della humana societas dalla sua prima cellula all’Impero universale. Un processo che, come è concepibile se lo si considera in questo suo carattere, appunto, ascendente, altrettanto lo è se lo si osserva in quello inverso che, quando cupidigia e malizia invadano il mondo, dall’Impero universale può ricondurre alla cellula originaria; che era il punto d’avvio dell’ascesa ed è ora la mèta della decadenza, e dell’estrema disgregazione. Reso necessario dall’idea 57 La questione alla quale qui si accenna, è, direi, tutt’altro che risolta, è se mai esasperata, nel luogo di Jean de Jandun, In Metaph., I, q. 4, citato da Nardi, p. 302. Insomma, la questione che si pone per Dante, anche per questo acuto averroista dovrebbe esserlo.
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che il tutto non sia se non la somma delle sue parti, questo medesimo esito si fa evidente anche nellâ&#x20AC;&#x2122;argomentazione relativa allâ&#x20AC;&#x2122;intelletto possibile e alla humana universitas intesa come il soggetto della sua propria operazione intellettuale. Lâ&#x20AC;&#x2122;intelletto possibile, del quale soggetto è lâ&#x20AC;&#x2122;uomo, è discontinuo 58, ora pensa, come si leggeva in Aristotele, e ora no. Lâ&#x20AC;&#x2122;intelletto che, nella humana universitas, si realizza attraverso lâ&#x20AC;&#x2122;opera che a questa è propria, è sempre in atto. Ma, oltre che come unâ&#x20AC;&#x2122;originaria unitĂ , la sua universitas è pensata anche come la somma delle sue parti; e come tale, quindi, che non potendo, a rigore, se non riprodurle in sĂŠ con il loro limite, è sempre scindibile in esse. A questo conflitto di tendenze concettuali, al quale lâ&#x20AC;&#x2122;analisi è pervenuta, si dovrĂ concedere, perchĂŠ la sua radice sia colta e per intero recata alla luce, altra attenzione. Ma, qui e ora, conviene fermarsi per un istante, e dare svolgimento a un altro tema che, quando il primo libro e questo capitolo della Monarchia siano messi a raffronto con il Convivio, si rivela anchâ&#x20AC;&#x2122;esso di importanza fondamentale. Vi abbiamo giĂ , piĂš volte, accennato. E ora lo si può riprendere mediante lâ&#x20AC;&#x2122;osservazione secondo cui, nello schema concettuale adottato nel Convivio, e in parte, sullo sfondo, presente anche qui, il vertice dellâ&#x20AC;&#x2122;Impero era raggiunto dalla societĂ umana in forza e in ragione di una legge che, intrinseca al decreto provvidenziale e, attraverso questo, alla natura, faceva sĂŹ che, al pari di ogni altro organismo accrescentesi a partire da una cellula generatrice, anche la societĂ umana si accrescesse e conseguisse la sua mèta, passando, con necessitĂ , di fase in fase. Passaggio razionale, senza dubbio, perchĂŠ, come Dio e la natura niente fanno che sia vano, cosĂŹ la non vanitĂ , la necessitĂ e, appunto, la razionalitĂ del processo erano qui una cosa sola, rivelata nella sua unitĂ e garantita da una Ď&#x2020; Ď&#x192;ÎľĎ&#x2030;Ď&#x201A;, che era altresĂŹ una Ď&#x201E;Îż/ θξο/, Îż κονοΟ#Îą. Passaggio razionale. Ma assunto tuttavia lungo questa sorta di sentiero, fra provvidenziale e naturalistico, e senza che la questione dellâ&#x20AC;&#x2122;intelletto vi fosse in alcun modo implicata. E câ&#x20AC;&#x2122;è di piĂš. Scandito nel segno della provvidenziale volontĂ divina, e della natura che ne è lo strumento, il processo della societĂ umana verso lâ&#x20AC;&#x2122;Impero era pur sempre un atto assegnato, da quella volontĂ , alla volontĂ umana realizzantesi attraverso lâ&#x20AC;&#x2122;Imperatore e in lui. Attraverso e nellâ&#x20AC;&#x2122;Imperatore; che di questo processo era piuttosto 58 La questione delineata nel testo è estremamente complessa; e rinvia alla problematica distinzione della potenza e dellâ&#x20AC;&#x2122;atto. Dante, come si sa, vi alluse anche nel Conv. III XIII 5-8. E cfr., per es., Arist. Phys. Î&#x2DC; 255 a 34-b 5; de an. Î&#x201C; 430 a 10-26; 431 a 1-4.
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l’emblema, il simbolo, che non il soggetto e l’autore. Non dunque attraverso, e in, Aristotele. La volontà e l’intelletto restavano infatti separati. E separate, non coincidenti, non comunicanti, se non in modo estrinseco, l’una con l’altra, erano perciò le rispettive « giurisdizioni », quella filosofica, appunto, e l’altra, imperiale. Sebbene lo schema aristotelico adottato nel Convivio fosse stato in parte mantenuto, le cose mutarono invece, e radicalmente, il loro volto nel primo libro della Monarchia. Nella materia si determinò una netta trasfigurazione anche di quel che, analiticamente, fosse in essa rimasto di immutato quando, con fare da protagonista, nel dramma entrò l’intelletto, e la distinzione sua dalla volontà anch’essa fu transvalutata. Piuttosto che nella forma classica di una distinzione, recante con sé, e implicante in sé, due distinti ambiti giurisdizionali, due distinte e non scambiabili competenze, si ebbe, nelle esplicite parole di Dante, una sorta di estensione pratica dell’intelletto 59; che venne in tal modo a presentarsi come il punto che, collocato alla radice di due semirette dipartentisi da lui, intelletto era sempre, sia nella semiretta propriamente intellettuale, sia nell’altra, che è pratica ma derivante dal, e appartenente al suo ambito. Ne veniva una conseguenza di grande rilievo. La dualità rappresentata dall’Imperatore e da Aristotele, che nel Convivio era stata stabilita, tenuta ferma e considerata come il fondamento della loro reciproca autonomia, qui scompariva. E non perché l’un termine fosse stato sacrificato all’altro, l’idea dell’autonomia avesse ceduto a quella della subordinazione e Aristotele fosse stato innalzato sull’Imperatore, o questo su quello. Non per questo. Ma per una tutt’affatto diversa ragione. In luogo di una subordinazione si ebbe qui l’identificazione. Non nel senso, banale e estrinseco, che ora si desse luogo a un ambito nel quale, conservando ciascuno il loro volto, si facesse che l’uno era tuttavia l’altro. Ma nel senso invece che a prendere forma era un personaggio nuovo, un Imperatore reso filosofo non dall’aggiunta che gli si fosse fatta della filosofia, ma dal suo non essere, ormai, se non il simbolo dell’operazione intellettuale che tutta insieme, simul sumpta, l’umanità compiva per realizzare, con questa, il fine al quale era stata destinata da Dio. La grande differenza che, per questo aspetto, tiene lontani il Convivio e la Monarchia, sta qui. Ed è stabilita dall’intelletto che, entrando in scena, radicalmente trasformò il quadro. Trasformò il quadro, e, in questo
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ticus ».
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atto, rese evidente la difficoltà alla quale già si è accennato e ora deve tornarsi. Se, indicato il « fondamento radicale » dell’imperiale autorità nell’intelletto possibile, questo fosse stato tuttavia pensato come l’intelletto nel quale ogni individuo riconosce e possiede la parte eccellente della sua propria anima, per due ragioni sarebbe stato impensabile che gli si attribuissero la funzione e la dignità che a quella è intrinseca. La prima era che palesemente quel che è del singolo uomo e, sebbene lo abiliti a pensare l’universale, pur sempre e soltanto all’ambito della sua individualità tuttavia appartiene, non può esser posto a fondamento, e considerato, come la condizione essenziale, dell’Impero. La seconda ragione è più sottile, e anche più insidiosa. La si formula osservando che, anche ammessa l’ipotesi che qui è stata esclusa, e cioè che l’intelletto umano potesse costituire il fondamento della comunità imperiale, ne verrebbe questa conseguenza: alla quale già si è accennato e che dev’essere ora di nuovo considerata. E cioè che, non potendo l’intelletto superare il limite della sua propria discontinuità, determinata in lui dall’interpolatio obiecti, da questa anche l’Impero sarebbe, inevitabilmente, stato affètto. E ora sarebbe stato l’Impero, ossia l’atto per il quale l’Impero è l’Impero. Ora non lo sarebbe stato se non in potenza: proprio come l’intelletto umano che è l’intelletto, ma che sia sempre nel suo atto è impossibile. Era una conseguenza inevitabile, questa; e con sé recava una difficoltà grave. Una difficoltà che, quale che fosse la forma in cui gli si presentò, Dante non rese esplicita se non col dire che, poiché tutta intera la potenza del genere umano per unum hominem seu per aliquam particuliarum comunitatum [...] tota simul in actum reduci non potest, ne conseguiva, a suo parere, la necessità multitudinem esse in humano genere, per quam quidem tota potentia hec actuetur 60. Il che, e così si torna a un’osservazione che già è stata formulata, conduce al singolare paradosso per il quale, simul sumpta, l’umanità svolge, per una sorta di implicita analogia, la funzione che, in un altro contesto, è assegnabile all’intelletto agente. Un paradosso o, comunque, un concetto che viene confermato in quel che (in modo, occorre riconoscere, non del tutto perspicuo) viene detto subito dopo: e cioè nelle linee in cui, attraverso un paragone, si spiega come sia necessaria una multitudo rerum generabilium ut potentia tota materie prime semper sub actu sit: aliter esset dare potentiam separatam, quod est inpossibile. 60
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Su queste ultime linee occorrerà intrattenersi a parte, non fosse che per rendere esplicita la sensazione di disagio logico che deriva dalla loro, quasi si direbbe, enigmaticità. Ma, al di là del tratto paradossale che vi è stato notato, è sulle prime che l’attenzione deve restare concentrata. Da notare, e da porre (ancora una volta) in forte rilievo è, innanzi tutto, l’aggettivo tota riferita a potentia, – alla potentia che è nella multitudo costitutiva del genere umano; e quindi l’avverbio simul, che Dante impiegò per caratterizzare la riduzione di questo all’atto. Da notare, altresì, è che la multitudo, che è nel genere umano, e che, come si è detto, per un verso funziona come una sorta di intelletto agente che, sempre e simul, trae all’atto la sua potentia, è tuttavia, per un altro, anche una multitudo. Nella quale, per conseguenza, non meno della totalità che ne è costituita, e del suo, potrebbe dirsi, essere il suo stesso « per sé », anche deve vedersi l’insieme delle parti che, appunto, la costituiscono: non meno, dunque, del momento sintetico, quello analitico. In altri termini, e a questo duplice processo occorre prestare pari attenzione perché a risultarne siano la problematicità e anche, perciò, l’ambiguità del passo, per un verso l’umanità è presa insieme e, se così potesse dirsi, è individuata come un tutto al quale appartiene una specifica operazione. Ma, per un altro, questa operazione è propria di una totalità che consiste in una moltitudine di individui: tanti soggetti e tante operazioni, dunque, che solo attraverso la loro somma sono assumibili come un’operazione unitaria (che unitaria tuttavia, e a rigore, non è e non può essere). Altro, infatti, è assumere che, nella sua unità e nel suo, altresì, essere un tutto, questo e quella sono il soggetto di un’operazione che non passa perciò attraverso le parti di cui l’unità è l’unità e il tutto è il tutto. Qui, per così dire, le parti seguono, l’unità e il tutto precedono. Altro, viceversa, è assumere un’unità e un tutto che delle operazioni compiute dalle parti non sono se non il risultato. Qui a precedere sono le parti; e l’unità e il tutto, che seguono, non sono e non possono essere, nel concetto, conformi al loro nome. I significati che emergono da queste due situazioni sono assai diversi, come si vede. E non unificabili. In un caso, l’operazione è del soggetto (l’unità e il tutto) che la realizza nel suo segno. Nel secondo caso, l’operazione è delle parti; e, come si è detto, quel che ne consegue non è se non una somma e una giustapposizione che al traguardo rappresentato dall’altra è impossibile che, sempre essendone sopravanzate, pervengano. Resta tuttavia che, malgrado questa ambiguità, che è grande e non potrebbe comunque essere sottovalutata da chi sul serio avesse a cuore la comprensione del pensiero che, con quella modalità e subendone la
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conseguenza, venne alla luce, – resta che, per un altro verso, il passo è assai netto. E, anzi, addirittura perentorio nell’assumere che, non meno che nella materia prima, anche nell’umanità si dà quanto basta (ed è, a rigore, l’umanità stessa) a ridurla all’atto: tutta e simultaneamente, tota et simul, ossa in modo tale che nessuna sua parte sfugga all’atto, e, residuandovi, ne offuschi la luce e ne indebolisca l’energia. Sulle conseguenze, paradossali anche queste, che da quanto siamo venuti argomentando è pur lecito trarre, ci soffermeremo presto. Ma non prima comunque che di quel che fin qui è stato in discussione non si cerchi di mettere in luce la radice. E cioè, ancora una volta, l’ambiguità, – l’incertezza nel decidere che cosa debba intendersi per operazione propria dell’umanità tutt’intera: se questa abbia, corrispettivo a quello che le si riconosce quando la si definisca come il « genere umano », il carattere dell’unità o quello, invece, della somma. Le due situazioni richiedono, com’è ovvio, di essere considerate ciascuna per sé e, quindi, nell’opposizione a cui danno luogo. Se l’operazione intellettuale propria dell’umanità fosse considerata come l’unica e unitaria operazione di un unico e unitario soggetto, e quella, l’umanità, avesse per conseguenza assunto il volto dell’intelletto agente, a derivarne sarebbe addirittura la sostanziale scomparsa dell’intelletto possibile: ché non si dà in effetti possibilità, o potenza, dove di questa si dica che necessariamente, semper, simul et tota, è attuata. L’estrema difficoltà che il pensiero incontra nel tentativo di riconoscere una « posizione » che alla potenza competa « in quanto potenza », qui obliquamente si esprime attraverso il paradosso obiettivo per il quale la realtà che le si riconosce non consiste se non nel nome che di quella si pronunzia quando si assume e si dice il suo essere sempre in atto. E il paradosso è sul serio un paradosso. Non è infatti cosa frivola dire che la potenza è tale solo quando e in quanto se ne faccia qualcosa come il soggetto della sua propria impossibilità. – Se, viceversa, si assume l’altra tesi, quella secondo cui alla costituzione dell’umanità come soggetto dell’operazione intellettuale concorre la moltitudine degli individui che, ciascuno con il suo possibile intelletto e con la relativa operazione, la compongono come, non un’unità, ma, piuttosto, una somma, la conseguenza è il profilarsi di un nuovo, diverso (e non meno pungente) paradosso. A rendersene conto non si fa, per la verità, troppa fatica. Ma, ancor prima di sottomettervisi, converrà chiedersi se sul serio nell’idea della multitudo hominum che, in analogia con quel che avviene, nella materia prima, con la multitudo rerum generabilium che vi si trova (o la costitui-
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sce?), forma il genere umano, sia operante l’altra della collaborazione che l’un l’altro gli individui si danno in vista del fine comune. Che questa idea sia stata avanzata da critici autorevoli 61, è un fatto. Che fosse anche l’idea di Dante è possibile, sebbene sia lecito dubitarne: e costituisce comunque un problema. A rigore di termini, il concetto della collaborazione si presenta come una possibile interpretazione del luogo in cui Dante enunziò la necessità che nel genere umano si dia una moltitudine di individui per quam quidem tota potentia hec actuetur; e, in particolare, come un’interpretazione del per quam che, certo, ha valore strumentale, ma di per sé non significa che gli uomini si accordino fra loro per realizzare quel che altrimenti dalla potenza non passerebbe all’atto. A quel modo infatti che (e comunque sia poi della specifica interpretazione del concetto) le res generabiles che in gran numero sono nella materia prima, o ne indicano addirittura l’« estensione » concettuale, rendono operante l’atto « sotto » il quale quella si trova senza che ciò, per analogia, implichi l’idea della loro collaborazione, così è, o potrebbe essere, per gli individui. Dei quali si dice bensì che, al pari delle res generabiles, debbono costituire una moltitudine, non però che al loro esser molti aggiungano la volontà di pervenire, attraverso la collaborazione, a un risultato che, da ciascuno di essi singolarmente preso, sarebbe inconseguibile. Di una collaborazione, di un progetto, di un proposito a cui possa riconoscersi il carattere della volontà e della consapevolezza (e senza questa e quella di collaborazione, di progetto, di proposito non può parlarsi), nel testo di Dante non c’è alcuna traccia. E, se si guarda alla logica che lo costituisce, è perfettamente comprensibile che non vi sia. Se, presa nel suo insieme (e non prenderla così, sarebbe impossibile), la humana universitas è sempre in atto, ammettere che questo sia il risultato di un accordo di collaborazione intervenuto fra soggetti individui significherebbe presupporre un tempo, non dell’atto ma della potenza, quale necessariamente è quello in cui ci si accorda e si collabora in vista del passaggio dalla potenza all’atto. Ma se, totaliter accepta, l’umanità è sempre in atto, è impossibile che si dia un tempo in cui c’è la potenza e l’atto no: anche perché, a rigore, se si dà l’atto e soltanto l’atto, è impossibile, addirittura, che si dia il tempo. 61
Sia pure con diverse accentuazioni, ma in modo sostanzialmente concorde, di questa idea della « collaborazione » degli individui alla realizzazione dell’intelletto, hanno parlato, senza rilevarne la estrema problematicità, per es. Parodi, Del concetto dell’Impero in Dante e del suo averroismo cit., pp. 105-48; Ercole, Il pensiero politico di Dante, II, 147 ss; Gilson, Dante et la philosophie, pp. 169-71; Nardi, Nel mondo di Dante cit., p. 234.
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L’asserto della « collaborazione » è dunque, prospettato in questo quadro e pensato secondo le categorie che lo costituiscono, contraddittorio. Appartiene, se si vuole, a Averroè 62 in alcune movenze del suo pensiero; appartiene a Jean de Jandun, in alcune movenze del suo 63. Ma non sembra proprio che in questa forma possa appartenere, ed essere attribuito, a Dante. Il quale, se pose la moltitudine come necessaria all’attualizzazione, essa stessa sempre in atto, dell’intelletto possibile, la pose bensì come qualcosa di ulteriore alla pura individualità e particolarità degli individui considerati in questo limite; non però come il risultato di tante volontà e tante consapevolezze quante sono quelle dal cui intreccio il genere umano è costituito. Nell’equivoco, perciò, almeno per questa parte, Dante non cadde: proprio come non fu preda dell’altro che si sarebbe delineato se, stretto il nesso fra individuo e intelletto, e tenuto fermo a questo, non solo di collaborazione dell’uomo con l’uomo avesse parlato, ma anche dell’intelletto con l’intelletto. In realtà, se l’intelletto possibile di cui l’uomo è in possesso viene assunto nella prospettiva di quest’ultimo, e del concetto che se ne ha o si subisce quando lo si pensi nei termini di un’elementare considerazione antropologica, di difficoltà non è lecito parlare. Basta sapersi accontentare. E queste nascono invece e si profilano ogni volta che di qui debba risalirsi all’idea rigorosa dell’umanità come, in quanto tale, autrice dell’operazione che, tota et simul, la reca all’atto dell’intelletto. Se, viceversa, per intelletto s’intende l’intelletto, la sua natura e struttura, e non immediatamente l’uomo al quale pur si assume che appartenga; se perciò la collaborazione sia assunta come tale che, non gli uomini antropologicamente concepiti riguardi, ma gli intelletti, allora, su questo piano di maggior rigore, le difficoltà si rivelano sul serio insormontabili. Che, per essere recato all’atto, l’intelletto possibile richieda l’intervento su di lui di qualcosa che, comunque lo si definisca, sia in atto, deve senz’altro concedersi anche per Dante; che pure, come si sa, di intelletto agente, o simili, non parlò mai 64. È necessario, infatti, che dalla potenza l’intelletto passi all’atto; e, per varianti che questa situazione categoriale possa presentare in sé, resta che, senza l’atto, all’atto la potenza non passa. Se, per altro, l’atto che, per essere ottenuto, richiede l’atto, concerne l’intelletto umano che, appunto, in tanto è possibile 62 Averrois Commentarium magnum de an. II, 34, 51-56 ; che è luogo più pertinente di quello indicato dal Nardi, p. 299. 63 Cfr. n. 57. 64 Cfr., per questo, Nardi, Dante e la cultura medievale cit., pp. 142 ss.
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in quanto è discontinuo, e in tanto è discontinuo in quanto l’atto della speculazione è da lui conseguito di tempo in tempo e per intervalla, di qui discende la conseguenza che non tutti insieme e nello stesso tempo potrà accadere che dalla potenza gli intelletti passino all’atto; ma l’uno in un tempo, l’altro in un altro, il terzo in un altro ancora, e così via: in modo tale che alla discontinuità interna al singolo intelletto, che ora è in potenza e ora è in atto, farà puntuale riscontro la discontinuità degli intelletti che, mentre l’uno è in atto, l’altro è in potenza, e la simultanea totalità dell’attualizzazione risulta perciò impossibile. Discende di qui l’ulteriore, e più importante, conseguenza: che già è stata raggiunta, e di nuovo tuttavia dev’essere resa esplicita nell’osservazione secondo cui, se l’Impero dovesse ricercare il fondamento della sua universalità perfezione e necessità in questa discontinuità degli intelletti, per certo non la troverebbe mai. E il principio inquisitivo avrebbe reso manifesto il suo fallimento. Per evitare che questo esito si determinasse, occorrerebbe che gli intelletti, tutti e nello stesso tempo, passassero all’atto; e anzi che l’atto fosse ciò che sempre, e tutti, li caratterizzasse. Ma con questa idea della prestabilita armonia dell’attualità simultanea degli intelletti non si costruisce se non l’idea dell’unico intelletto che, sempre e tutto, l’humana universitas reca all’atto. L’idea nella cui costruzione, lungo la sua via peculiare e con difficoltà che a lui proprio appartengono, Dante incontrò Averroè. Se ora, dopo questa alquanta laboriosa analisi, dalla considerazione filosofica si passa, o si cerca almeno di passare, a quella storico/politica, le conseguenze alle quali ci si viene a trovare di fronte sono non prive di elementi sconcertanti. Chi alla questione dell’Impero guarda con in testa il convincimento che in tanto Dante si appassionava alla sorte pratica e politica della relativa idea in quanto non la sua realtà scorgeva, ma l’ombra che, sparendo, questa aveva lasciata; non il corpo saldo e vivo, ma il vano simulacro, – chi a tale questione si volga con questa disposizione d’animo e di mente, perché dovrebbe meravigliarsi che tale fosse la sua percezione delle cose? Non è continuo, pur nella varietà delle sue espressioni, il lamento dantesco relativo al non esserci dell’Impero, alla (comunque poi la si interpreti) sua vacatio? E non era questa, nei fatti, la condizione delle cose? Ma perché allora qui su si alludeva a conseguenze paradossali e sorprendenti? A quale paradosso si ha la mente, a quale sorpresa? In realtà, se, dal luogo in cui trovano la loro più libera e diretta espressione, le passioni dantesche, il lamento e l’invettiva, siano idealmente trasferite entro la ferrea cornice teorica che alla
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quaestio imperii è stata data nella Monarchia, e sopra tutto nel primo libro, ci si accorge che la questione non è affatto semplice, che il paradosso e la sorpresa hanno la loro ragione e sono, per dire così, pronti a rivelarsi. La passione politica era insorta, nell’animo di Dante, dalla constatazione di quanto remota fosse, la presente realtà, da come ragione e giustizia imponevano che fosse. Ma, nel primo libro della Monarchia, la passione si era come capovolta in un luogo che negava la sua ragion d’essere. La passione diceva del non esserci dell’Impero. Il logo argomentava in modo che, connesso all’operazione intellettuale eseguita dalla humana universitas totaliter accepta, come quella era sempre in atto, così era impossibile che l’Impero non fosse. Il che, beninteso, non significa che nella Monarchia la passione tacesse, e a parlare non fosse che il logo, – un logo arido, astratto, congegnato nella forma pura del sillogismo. Significa, al contrario, che con così grande ed esclusiva energia la passione esigeva l’esserci di quel che non c’era da dar vita a un logo affermante il suo non poterci non essere. La questione che sta emergendo è così delicata, e, salvo errore, così interessante 65, che converrà insistervi. E mettere subito in chiaro che quando, come qui sopra si è fatto, si parla del necessario esserci dell’Impero, asserito dal logo, l’argomento concerne, in senso stretto, la filosofia, non il diritto. Se infatti è a quest’ultimo che, già qui, s’intendesse rivolgere lo sguardo, allora occorrerebbe distinguere. Per la considerazione storica, giuridica e politica le cose vanno in senso diverso da 65 E anche, direi, poco rilevata: anzi assai poco, per non asserire che non fu rilevata affatto. Per quel che so, l’unico ad averla intravista fu G. Vinay, Interpretazione della Monarchia, Firenze 1962, pp. 62-63 (e anche 56-57). Ma in una prospettiva così deformata, e fallendo a tal punto il centro della questione, che, invece di farne il criterio dell’interpretazione, la collocò nel suo margine senza coglierne, perciò, l’importanza. Quando, per es., scrisse: « se le passioni umane hanno così spesso impedito e impediscono l’esplicarsi dell’autorità imperiale, poiché, averroisticamente, la potenza intellettiva dell’umanità deve comunque attuarsi in ogni momento, ‘aliter esset dare potentiam separatam’, l’umanità ha in sé stessa la forza di attuarsi anche senza l’imperatore », è evidente che, con lo strumento che aveva preso a maneggiare, il Vinay si trovò in difficoltà. Che le passioni umane fossero da Dante concepite come altrettanti impedimenti, quando fossero caratterizzate dalla cupidigia, alla realizzazione dell’Impero, è certamente un fatto, perché così si legge nelle sue pagine. Ma, posto il concetto, dell’inevitabile attuazione dell’intelletto e della sua potenza, è anche un problema: un acuto e arduo problema. La cui coerente risoluzione in termini averroistici, o comunque conformi alle premesse, toglie di mezzo, ed è questo il punto che al Vinay è sfuggito, la distinzione del dover essere e dell’essere: con la conseguente, altresì, estinzione della « politica ».
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come vanno in quello filosofico. Per la considerazione storica e politica, che tante volte Dante esercitò, per esempio nella Commedia, la volontà che l’Impero fosse e tornasse ad essere era inversamente proporzionale alla consapevolezza del suo non esserci, o del non esserne rimasto se non il nome. Per la considerazione giuridica, il suo non esserci poteva, ulteriormente, dar luogo ad una ancora diversa considerazione: in forza della quale si sarebbe pur potuto sostenere che l’essere la sede imperale o vuota o usurpata era pur sempre il documento dell’esistenza del suo diritto di essere occupata e governata da chi ne avesse il titolo. In altri termini. La « vacanza » dell’Impero era bensì indizio del suo relativo non esserci. Ma certo non significava il non esserci di questa vacanza e del diritto di metter fine ad essa. Attraverso il suo stesso esser « vacante » l’Impero dava testimonianza del suo diritto e del suo esserci. Da un’altra parte, invece, se alla considerazione politica storica e giuridica si sostituisce quella filosofica, deve dirsi che le cose non stanno affatto così. Per la logica della filosofia, se nel genere umano si dà (e che si dia è necessario) una moltitudine tale da rendere sempre attuale l’operazione intellettuale che gli è propria, e questo è il fondamento dell’Impero, allora con assoluta necessità ne discende, non il suo doverci essere, non il suo esserci attraverso la sua « vacatio », ma, senz’altro, il suo esserci. Necessaria la moltitudine, necessaria l’operazione intellettuale, necessario l’Impero. L’oltranza argomentativa 66 raggiungeva perciò qui il suo limite estremo; e bruciava in sé ogni ragione che nella considerazione della realtà avesse la sua radice. Niente, in effetti, era in
66 L’oltranza argomentativa, ed è ovvio, è stata spesso notata e variamente apprezzata: anche dall’ultimo degli studiosi qui citati, e cioè dal Vinay, Interpretazione, p. 25, al quale Dante è apparso « paurosamente consequenziario (se non coerente) »; e qui non capirei se al mio dubbio egli non venisse incontro spiegandomi che, lungi dall’essere un « formidabile ragionatore », « per fortuna sua » l’autore della Monarchia « è sempre stato nella sostanza incoerente: incoerente il ‘volgare’ illustre, incoerenti Ulisse e Catone e Francesca: incoerenti, s’intende, sul piano di quella logica aristotelica o averroistica o tomistica che, come mastini attaccati a un osso, gli vogliamo ad ogni costo applicare, dimentichi di quell’altra logica del tutto diversa che è la logica della storia » (p. 51). Non arriverò al punto di dire che la spiegazione sia delle più appaganti: sia perché non considererei mai una « fortuna » l’« incoerenza », sia perché non capisco che cosa sia, contrapposta alla coerenza, la « diversa » logica della storia, sia infine perché, dopo aver definito il trattato della Monarchia un monstrum horrendum, mezzo averroista e mezzo tomista, e perciò né l’una cosa né l’altra, il Vinay suggerisce di leggerlo « alla buona », dal momento che anche Dante ci guadagna a esser letto così. Con il che a me pare evidente che il Vinay mettesse tutto il suo impegno nel far torto al suo acume.
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grado di resisterle. Anche la dimensione pratica che, se fosse distinta da quella intellettuale in modo che all’esserci di questa non necessariamente corrispondesse il suo, potrebbe in qualche modo reintrodurre nel ragionamento la nota del realismo, – anche questa dimensione non sopporta in realtà di essere interpretata così. Come già si è avuto modo di osservare, la dimensione pratica non costituisce, nella logica di questo capitolo e, in genere, del primo libro del trattato, una regione autonoma e distinta, abitata, non dall’intelletto, ma dalla volontà. Un intelletto che valga per l’intero genere umano, che non sia di questo individuo o di quello, non può essere distinto dalla volontà, che anch’essa, per conseguenza, non sarà la volontà del genere umano se non come una estensione (pratica) del suo atto. E così, in effetti, Dante la definì: come un’estensione dell’intelletto; che non concerne soltanto le forme universali (e qui è, salvo errore, evidente che, dopo essersi messo sotto il segno di Averroè, in questo punto invece egli se ne distaccava), ma anche quelle particolari; e per questo appunto extensione fit practicus, il suo fine essendo, per questo riguardo, agere atque facere. È insomma l’intelletto speculativo a farsi in sé stesso pratico. Il che evidentemente consegue alla sua perfezione; che, lungi perciò dall’essere ottenuta mediante l’estensione, è essa che la rende possibile e consente che avvenga. Non, dunque, se è così, Aristotele e l’Imperatore, distinti nelle sfere delle relative competenze e sovranità. Ma Aristotele che, in sé stesso, si fa Imperatore. Lo spazio che, lungo questa via, si apre fra, da una parte, l’istanza politica e morale del « dover essere » e da un’altra, la realtà dell’essere, che alla prima toglie la sua ragione, è, per la comprensione della Monarchia, dei suoi concetti, ma anche del suo stile, del suo accento, dell’energia etica e passionale che la percorre, fondamentale. E la differenza che esso rende evidente è altresì quella che, nascostamente, opera all’interno del concetto che Dante costruì della storia. La quale era per lui, nell’intrinseco, e anche se di tutto questo non forniva, in termini espliciti, la teoria, due storie: l’una corrente nel tempo e segnata dai caratteri fenomenologicamente più rilevati, il bene e il male, la virtù e il vizio, lo splendore morale e politico, e la decadenza; l’altra, invece, coincidente con l’essenza stessa del piano provvidenziale che, in sé stesso e, al di là e al di qua del suo empirico manifestarsi, a tutto conferisce senso positivo e in questo riassume quel che, sull’altro piano, si svolge nel tempo e mostra altro volto. Anche da questo punto di vista, che è quello, in Dante così rilevante, della storia, la questione posta e para-
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dossalmente svolta nel terzo capitolo rivela la sua complessità e, nel quadro dell’opera, la sua funzione essenziale. Non è forse vero che, come nella teoria dell’intelletto la potenza è immediatamente assunta nella dimensione dell’atto e, invece che come ciò che dev’essere realizzato, l’Impero appare come la stessa cosa dell’humana universitas, assunta nella sua totalità, altrettanto avviene in ogni conseguente teoria della provvidenzialità intrinseca al corso storico; che in questo segno è sempre realizzata, il suo manifestarsi non essendo che la esteriorità assunta nella prospettiva della successione temporale, oltre la quale è necessario andare perché l’autentico significato ne sia colto? Se alla specifica discrasia che si è cercato di individuare e di mettere in luce nel tessuto concettuale del terzo capitolo del primo libro, si tiene fermo lo sguardo, non è difficile, di capitolo in capitolo, seguirne la varia fenomenologia. Un commento minuto, pagina per pagina, linea per linea, di quel che nel primo libro, e negli altri due, si trovi scritto, non è richiesto dalla natura di questa ricerca. Possono, tuttavia, e debbono darsene alcuni esempi. La discrasia, o, se si preferisce, lo scarto logico, sono evidenti subito all’inizio del quarto capitolo: dove, dopo aver potentemente riassunto quanto era stato detto nel terzo, e cioè che proprium opus humani generis totaliter accepti est actuare semper totam potentiam intellectus possibilis, per prius ad speculandum, et secundario propter hoc ad operandum per suam extensionem 67, Dante produsse un argomento che con questo si coordinerebbe nel segno della coerenza solo nel caso in cui (proponiamo queste due ipotesi, sebbene una sia quella da lui scelta) il realizzarsi di quella operazione intellettuale fosse, o propedeutica, per così dire, al conseguimento della pace, che è condizione ed essenza della felicità, o invece ne derivasse nel tempo, e in questo ne fosse resa possibile. In altri termini, l’argomento addotto, e che concerne il bene inestimabile della pace 68, riuscirebbe coerente con il precedente solo nel caso che, nell’una o nell’altra di queste due ipotesi, si tenesse e fosse lecito tener fermo al punto della temporalità; e, o l’essere in atto dell’intelletto possibile costituisse esso la condizione della pace, che nel tempo, appunto, ne deriva, o fosse invece questa che, conseguita per via politica, rende possibile che il possibile intelletto passi all’atto. Ma, in entrambe le ipotesi che qui sono state contrapposte,
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se all’impostazione generale rievocata all’inizio del capitolo si restasse fedeli, l’assunto della temporalità si rivelerebbe incompatibile con quello dell’attualità, rigorosamente inteso. E che, delle due, Dante scegliesse la seconda, e della pace facesse la condizione dell’attuarsi del possibile intelletto, rivela un’incoerenza eguale e contraria a quella a cui avrebbe dato luogo se, in ipotesi, avesse scelta l’altra. Se (si aggiunga ancora questa considerazione) la pace è per definizione il prodotto di una agere e di un facere che, rispetto all’intelligere, non sono se non l’extensio di questo che, in tal modo, fit practicus, come potrebbe quel che logicamente precede, costituire la fattuale condizione di ciò da cui deriva? L’incongruenza, la discrasia, lo scarto logico, o come altrimenti voglia dirsi, sono evidenti nel passo centrale del capitolo: Et quia quemadmodum est in parte sic est in toto, et in homine particulari contingit quod sedendo et quiescendo prudentia et sapientia ipse perficitur, patet quod genus humanum in quiete sive tranquillitate pacis ad proprium suum opus, quod fere divinum est iuxta illud ‘minuisti eum paulominus ab angelis’, liberrime atque facillime se habet. Unde manifestum est quod pax universalis est optimum eorum que ad nostram beatitudinem ordinantur 69.
E, dopo gli svolgimenti retorici e la citazione delle scritture, ecco di nuovo la conclusione: Ex hiis ergo que declarata sunt patet per quod melius, ymo per quod optime genus humanum pertingit ad opus proprium; et per consequens visum est propinquissimum medium per quod itur in illud ad quod, velut in ultimum finem, omnia nostra opera ordinantur, quia est pax universalis, que pro principio rationum subsequentium supponatur. Quod erat necessarium, ut dictum fuit, velut signum prefixum in quod quicquid probandum est resolvatur tanquam in manifestissimam veritatem 70.
Ebbene, se questi passi siano letti in connessione con quello che apre il capitolo, e che esprime la essenziale tesi filosofica sul cui fondamento l’intero primo libro è costruito, forse che non è evidente la tendenza, che, in effetti, vi si rivela, alla costituzione di un circolo nel quale la premessa e la conseguenza si scambiano le parti? Per un verso,
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è la pace che rende possibile l’operazione intellettuale che realizza l’umana felicità. Ma, per un altro, è invece l’operazione intellettuale che rende possibile la pace: sempre che non si giudichi preferibile assumere che, lungi dall’essere premessa o conseguenza, la pace è, per estensione, la stessa cosa dell’intelletto nel suo atto. Palesemente, il conflitto che, operando all’interno del pensiero di Dante, disponeva su due diversi piani ciò che appartiene all’ordine logico/ontologico e ciò che invece assume volto fenomenologico, qui rivela il senso della sua gravità. Alla prova dei fatti, che era quella, altresì, della passione politica, il discorso logico non riusciva a mantenere integro il suo rigore. Quel che, in termini logici, appariva come già da sempre conseguito nell’attualità tendeva, in termini politici, a porsi come l’ideale di sé stesso, come qualcosa dunque che ancora richiedeva di essere conseguito: non come essere, ma come dover essere. Lo si è già detto: ma conviene forse, perché si tratta del punto essenziale, ripeterlo. Dominato dalla passione, dall’esigenza imperiosa che gli si agitava dentro e che quasi lo costringeva a imprigionare il possibile, con i suoi rischi e le sue imprevedibilità, entro l’ordine infrangibile e inderogabile della necessità, Dante aveva fatto in modo che quel che qui si è ritratto nel segno del « dover essere » assumesse quello dell’essere, che quel che richiedeva di essere realizzato nel presente e nel futuro, già lo fosse: non nel passato, ma nell’atto. Era per conseguenza inevitabile, e comunque è ben comprensibile, che la passione, dalla quale il furore argomentativo era stato alimentato, tendesse ad emanciparsi da questo, a cui pure aveva dato luogo, e a riassumere il suo volto. Se la pace costituisce il maggior bene di cui l’umanità possa disporre in vista, anche, dell’attuazione di tutta intera la sua potenza intellettuale, se questa dunque dipende dalla pace, e non viceversa, a quella, alla pace, doveva darsi attuazione. E a prevalere era perciò, di nuovo, il discorso del dover essere: non quello dell’essere. Dal punto di vista logico, la discrasia della quale si sta parlando dà segno di sé ogni volta che, nell’alludere alle condizioni del mondo, Dante assunse che questo si trovi in ottimo stato « quando » determinate caratteristiche (la pace, per esempio, la giustizia, e così via) vi abbiano positivo corso. Alla luce del concetto dell’attualità, nella quale, totum et simul, il genere umano sta realizzato, il ricorso che qui si fa al tempo non dovrebbe, come già si è visto, essere possibile. Ma questo è, per altro, quel che avviene. Tutto il primo libro è costruito così: ossia indi-
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cando quale, di volta in volta, sia la condizione migliore del mondo, e come questo vi si trovi « quando » quella si realizza. Il che, beninteso, non toglie, e occorrerà, quando ciò accada, notarlo, che anche l’altro tema, quello logico/ strutturale, e non storico/politico, a tratti emerga in primo piano, torni a dar segno di sé e alla materia imponga perciò una brusca svolta. All’individuazione dell’un tema, e quindi dell’altro, sono dedicate le considerazioni che seguono. Nel quarto e poi, con più articolato discorso, nel quinto capitolo, l’argomento è quello della pace 71; che significa monarchia universale come, con perfetto circolo, questa significa pace. Ma già nel sesto è l’altro tema a emergere con prepotenza attraverso la discussione che, sollecitato dallo svolgimento del suo stesso discorso, Dante intraprese intorno alla questione concernente la parte e il tutto. Se è necessario che la parte stia al tutto, così sarà anche dell’ordo partialis ad totalem 72: dal momento che se la parte è (e ha) un ordine, altrettanto dovrà dirsi per il tutto, che anch’esso è (e ha) un ordine. Nell’opinione che Dante ne ebbe, il tutto è infatti bensì il tutto delle sue parti, in modo tale che disgiungervelo e considerarlo in sé, al di là, o al di qua, di queste, sarebbe altrettanto impossibile che disgiungere le parti da lui, e considerarle in sé, senza il tutto. Ma il tutto è anche il tutto. E lo è in modo tale che il suo ordine si configura bensì come anche quello delle parti si configura, sì che fra l’uno e l’altro stabilire l’analogia è tanto più necessario quanto più questa stia nelle cose stesse. Ma anche, tuttavia, in modo diverso. Rispetto a quello delle parti, l’ordine del tutto costituisce infatti la mèta a cui quelle tendono per necessità: al modo stesso che, considerata a sua volta come il tutto, o l’organismo, delle sue parti, anche la parte costituisce il fine di queste, nei confronti delle quali si comporta perciò come un tutto 73. Ne consegue che, se è costituito dalle parti, il tutto ne è anche tuttavia il fine; che non coincide 71
Il che, beninteso, non toglie che, anche qui, il tema che ho definito logico/ strutturale faccia avvertire la sua presenza: cfr., per es., Mon. I V 9: « nunc constat quod totum humanum genus ordinatur ad unum, ut iam preostensum fuit: ergo unum oportet esse regulans sive regens, et hoc ‘Monarcha’ sive ‘Imperator’ dici debet. Et sic patet quod ad bene esse mundi necesse est Monarchiam esse sive Imperium ». 72 Mon. I VI 1: « et sicut se habet pars ad totum, sic ordo partialis ad totalem. Pars ad totum se habet sicut ad finem et optimum: ergo et ordo in parte ad ordinem in toto, sicut ad finem et optimum ». E cfr. I XIV 3, a cui, con il Ricci (nella sua edizione della Monarchia cit., p. 147), rinvia il Nardi, p. 312, da tenere presente per le acute e precise osservazioni svolte alle pp. 313-14, a proposito di Aristotele. 73 Mon. I VI 2-3.
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quindi con il tutto in quanto sia costituito dalle parti che nel fatto lo costituiscono, appunto perché ne è il fine e, se è tale, non potrebbe mai essere scomposto nelle sue parti. La differenza che, lungo questa via, si stabilisce, non solo fra la parte e il tutto, ma anche fra il tutto e il fine, potrà apparire come il frutto di una tal quale capziosità. Ma è di importanza essenziale. Non solo perché rende manifesta l’energia che Dante mise nel battere sul punto dell’unità nell’atto stesso in cui all’autonomia delle parti non concedeva alcuno spazio. Ma anche perché reintroduce il tema averroistico della operazione propria al genere umano totaliter acceptum. E, se è così, l’argomento dev’essere seguito con attenzione nel punto in cui si ribadisce che, se l’ordine è nelle parti, ergo et in ipsa totalitate reperiri debet; e si conclude: « et sic omnes partes prenotate infra regna et ipsa regna ordinari debent ad unum principem sive principatum, hoc est ad Monarcham sive Monarchiam » 74. Ebbene, se questa è la sequenza argomentativa, non potrà non notarvisi la conseguenza che, ancora una volta, richiede di essere colta e posta in evidenza. La conseguenza: e cioè l’evidente contrasto che anche qui si stabilisce fra l’essere e il dover essere. Se, nel modo che s’è visto, la realtà è articolata in parti, ciascuna delle quali costituisce un ordine di necessità destinato a risolversi nell’ordine del tutto, che di quelle è il fine supremo, e se, per le ragioni che a lungo sono state esaminate e discusse, questo intreccio è in atto la sua propria realizzazione, in questo dovrà anche, e con pari necessità, vedersi la realizzazione dell’Impero. Rispetto a questa eterna attualizzazione della realtà nella forma del nesso che stringe insieme il tutto e le parti, quella dell’Impero non è infatti una realizzazione, o attualizzazione, che richieda di essere ottenuta in aggiunta e come per analogia. È la stessa realizzazione, o attualizzazione. La struttura del ragionamento non è infatti esprimibile nella sequenza secondo cui, poiché questo è l’ordine delle cose, tale deve essere quello del consorzio civile. Ma è esprimibile invece nell’altra secondo cui, tale essendo l’ordine delle cose, tale è anche il consorzio civile, e cioè l’Impero, sempre in atto con l’essere in atto di quelle. Il ragionamento avrebbe insomma dovuto essere condotto con la logica dell’esse, non già con quella del debere. Ma, avendo in una parte di sé, ragionato, e imposto che il ragionamento fosse condotto, con la prima, in un’altra, meno disposta a piegarsi al suo paradossale rigore, Dante
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argomentò con l’altra; e il conflitto di queste due logiche, che già si è visto quale relazione, nel profondo, intrattengano l’una con l’altra, non riuscì a esserne ricomposto. Se, come si spera, questo conflitto è chiaro nella sua struttura, e nella sua stessa genesi passionale, insistervi sarebbe tedioso, oltre che inutile. E basterà pertanto darne qualche altro esempio. Si prenda l’ottavo capitolo. L’assunto è qui che il mondo è bene, anzi ottimamente ordinato quando se habet secundum intentionem primi agentis, qui Deus est. E quel che, subito dopo lo specifica, è della più grande importanza perché, vi si dice, soltanto chi non concedesse che la bontà divina preposta a stabilire la condizione del mondo è la più grande delle bontà, soltanto costui potrebbe dubitare che le cose stiano nel modo contemplato nella premessa. Ora, poiché è nell’intenzione di Dio che, in quantum propria natura recipere potest 75, la creatura sia conforme all’intenzione del creatore, questa proporzione non può essere negata. Negarla importerebbe infatti la negazione, non solo, come si è detto, della bontà, ma della potenza stessa di Dio; che certo non è messa in questione, tutt’altro, dal limite intrinseco alla creatura, nella quale tanto l’eccellenza dell’intenzione divina risplende quanto è possibile che questa ne riceva la luce. Anche questo limite, infatti, e le conseguenze che ne discendono, fanno parte dell’intenzione divina. E sebbene a delinearsi sia, a questo punto, la grave questione del male, o, nel linguaggio dantesco, della cieca cupidigia che deturpa il divino lineamento del mondo; sebbene a proporsi di nuovo sia il divario che divide il senso logico/provvidenziale della storia umana da quello che dà segno di sé nella rappresentazione fenomenologica degli eventi, resta che la conformità del mondo all’intenzione di Dio non è esprimibile attraverso il « quando ». Come dovrebbe esser chiaro a chi considerasse che, niente potendosi dare di identico alla perfezione del creatore, da questo discende che non si dà un « quando » dell’essere conforme, o non conforme, del mondo alla sua intenzione: dal momento che, se proprio questo si ammettesse, sarebbe l’intenzione a dipendere dal « quando », non il « quando » dall’intenzione. Il che è impossibile. Come ancor più e meglio risulta se si considera l’ulteriore sequenza argomentativa alla quale Dante dette luogo là dove osservò che, poiché genus humanum maxime est unum, quando totum unitur in uno; poiché questo accade quando uni principi totaliter
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subiacet e in tal modo realizza il massimo sia della sua somiglianza a Dio sia della sua conformità all’intenzione divina, unità, monarchia universale, corrispondenza al volere del creatore non sono se non momenti inscindibili di una totalità. Ragionamento che ha la forma astratta del rigore, non però la sostanza. E lo si comprende se si osserva che, se in quanto tale il genere umano è sempre e tutto in atto perché è uno, allora non si può dire che, « quando » è uno, è nel suo stato perfetto, e dunque in atto: proprio come, ma di questo già si è detto, è impossibile assumere che « quando » totum unitur in uno 76, allora ne discendono le positive conseguenze che si sono indicate qui su. Se il genere umano è uno, non può dirsi di un tempo in cui unitur in uno. E si lasci ora da parte la questione del nesso, e della direzione del nesso, sussistente fra tempo e intenzione. Se ne è infatti discusso a sufficienza. Strutturalmente, considerazioni di questa medesima natura potrebbero, senza particolari difficoltà, essere ripetute per ciascuno dei capitoli che dal nono vanno all’ultimo del libro primo libro, da un capo all’altro dominato dall’idea secondo cui il mondo è nella migliore delle sue condizioni quando queste siano altresì costituite dal suo essere ordinato nella forma della universale monarchia. Basterà, di questi capitoli, sceglierne due, fra i più significativi. E cominciare, studiandolo in una sola sua parte, dall’undecimo, dedicato all’illustrazione dell’asserto secondo cui il mondo si trova nella migliore delle sue condizioni quando a dominarvi sia la giustizia; la quale, d’altra parte, allora è veramente tale, e più incontrastato perciò il suo potere, quanto meno essa accolga in sé il più e il meno, o, detto, altrimenti, quanto più li respinga entrambi da sé, e si presenti pura, semplice, non composta, proprio come la albedo in suo abstracto considerata 77. La giustizia è per altro conforme alla sua definizione quando il suo concreto esercizio sia affidato a colui che sul serio sia in grado di coglierne lo spirito e perciò di amministrarla secondo questo. Ma l’unico che a questo compito sia adeguato è l’Imperatore, ossia il monarca, la cui iurisdictio terminatur Occeano solum 78, e che, a differenza del re di Castiglia o di quello d’Aragona, non conosce ostacoli al suo potere, non ha niente
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che possa desiderare di aggiungergli, e in sé ha perciò estinta la radice stessa della cupidigia 79. Quel che aveva detto e argomentato nel quarto trattato del Convivio Dante, come si vede, lo riprese qui e, secondo una tecnica che nella Monarchia si rivela costante, al « non nuovo » conferì nuovi sviluppi, lo sezionò per meglio articolarlo, lo corredò di alcuni corollari, fra i quali è notevole quello consistente nell’asserto relativo al non potere, il monarca, avere nemici 80. Poiché, d’altra parte, e come si è detto, la materia non è nuova, dopo aver notato il modo in cui fu rielaborata in un contesto nel quale Dante si produsse anche in un pericoloso esercizio sillogistico, per certo non ci sarebbe, in questo capitolo, se non da discutere il senso del riferimento che vi si fa all’autore del libro delle Cagioni, in un passo che ai commentatori ha offerto non poche difficoltà 81. Non ci sarebbe se non questo se, tornando sulla questione della libertà che in sé medesimo, l’Imperatore ha realizzata nei confronti di ogni possibile cupidigia, non ci accorgessimo che qualcosa da aggiungere invece resta. In realtà, siamo talmente persuasi che, inteso come opera di pensiero politico, questo di Dante sia un libro segnato dal carattere dell’astrattezza e dell’utopia 82; siamo così orientati, d’altra parte, a leggerlo innanzi tutto come un libro suo, – suo e perciò come sopraffatto dalla strapotenza della sua personalità, che ad alcune almeno delle domande che ne nascono quasi ci dimentichiamo di dare risposta, o di cercarne una. Quando ce lo trovammo dinanzi, nel quarto trattato del Convivio, questo Imperatore, puro e scevro di passioni mondane, ci evocò, per contrasto, la fantasia di un’umanità che, priva (a differenza di lui) di ogni cosa, prendesse a invidiarlo, a odiarlo, e con energia inversamente proporzionale al suo non aver nulla si proponesse di abbatterlo. Ci evocò la fantasia di una cupidigia che, spentasi per appagamento nel cuore dell’Imperatore, tanto più vigorosa si accendeva in quello dei sudditi che a torto perciò Dante riteneva avessero anch’essi sradicata
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I XI 11-12: « ubi ergo non est quod possit optari, inpossibile est ibi cupiditatem esse: destructis enim obiectis, passiones esse non possunt. Sed Monarcha non habet quod possit optare: sua nanque iurisdictio terminatur Occeano solum ». La quale cosa, Dante aggiunse, « non contingit principibus aliis ». 80 Mon. I XI 20: « si Monarcha est, hostes habere non potest ». 81 Cfr. Nardi, Saggi di filosofia dantesca cit., pp. 88-89. 82 Forse anche, addirittura, della sua mediocrità: come, per es., giudicò il Vinay, Interpretazione, p. 5.
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dai loro petti la sua pianta malvagia 83. E ora che questa immagine imperiale ci torna dinanzi, a formarcisi nella mente è l’ulteriore fantasia di una cupidigia che, alimentandosi di sé stessa, è proprio come la lupa dantesca che non si sazia mai e dopo il pasto ha più fame che pria. A formarcisi nella mente è la memoria di quel che Marsilio Ficino scrisse nel libro decimoquarto della Theologia platonica quando di Alessandro Magno disse che, di fronte all’opinione democritea della innumerabilità dei mondi, heu me miserum exclamavit, qui ne uno quidem potitus sum 84. Chi sa se, nel riferire l’aneddoto, Ficino non si ricordasse, per contrasto, di Dante, del quale aveva pur volto in volgare la Monarchia 85. In aggiunta a queste, che sono per altro poco più che fantasie, deve per altro rilevarsi che in questa visione così astratta, formalistica, e impolitica, dell’Imperatore privo di passioni e di cupidigie, si riflette l’astrattezza, e l’impoliticità, di questa politeia dantesca; nella quale all’immobile felicità conseguita da colui che ne costituisce il vertice corrisponde l’impoliticità delle membra e delle parti che ne articolano il corpo. Si dice l’impoliticità che, quando questa idea dell’Impero ci venne innanzi dalle pagine del Convivio, ci rievocò, come metafora e quasi cellula originaria dell’Impero, la mitica e prepolitica Firenze cacciaguidiana. E anche ci rivelò quel che in effetti, nella sostanza, la Monarchia conferma; e cioè, con il più che debole interesse che sempre Dante dimostrò nei confronti dell’articolazione dei poteri, e anche dei rapporti intercorrenti fra gli Stati particolari e l’Impero, il carattere statico e, come si è detto, pre- e impolitico di questo organismo, ben rappresentato dal suo capo, scevro di cupidigie, ma anche di desideri e di passioni, e da quei sudditi adorni di virtù domestiche e privi di virtù politiche. Se al discorso fosse lecito conferire una qualche curvatura psicologica, potrebbe dirsi così. La politica era stata, per Dante, un’esperienza tragica. Per un breve tratto di tempo aveva partecipato ai suoi giochi, drammatici e crudeli. Aveva parteggiato, non aveva risparmiato agli avversari, se non l’odio, certo l’ostilità che questi dirigevano contro di lui.
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Che qui, in questa variatio, per cupidigia debba intendersi non, necessariamente, la brama dei beni mondani, intesi come oro ricchezze potere, ma piuttosto la « politica » stessa che, trasferendola tutta nell’Imperatore incapace di cupidigia, Dante tese in sostanza a neutralizzare, è evidente. E ne parlai, alla fine del precedente capitolo, a proposito di Cacciaguida. 84 Marsili Ficini Theologia platonica XIV 4. 85 Per i mss. del volgarizzamento del Ficino, cfr. P. O. Kristeller, Supplementum ficinianum, I, Firenze 1937, pp. V-XIV.
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Infine, aveva perso le sue battaglie. Era stato condannato e costretto all’esilio. Era uscito dalla politica e, per sempre, dalla sua città; alla cui perdita non era stato compenso sufficiente la contemplazione delle stelle 86. La politica lo aveva ferito nel profondo. Ed egli ora se ne vendicava privandola del suo carattere specifico, – della passione e dei rischi che questa reca con sé. La neutralizzava, intellettualizzandola. Quando dallo spettacolo della trista i pensatori si volgono alla contemplazione della buona politica, questa è bensì, il più delle volte, presentata come la decantazione delle passioni particolari, nel segno tuttavia di un’altra passione, – la passione della virtù, che non disconosce i rischi, ma li affronta. La buona politica, in altri termini, si costruisce e costituisce nel mondo a cui anche l’altra, quella degenerata e corrotta, appartiene. In Dante, non è così. Nella sua mente la politica era ormai cupigidia, violenza, male. Occorreva perciò, semplicemente, spegnerla. Al veloce esame di questo capitolo, può aggiungersi quello dell’ultimo del primo libro, nel quale, trattando della disposizione del mondo al momento della venuta in terra di Cristo, Dante preparò il passaggio al secondo libro. Non è necessario che se ne parli a lungo: sia perché, nella sua brevità, il capitolo non lo consentirebbe, sia anche perché della prima parusia del Cristo Dante tornerà a trattare là dove più la sua idea della storia imponeva che ne trattasse: e cioè, non senza accenti di forte paradossalità, nella parte centrale del secondo libro 87. Una sola considerazione deve essere proposta in questa sede: ossia, in questo punto dell’indagine. E riguarda quel che, con estrema concisione, Dante disse della storia umana quale si svolse a lapsu primorum parentum fino al momento in cui a rivelarsi fu la felicità che il mondo aveva conseguita al tempo del divus Augustus, e cioè quando a reggerne le sorti fu una Monarchia perfecta 88, onore di un’età e di cose che veramente (vere) plena fuerunt, quia nullum nostre felicitatis ministerium ministro vacavit 89. E, ancora, quale fu dopo che tunica ista inconsutilis cupiditatis ungue scissuram primitus passa est 90. Potrà sembrare sorprendente che di un corso di cose che, iniziatosi con la espulsione di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, e giunto 86 87 88 89 90
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Alludo a Ep. XII 9 (ed. cit., p. 596). Quando dovrà affrontarsene l’analisi, si farà cenno alla relativa letteratura. Mon. I XV 1. I XV 2-3. I XVI 3.
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all’età di Augusto e di Tiberio, Dante parlasse in un paio di periodi, rapidi e privi di qualsiasi ulteriore riferimento a personaggi ed eventi. Ma, a parte quel che pur potrebbe dirsene riguardo al modo in cui la storia più antica si configurava ai suoi occhi nei confronti di quella più recente e, comunque, attestata; a parte la improponibilità, per lui, di ogni distinzione che si pensasse di dovergli e potergli attribuire fra la preistoria e la storia del genere umano (è ai capitoli quinto e sesto del primo libro del de vulgari eloquentia che, per questo, occorrerebbe rivolgersi), la sorpresa non ha in realtà alcuna ragion d’essere. E assai meglio si farebbe se l’attenzione si concentrasse sul secondo elemento periodizzante che in questo breve testo Dante introdusse: sulla lacerazione che l’unghia della cupidigia aveva provocata nella tunica inconsutilis che rivestiva e proteggeva il genere umano. Non solo perché, in tal modo, Dante riprendeva contatto con quel che, in tema di decadenza, era stato da lui adombrato nella grande allegoria dell’albero che campeggia nel trentaduesimo del Purgatorio. Ma anche perché, assente, salvo errore, nel Convivio, questo accenno è anche un indizio della data, non necessariamente alta, della Monarchia.
NOTA. – Credo necessario mettere in guardia il lettore da un pericolo al quale potrebbe andare incontro se si disponesse a ritenere che quanto qui si è detto circa la « tonalità » filosofica del terzo capitolo del primo libro della Monarchia presupponga la convinzione che Dante abbia costruito qualcosa come una teoria averroistica « della politica e dello Stato ». E che, per conseguenza, il discorso svolto qui su, nel testo, abbia qualcosa a che vedere con l’idea di una convergenza di quel che Dante scrisse nel suo trattato con quanto possa dedursi dalle riflessioni politiche svolte dal Commentatore in margine, per esempio, alla Repubblica di Platone. Una cosa, lodevole, per certo, e legittima e auspicabile, è procedere, con il metodo (poniamo) seguito da M. Grignaschi, Indagine sui passi del ‘Commento’ suscettibili di avere promosso la formazione di un averroismo politico, in L’Averroismo in Italia cit., pp. 237-78, alla possibile, ma (anche in considerazione dello scetticismo dimostrato, al riguardo, da questo studioso) non necessariamente conseguibile, delineazione di un « organico » sistema politico dell’averroismo latino. Un’altra, del tutto diversa, è cercare di far vedere come, senza in alcun modo proporsi di costruire un’« organica » teoria politica ispirata ad Averroè, di quest’ultimo genialmente Dante adoperasse la tesi relativa all’unità e unicità dell’intelletto, e del suo essere sempre in atto, per fondarvi la « necessità » filosofica dell’Impero, o Monarchia, universale; e come inoltre di qui si svolgessero le questioni, e le complicazioni, che si è cercato di illustrare nelle pagine del testo.
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Capitolo V STORIA ROMANA E STORIA CRISTIANA Il commento della prima delle tre questioni attraverso il cui svolgimento la Monarchia compie il suo ciclo ha richiesto alquanto spazio. Ma era una questione fondamentale, sia per l’importanza che Dante le riconobbe, sia per il rilievo obiettivo che assunse nella trama del suo pensiero. Non era cosa da poco connettere la questione dell’Impero all’altra dell’intelletto, e proporre che quella non si risolvesse se non dell’ambito di questa. E nemmeno era cosa che non andasse senza le conseguenze che si è cercato di mettere in chiaro: prima fra tutte il grave squilibrio che perciò veniva a determinarsi fra l’identità senza tempo dell’Impero con l’atto di un intelletto inteso come sempre in atto nella specie, e il tempo invece in cui questa identità si realizza, e da tale realizzazione è richiesto. Intelletto, Impero, storia. Problematica è in Dante la coesistenza (non diciamo poi la coincidenza) di questi tre termini. Il secondo libro della Monarchia dà luogo a questioni che, senza coincidere con quella a cui si è di nuovo accennato, anch’esse tuttavia si esprimono nel segno della problematicità. Sono del resto, per un pensatore cristiano, questioni di per sé stesse difficili: e che lo siano di per sé stesse significa che tali sono anche al di qua degli svolgimenti paradossali che, preso dal suo problema e posseduto dalla volontà di risolverlo nella forma dell’assolutamente incontrovertibile, Dante conferì a esse. E c’è poi il tratto specifico. Per un verso, il secondo libro della Monarchia radicalizza quel che già, in tema di storia romana, Dante aveva sostenuto nel Convivio: lo radicalizza, il che significa che ne svolge le conseguenze e ne propone vari corollari. Per un altro, e sia pure in modo soltanto indiretto, ripropone la questione, già delineatasi con forza nel primo libro, relativa al contrasto che, anche sul piano della storia, insorge fra il necessario esserci sempre dell’Impero nel quadro del genere umano che, sempre e tutta, realizza la potenza dell’intelletto, e il suo esserci e poi non esserci, reso manifesto da quel che su quel piano, sul piano della storia, concretamente si dà a vedere. A questo
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conflitto che, quando lo si consideri nel quadro dello ius e della iustitia, raggiunge un grado particolarmente alto d’intensità, converrà dedicare l’analisi e il commento. E lasciamo tuttavia da parte, perché il non molto che poteva dirsene già è stato detto, il passo di concisa autobiografia intellettuale che s’incontra all’inizio del primo capitolo. Degli spiriti antiromani che Dante confessò di avere un tempo condivisi, certo si vorrebbe sapere di più: se gli provenissero dalla lettura della Civitas Dei e per il tramite di quali ambienti; se avessero avuta una genesi storica, filosofica o invece, piuttosto, giuridica. Il che, se mai in questa materia ci fosse stato dato di vedere con discreta chiarezza e anche perciò ci fosse noto di quali testi, nell’età giovanile, oltre quelli letterari e poetici, Dante si facesse lettore, non sarebbe senza importanti conseguenze. Ma, in quel breve testo autobiografico, il « fatto » dell’antiromanesimo giovanile è asserito, non spiegato nelle ragioni di cui allora si nutrì, e che lo costituirono: sì che della sua impenetrabilità deve prendersi atto, sia pure, com’è ovvio, a malincuore 1. La questione del diritto sottende l’intero secondo libro. E dei vari aspetti in cui si presenta, nonché delle difficoltà a cui dà luogo, si verrà via via fornendo la ragione. A cominciare dall’aspetto in cui subito la questione si presenta nel secondo capitolo; e dalla premessa generale del discorso che, riguardando la creazione divina delle cose terrene, pone un problema che, anche in quello che specificamente concerne il diritto, fa sentire la sua influenza, la sua problematica influenza. Il discorso prende le mosse da un’analogia, che è in realtà qualcosa più che un’analogia: dal momento che il quemadmodum 2 con cui Dante stabilì il nesso fra ars e natura non implica la differenza che pur dovrebbe sussistere, ed essere ammessa, qualora soltanto un’analogia le stringesse insieme. Se l’arte si esplica e si realizza attraverso tre momenti, rappresentati dalla mente dell’artista, dagli strumenti dei quali questa può disporre e, infi1 Mon. II I 2. Nel criticare quanto affermato dal Ricci, ed. cit., p. 171, il Nardi, pp. 364-65, ebbe perfettamente ragione: sempre che, con il rinvio a Conv. IV IV 8, il riferimento fosse stato alla questione della violenza e non alla circostanza che, aliquando, Dante avesse giudicata nei termini di questa la forza che ai Romani fu necessaria per conquistare l’Impero. Resta, per altro, che all’altra questione, quella implicita nell’aliquando, il Nardi non ha dato rilievo. 2 Mon. II II 2.
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ne, dalla « materia » che gli sta di fronte, parimenti triplice è l’articolazione di momenti che può osservarsi nella natura. Come, infatti, questa ha la sua prima sede nella mente di quel supremo artefice che è Dio, così nel cielo ha lo strumento attraverso il quale la potenza creatrice e naturans si espande nella « mutevole » materia 3. E potrebbe perciò ribadirsi che qui si ha identità, non analogia: essendo vero bensì che l’artista umano non è quello divino, ma non meno essendolo che è tuttavia la struttura logica del paragone, e il modo in cui gli elementi vi sono connessi e messi a raffronto, a decidere se il paragone sia di identici o di analoghi (diversi); e qui per certo è l’identità a prevalere. L’identità per la quale deve dirsi che se Dio è un artefice, anche l’artefice umano è, in questo quadro (e considerato nella sua operazione), sicut Deus. Non è, come si vede, una questione irrilevante, o, comunque, marginale, quella che qui si agita. O meglio: lo sarebbe se diverso fosse il rapporto che, per l’artifex non meno che per Dio, Dante stabilì fra questi e la materia. Ma il rapporto è il medesimo: come può vedersi da ciò, che quel che accade nell’arte, anche nella natura accade. E con analogia perfetta: ossia, allo stesso modo e, quel che più interessa, con le stesse sconcertanti conseguenze. Si legga II II 3: Et quemadmodum, perfecto existente artifice atque optime organo se habente, si contingat peccatum in forma artis, materie tantum imputandum est, sic, cum Deus ultimum perfectionis actingat et instrumentum eius, quod celum est, nullum debite perfectionis patiatur defectum, ut ex hiis patet que de celo phylosophamur, restat quod quicquid in rebus inferioribus est peccatum, ex parte materie subiacentis peccatum sit et preter intentionem Dei naturantis et celi; et quod quicquid est in rebus inferioribus bonum, cum ab ipsa materia esse non possit, sola potentia existente, per prius ab artifice Deo sit et secundario a celo, quod organum est artis divine, quam naturam comuniter appellant.
Le conseguenze che discendono da questo passo, e dal modo in cui la quaestio di ciò che precede dall’atto creativo di Dio e dallo strumento, il cielo, del quale si serve, sono, in effetti, quali questo aggettivo li definisce: sono sconcertanti. E occorre prenderne atto. In luogo di, come si potrebbe esser tentati di fare, cercarne e indicarne la ragione in un
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pensiero ancora acerbo, e non a pieno padrone di sé 4, – in un pensiero, dunque, che solo in seguito si sarebbe reso più duttile, consapevole e penetrante, occorre che la difficoltà sia riconosciuta nel suo essere effettivamente intrinseca al quadro categoriale entro il quale la questione che la produce si è, per così dire, costituita. Occorre, in altri termini, che l’occhio si diriga alla premessa dalla quale, con il loro sconcertante, appunto, carattere, le anzidette conseguenze derivano. Occorre che si diriga al punto della « materia », e al complesso, problematico rapporto da essa intrattenuto con la forma che, su di essa, è impressa dall’artifex, e anche da Dio, che degli artefici è il più grande e perfetto. Occorre che si diriga alla questione costituita dall’essere la materia, come Dante scrisse, in potenza (« sola potentia existente »). E, comunque la si giri, tale è la questione che ne deriva che risolverla è impossibile: tanto che, quando pur si crede di averla vinta, il suo volto minaccioso torna infatti a presentarsi con quel segno: minaccioso, o anche, se si preferisce, indecifrabile. Fortemente ambigua è, innanzi tutto, qui come altrove, la definizione che di essa, della materia, si dà come di alcunché che sussista soltanto in potenza. E l’ambiguità infatti si rivela, senza che perciò accenni a risolversi, quando, per esempio, si osservi il dislivello che la sua stessa formulazione rivela fra l’existere e la potentia, che di quel soggetto fornisce qualcosa come il predicato. Per un verso, è evidente che non potrebbe mai esser segnato dall’essere soltanto in potenza il suo essere, o esistere, soltanto in potenza. Se originariamente, e di per sé, l’esistente fosse soltanto in potenza, come, infatti, potrebbe dirsi che « esiste » soltanto in potenza? Che qui, per conseguenza, l’esistenza si scinda e, perché poi la si possa definire in potenza, si richieda (e si presupponga) un’esistenza che esista, esista sul serio, e in modo, quindi, che questo suo esistere non sia esso stesso in potenza, è evidente. Ma anche, e non meno, è evidente che, lungo questa via, a emergere è la più patente delle contraddizioni, perché nello stesso atto la potenza sarebbe e non sarebbe in potenza. Se, per altro, abbandonata questa via, fosse all’altra che si decidesse di tener dietro e di dirigere lo sguardo, la conclusione sarebbe bensì diversa dalla precedente, ossia, rispetto a questa, diversamente struttura-
4 Singolare, al riguardo, la nota del Nardi, pp. 369-71, il quale, citando fra le altre cose, Par. VIII 133-35, e XIII 52-87, dà l’impressione, ma può ben darsi che mi inganni, di aver subito il fascino di quella tentazione.
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ta. Ma non perciò sarebbe meno contraddittoria. Per questo verso, la conclusione del discorso sarebbe infatti che ciò che esiste in potenza esiste in potenza: sarebbe perciò, per esprimersi in termini diversi da quelli di Dante, una pura proposizione analitica che, per quante volte la si ripeta nelle parole che la costituiscono, mai potrebbe svincolare sé stessa dal punto immobile dell’identità. Se, per altro, a determinarsi fosse qui una proposizione analitica, con quale diritto si assumerebbe il suo essere affetta da contraddittorietà? In realtà, la questione non è così semplice; e occorre distinguere. Se, con l’occhio rivolto soltanto alla formula, si prescinde dal concetto (la « potenza ») che, identicamente, nella formula, compare sia nella sede del soggetto sia in quella del predicato, di contraddizione non può parlarsi. Ciò che è identico è identico: non può, per definizione, né ospitare la contraddizione né risolversi, per dir così, nella sua forma. Ma se dal concetto (la « potenza ») e dal significato che le si attribuisce non si prescinde, se in altri termini si considera e non si dimentica che di « potenza » qui si sta parlando, a emergere è allora proprio la contraddizione che, di per sé stessa, mai l’identità potrebbe ospitare. La contraddizione infatti emerge non appena si consideri che se la si connette al verbo « essere », e si dice che « è », subito la potenza viene ad essere strappata alla sua natura e consegnata a una che, certo, se si procede con rigore, è difficile, problematico, anzi impossibile, attribuirle, non essendo anche qui pensabile che sia in potenza la natura della potenza: difficile, problematico, anzi impossibile tanto quanto è attribuirle l’« essere », che in nessun caso, se le fosse attribuito, potrebbe essere in potenza, e, se fosse in potenza, come potrebbe esserle attribuito? La difficoltà, come si vede, anche qui è pungente. E invano, per uscirne, si proverebbe ad assumere che in potenza, e non in atto, sia l’essere mediante il quale la potenza è assunta come potenza; e che, insomma, fra essere in potenza ed essere in atto la distinzione sia lecita e tale, perciò, da conferire l’orizzonte della risoluzione a una difficoltà altrimenti insuperabile. È proprio la distinzione, che mai potrebbe essere in potenza, e sempre dev’essere in atto, a rendere impensabile quel che si assume ne derivi: ossia l’essere in potenza che si distingue da quello in atto. Se entrambi, l’essere in potenza e l’essere in atto, sono termini di distinzione, come potrebbe, questa, essere in potenza? E se fosse in atto, come potrebbe, l’essere in potenza, non essere in atto come termine costitutivo della distinzione? Se le difficoltà alle quali, conferendo ad esse qualche svolgimento, si è accennato, sono intrinseche al concetto della « materia » e all’interpre-
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tazione che, teste Aristotele, se ne dà in termini di potenza, sarebbe allora segno di grave ipocrisia storiografica assumere che, poiché non le rivela e non le rende esplicite, il testo di Dante non ne è coinvolto. Sarebbe segno di ipocrisia e di altrettanto grande incomprensione. Non si arriverebbe infatti, se non le si recasse alla luce, a capire né la ragione per la quale il ricorso a questo problematico concetto gli parve necessario, né quella che dette luogo alle complicazioni, non solo filosofiche ma anche teologiche, che gliene derivarono. E a queste due ragioni occorre invece che si dedichi qui la debita attenzione; perché, di nuovo, percorrendole, si arriva al cuore del suo pensiero e a quello anche che, in esso, rimase impensato. In realtà, si davano, nel pensiero di Dante, due tendenze, o due, se si preferisce, esigenze, l’una non congruente e non armonizzabile con l’altra. Per un verso, agiva in lui l’idea secondo la quale tanto più la creazione era da considerarsi perfetta quanto più la virtù intrinseca al suo atto passasse nella cosa creata. E poiché il paragone che egli aveva istituito vedeva come autore dell’opera da un lato un artifex umano, ma da un altro l’artefice per eccellenza, e cioè Dio, è facile capire che, dalla parte di quest’ultimo, la creazione non potesse, posta la premessa, esser altro che perfetta. La linea che, nel suo svolgersi e compiersi, questa esigenza tracciava prevedeva che, « cum omne quod in mente Dei est sit Deus, iuxta illud ‘quod factum est in ipso vita erat’, et Deus maxime se ipsum velit, sequitur quod ius a Deo, prout in eo est, sit volitum. Et cum voluntas et volitum in Deo sit idem, sequitur ulterius quod divina voluntas sit ipsum ius » 5. La sequenza che in tal modo Dante costruiva, e suggellava nel nesso onde il diritto era, nella mente di Dio, la stessa cosa di lui, recava con sé una conseguenza tanto più sorprendente e sconcertante quanto più alla incontrastata potenza creatrice del sommo artefice si fosse tenuto fermo. Era evidente infatti, e Dante non poteva non avvedersene, che quanto più a quell’identità si fosse tenuto fermo, con altrettanta fermezza a due conseguenze opposte, ed entrambe pericolose, si sarebbe dovuto dar libero corso. La prima era che in forza e in ragione della sua autentica derivazione da Dio, il diritto doveva esser considerato cosa di per sé stessa divina. Il diritto è infatti in quanto tale, voluto da Dio. E in Dio velle et volitum sono lo stesso. Il che comportava la completa divinizzazione dell’Impero romano; e, provan-
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do, per così dire, troppo, non poteva non andare al di là dell’intenzione di Dante: che, palesemente, di fronte a questa conseguenza, rimase turbato. Di qui l’attenuazione alla quale egli fece ricorso subito dopo, e cioè nel luogo in cui scrisse che ius in rebus nichil est aliud quam similitudo divine voluntatis 6. « In Deo », « in rebus »: così, con la seconda di queste due espressioni, sulla cui importanza strategica è impossibile che cadano dubbi, Dante assumeva come una similitudo ciò che, per un altro verso, aveva ben lasciato intendere che fosse, e dovesse essere, un’identità; e nel segno di questa richiedesse di essere assunto. Per un altro verso, e con più grande rigore. Avrebbe infatti comportato una netta limitazione e diminuzione della potenza divina l’idea che quanto era in essa non con altrettanta compiutezza passasse in res, nelle cose. Ed è evidente la delicatezza della questione che in tal modo si delineava. Evidente, altresì, il nesso che la stringeva all’altra della materia che, se nelle cose create si dà qualcosa di sordo e non corrispondente all’intenzione del creatore, lo scarto dev’essere imputato a tale sordità; che è nella materia e non nel creatore. Il nesso è infatti il medesimo. E identiche sono le difficoltà che ne nascono. Sottraendo all’intenzione divina il limite patito dalle cose e attribuendone a queste la causa, si otteneva infatti non già quel che s’intendeva, ma l’opposto: non il valore incontaminato della potenza divina, ma il suo limite. Il limite di una potenza che tanto poco riusciva a trasferire sé stessa in ciò che pure ne derivava, che, per una parte, questo riusciva chiuso al, e impenetrabile dal, chiarore della sua luce. A emergere era perciò la spinosa questione che l’idea della creazione, tanto meno può evitare che insorga nel segno dell’antinomia e può sperare di risolvere, quanto più a intesserla siano le categorie aristoteliche della potenza e dell’atto; che sono bensì, per alcuni aspetti, in grado di evitarne gli esiti aporetici, ma solo quando, come accade nel libro Λ della Metafisica 7, l’atto sia presentato come il puro atto di sé stesso e la potenza sia, non la potenza che, se in qualche modo si assume che sia, offre al pensiero e al suo atto difficoltà insormontabili, ma come un’ombra originariamente dissolta e mai perciò richiedente, con il suo esserci, di essere recata all’atto. Di qui, da questa ritraduzione della semplice idea cristiana, o ebraico/cristiana, della creazione nel quadro di categorie che avrebbero do-
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II II 5. Cfr., per es., Arist. Metaph. Λ 7, 10072 b 18 ss.
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vuto renderne più sicuro il concetto, o esprimerne la filosoficità nascosta, di qui le difficoltà, l’esasperazione delle difficoltà. Piaccia o non piaccia, comunque si cerchi di assottigliarne lo spessore ontologico, e persino nel caso estremo in cui della materia si facesse nient’altro che un momento interno al realizzarsi della forma, resta che la materia è la materia, che la potenza è la potenza. E tale sarebbe anche nel caso che, lungi dall’essere considerato come esterno, il suo luogo ontologico fosse reso interno alla forma: non solo perché, esterno o interno, sarebbe pur sempre un luogo ontologico, e il suo esserci implicherebbe per conseguenza, nei confronti di Dio, un’alterità e una differenza, ma anche perché, se fosse interno alla realizzazione della forma, a questa sarebbe necessario e, se lo fosse, la forma non potrebbe, in qualche modo, non dipenderne. Se quindi, nello svolgimento che questi concetti subivano nella mente di Dante, sempre di nuovo la « materia » tornava a offrirglisi nel segno di una tal quale residuale impenetrabilità, nel segno in altri termini di un difetto che la luce di Dio non penetrava risolvendolo, nessuno potrebbe pensare che di questo non si desse, quale che fosse, la ragione. Il che per altro, e a parte quel che si legge nel Paradiso, XIII 67-78 8 (dove si presenta in un contesto più ampio ma, non per questo, più risolutivo e meno aporetico), non toglie che, pensata in questi termini, la questione fosse realmente insolubile; e in ciascuna, deve dirsi, delle sue dimensioni possibili. La sua insolubilità sarebbe emersa con nettezza proprio se si fosse tenuto fermo al concetto, per un altro verso, infatti, non obliabile, dell’onnipotenza intrinseca alla creatività divina, e di qui, con rigore, si fosse tratta la conseguenza che tale è il mondo quale Dio l’ha voluto e, in atto, lo vuole. Non è forse evidente che lungo questa via a delinearsi sono queste tre ipotesi: quella di un mondo incapace, e non per volere di Dio, di ricevere la sua luce, l’altra di un Dio deciso, nell’abisso del suo volere, a non farla pervenire al mondo, e infine, diversa dalla prima come dalla seconda, una terza che fra Dio e mondo stabilisce una tale identità che, né l’uno né l’altro avrebbero potuto, in questa, mantenere la loro, ed essere rispettivamente Dio e il mondo? Se, viceversa, per sfuggire a queste difficoltà, e quindi anche alla precedente, in forza della quale la resistenza offerta dalla materia all’atto crea8 Par. XIII 67-78: « la cera di costoro e chi la duce/ non sta d’un modo; e però sotto ’l segno/ idëale poi più e men traluce./ Ond’elli avvien ch’un medesimo legno,/ secondo specie, meglio e peggio frutta;/ e voi nascete con diverso ingegno./ Se fosse a punto la cera dedutta/e fosse il cielo in sua virtù supprema,/ la luce del suggel parrebbe tutta;/ ma la natura la dà sempre scema,/ similmente operando a l’artista/ ch’a l’abito de l’arte ha man che trema ».
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tore non da altro dipende che dalla volontà stessa di Dio, che crea essa questo limite, questa sordità impenetrabile, proprio a questa idea si rinviasse come risolutiva di ogni difficoltà? Nessuno, in effetti, potrebbe legittimamente sostenere che questa sarebbe, non una fuga dalla difficoltà, ma la sua risoluzione. Se si assumesse che, autore e creatore del limite, del difetto, della tenebra e, in analisi estrema, del male, fosse il volere stesso di Dio, la conseguenza non potrebbe esser tratta se non rilevando che non solo, come creatore del limite e del male nell’atto stesso in cui anche, e di necessità, lo fosse della perfezione e del bene, il suo atto non potrebbe essere se non contraddittorio, ma anche, e per converso, che, creato da Dio, che è perfezione e bontà, il male non sarebbe male, il limite non sarebbe limite, la tenebra sarebbe luce, e così via. Per un verso, quindi, dal volto di Dio si rimuoverebbe l’ombra della contraddizione che, nel primo momento dell’argomentazione, era insorta ad offuscarne la luce. Ma, per un altro, alla distinzione che il creatore pur intrattiene nei confronti della creatura restar fermi sarebbe impossibile; e la questione tornerebbe a configurarsi nella forma che ci venne incontro quando si dovette constatare che, se l’idea dell’assoluta perfezione di Dio fosse assunta con rigore, allora non solo il mondo sfumerebbe con le sue particolari differenze, ma anche il creatore. Creatore e creatura non potrebbero infatti essere pensati se non come il punto inesteso dell’identità: nel quale sarebbe per conseguenza impossibile tenerli distinti nell’atto in cui si dicesse che vi si identificano. E veniamo ora, o meglio torniamo, alla questione del diritto. Nella quale, in effetti, anche sono presenti (e lo si è accennato) le difficoltà che s’intrecciano nell’idea della creazione quando questa sia pensata alla luce delle categorie aristoteliche, che a sufficienza, si ritiene, sono state analizzate qui su, della potenza e dell’atto. Lo si è già detto. Per un verso, se in Dio il velle e il volitum, il volere e il voluto, sono il medesimo, e il volitum è lo ius che, essendo nella sua mente, è ciò proprio che egli vult, la conseguenza è allora che, dove in senso rigoroso si dà identità non può darsi differenza; e nemmeno la similitudo alla quale, per evitare la immediata divinizzazione del reale storico, Dante, per un altro verso, la riconduceva. L’incongruenza è tanto evidente che, dopo quanto s’è avuto occasione di dirne, insistervi sarebbe superfluo. Altra infatti la similitudo, altra l’identità: anche se poi, assumendo la similitudo come essa stessa voluta da Dio, la sua differenza dall’identità che, come anch’essa voluta da lui, il diritto intratterrebbe con il suo autore,
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non abbia più alcuna ragion d’essere, si perda del tutto, e la difficoltà che s’intendeva evitare torni con prepotenza a occupare l’intera scena. Come, del resto, subito si vede se, considerando con attenzione quel che Dante asserì là dove scrisse che se, in rebus, il diritto nichil aliud est quam similitudo divine voluntatis, quel che si trovi a essere in disaccordo con questo, non è diritto 9: il che significa che se, in quanto similitudo, il diritto invece divine volutati consonat, allora anche la similitudo è, appunto, voluta da Dio, della cui luce e eccellenza non è e non può essere un’attenuazione, la copia sbiadita che pur sempre, rispetto all’originale, una copia è. Irresistibilmente, e se si sta, invece che all’intenzione astratta, alla logica della cosa, il diritto assume il volto di ciò che è divino. E, fra le varie conseguenze che questo concetto reca con sé e dovranno via via esserne ricavate, se ne dà una che a Dante apparve nell’aspetto di un’ardua difficoltà. La voluntas Dei è, per definizione, imperscrutabile. È, infatti, invisibile 10. Come si può dunque pretendere di sapere in quali direzioni si svolga e, più radicalmente, quale ne sia la natura e, di volta in volta, il contenuto? E in che senso potrebbe sostenersi che ciò che, per definizione, è nascosto e non manifesto si renda tuttavia visibile e conoscibile ex manifestis signis 11? Non si dà qui una palese contraddizione? Quella della cera e del sigillo, a cui Dante ricorse alla fine del secondo capitolo, è senza dubbio un’efficace immagine (sia o no di scuola) 12. Ma dice e suggerisce proprio il contrario di quel che, secondo l’intenzione, dovrebbe: dal momento che se, nascosto, il sigillo lascia il suo segno sulla cera, non è evidente che in questa si rende in tutto e per tutto riconoscibile anche se, in quanto tale, resti celato nel luogo che lo ospita e che solo indirettamente lo rivela? Come che sia, i manifesta signa della volontà divina sono appunto, per Dante, manifesta, ossia evidenti. Ne conseguiva che, nel corso del suo ragionamento, a lui accadeva o di non rispettare la premessa dell’invisibilità, o di intenderla in modo soltanto fisico. Non dunque l’imperscrutabilità che, a rigore, tale sarebbe anche attraverso i suoi signa; ma, piuttosto, l’invisibilità di ciò che, rendendosi tuttavia manifesto attraverso segni visibili e riconoscibili, è perfettamente comprensibile anche se resti nascosto, così che soltanto in questo senso specifico può dirsi che sia invisibile. Altra insomma la imperscrutabilità, 9
Mon. II II 11 II II 12 Così 10
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II II 5-6. 8. 7. anche in Par.
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VII
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VIII
127-28;
XIII
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che riguarda anche il signum. Altra l’invisibilità di quel che si manifesta attraverso segni visibili. Ma fra i due concetti Dante non distingueva. E lo scambio che eseguiva dall’uno all’altro nasceva dalla necessità nella quale si trovava di intendere la prima alla luce della seconda, l’imperscrutabilità alla luce dell’invisibilità rivelata tuttavia da visibili segni. Di questo scambio occorre prendere atto. E tanto più, si direbbe, in quanto le ultime linee del capitolo introducono e svolgono un argomento a dir poco sconcertante; e che di quello scambio appare come una conseguenza. Che la volontà umana non potesse, secondo Dante, esser vista extra volentem non aliter quam per signa 13, è ben comprensibile, perché anche le parole che la esprimono non sono, in effetti, se non signa. Ma veramente sorprendente è che lo stesso argomento gli sembrasse riferibile alla volontà divina; che, se anch’essa fosse stata interpretata così, in che cosa, dunque, si sarebbe distinta dall’altra? Trascinato, anche questa volta, dalla passione che conferiva forza ai suoi argomenti e li disponeva nella forma inesorabile del sillogismo, Dante in sostanza non esitò a dividere il mondo del diritto in due semisfere. E in una collocò il diritto autentico, quello che, provenendo direttamente da Dio ed essendogli perciò identico, con piena ragione potrebbe esser detto, più ancora che naturale, divino; nell’altra quello che, privo di questo carattere, non potrebbe mai esser definito come « diritto » se, malgrado il possesso di questo nome, all’autentico diritto, che Dante definiva verus et sincerus, non fosse stato reso conforme. La questione della conoscenza che, nel corso della sua vita, Dante si procurò della scienza giuridica, da quali autori vi fosse introdotto e quali testi, in particolare, gli fossero familiari, è, com’è noto, controversa. Ci fu chi di lui volle fare un giurista, anche un giurista 14; e chi, non senza buone ragioni, negò che del giurista egli possedesse l’abito, l’attitudine 15. Po13
Mon. II II 8. Cfr. in particolar modo L. Chiappelli, Dante in rapporto alle fonti del diritto e alla letteratura giuridica del suo tempo, « Arch. storico ital. », s. V, 41 (1908), pp. 2-44; le cui conclusioni, relative alla cultura giuridica di Dante, contestate da M. Chiaudano, Dante e il diritto romano, « Giorn. dant. » 20, 3 (1912), pp. 1-46, furono difese dallo stesso Chiappelli, ivi, 1922, pp. 200 ss., e quindi da Ercole, Dante e il diritto (1913), in Il pensiero politico di Dante, II, 9-37, e, con minore rigidezza, dal Solmi, Il pensiero politico di Dante, pp. 260-61, passim. Contra, le assennate, anche se, ancora una volta, alquanto minimizzanti, osservazioni del Barbi, Problemi fondamentali, pp. 52-53. 15 Lo ammise anche il Solmi, Il pensiero politico di Dante, p. 261. 14
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trebbe anche aggiungersi che, aperta restando la questione delle conoscenze, ossia della loro estensione e profondità, del giurista Dante non possedette mai, in nessun momento della sua vita, la disposizione a collocarsi nella realtà e dal suo punto di vista, per interpretarla, attraverso la legge, innanzi tutto nella sua specificità e particolarità. Semplificando, senza dubbio, e andando perciò all’essenziale, non si esagera se si dice che questa disposizione al riconoscimento di ciò che è particolare e al quale la legge deve conferire la sua forma Dante la possedette assai meno di Tommaso d’Aquino. Nel cui pensiero è ben vero che si dà a vedere quel che tante e tante volte è stato notato: e cioè che il giusnaturalismo vi tocca il suo vertice per porsi, addirittura, nella forma di una razionale cosmologia. È ben vero che sua, anche se non soltanto sua, è l’affermazione secondo cui omnis lex humanitus posita intantum habet de ratione legis inquantum a lege naturae derivatur; e che sua, anche se non sua soltanto, è l’aggiunta: si vero in aliquo a lege naturali discordet, iam non erit lex, sed legis corruptio 16. Ma, come che sia della quaestio della derivazione, e, quindi, del permanere della lex naturae nelle leggi particolari di questo o quel popolo, è altrettanto vero che vivissimo fu in Tommaso il senso delle particolarità e della conseguente concretezza della legge; laddove non così fu per Dante. Insomma, e a parte la questione delle attitudini tomistiche, se, per riprendere osservazioni di altri, i glossatori, per esempio, ebbero come scopo non solo la spiegazione del Corpus giustinianeo assunto come fondamento formale di ogni possibile discorso giuridico, ma anche e non meno la concreta particolarità di situazioni assai diverse ormai da quelle presupposte dal testo romano 17; se, presso di loro, senza riserve era il convincimento che fra ius commune e ius particulare 18 la connessione dovesse essere ricercata, perché era nelle cose, e trovata, perché queste dovevano riceverne la regola, la preoccupazione di Dante fu tutt’altra. Al riconoscimento dei diritti particolari, e alla necessità quindi della elaborazione di una scienza che ne consentisse la rigorosa formulazione, egli non prestò alcuna partecipe attenzione. E se non poté disconoscerne la realtà, per16
Summa theol. I II, q. 95, a 2 (e cfr. anche I II, q. 94, a 2). Cfr. varie osservazioni in P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Bari 1999, pp. 160-61. 18 Per le complesse questioni concernenti il dritto comune, e il suo concetto, rinvio all’ampio quadro che ne tracciò B. Paradisi, Il problema del diritto comune nella dottrina di Francesco Calasso (1981), in Studi sul Medioevo giuridico, II, Roma 1987, pp. 1009-112. 17
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chĂŠ a impedirglielo era la realtĂ stessa che anche a lui, e con piena evidenza, appariva con il suo volto proprio, è pur vero che nemmeno per un istante lâ&#x20AC;&#x2122;ordine gerarchico delle prioritĂ nella sua mente vacillò o impallidĂŹ. Sempre, al contrario, rimase saldo. Sia che il suo occhio intellettuale si volgesse a contemplare la scala ascendente che dallâ&#x20AC;&#x2122;uomo conduce al primo nucleo sociale e da questo, di grado in grado, allâ&#x20AC;&#x2122;Impero universale, sia che la questione gli si presentasse nella forma dellâ&#x20AC;&#x2122;intelletto, nessun dubbio per lui poteva sussistere, nessuna incertezza. Lâ&#x20AC;&#x2122;ultimo, lâ&#x20AC;&#x2122;Impero, era veramente il ÂŤ primo Âť; e per ÂŤ primo Âť qui deve intendersi ciò che è perfetto, la realtĂ a cui niente fa difetto, e rispetto alla quale ogni altra, che pretenda di affiancarlesi o, addirittura, di sostituirla, ha in sĂŠ il segno dellâ&#x20AC;&#x2122;usurpazione. A tal punto, in effetti, a questa convinzione egli tenne fermo che quando, nel capitolo decimoquarto del primo libro, dopo aver ribadito che humanum genus potest regi per unum suppremum principem, e aver aggiunto che ciò non era da intendere nel senso che da lui immediatamente dipendessero minima iudicia cuiuscunque municipii, non solo non ebbe alcuna esitazione nellâ&#x20AC;&#x2122;ammettere che le leges municipales quandoque deficiant et opus habeant directivo, e citò la epyikia 19, ma, in sostanza, fece anche di piĂš. Le leggi particolari furono da lui giustificate non in relazione a vicende storiche e politiche che ne avessero provocato e reso necessario lâ&#x20AC;&#x2122;insorgere, e non dunque perchĂŠ in esse dovesse vedersi il principio di un diritto diverso da quello comune; ma a causa bensĂŹ dei diversi climi, sotto i quali vivendo, i popoli formano i loro costumi. Da una parte gli Sciti, abitatori di una regione molto fredda, e ai quali, per questo riguardo, mai potrebbe convenire il costume dei Garamanti, abitatori di regioni caldissime. Da unâ&#x20AC;&#x2122;altra, questi ultimi, i cui costumi, e per la stessa ragione, mai potrebbero convenire ai primi 20. E qui, salvo errore, il riconoscimento di quel che sia giusto concedere alla individualitĂ dei popoli, adattando le leggi alla loro indole e questa alle leggi, sembra riflettere su di sĂŠ un tratto, se non ironico, certo svalutativo. Non, si badi, perchĂŠ di climi si tratti, e non di storia (questa contrapposizione è per 19 Mon. I XIV 4. Epyikia ( Ď&#x20AC;Κξ κξΚι) è usato da Arist. Eth. Nic. E 1137 a 32-b 17. Credo che nel testo aristotelico debba, in riferimento a Dante, essere particolarmente tenuto presente 1137b 12-14 Ď&#x20AC;οΚξ δ Ď&#x201E; ν Ď&#x20AC;ÎżĎ ÎąÎ˝ Ď&#x201E;Κ Ď&#x201E; Ď&#x20AC;ΚξΚκ Ď&#x201A; δ κιΚον Îź ν Ď&#x192;Ď&#x201E;Κν, Îż Ď&#x201E; κιĎ&#x201E; ν Οον δ , ΝΝâ&#x20AC;&#x2122; Ď&#x20AC;ιν Ď Î¸Ď&#x2030;Οι νοΟ ΟοĎ&#x2026; δΚκι ÎżĎ&#x2026;. Ne deriva che, se fu questo il passo che Dante ebbe sottâ&#x20AC;&#x2122;occhio, lâ&#x20AC;&#x2122; Ď&#x20AC;Κξ κξΚι fu intesa come una sorta di criterio generale atto a riorientare le leggi municipali quando si trovassero a essere ÂŤ difettive Âť. 20 Mon. I XIV 6.
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intero estranea alla mente di Dante), ma per la diversa ragione che, in questo contesto, le leggi esprimono peculiarità, per così dire, minori, contingenti, e non quel che nell’uomo propriamente è umano. Dante, del resto, lo disse chiaro là dove scrisse che, nelle cose che sul serio contano, queste distinzioni e peculiarità invece non valgono: ... sic intelligendum est: ut humanum genus secundum sua comunia, que omnibus competunt, ab eo regatur et comuni regula gubernetur ad pacem. Quam quidem regulam sive legem particulares principes ab eo recipere debent, tanquam intellectus practicus ad conclusionem operativam recipit maiorem propositionem ab intellectu speculativo, et sub illa particularem, que proprie sua est, assummit et particulariter ad operationem concludit. Et hoc non solum possibile est uni, sed necesse est ab uno procedere, ut omnis confusio de principiis universalibus auferatur. Hoc etiam factum fuisse per ipsum ipse Moyses in lege conscribit, qui, assumptis primatibus de tribubus filiorum Israel, eis inferiora iudicia relinquebat, superiora et comuniora sibi soli reservans, quibus comunioribus utebantur primates per tribus, secundum quod unicuique tribui competebat. Ergo melius est humanum genus per unum regi quam per plura, et sic per Monarcham qui unicus est princeps ; et si melius, Deo acceptabilius, cum Deus semper velit quod melius est. Et cum duorum tantum inter se idem sit melius et optimum, consequens est non solum Deo esse acceptabilius hoc, inter hoc ‘unum’ et hoc ‘plura’, sed acceptabilissimum 21.
Per intendere il significato di queste linee, non in ogni punto perspicue, occorre che innanzi tutto si chiarisca in che senso l’intelletto che Dante definiva pratico possa avere quello speculativo quale premessa della specifica operazione sua, concernente le cose particolari; e come, in secondo luogo, sia possibile e debba essere interpretata la forma sillogistica che, parlando di « proposizioni » maggiori e minori, egli conferì al suo argomento. L’idea, infatti, di un sillogismo così concepito che, nella premessa maggiore vede l’intelletto speculativo e nella minore l’intelletto pratico che, a sua volta, disponendo la sua propria particolarità sotto il segno di quello, particulariter ad operationem concludit, – questa idea dà luogo a una figura singolare: nella quale solo con la più grande difficoltà quella classica del sillogismo potrebbe essere trasferita. Nella forma che qui è stata definita classica, il sillogismo funziona con inesorabile necessità una volta che a esser dati siano la premessa maggiore, il
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suo restringimento nel medio (« tutti gli uomini », « Socrate »), e quindi l’inevitabilità che, sia il soggetto del primo giudizio sia quello del secondo, siano predicati allo stesso modo: al pari di ogni altro uomo, che lo è, Socrate è mortale. Il sillogismo insomma, e questa è, descrittivamente, cosa ovvia, è una struttura che, se la si osserva e percorre, si presenta sotto il segno della deduttività. Ma nella figura rapidamente delineata, o presupposta, da Dante, le cose vanno invece in modo alquanto diverso. È la premessa minore, infatti, è l’intelletto pratico che sta sotto quello speculativo, ad assumere l’iniziativa in forza della quale il sillogismo muove sé stesso. È lui, e non l’obiettiva forza o energia deduttiva che al sillogismo deriva, o dovrebbe derivare, dal modo in cui i giudizi che lo costituiscono vi sono intrecciati, – è lui, dunque, è l’intelletto pratico che determina il suo interno dinamismo. Da quello speculativo, sotto il quale si trova, l’intelletto pratico riceve la premessa universale che assummit et particulariter ad operationem concludit. È evidente infatti che se, per un verso, la struttura discendente e deduttiva del sillogismo è, anche qui, rispettata, e Dante parla di un recipere che, da quello speculativo, l’intelletto pratico fa della premessa maggiore, per un altro verso invece è quest’ultimo che conduce il gioco, assume e conclude. Il che tanto più dev’essere notato, e deve impedirsi che sfugga all’attenzione, in quanto, a proposito del sillogismo, la recta interpretatio è che a « concludere » sia, non uno dei suoi momenti o giudizi, ma il sillogismo stesso che, in virtù dell’energia logica che lo anima, è lui infatti, e sempre, il soggetto autentico della conclusione, e dell’operatio, beninteso, attraverso la quale la raggiunge. Si è venuta, se è così, a determinare una situazione per molti versi singolare. E non solo in riferimento allo schema del sillogismo, che qui Dante maneggia con spregiudicata radicalità. Ma in riferimento altresì all’argomento principale del discorso svolto in questo punto del capitolo. L’argomento è, come si ricorderà, costituito dalla relazione in cui le leggi municipali stanno, e debbono stare, con quella imperiale. E se si prova a riformularlo con rigore alla luce di quel che è venuto emergendo, la paradossalità della conseguenza che ne scaturisce non può sfuggire. È opinione ferma, granitica, indiscutibile di Dante che, sia in quanto particolari, sia in quanto, anche rispetto a sé stesse, difettive, le leggi municipali richiedano l’ πιε κεια: che non può stare se non nelle mani, e nella mente, dell’Imperatore. Se si ragiona così, e così senza dubbio deve ragionarsi, il discorso si svolge con piena coerenza a partire dalla premessa secondo la quale, non sono i governanti particolari a interpretare secondo le esigenze determinate dalla loro particolarità, e a assu-
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mere nella prospettiva di questa, le leggi imperiali, perché sono viceversa queste che, contenendole in sé, ad esse impongono la giusta misura, la discrezione e il freno. Ma, se lo si osserva nella sua logica obiettiva, non coincidente in quanto tale con l’intenzione, l’argomento dantesco importa un diverso sviluppo, e una diversa conclusione. Se, nella logica del paragone, i principi e le leggi municipali corrispondono all’intelletto pratico, e se è questo che dalla premessa maggiore rappresentata dall’intelletto speculativo ricava l’operazione universale, che è propria di questo, per assumerla e concluderla, particulariter, nell’azione, – è evidente allora perché qui su si parlasse di un diverso sviluppo, e di una diversa conclusione. L’ πιε κεια, che nel primo caso apparteneva all’Imperatore e alla sua responsabilità di universale reggitore e moderatore di ogni particolarità, diventa, nel secondo, prerogativa dei principi particolari. E non, beninteso, a causa dell’affetto che Dante potesse nutrire nei confronti di questi che, al contrario, non amava in nessun modo. Ma a causa, invece, di una sorta di sottile disguido logico. Nel passo che è stato citato, e solo in parte commentato, si nasconde un’altra questione, che richiede di non essere passata sotto silenzio. È quella che concerne il nesso che debba o non debba, possa o non possa, stabilirsi fra questo punto riguardante, nel sillogismo quale Dante lo costruì, la derivazione dell’intelletto pratico da quello speculativo, e quel che, nel terzo capitolo, si diceva dell’« estensione » di questo nell’intelletto pratico. Il nesso, per un verso, parrebbe evidente perché, almeno nell’intenzione, anche qui il « pratico » si pone, all’interno dell’ordine sillogistico, come una sorta di conseguenza, e quindi di estensione, dello speculativo. Ma, per un altro verso, se non nell’intenzione, certo nella cosa, non è così. « Conseguenza » ed « estensione » non sono, formalmente, lo stesso. E lo si comprende se si considera che, mentre l’estensione pratica dell’intelletto speculativo riformulava radicalmente, disponendola come uno sviluppo e un’esplicitazione di ciò che in questo era contenuto, la distinzione verticale dell’un intelletto dall’altro, nell’ordine sillogistico, stricto sensu inteso, le cose vanno in tutt’altro modo. Nella rappresentazione geometrica che si faccia del concetto, l’« estensione » è una linea che prosegue sé stessa in senso orizzontale; la « conseguenza » è una linea che, partendo da ciò che le sta sopra, ne discende e traccia sé stessa in senso verticale. In altri termini. L’« estensione » non presuppone di necessità l’ordine sillogistico. La « conseguenza » sì, lo presuppone: nel senso che, se a quel che si determina
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nel sillogismo s’intendesse dare il nome di « estensione » invece che di « conclusione », inteso dovrebbe restare che del primo termine non potrebbe comunque non darsi una rappresentazione verticale, e non mai, invece, orizzontale. Se è così, si ha netta l’impressione che, nel riprendere la questione delineata nel terzo capitolo, Dante non riuscisse, nel decimoquarto, a conservare il più notevole degli spunti teorici che vi si erano resi evidenti. Ma anche, tuttavia, si è indotti a pensare che la loro riformulazione in chiave sillogistica nascesse dal convincimento che, come il sillogismo è, o ha fama di essere, uno strumento di inesorabile coercizione al consenso, così a lui convenisse servirsene per ridurre al silenzio gli avversari dell’Impero e depotenziarne la malizia. Dopo di che, resta da decidere l’aspetto più rilevante della questione; che concerne la vera natura del diritto e, quindi, dei diritti: del diritto che promana per via diretta dall’Imperatore e, nel suo essere comune a tutti, è definibile per un verso come il diritto romano e giustinianeo e, per un altro, senza contrasto, come il diritto naturale; e del diritto che è proprio dei regni e di ogni « stato » particolare, – quel diritto al quale coloro che si trovino a esservi sottoposti debbono bensì obbedienza, ma pur sempre tuttavia nel quadro dell’altro che, rispetto ai diritti particolari, è egemone. Ebbene, se si fa attenzione al modo in cui il secondo membro di questa alternativa si presenta, non si trova difficoltà a comprendere che, semplice per un verso, per un altro, e proprio, si direbbe, in ragione di questa semplicità, la questione non lo è affatto. E varie difficoltà, quando la si esamini con qualche cura, infatti ne nascono. Poiché il conseguimento di quel che si era proposto era per lui cosa essenziale, e altrettanto lo era la dimostrazione formalmente rigorosa della sua necessità, Dante non pose tempo in mezzo. Del diritto disse quel che al suo scopo gli sembrava indispensabile. E ne trattò con tale stringatezza che non può far meraviglia che il rischio di fraintenderne il pensiero sia alto e che la necessità di un supplemento d’indagine s’imponga. Né per Dante in particolare, né in generale per i giuristi e per i filosofi medievali che del diritto fecero oggetto di riflessione, è per esempio proponibile la distinzione, che pure da qualche parte è stata suggerita, fra il diritto naturale, di cui depositario e garante sarebbe l’Imperatore, e i diritti « positivi » che, sempre derivando da quello ed essendo tuttavia operanti con efficacia nelle « parti », apparterrebbero invece a coloro che, re, principi, e così via, ne hanno la cura e debbono imporne il
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rispetto 22. Questa distinzione è in effetti irricevibile perché, né in Dante, né nei giuristi e filosofi del suo tempo, il diritto naturale si differenzia da quello positivo come il generale, o l’universale, dal particolare o individuale, che da quello infatti deriva e trae il titolo della sua legittimità. Nelle definizioni, per esempio, che s’incontrano nella Summa theologiae di Tommaso d’Aquino, il diritto si articola bensì come lex aeterna, lex naturalis e lex humana 23. Ma sarebbe assurdo intendere che, per quanto concerne le società umane, soltanto nella terza si determini la concretezza della prima e della seconda, e che in quella soltanto, nella terza appunto, la legge sia, in senso proprio, legge. In realtà, se il carattere della legge si determina come capacità di ordinare e di dirigere, questo carattere è comune alla terza definizione non più che alla seconda e alla prima: allo stesso modo che se, a paragone delle prime due, alla terza appartiene una diversa, e decrescente, estensione; se, per conseguenza, la prima è comprensiva della seconda e della terza che, viceversa, non è inclusiva né della seconda, dalla quale è inclusa, né della prima, questo non significa che tutte non siano, allo stesso modo, leggi. Lo sono, infatti, perché nihil est aliud lex quam dictamen practicae rationis in principe, qui gubernat aliquam communitatem perfectam (I II. q. 91, a. 1). Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Ma basta quel che s’è detto perché evidente risulti che il diritto naturale non è un codice soltanto ideale di princìpi ai quali la legge positiva, che vi si ispira, aggiunga tuttavia la concretezza e l’effettività. Questo codice di princìpi non è soltanto ideale, non è insomma, per parlar chiaro, un insieme di enunciati morali che resti in attesa di qualcuno o di qualcosa che li realizzi. Connessa gerarchicamente, e con assoluta necessità, alla lex naturae e, attraverso questa, alla lex aeterna, la lex humana possiede in quanto tale anch’essa la ratio che è nelle altre due 24: tanto che, se invece non la possedesse e in sé stessa non fosse che una pura tecnica della coercizione, per certo non sarebbe, secondo Tommaso, una legge. Se perciò il suo carattere consiste nella coercizione, questa si realizza con l’attuazione della ratio che le è intrinseca, e coincide con la sua essenza. Il che significa che, da questo punto di vista, la distinzione del diritto 22
Questa, se lo intendo bene, è l’opinione del Vinay, comm. cit., p. 90. Cfr., per questa tripartizione tomistica, G. Fassò, La legge della ragione, Bologna 1964, p. 73. 24 Summa theol. I II, q. 97 a 3: « omnis lex proficiscitur a ratione et voluntate legislatoris: lex quidem divina et naturalis a rationabili Dei voluntate: lex autem humana a voluntate hominis ratione regulata ». 23
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naturale dai diritti positivi che lo realizzerebbero specificandolo, non avrebbe alcun fondamento se, appunto, la s’intendesse come una distinzione di due ambiti concettuali sia pure connessi nel segno della ispirazione etica che l’uno trae dall’altro. In realtà, il diritto naturale è esso stesso, in questo quadro, un diritto positivo (e questo un diritto naturale). Lo è perché comanda e pone divieti. Lo è perché, per usare l’incisiva definizione ciceroniana, la sua legge, la legge che lo esprime, est ratio summa, insita in natura, quae iubet ea quae faccienda sunt prohibetque contraria (de leg. 1, 6, 18): con la conseguenza che eadem ratio cum est in hominis mente confirmata et confecta, lex est (1, 6, 18-19). Di qui, e già vi si è alluso, l’altra e necessaria conseguenza che, se il diritto naturale è un diritto positivo, questo è un diritto naturale: perché, appunto, la distinzione non sussiste. Che è poi, sia detto per inciso e fra parentesi, la stessa situazione che, simmetricamente capovolta, si presenta in ambito giuspubblicistico, e nella capitale osservazione secondo cui se il diritto naturale non ha forza ed efficacia coercitiva, e si esclude quindi dalla definizione di ciò che è legge, allora non può, nei confronti di quello positivo, costituire termine di distinzione 25. Un diritto infatti che sia privo di quel potere può essere bensì un’etica, o una fonte, se si preferisce, di suggestioni morali, ma non è un diritto; e da un diritto che sia tale non può perciò distinguersi come un « altro » diritto. Considerazioni analoghe possono essere fatte per il capitolo della Monarchia (il decimoquarto del primo libro) che, da tempo al centro dell’attenzione, ha, altresì, prodotto questo piccolo excursus tomistico. L’analogia che, per questo riguardo, può notarsi fra i due scrittori, fra Tommaso d’Aquino e Dante, non significa certo la reductio del secondo al primo: anche perché sono pur sempre nozioni comuni a molti altri autori di quell’età quelle che qui sono state ricordate e messe in campo. Ma l’analogia, tuttavia, esiste. Se è vero che l’Imperatore è depositario di un diritto, quello romano, che, in quanto tale, concerne humanum genus secundum sua comunia, que omnibus competunt 26, questo per certo non significa che il suo sia un semplice potere ideale, morale, non coercitivo: un codice da cui trarre ispirazione, non, appunto, coercizione; e che ad altri competa di rendere efficace, traducendone in coerci-
25 È, come è noto, la tesi di H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it., Milano 1954, p. 418. 26 Mon. I XIV 7.
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zione l’ispirazione, in « leggi » i princìpi morali. Quel diritto è di per sé un diritto perché è dal comando che ne proviene che gli uomini sono retti e governati. E retti e governati dal suo comando sono altresì, e in primo luogo, i reges e i principes a cui, in riferimento all’Imperatore, compete il predicato della « particolarità ». È infatti dalla volontà dell’Imperatore resa obiettiva nelle sue leggi, e dalla forza coercitiva che le caratterizza, – è da questa volontà che essi derivano il loro volere, che pur si riferisce a contingenti e particolari situazioni. « Romanum Imperium de fonte nascitur pietatis » 27. Con questa citazione, che per certo proviene da una fonte cristiana, ma nella quale a ragione fu avvertita una forte vibrazione virgiliana, Dante suggellò potentemente le due dimensioni che si intrecciano nel secondo libro e che sono costituite, l’una dall’idea del diritto, l’altra da quella che egli ebbe della storia romana. La citazione 28 si trova nel quinto capitolo del secondo libro. E poiché in questo egli tornò a trattare del diritto e si provò a darne una definizione che, come disse, ne mettesse a nudo il quid e il quare 29, un supplemento di riflessione si rende necessario. Quel che del diritto trovava scritto nel Digesto, dove gli sembrava che fosse stato, non già definito di per sé e nella sua quidditas, ma descritto piuttosto per notitiam utendi illo 30, lo indusse a darne lui una definizione che fosse tale e non si risolvesse nell’estrinseca descrizione. E scrisse perciò che quicunque bonum reipublice intendit, finem iuris intendit 31; dal che seguiva che « ius est realis et personalis hominis ad hominem proportio, que servata hominum servat societatem, et, corrupta, corrum27 Mon. II V 5. E cfr. Ep. V 3, con la nota di A. Frugoni, ed. cit., p. 542, il quale osserva come la formula fosse corrente presso la Corte di Federico I, e rinvia a F. Torraca, « Nuova Antologia », 1° dicembre 1920, p. 206 n. 1. Ma cfr. già Vinay, p. 135. 28 Cfr. in genere, per questa citazione, il saggio fondamentale di Th. Silverstein, On the Genesis of the Monarchia II V, « Speculum », 13 (1938), pp. 326-49, il quale (p. 349) concluse così: « Vergil, Augustine and Tolomeo of Lucca, Aristotle, Thomas Aquinas and Jacopus de Varagine, Cicero, Seneca, Livy, the numerous memorabilia and epitomes of Roman history, Boethius, perhaps, and his commentators, perhaps John of Salisbury also, and Servius on Aeneid, VI, 845, – all these played parts of varying importance, ranging from the well-defined and extensive to the indefinable bordering on evanescence, about which one may raise the question of source withouth hope of finding a certain answer ». È doveroso tuttavia, oltre che utile, ricordare che il primo forse a segnalare Virgilio fu P. Toybee, Dante Studies and Researches, London 1902, pp. 297-98. 29 Mon. II V 1-2. 30 II V 1-2. 31 II V 4 (e II V 1).
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pit » 32. Donde, ancora, la definizione che a lui sembrava dovesse darsi del diritto: Si ergo definitio ista bene ‘quid est’ et ‘quare’ comprehendit, et cuiuslibet sotietatis finis est comune sotiorum bonum, necesse est finem cuiusque iuris bonum comune esse; et inpossibile est ius esse, bonum comune non intendens. Propter quod bene Tullius in Prima rethorica: semper – inquit – ad utilitatem rei publice leges interpretande sunt. Quod si ad utilitatem eorum qui sunt sub lege leges directe non sunt, leges nomine solo sunt, re autem leges esse non possunt: leges enim oportet homines devincere ad invicem propter comunem utilitatem. Propter quod bene Seneca de lege cum in libro De quatuor virtutibus, ‘legem vinculum’ dicat ‘humane sotietatis’ 33.
In realtà, poiché guardava al fine piuttosto che all’uso, la definizione che qui Dante forniva del diritto riveste bensì carattere formale. Ma il disagio evidente in cui gli interpreti si sono trovati quando hanno dovuto indicarne le fonti lontane e vicine, è altresì indicativo della sua estrema genericità 34. Per un verso, e senza che se ne dicesse di più, il diritto era assunto nel senso della proportio dell’uomo all’uomo, di ciascun uomo a ciascun uomo, e del reciproco legame, che costituendo la sotietas, ne deriva. Per un altro, e non, certo, senza coerenza, l’accento cadeva unicamente sul suo carattere sociale, dal momento che non tanto all’uomo che della proportio era di volta in volta sia il soggetto sia l’oggetto si guardava, quanto, invece, agli effetti, sociali appunto, che dall’intreccio risultavano. Fine ultimo del diritto, dunque, la sotietas: con la conseguenza che, in un perfetto circolo, volerlo, questo fine, significava volere il dritto, e volere questo che altro era se non perseguire quello? Di qui, da questa sorta di sublime tautologia pratica, Dante, come si sa, dedusse l’essere di diritto, e non soltanto di fatto, che all’Impero, che i Romani avevano conquistato, doveva essere riconosciuto. E, di nuovo, pur senza alludervi, dette voce alla polemica che forse aveva nella Civitas dei agostiniana il suo principale e più pregiato oggetto. Sul che è, per altro, tanto poco necessario insistere quanto più invece si richiede di ribadire la difficoltà, in cui ci troviamo, quando di questa definizione siamo richiesti di indicare la fonte più vicina e probabile. 32
II V 1. II v 2-4. Sull’attribuzione a Seneca della sentenza, cfr. Nardi, p. 388. 34 Più che al commento tomistico in Eth. Nic., v, lectio 12, il Nardi, p. 387, ha pensato a Egidi Romani de regimine principum, I II 2. Ma andrà tuttavia anche tenuto presente il luogo aristotelico che sottende queste definizioni: cfr. infra, nel testo, e n. 37. 33
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La genericitĂ che ancora una volta devâ&#x20AC;&#x2122;essere notata in quel che Dante asseriva potrebbe, in effetti, far pensare che egli lâ&#x20AC;&#x2122;avesse costituita, la sua definizione, mettendo insieme suggestioni provenienti da testi diversi. La specificitĂ , dâ&#x20AC;&#x2122;altra parte, che può rinvenirsi nel nesso che aveva stretto fra il quid e il quare del diritto, da una parte, dei Romani, da unâ&#x20AC;&#x2122;altra, che, direttamente da Dio, avevano per i loro meriti ottenuto lâ&#x20AC;&#x2122;Impero, conferisce, alla questione della fonte, un grado ulteriore di difficoltĂ . Anche il capitolo (I II 11) del de regimine principum di Egidio Romano, nel quale si è creduto di poter indicare il luogo piĂš vicino a questo pensiero dantesco 35, si rivela infatti, se lâ&#x20AC;&#x2122;occhio si volga allâ&#x20AC;&#x2122;intero contesto, non piĂš probante e stringente di altri luoghi che pur potrebbero citarsi, e che anchâ&#x20AC;&#x2122;essi presentano, con quello della Monarchia, qualche non trascurabile analogia. A cominciare, si direbbe, da quelli aristotelici dellâ&#x20AC;&#x2122;Etica nicomachea: ossia dal suo quinto (E) libro che, non senza ragione, potrebbe essere definito ÂŤ complesso e contorto Âť, e che contiene tuttavia, in alcune sue parti, il tema dal quale, vi attingesse direttamente oppure attraverso il grande commento di Tommaso dâ&#x20AC;&#x2122;Aquino, Dante forse trasse, quaestio dei Romani a parte, il suo. Il concetto, in effetti, che egli introdusse della proportio 36 che il diritto garantisce dellâ&#x20AC;&#x2122;uomo con lâ&#x20AC;&#x2122;uomo non può non risentire in sĂŠ di quel che, per esempio, Aristotele aveva scritto lĂ dove la giustizia aveva definita in termini di ÂŤ medietĂ Âť, come ciò che, aggiungendo e togliendo, pareggia le sorti e, appunto, ristabilisce le proporzioni che per qualche ragione si fossero o alterate o perdute: talchĂŠ, osservava, il termine δ κιΚον (diritto) si rivela simile al termine δ Ď&#x2021;ιΚον (diviso, bipartito), e colui che esercita la giustizia, il δΚκιĎ&#x192;Ď&#x201E;!Ď&#x201A;, vale quanto il δΚĎ&#x2021;ÎąĎ&#x192;Ď&#x201E;!Ď&#x201A;, quanto colui che divide 37. Che poi, vicina o lontana, diretta o indiretta, anche la forte accentuazione sociale che, sostenendola con citazioni tratte da Cicerone e da unâ&#x20AC;&#x2122;opera ritenuta di Seneca, Dante conferĂŹ al diritto, da lui inteso come vinculum humane societatis, â&#x20AC;&#x201C; anche questa possa avere la sua ascendenza aristotelica, è possibile (e anche evidente). E non occorre darne particolare dimostrazione. PiĂš forse, riprendendo un tema che è stato al centro delle precedenti analisi, interessa osservare il modo in cui Dante si pose nei con35
Cfr. n. 34. Mon. II V 1. 37 Arist. Eth. Nic. E 1132 a 30-33 δΚ Ď&#x201E;Îż"Ď&#x201E;Îż κι# $νοΟ%ΜξĎ&#x201E;ιΚ δ κιΚον, Ď&#x201E;Κ δ Ď&#x2021;Îą Ď&#x192;Ď&#x201E; ν, 'Ď&#x192;Ď&#x20AC;ÎľĎ (ν Îľ) Ď&#x201E;ΚĎ&#x201A; Îľ)Ď&#x20AC;οΚ δ Ď&#x2021;ιΚον, κι# * δΚκιĎ&#x192;Ď&#x201E; Ď&#x201A; δΚĎ&#x2021;ÎąĎ&#x192;Ď&#x201E;!Ď&#x201A;. E poco prima: 1132 a 29-30 Ď&#x201E; δâ&#x20AC;&#x2122; )Ď&#x192;ον Îź Ď&#x192;ον Ď&#x192;Ď&#x201E;# Ď&#x201E;Îż" Οξ ΜονοĎ&#x201A; κι# Îť%Ď&#x201E;Ď&#x201E;ονοĎ&#x201A; κιĎ&#x201E; Ď&#x201E; ν Ď ÎšÎ¸ÎźÎˇĎ&#x201E;Κκ ν νιΝογ ιν. 36
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fronti del diritto naturale, della sua assoluta estraneità al diritto positivo, del suo netto distinguersene. Il punto che emerge da queste linee del quinto capitolo riguarda un’assenza: ossia il disinteresse da lui dimostrato per la distinzione dei diritti, e il conseguente non esserci di questa. E potrebbe persino nascerne l’obiezione che si suole opporre a questioni che si pretenda di delineare nell’atto in cui se ne dichiara l’assenza. Un’obiezione, tuttavia, che in questo caso tanto meno si rivela pertinente, e tanto più nel suo pedantesco formalismo, è da giudicarsi astratta, in quanto potrebbe persino sostenersi che, nel delineare il suo concetto del diritto, assai più che sulla sua « naturalità » e razionalità obiettiva, Dante abbia fatto cadere l’accento sul suo carattere positivamente coercitivo, sulla sua « efficacia »: in modo tale che questo, parrebbe, è il volto che ne emerge, sopra tutto nel luogo in cui è detto leges [...] oportet homines devincere ad invicem propter comunem utilitatem 38. Non è così, come sappiamo, che deve concludersi; e presto torneremo a vederlo. Ma il filo che nelle questioni concernenti il diritto distingue l’una dall’altra concezioni anche radicalmente diverse è talvolta così sottile che, se una definizione sia tirata via dal suo contesto e presa per sé stessa, il suo collocamento in un quadro concettuale diverso da quello in cui ha invece il suo posto, potrebbe alla fine, sebbene arbitrario, risultare non impossibile. Presso Lattanzio, per esempio, che cita Carneade, è detto iura sibi homines pro utilitate sanxisse 39. E se questa definizione venisse appunto astratta dal contesto che essa costituisce con quella che, insistendo sulla varietà e mutevolezza delle leggi, conclude alla nullità del diritto naturale (« jus autem naturale nullum »), perché non si dovrebbe considerarla congruente con quella di Dante, una volta che anche questa fosse a sua volta presa a sé e tirata via dal suo contesto? Ma lo scopo che, nel formulare questo rilievo ci si prefiggeva, è appunto che, nel caso di Dante (e in quello, del resto, di Carneade), a decidere è il contesto nel quale le rispettive definizioni ritrovano intera la loro differenza. In Carneade il contesto è costituito dal concetto della variazione, della mutevolezza, dunque della non assolutezza: un concetto che rende del tutto inoperante quello della legge naturale. In Dante, proprio da questa legge, che dal concetto della utilitas toglie via perciò ogni carattere di soggettivo συμφ ρον; che riceve perciò, in questo atto, la sua morte e trasfigurazione nell’utilità di tutti. Della qual cosa non ci si 38 39
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renderebbe conto, per altro, fino in fondo, se il nesso stabilito fra il diritto umano e quello divino non fosse tenuto fermo come il criterio essenziale del giudizio che volesse formularsi intorno a questo punto; e se, altresì, questo nesso non fosse inteso come quello che toglie via ogni differenza, o la attenua al punto che il diritto o è la stessa cosa della ratio et voluntas Dei, o ne è comunque un fedele, e non ingannevole, riflesso. Di qui l’attenzione che deve dedicarsi a quel che, con la sua fulminea brevità, Dante osservò intorno alle leggi che, a differenza di quelle da lui definite degne del nome, non intendono al fine del diritto, non guardano all’utilità di tutti, e degne del nome non sono, non sono leggi 40. Legge, bene comune, utilità di tutti, costituiscono in effetti, per lui, un trinomio nel quale ciascun nome è indicativo del fine: così che, a ritrarre lo spirito di questo concetto, il suo senso proprio, non varrebbe l’osservazione con la quale si proponesse che l’una di queste « realtà » è all’altra strumentale, necessaria al conseguimento di quella in cui il fine si attua, ma non identica. Non così, infatti, deve intendersi. E tolta di mezzo l’idea che la legge possa esser tale anche quando, con l’utilità di tutti, non realizzi il bene comune, ogni cura dev’essere posta nel ribadire il punto della identità, la perfetta equivalenza significativa dei « nomi », il loro comune, e identico, valere come il fine. Se, inoltre, a questa considerazione, che non ha alcun carattere sovrainterpretativo, e restituisce invece l’autentica trama logica del concetto, – se a questa considerazione si tiene fermo, altre allora ne scaturiscono con necessità. Innanzi tutto, quella che concerne la natura particolare del diritto, quale Dante lo intese: positivo, se si vuol dire così, perché è un vincolo, perché coercisce e orienta perciò i comportamenti umani; naturale, perché il suo carattere è stabilito dal fine, che è quello e non potrebbe esser diverso, non potrebbe patire eccezioni né dai diversi climi e dai diversi costumi, né da altre peculiarità riflesse nell’indole diversa dei popoli, dal momento che sarebbero, queste, eccezioni al volere stesso di Dio. Positività, naturalità e divinità del diritto non sono dunque se non il diritto stesso nella sua essenza. Che è poi, se ci si fa attenzione, il concetto che emerge da quel che, dopo aver passata in rassegna la serie degli exempla comprovanti la mira che sempre, nella conquista dell’Impero, i Romani ebbero al bene comune, Dante disse a illustrazione del sillogismo che nella premessa maggiore assume che il conseguimento del
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diritto non può non presupporre il diritto, nella premessa minore questo conseguimento da parte dei Romani che assoggettarono il mondo, nella conclusione l’essere, questo assoggettamento, stato conseguito di diritto. Nel suo intento, il sillogismo è chiaro. Che, nell’illustrarlo e commentarlo, debba assumersi che conseguimento del fine del diritto e assoggettamento del mondo significhino lo stesso, al punto che il fine del diritto non sarrebbe conseguito se il mondo non fosse assoggettato e, con ciò, reso uno, anche questo è chiaro. E di qui deriva il senso che deve darsi alla sua esegesi; che a qualche interprete è parsa alquanto faticosa 41 e non priva di un tal quale andamento sofistico, ad altri perfettamente eseguita 42, e che, stentata o no, perfetta o non perfetta, non può ricevere se non l’illustrazione che ne è stata data. Dell’argomento dantesco secondo cui ogni cosa ha un fine ed è, per conseguenza, impossibile che due cose diverse non abbiano fini diversi (se non li avessero, una delle due sarebbe superflua, e questo è impossibile), si può, nel commento, fare particolare conto, oppure no. Ma il senso dell’argomento resta chiaro; ed è che il fine del diritto e il suo conseguimento non potendo essere raggiunti senza il diritto, che in circolo presuppone sé stesso alla sua realizzazione, ne discende appunto quod finem iuris intendentem oportet cum iure intendere 43. Insomma, lo si ripeta ancora perché il punto è decisivo, il fine del diritto presuppone, per il suo conseguimento, il diritto; ed è perciò de iure, soltanto de iure, che il proponimento di unificare il mondo e, quindi, la sua unificazione, possono essere formulati e realizzati. Il che, se il passo sia inteso così, ribadisce quel che già fu osservato: e cioè che il divario che si stabilisce fra l’antecedente (il diritto che presiede al conseguimento del suo fine) e il conseguente (il fine realizzato) prevede uno scarto solo sotto il profilo del tempo, nel quale l’antecedente e il conseguente possono occupare due sedi diverse, non sotto quello del pensiero e della logica, dove non può esserci né antecedente senza conseguente, né conseguente senza antecedente: senza, dunque, il simultaneo darsi dei due. Ribadisce altresì che diritto e conseguimento del diritto essendo lo stesso nel segno dell’essere, questa identità, voluta da Dio, storia sacra e divina fu quella che i Romani scrissero nella conquista dell’Impero.
41 Vinay, pp. 148-49, parlò di questo argomento come di uno « fra i più mediocri » della Monarchia. E questa, francamente, è una assurdità. 42 Nardi, pp. 398-99. 43 Mon. II V 23.
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Quando si paragona il secondo libro della Monarchia con il profilo della storia romana tracciato nel quinto capitolo del quarto trattato del Convivio, quel che ne emerge è, senza dubbio, il notevole arricchimento, nell’opera più recente, della trama argomentativa. Ma dal paragone che si esegua dell’una con l’altra deve anche trarsi la conclusione che il concetto che le informa è, nella sostanza, il medesimo. L’Impero romano fu voluto da Dio. E la città in cui aveva trovato il suo ideale compimento il lungo viaggio che dalla Troade il pio Enea aveva intrapreso verso Occidente, in tanto meritò di conquistare l’Impero, ossia di essere eletta da Dio a raggiungerne la mèta, in quanto, al di là del carattere impenetrabile delle scelte provvidenziali, grandi erano le sue virtù. La forte discrasia che può e deve notarsi fra la gratuità della scelta divina e i meriti obiettivi che in qualche modo la determinarono, il circolo contraddittorio che si dà a vedere quando si consideri che per un verso è la scelta divina a far sì che i meriti siano tali e si rendano evidenti, e per un altro sono invece questi a determinare le ragioni della scelta divina, – questa discrasia fu posta al centro del quadro nell’analisi che nella prima parte di questa ricerca fu dedicata al Convivio. E, come si ricorderà, la si illustrò e definì mediante il richiamo dell’argomento platonico relativo al « santo », che per un verso è tale perché piace agli dèi, ma per un altro è pur vero che piace agli dèi perché è santo 44: con la conseguenza che, da una parte, la sua è un’essenza determinata da « altro », e dunque, a rigore, non è un’essenza, mentre, da un’altra, è proprio un’essenza, qualcosa che, poiché non deriva che da sé stessa, è essa a costituire il principio di ogni cosa che ne risulti. Di altre considerazioni che, nell’illustrazione di questo schema potrebbero aggiungersi, non è il caso di trattare qui: dove pur potrebbe tuttavia aggiungersi che nella prima dimensione dell’argomento la santità sfuma in una sorta di opinio deorum che, poiché non ha un oggetto, è essa stessa non più che una doxa, mentre nella seconda a sfumare, e a rivelarsi inconsistente, è addirittura la divinità; che all’essenza del « santo » non può non adeguarsi senza che in qualche modo le sia possibile contribuire alla sua costituzione. Nel secondo libro della Monarchia, l’inseguimento in circolo di queste due diverse dimensioni concettuali è, quando il punto in cui la sfasatura si produce sia stato colto, di per sé stesso evidente in ogni pagi-
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Cfr. nel primo capitolo, le pp. 33 ss.
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na. E rappresenta, nel secondo libro, l’equivalente di quel che accadeva e si dava a vedere nel primo: dove continuamente l’idea dell’Impero romano passava, trascolorandosi, dall’essere al dover essere, dall’esser sempre attuale nell’attualità dell’intelletto possibile che, totum et simul, il genere umano reca appunto all’atto, al suo dover essere realizzato mediante il conseguimento politico dell’unità. Ne deriva, se è così, che l’individuazione, di volta in volta, di questi due motivi sarebbe un compito che non dovrebbe essere eluso da chi di questo testo intendesse proporre un commento continuo. Ma qui non è a un commento continuo che deve darsi seguito. Ed è infatti, piuttosto, la sua linea generale che richiede di essere fatta oggetto di attenzione perché la si possa poi osservare nei punti in cui la discrasia si produce e determina le sue conseguenze. Stabilito, dunque, che l’Impero romano fu voluto da Dio, che esso consisté nell’attuazione del fine proprio del diritto, e che con diritto questo fine fu proposto e quindi realizzato, all’interprete non resta che di scegliere, o, meglio, di individuare, i luoghi del testo che offrano spunti ulteriori e di particolare interesse: spunti che, in quanto tali, nel quarto trattato del Convivio non fossero presenti. Poiché, d’altra parte, il filo conduttore dell’indagine si è via via costituito attraverso la discussione dei temi concernenti il diritto e, in special modo, di quello che riguarda sia il suo carattere divino, naturale e umano, sia l’impossibilità che fra questi tre aspetti cada una qualsiasi distinzione, è su questo che conviene insistere. La insistenza su questo tema è suggerita infatti non dalla presenza di questioni che ancora richiedano il commento e l’analisi, o che, addirittura, siano rimaste nell’ombra e debbano essere recate alla luce. Ma è richiesta bensì da quel che sul e del rapporto che stringe al diritto la nascita e la morte del Cristo Dante disse nei due capitoli conclusivi del secondo libro. Sono considerazioni singolari, e non esenti da una punta di obiettiva paradossalità, quelle che egli dedicò a questo problema; che non fu da lui studiato sotto il più ovvio profilo della relazione politica e religiosa che il personaggio intrattenne con il potere dei Romani, con lo Stato, ma sotto un altro, bensì, completamente diverso, concernente la sua nascita e la sua morte: ossia due eventi che, appartenendo all’ordine provvidenziale delle cose, non potevano non coinvolgere anche l’Impero, nel cui quadro il Cristo nacque, visse e morì. Espressione suprema della volontà divina, l’Impero è tuttavia anche, e in primo luogo, la stessa cosa del diritto e del suo fine; i quali, a loro volta, dove consistono se non nella mente di Dio? Ne discendeva la conseguenza inevitabi-
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le, anche se paradossale, – paradossale e, non di meno, tratta dalla premessa con rigore, che Dante in effetti ne trasse. La conseguenza, si vuol dire, secondo la quale e per la quale, giudicato da un tribunale romano, e da un magistrato perciò dell’Impero che dal volere stesso di Dio traeva il titolo della sua legittimità, de iure, giustamente, Cristo patì la condanna che si concluse nel dramma del Golgota e della croce. La conseguenza, deve aggiungersi, che, riguardando la condanna e la morte, anche teneva in sé la precedente: quella secondo cui la decisione divina che il Cristo apparisse sulla terra nel quadro dell’Impero romano, e nel momento in cui questo aveva toccato la sua acmé, sarebbe essa stessa stata illegittima se quel quadro, e il culmine imperiale che vi era stato raggiunto, non fossero al contrario stati segnati da una perfetta legittimità. E si cominci perciò da questo argomento; che, con l’altro che conclude il libro e che riguarda la morte del Cristo, non è, come i precedenti, fondato sulla ragione, ma direttamente sui princìpi della fede cristiana 45. Questi princìpi insegnano che, poiché, per decreto della divina provvidenza, era stato deciso che la nascita del Cristo, la sua predicazione e, quindi, la sua stessa morte, dovessero avvenire in un momento storico caratterizzato dall’unità e dalla massima possibile perfezione che da questa consegue al mondo, sarebbe stato ben singolare che, nel venire al mondo, il figlio di Dio avesse scelto un tempo di ingiustizia, non di giustizia, di disunione, non di unione. Questo, secondo Dante, l’insegnamento che dai princìpi cristiani conseguiva. E il contrario, l’opposto, il contraddittorio ne erano perciò assolutamente esclusi 46. Era impossibile infatti che, sintesi suprema di ciò che è giusto nel segno della sua stessa divinità, Cristo potesse scegliere cosa non giusta. E ne derivava che solo il giusto egli avesse scelto, con tutte le sue conseguenze. Ne derivava, altresì, che, con le sue conseguenze, era il « giusto » a costituire il predicato dell’Impero romano: non, come sostenevano i suoi detrattori, la forza. Nel quadro della concezione che, interpretandola come 45 Mon. II X 1 : « ex nunc ex principiis fidei cristiane iterum patefaciendum est ». Non so se le linee che seguono, e che contengono un violentissimo attacco contro la cupidigia della Chiesa nemica dei poveri, siano da mettere in relazione con quel che si legge a II IX 20, e che è diretto contro i giuristi presuntuosi, incapaci di adeguare sé stessi al dettame della retta ragione, e contenti solo di secundum sensum legis consilium et iudicium exhibere. 46 Mon. II X 4-5.
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sacra, Dante aveva delineata della storia di Roma, la coincidenza fra la pienezza del tempo imperiale e la nascita del Cristo rappresenta il momento supremo. E il rilievo che, come del resto già nel quarto trattato del Convivio, l’argomento assumeva, non potrebbe in effetti essere più grande. Se nella Glosa super Lucam, addotta dal Busnelli e dal Vandelli 47, il nesso fra la pace regnante nel tempo di Augusto e di Tiberio e la volontà del Cristo di sceglierlo come quello della sua nascita, è stabilito con forza, ben altro è tuttavia quel che, a questo riguardo, Dante sostenne. E il punto nevralgico della differenza è che quella che allora regnava, e che decise della volontà del Cristo di nascervi, era non già una semplice e qualsiasi età di pace, perché al contrario si presentava nel segno della più schietta disposizione provvidenziale. La disposizione provvidenziale, e la decisione che a questa era intrinseca: la decisione per la quale, altresì, pace significava diritto, e diritto la conformità, come si è detto, al volere supremo di Dio. Il punto nevralgico è qui. E, rispetto a questo, minore importanza ha in realtà l’argomento « logico » al quale, per conferire più forza a quel che gli stava a cuore, o anche soltanto per il compiacimento della sua abilità dialettica, Dante dette rilievo là dove, non senza qualche oscurità osservò che si romanum Imperium de iure non fuit, Christus nascendo persuasit iniustum: consequens est falsum: ergo contradictorium antecedentis est verum 48: con quel che segue (II X 4-5), e che non potrebbe esser fatto oggetto di discussione senza che la gravità stessa della questione filosofica che vi è proposta non provocasse un deciso allontanamento da quel che in questo capitolo interessa. Basti perciò osservare che, in questo schema, l’antecedente è il non essere de iure dell’Impero romano, il consequens, il suggerimento di cosa ingiusta che, nascendo sotto il segno di quello, Cristo avrebbe proposta. E l’ultima conseguenza è che, impossibile essendo il consequens, vero dev’essere il contrario/ contraddittorio dell’antecedente che, nell’ipotesi, era il non essere di diritto dell’Impero ed è invece, come suo contrario/contraddittorio, il suo esserlo. Ebbene, se è così, difficoltà di interpretazione non se ne danno: sempre che nello schema logico dell’antecedens e del consequens non si facciano impropriamente intervenire i principia fidei christiane. I quali sono bensì presenti, ma solo nel senso che il ragionamento svolto da Dante implica che essi siano accolti da chi ne segua il corso e che
47 48
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Busnelli e Vandelli, comm. cit., II, 45. Mon. II X 4 : « inferunt enim se contradictoria invicem a contrario sensu ».
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perciò, fin dall’inizio indiscutibile sia considerata l’impossibilità che, con il suo nascere, Cristo avesse mai suggerita cosa ingiusta. Sono, dunque, esterni alla vera e propria argomentazione logica. La quale consiste nel semplice e formale rilievo secondo cui di due proposizioni che si contraddicono l’una è necessariamente vera, l’altra, con pari necessità, falsa 49. Sono esterne; e conferiscono volto di verità all’assunto, che, per un « non fedele » potrebbe quanto meno essere opinabile, dell’assoluta estraneità del falso alla persona e al simbolo del Cristo. Ma, come si diceva, non qui sta il punto nevralgico della questione; che dev’essere invece ricercato e ritrovato nel modo in cui il diritto è, anche in questo luogo, inteso da Dante. Poiché la decisione provvidenziale che Cristo avesse i natali alla fine del regno di Augusto e vivesse i suoi giorni al tempo dell’imperatore Tiberio importava il pieno diritto che questi avevano di essere riconosciuti per tali, è ovvio che anche il diritto imperiale veniva a far parte di quella decisione e a condividerne il carattere. Era dunque, quello che l’Imperatore amministrava, diritto divino: giusto e autentico diritto. E non solo, per conseguenza, si sarebbe posto al di fuori della sua essenza, del suo quid e del suo quare, chi semplicemente si fosse rivolta la domanda relativa al suo essere « naturale » o « positivo ». Unico, infatti, è il diritto; e ciò che gli si oppone o se ne distingue, è non un diverso diritto, è il « non diritto ». Ma fuori della sua essenza anche si sarebbe posto chi avesse eccepito che, giusto in sé, non giusta avrebbe potuto esserne l’attuazione attraverso le sentenze di volta in volta emesse da un giudice incapace di valutare il caso concreto e specifico. Relativamente ininfluente nei riguardi della nascita, che certo non attendeva da una sentenza di tribunale il riconoscimento della sua legittimità, la questione si faceva invece bruciante nei riguardi della morte, 49
Vero è anche, ma con questo decisamente si andrebbe oltre, e senza, questa volta, reale necessità per l’esegesi, – vero è che il principio così detto del terzo escluso, che qui Dante utilizza, non dice quale delle due proposizioni che si escludono l’una l’altra sia la vera, quale la falsa. Ne deriva che l’unica verità di cui il principio s’intesse è quella che consiste e rifulge nell’asserto della reciproca esclusione delle proposizioni. Poiché d’altra parte la contrapposizione (vera) del vero e del falso implica quest’ultimo per la sua possibilità, ne deriva altresì che il falso deve innanzi tutto essere assunto come reale, e come coessenziale, inoltre, all’esclusione (vera) che il principio ne fa. La conseguenza è che non può a rigore essere vera una verità che, per sé stessa, implica il falso; che non si sa a quale delle due proposizioni appartenga, ma che appartenga a una delle due, sì, invece, che si sa.
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ossia della sentenza che consegnava il Cristo alla decisione, che fu di morte, del Sinedrio. Ma, anche qui, e con questo si passa al commento dell’ultimo e cruciale capitolo del secondo libro, Dante tagliò corto. E dopo avere implicitamente escluso che la questione potesse riguardare, invece che il diritto nella sua essenza, la sua qualsiasi specificazione in una sentenza emessa da un giudice umano, e perciò fallibile 50, pose una questione dei cui termini è necessario che si abbia adeguata nozione: ad evitare che ne sorgano equivoci e fraintendimenti. Il tema logico, con la cui enunciazione il capitolo si apre, è quello stesso che era già stato delineato nel precedente: è il tema logico dell’antecedente, del conseguente, e della contraddittorietà degli opposti (vero/ falso). E poiché già è stato chiarito, non occorre che ci si torni sopra. Ma la questione assume ora un volto specifico; e, per la verità, di assai notevole interesse. Il paradosso che, rispetto alla morte inflitta al Cristo, qui Dante costruì, è perfettamente simmetrico a quello delineato a proposito della nascita. Come questa, avvenendo nel tempo in cui avvenne, riconosceva la legittimità dell’ordinamento che gli conferiva forma giuridica, così era necessario assumere che legittima e giuridicamente impeccabile fosse la sentenza emessa, contro il Cristo, da un tribunale romano 51: anche nel caso in cui, come poi accadde, questa fosse stata di morte. Il punto nel quale i due paradossi si incontrano, e rivelano di essere il medesimo paradosso, sta dunque nel carattere divino del diritto che, nello specificarsi nei giudizi riguardanti questo o quello, e il Cristo perciò come un qualsiasi altro, non perdeva, ma piuttosto ribadiva, questo suo carattere. Su questo punto, Dante non ebbe mai alcun dubbio; e del tutto estranea gli fu, come si è detto, l’idea che, nell’emettere quella particolare sentenza, il giudice potesse aver errato condannando un innocente. L’impossibilità che il diritto potesse risultare minore di sé stesso nella pratica concreta dei tribunali era evidentemente, per lui, sul serio un’impossibilità. E di qui forse deriva anche un altro aspetto di questo paradosso: ossia il modo, più che sommario, che Dante tenne nel descrivere il processo al quale Gesù fu sottoposto. Sebbene esplicitamente citasse il Vangelo di Luca (23, 11), invano nelle sue pagine si cercherebbe traccia di quel che in quel testo, e anche d’altra parte negli altri due sinottici e 50 La questione è tuttavia esplicata a II XI 5-6 : « et supra totum humanum genus Tyberius Cesar, cuius vicarius erat Pilatus, iurisdictionem non habuisset, nisi romanum Imperium de iure fuisset ». 51 Mon. II XI 5-6.
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nel Vangelo di Giovanni, si trova scritto. Dell’esitazione di Pilato, che nel Cristo non ravvisa alcuna colpa e vorrebbe mandarlo libero, ma poi cede alla pressione di quanti (sacerdoti e popolo) vogliono la sua morte e, invece di lui, libera Barabbàs, nel testo di Dante non si fa alcun cenno. E se, di sull’autorità di Luca, è ricordato Erode Ántipa, il quale, dopo che Cristo gli era stato inviato da Pilato perché lo giudicasse, lo restituì al governatore romano, al quale soltanto spettava, come rappresentante dell’Imperatore, di pronunziare la sentenza, la ragione è del tutto diversa da quella che s’incontra qui. Nel racconto di Luca (non però negli altri due sinottici e in Giovanni, che di questo infatti concordemente tacciono), in tanto Erode rinviò Gesù a Pilato in quanto, avendo sperato che compisse qualche miracolo in suo favore e non avendo tuttavia, alle domande che gli aveva rivolte, ricevuta alcuna risposta, prima lo dileggiò, lo ingiurò e, quindi, rivestitolo di una veste sgargiante, decise che, appunto, fosse il governatore romano a doverlo giudicare 52. Ma Dante disse invece tutt’altro. E, nel riferire a sua volta quel che il terzo evangelista aveva narrato, per un verso sull’episodio della derisione e della vestizione tacque del tutto, conferendo perciò alla restituzione del Cristo a Pilato un assai diverso significato, ma, sopra tutto, per un altro, delineò un’interpretazione, rispetto a quella di Luca 53, del tutto divergente. Quel che a lui premeva di porre in chiaro era che, se giusto, e non in senso soltanto positivo, era l’ordinamento all’interno del quale, e per le cui leggi, Cristo aveva ricevuto il verdetto di condanna, giusto doveva essere anche questo. Giusto, s’intende, nel senso della giustizia, della vera giustizia, della giustizia di Dio, ispiratrice del diritto romano, e tanto, anzi, coincidente con l’essenza di questo quanto tale essenza lo era con la sua. Perfettamente legittimo, ma nel segno della più alta giustizia, doveva perciò essere il giudice romano destinato a sentenziare su Gesù Cristo. E questa, si ripete, fu la ragione per la quale, non solo egli non dette ascolto alle testimonianze relative alle incertezze di Pilato, e alla sua inclinazione assolutoria, ma fece di più; e, per esempio, evitò con cura di mettersi sotto gli occhi il passo del Vangelo giovanneo (pur da lui citato in questa stessa pagina), in cui, attraverso le parole stesse del Cristo, si allude alla colpa del governatore romano. 19, 11 πεκρ θη
52 Cfr. su questo punto il bel saggio di A. Omodeo, Il Cristo deriso (1946), in Saggi sul Cristianesimo antico, Napoli 1958, pp. 651-61. 53 Luc. 23, 1-24.
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vulgata latina: respondit Jesus: non haberes potestatem adversus me ullam, nisi tibi datum esse desuper. Propterea qui me tradidit tibi, majus peccatum habet. Sia nel testo greco, sia nella vulgata latina, dubbia appare la connessione (δ Îą Ď&#x201E;Îż"Ď&#x201E;Îż, propterea) che comunque lega il primo periodo al secondo. Se a Pilato, che gli ricordava lâ&#x20AC;&#x2122;autoritĂ che gli era trasmessa dallâ&#x20AC;&#x2122;Imperatore e il potere che gliene derivava di mandarlo libero, Cristo rispondeva orgogliosamente che quellâ&#x20AC;&#x2122;autoritĂ e questo potere gli derivavano 7νĎ&#x2030;θξν, de supra, e con questo intendeva la guida dellâ&#x20AC;&#x2122;Impero e, in ultima istanza, Dio, la risposta appare, per questo riguardo, plausibile. Sulla legittimitĂ dello Stato romano egli non aveva infatti mai sollevato alcun dubbio; tanto meno aveva espresse riserve 54. E nellâ&#x20AC;&#x2122;atto in cui trasferiva in alto lâ&#x20AC;&#x2122;autoritĂ e il potere di cui Pilato non era se non il qualsiasi tramite, allâ&#x20AC;&#x2122;7νĎ&#x2030;θξν, al de supra, li riconosceva senza introdurre alcuna limitazione, sebbene, per un altro verso, indeciso rimanesse nelle sue parole se, con quellâ&#x20AC;&#x2122;avverbio, egli intendesse lâ&#x20AC;&#x2122;Imperatore, oppure, come sâ&#x20AC;&#x2122;è detto, Dio. Ma quel che segue è invece piĂš difficile da spiegare; e non perchĂŠ le parole del Cristo non siano chiare nellâ&#x20AC;&#x2122;attribuire ai sacerdoti del Sinedrio la grave colpa di aver consegnato lui, innocente, al procuratore romano, ma perchĂŠ, alludendo a una colpa che in quelli era piĂš grande, anche alla sua (minore, ma colpa) si riferiva. E su questo dubbi non possono aversi. Assente in Dante, che, pour cause, come si è visto e spiegato, doveva ometterlo, â&#x20AC;&#x201C; assente in lui che, sfrondando e essenzializzando, del giudizio pronunziato da Ponzio Pilato doveva mantenere che fosse, in
54 Lâ&#x20AC;&#x2122;intepretazione del famoso logion di GesĂš e il senso da attribuire a Ď&#x20AC; δοĎ&#x201E;Îľ, sono controversi. La tesi secondo cui, con quelle sue parole relative a ciò che si deve a Cesare e ciò che si deve a Dio, GesĂš riconobbe la legittimitĂ dellâ&#x20AC;&#x2122;Impero romano è stata sostenuta con particolare vigore da E. Stauffer, Christus und die Caesaren, Hamburg 19482, pp. 118, 121 ss., 141. Nel senso della completa indifferenza nei confronti delle cose politiche, il Îť γΚον fu invece interpretato da A. Omodeo, GesĂš il Nazoreo, Venezia 1927, p. 68 (cosĂŹ giĂ nella Storia delle origini cristiane, I, GesĂš, Messina 19222, pp. 167-68). Assai piĂš sfumata lâ&#x20AC;&#x2122;interpretazione di O. Cullmann, Cristo e il tempo, tr. it., Bologna 1965, pp. 29-33, passim, e anche Dio o Cesare, tr. it., Milano 1957, pp. 43-45. Ma cfr. anche Mazzarino, Lâ&#x20AC;&#x2122;Impero romano cit., pp. 108-10. Il fatto che nel Îť γΚον in questione vi sia, come sostiene M. Dibelius, Rom und die Christen im. 1. Jahrhundert, Heidelberg 1952, pp. 4-5, o possa esserci, dellâ&#x20AC;&#x2122;ironia, non esclude la tesi del riconoscimento. Sulla questione, che qui non può essere se non sfiorata, della regalitĂ del Cristo, cfr. O. Cullmann, KĂśnigsherrschaft Christi und Kirche in Neuen Testament, ZĂźrich 1941.
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senso assoluto, conforme a giustizia, il passo di Giovanni è citato, nel primo dei due periodi che lo compongono, in un luogo del De prerogativa romani Imperii di Jordanus di Osnabrück, che con sagacia, anche se non con compiuta sagacia, è stato addotto a riscontro di questo luogo dantesco 55. Un passo importante perché, con esplicite parole, vi si dice che « Dominus morte instante approbavit et honoravit romanum Imperium ». Il che, certo non poteva passare inosservato; e richiedeva, com’è stato fatto, di esser messo in rilievo quando sotto gli occhi fosse stato il capitolo conclusivo del secondo libro della Monarchia. Ma è quel che segue a far risaltare la differenza, che non è stata invece colta: così che, del luogo dantesco, si è finito per perdere il peculiare carattere. Dal Vangelo di Giovanni Jordanus citò e commentò proprie le parole che qui sono state riferite e commentate. Converrà avere sott’occhio l’intero passo: Dominus morte instante approbavit et honoravit romanum Imperium; dum enim Pylatus iactaret se de potestate, quam haberet in Christum, et diceret ei: ‘nescis quia potestatem habeo crucifigere te et dimittere te?’, Dominus, ut dicit Johannes, respondit: ‘non haberes ullam potestatem adversum me, nisi datum esset tibi desuper’. Quod, secundum glosam, duobus modis exponitur. Uno modo sic: desuper, id est a Deo, quia non est potestas nisi a Deo; vel: desuper, id est a Cesare, qui Pylatum prefecerat in presidem. Unde super verbis hiis ‘si hunc dimittis, non es amicus Cesaris’, dicit glosa: ‘Iudei terrent Pylatum a Cesare, quem non potest ut auctorem sue potestatis contempnere’. Deus enim fuit auctor potestatis Pylati primarius, Cesar autem fuit auctor sue potestatis secundarius. Secundum hunc posteriorem intellectum Dominus in verbis istis multum commendat romanum Imperium. Ostendit enim potestatem Cesaris aliis potestatibus mundanis preeminere et ipsas sub eo contineri. Quid est enim potestatem dari desuper, nisi dari ab eo, cuius supereminet potestas et alias potestates mundanas tamquam inferiores et minores sub se continet et includit 56?
L’interpretazione che Jordanus fornisce delle « prerogative » dell’Impero romano, del suo esser stato approvato, morte instante, dal Cristo,
55
Vinay, p. 186. Ma si veda poi nel testo. Alexander von Roes de translatione Imperii, und Jordanus von Osnabrück de prerogativa romani Imperii, hrsg. von H. Grundmann (Veröffentlichungen der Forschungsinstitute an der Universität Leipzig. Institut für Kultur und Universalgeschichte), Leipzig u. Berlin 1930, p. 14. Il testo è stato lievemente corretto mediante l’aggiunta di alcune maiuscole (Deus, Dominus, Cesar) e del punto interrogativo che conclude l’ultimo periodo. 56
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la conseguente sua superiorità su ogni altro reggimento politico, – tutto questo è importante, conta per qualcosa, e nessuno potrebbe negare che con la Monarchia non presenti punti di contatto 57. Ma è la citazione di Giovanni, è, sopra tutto, l’assai più angusta interpretazione del comportamento di Ponzio Pilato, sono queste le cose che, messe a confronto con quel che il passo di Dante contiene, rendono avvertiti che in quest’ultimo le cose accennano a una diversa profondità. L’argomento di Dante fu in sostanza che nessun giudice ordinario, che avesse rappresentato un potere inferiore a quello imperiale, avrebbe potuto intentare a Gesù un giusto processo. Si potrebbe chiedere: perché mai se, dopo tutto, quest’ultimo non era se non un giudeo nativo della Galilea? E non basterebbe tuttavia rispondere (di questo argomento, in effetti, Dante non si servì) che, come fra le accuse che i suoi compatrioti ebrei gli muovevano c’era quella di sedizione contro lo Stato e l’autorità di Roma 58, così romano e legittimato dall’Imperatore doveva essere il suo giudice. Non basterebbe, e anzi non sarebbe in alcun modo pertinente, perché in realtà Dante disse tutt’altro. Chiamò in causa, e già lo aveva fatto nel Convivio, il peccato del « primo parente », il peccato che, da Adamo, si era trasmesso a tutto il genere umano e che, morendo e in sé stesso facendo morire ogni uomo, Cristo era stato inviato in terra a riscattare. Non dunque perché, secondo l’accusa che Dante non riprese e non attribuì dunque agli ebrei, Cristo avesse offeso la maestà dell’Impero, e meritasse perciò il processo, la condanna e la morte. Agli occhi di Dante, la sua colpa fu di aver assunto su di sé, nascendo, i peccati dell’intero genere umano. E come questi erano sul serio una colpa, anzi la colpa per eccellenza, si capisce che a punirla dovesse essere un giudice che, nei confronti di tutti, ossia del genus humanum totaliter acceptum, esercitasse il suo potere. Insomma, in Cristo il tribunale romano punì non un peccato che individualmente, come uomo, avesse commesso, ma il peccato. In lui, punì ogni uomo. Mandandolo a morte, uccise, senza saperlo e adempiendo con ciò il decreto della provvidenza, il peccato che all’umanità si era reso ormai consustanziale. 57 Ma certo non va nella direzione di Dante quel che si legge circa l’essere, Dio, l’auctor primarius e Cesare l’auctor secundarius; e non, certo, perché Dio e Cesare fossero da collocare, per lui, sullo stesso piano, ma per la diversa ragione che, se il potere del secondo deriva direttamente da Dio, si sarebbe, con quell’espressione, potuto dar luogo a un equivoco. 58 Che essenzialmente come zelota, e come nemico, dunque, dello Stato romano, Cristo ricevesse la condanna, è noto: cfr., per es., Cullmann, Dio o Cesare, p. 42.
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A questo punto, e se a questa prospettiva si tiene fermo considerandola per quel che è, è chiaro che anche soltanto di affinitĂ , fra Dante e Jordanus, è impossibile parlare. Parlarne significherebbe infatti fraintendere quel che il testo del primo contiene: o, meglio, non vedervi affatto quel che pure è stato messo in luce ed è essenziale. Il che, per altro, non devâ&#x20AC;&#x2122;essere inteso nel senso che, insistendo sulla sua peculiaritĂ , lo scopo sia di presentarlo come un 7Ď&#x20AC;ιΞ. Quello di Dante è pur sempre un argomento relativo al senso che, in ambito cristiano, debba attribuirsi al dramma della Croce e al suo significato nella storia dellâ&#x20AC;&#x2122;umanitĂ . Per intrinseca necessitĂ , e quali che siano i suoi tratti peculiari, si lega perciò alla tradizione. Ne rivela il carattere, lo illustra, lo interpreta. E torna in mente un passo dellâ&#x20AC;&#x2122;Epistola ai Romani, al quale non è impossibile che, in questo quadro e in questa connessione di idee, Dante abbia volta la mente: il passo nel quale, trattando della legge e della carne, Paolo scrive (Rom. 8, 2-5): 2. Lex enim spiritus vitae in Cristo Jesu liberavit me a lege peccati et mortis. 3. Nam quod impossibile erat legi in quo infirmabatur per carnem, Deus filium suum mittens in similitudinem carnis peccati, et de peccatum in carne. 4. Ut justificatio legis impleretur in nobis, qui non secundum carnem ambulamus, sed secundum spiritum. 5. Qui enim secundum carnem sunt, quae carnis sunt, sapiunt: qui vero secundum spiritum sunt, quae sunt spiritus, sentiunt.
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Il passo paolino ha, beninteso, altre configurazioni interne. Presenta altri svolgimenti. E se, per esempio, non senza efficacia, è stato detto che ÂŤ sulla croce nella carne di Cristo è condonato il peccato e col peccato la morte Âť 59, o anche che la condanna a morte del peccato, della quale il testo parla, significa ÂŤ mettere lâ&#x20AC;&#x2122;uomo in libertĂ , collocarlo sopra un fondamento eterno, annullare la sentenza di morte che è pronunciata sopra di lui Âť; se svolgimenti come questi non sono nel testo 59
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Omodeo, Il Cristo deriso cit., p. 659 ( il Cristo cosÏ è la morte della morte ).
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di Dante se non potenzialità, o astratte possibilità, e altro, politico, giuridico, e non solo religioso, è il suo assunto, sarebbe tuttavia grave se, solo per questo, non se ne cogliesse la paradossale profondità. Dante poneva la questione dal punto di vista dell’Impero e del diritto: non da quello della carne e dello spirito. Scendeva tuttavia verso la radice della questione quando assumeva, non che per la sua insufficienza la legge stessa dovesse morire con il peccato al quale era, nel mondo umano, congiunta, ma che per la sua intrinseca natura divina, per esser stata voluta da Dio, fosse essa stessa uno strumento essenziale per la « riconformazione » al creatore della creatura che, « per lo peccato della prevaricazione del primo uomo » se ne era « partita e disformata » 60. Queste ultime parole appartengono, come si ricorderà, al quarto tratto del Convivio; e vi delineano una difficoltà della quale è infine giunto il momento che si prenda atto e la si dichiari. Più acuta nel trattato volgare, meno in quello latino dove, tuttavia, è pur sempre intrinseca all’argomento relativo al lapsus primi parentis 61, la difficoltà si rende evidente nel netto divario che Dante stabilì fra, da una parte, la condizione del genere umano che, massimamente, si era disformata dal creatore, da un’altra, il suo essere, al momento della venuta del Cristo, nella migliore delle sue « disposizioni » possibili. Ed è a tal punto evidente che, dopo averla colta e indicata, non sarebbe forse necessario insistervi, se non fosse per il serio motivo che la determina nella forma della contraddizione. Per un verso, a provocare l’insorgere di questo secondo, e tuttavia fondamentale, motivo, è la fortissima istanza razionalistica che, nel Convivio come nella Monarchia, caratterizza l’idea dantesca dello svolgimento necessario che, nel segno del progresso, conduce le forme politiche dalla famiglia all’Impero e, in questo, conclude il loro percorso. Per un altro, a determinare la presenza del primo, è l’idea cristiana della corruzione intrinseca, a causa del peccato di Adamo, al genere umano; che, paradossalmente, in questo quadro concettuale perviene al suo limite estremo quanto più si trovi ad aver realizzata l’ottima « disposizione », che ha nell’unità imperiale il suo segno positivo. Che, nel dar luogo a una costruzione in sé stessa così fortemente conflittuale, di questo suo carattere Dante
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non giungesse a prendere coscienza, è evidente. E non giova insistervi. Ma sul conflitto, e sulle ragioni obiettive del suo esservi determinato, sì che è necessario insistere. Ad accenderlo, e farlo divampare, fu infatti il problematico contatto che, in lui, l’idea cristiana aveva cercato con quella aristotelica.
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Capitolo VI L’IMPERO E LA CHIESA Il primo e il secondo libro della Monarchia trovano il loro suggello concettuale in due paradossi. Il primo, nella rivelazione dell’identità, intesa nel senso forte dell’« esser lo stesso », dell’intelletto teoretico e, per estensione, pratico, e dell’impero. Il secondo, nell’idea secondo la quale, considerato nella sua tessitura rigorosamente provvidenziale, quella di Roma è storia sacra, attuante il diritto che è nella mente e nella volontà di Dio, e ritrova il suo senso nella discesa in terra del Cristo, nella sua vita, nella sua morte, nella legittima punizione che, nella sua carne mortale, l’umanità patì per il suo essersi « disformata » da colui che ad essa aveva donata l’esistenza. Di gran lunga il più tormentato dalla critica, ma non perciò, a rigore, il più importante, il terzo libro ritrova il suo senso ovvio, e sul quale perciò disputare non sarebbe lecito se il pregiudizio ideologico e religioso non tenesse prigioniere le menti, nella recisa affermazione della reciproca autonomia dei duo luminaria, l’Impero e la Chiesa, entrambi dipartentisi, con atto unitario, dall’unica fonte divina. Sul senso radicale che Dante intese dare all’autonomia, alla reciproca indipendenza, all’immediata derivazione dei due poteri da Dio, ossia sulla tesi che costituisce l’impalcatura del terzo libro, dubbi, come s’è detto, non dovrebbero caderne. E sarà bene pertanto, in questa sede, attenersi al senso ovvio di quel che è, o dovrebbe essere, ovvio. Sarà bene, le passioni che inducono a mettere in questione anche quel che in nessun caso potrebbe esserlo, farle tacere. E proprio per questo, prima che il discorso si volga a punti di più grande e vivo interesse, occorrerà soffermarsi sulle linee conclusive del terzo libro, e su ciò che, nell’ultimo capitolo, immediatamente le precede. Non solo perché la sintesi che, prima di scrivere le ultime parole del trattato, Dante propose dei suoi temi fondamentali, è mirabile e costituisce un documento fra i più notevoli del suo raro senso di ciò che è essenziale. Ma anche, se ci si volge indietro a osservare il cammino che l’esegesi ha fin qui percorso, perché dalla pagina sintetica che Dante vi vergò emergono le difficoltà autentiche alle quali il suo stesso estremismo filosofico e argomen-
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tativo aveva dato luogo. Si osservi comunque, innanzi tutto, la estrema conclusione; e si risalga poi indietro alla sua premessa. Sul punto che il Monarca universale derivasse direttamente e immediate a Deo, e non ab alio, Dante era stato reciso, in ogni parte del suo argomento. E, nel concludere, aveva scritto così: Que quidem veritas ultime questionis non sic stricte recipienda est, ut romanus Princeps in aliquo romano Pontifici non subiaceat, cum mortalis ista felicitas quodammodo ad immortalem felicitatem ordinetur. Illa igitur reverentia Cesar utatur ad Petrum qua primogenitus filius debet uti ad patrem: ut luce paterne gratie illustratus virtuosius orbem terre irradiet, cui ab Illo solo prefectus est, qui est omnium spiritualium et temporalium guberator 1.
Che in questo passo la concessione fatta all’autorità spirituale e il riconoscimento della superiorità delle cose che cadono sotto la giurisdizione di quella significhino una sorta di attenuazione di quanto prima Dante aveva affermato 2, è quel che ben si potrebbe sostenere se a questo e al suo autore si guardasse con l’animo meschino che poi si pretende di attribuire a lui. E sopra tutto se l’intenzione fosse di ingentilire l’asprezza della tesi, di renderla meglio accetta al palato dei benpensanti, al gusto minimizzante di quanti sono ben lieti che i paradossi rientrino nelle regole e, fattisi maestri in disputando, ora insegnino che, ciò che è immortale essendo superiore a ciò che non lo è, la luce dello spirito essendo più luminosa e capace di rendere più intensa quella delle cose terrene, il padre essendo più autorevole del figlio, il pontefice, dunque, è superiore all’Imperatore. In realtà, a quanti abbiano pensato e pensino che proprio alla luce di questa concessione, e della conseguente affermazione di superiorità dello spirituale sul temporale 3, debbano essere lette le precedenti tesi del trattato, dovrebbe pur sempre chiedersi che idea della coerenza stia nella loro testa. E come facciano in effetti a far andare d’accordo l’uno con l’altro concetti come, da una parte, l’autonomia, l’indipendenza, l’im-
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Mon. III XV 17-18. Di contraddizione parla addirittura il Vinay, Interpretazione, p. 12, seguìto su questa via da A. M. Chiavacci Leonardi, La ‘Monarchia’ di Dante alla luce della ‘Commeda’, « Studi medievali », 1977, pp. 153 ss. 3 Così, per es., intende, nella sostanza, M. Maccarrone, Il terzo libro della ‘Monarchia’, « Studi danteschi », 33, 1 (1955), pp. 47, 50-51. 2
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mediata e contemporanea derivazione dalla fonte divina dei due poteri ai quali l’umanità è sottoposta per il conseguimento della felicità, quella terrena e l’altra ultraterrena, e, da un’altra, la subordinazione dell’un potere (quello terreno) all’altro (celeste) nel segno della reverenza che, come il figlio al padre, così l’Imperatore deve al vicario di Cristo in terra. Se si esprime nell’idea della inferiorità di chi offre il suo segno di omaggio e di rispetto a chi questo segno riceva come ciò che gli è dovuto, la reverenza ha un nome preciso nell’ordine concettuale o, se si preferisce, nel galateo dei concetti. Si chiama, appunto, subordinazione e, dunque, disposizione a ricevere un comando, a adeguarvisi, a eseguirlo. Ma, se è così, allora è chiaro: e da decidere sarà il senso di quel in aliquo che per un verso definisce l’ambito della reverentia, ma, per un altro, è esso a esserne definito nel suo. Questo senso dovrà essere deciso. E non potrà dunque sfuggirsi alla secchezze delle alternative che qui si delineano. La prima è « autonomia ». La seconda è « subordinazione ». La prima è l’indipendenza di chi sul serio in potestate sua sit imperator superiorem non recognoscens. La seconda è la disposizione ad accogliere ordini ab alio. E tertium non datur. Ebbene, se i termini della questione fossero tenuti fermi con coerenza, allora è evidente che fra l’uno e l’altro la scelta non potrebbe non essere perentoria: o l’uno o l’altro. O l’autonomia o la subordinazione. O l’indipendenza o la disposizione a ricevere comandi e a obbedirli. E l’espressione in aliquo in un caso dovrebbe essere intesa come alludente a una sorta di saluto e di omaggio che l’autorità terrena rivolge a quella spirituale quando, senza che ciò implichi alcun conflitto, l’una sia in vista dell’altra. Nell’altro caso, proprio invece nel senso che nel primo è stato escluso. La contrapposizione infatti è netta, e non ammette intermedio. Ma a quale dei due significati si deve dare il primato, e accordare, nell’esegesi, la preferenza? Se a prevalere fosse il primo significato, la prevalenza sarebbe senza dubbio stata determinata da quel che, in tema di autonomia, di indipendenza, di contemporanea derivazione da Dio dei due poteri era stato detto lungo l’intero corso del terzo libro. Ma se invece si pensasse a qualcosa come a un estremo pentimento, a qualcosa addirittura come a una fulminea autocritica alla quale, giunto al termine e guardando al cammino percorso, Dante avesse sottoposto sé stesso? A far pendere la bilancia verso il primo di questi due poli critici è, senza dubbio, l’assai più grande estensione argomentativa in cui il primo dei due si è costituito. Chi, giustamente persuaso che, nel corso del terzo libro, Dante non avesse via via se non ribadito il concetto dell’au-
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tonomia e degli altri che a questo si connettono, anche riterrà di dover conferire alla presenza delle ultime linee e al termine reverentia che vi ricorre un significato, per così dire, minore: quasi che, immaginando un incontro reale del pontefice e dell’imperatore, l’autore del trattato avesse voluto suggerire che non al primo, bensì al secondo, spettasse di rivolgere all’altro, il saluto. Il che, a parte quel tanto di ridicolo che pur è presente in questa reductio ad theatrum di un gesto eminentemente simbolico e spirituale qual è quello che Dante assegnava all’iniziativa dell’Imperatore, sarebbe per un verso plausibile se, per un altro, non dovesse farsi intervenire la considerazione di quel che, altresì, questo testo conclusivo pur contiene in sé, e non può essere svalutato. Non è forse vero, ed ecco che anche il secondo polo critico svela la forza dell’argomento che gli sta dentro, – non è forse vero che nel passo conclusivo si dice anche della migliore efficacia con la quale il Monarca universale condurrebbe le umane genti al traguardo della felicità qualora a illuminarlo, e perciò a rendere più pura e tersa la luce del suo sole, fosse l’altra luce, quella della paterna grazia papale? È vero: anche se questo riconoscimento, che nasce dalla filologia, non dall’ideologia, possa pur sempre far fremere di sdegno ogni interprete che, dopo aver reso omaggio alla prima, persista tuttavia nelle nebbie della seconda e viva in forma confessionale la sua fiera idea del laicismo e magari, perché no, dell’immanentismo, sia pure aurorale, di Dante, e dall’angustia della sua chiesa proprio non riesca a uscire. Ancora. Forse che non è vero che c’è, in questo passo, qualcosa di ben altrimenti impegnativo che non sia il dovere di salutare per primi: come può vedersi se si legge con cura quel che si dice del subiacere dell’Imperatore al pontefice come conseguenza dell’essere, la beatitudine terrena e mortale ordinata ad immortalem vitam? È vero. E qui tanto meno sono accettabili i sofismi di chi lavorasse a negare l’evidenza quanto più su queste parole si rifletta con maturità di spirito, con spregiudicatezza e senza pregiudizi, quindi, di varia confessionalità: tanto meno, in effetti, in quanto a emergere da queste parole è, se si guarda bene, proprio il laicismo di Dante. E questo non è un paradosso. È, invece, la constatazione di un fatto. Così forte era stata, nel primo libro, l’accentuazione che, non senza ricorrere a temi averroistici, egli aveva fatta dell’autonomia dell’intelletto; con tale energia Dante aveva proceduto sulla via della ragione, che a patirne le conseguenze non poteva non essere stata la sua schietta coscienza di cristiano. L’attenuazione di quel che aveva pensato ne veniva di conseguenza. Ma di conseguenza veniva anche, con l’attenuazione, ciò che, per così dire, l’aveva meritata e richiesta: e cioè la radicalità di
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quei pensieri che, certo, egli era ben lungi dal disconoscere, e che ribadiva infatti nell’atto stesso in cui, attraverso l’attenuazione, indirettamente faceva di nuovo emergere il loro originario carattere 4. La speranza nutrita da alcuni, che, a causa delle concessioni con le quali la Monarchia si chiude, questa, e l’intero pensiero di Dante, possano senza alcuno sforzo essere tenuti fermi entro il quadro costituito dall’idea della superiorità del pontefice, non ha perciò alcun fondamento. E certo è che, qualora, nel sostenerla, al suo essere cristiano si facesse appello, la confusione raggiungerebbe il culmine. Non è infatti la coscienza cristiana di Dante a poter mai esser messa in questione. Non è a un Dante eretico che, rinnovando i modi vernaniani, si potrebbe mai voler conferire realtà. È invece alla difficoltà che s’incontra nel fare andare d’accordo il Cristianesimo con la filosofia di Aristotele, – è a questa difficoltà, acuita in Dante dall’estremismo degli atteggiamenti polemici, che occorre guardare con attenzione: prenderne atto, e non sottovalutarla. E anche all’altra che pur si delinea quando, posta la que4
Alle due spiegazioni che propose, nel tempo, di « quodammodo », – la prima suppone che, la Monarchia essendo stata scritta prima dell’elezione di Arrigo VII e al tempo dell’accordo di questi con Clemente V, Dante avesse interesse a introdurre nel testo una nota, nei confronti dell’autorità pontificia, distensiva; e sta e cade con questa ipotesi cronologica; la seconda suggerisce che la soggezione riguardi il rapporto, non di « dominio », ma di paternità –, a queste due spiegazioni il Nardi, Intorno a una nuova interpretazione del terzo libro della ‘Monarchia’, in Dal ‘Convivio’ alla ‘Commedia’ cit., pp. 301-302, ne aggiunse una terza (pp. 309-13). E, convinto com’era che nella Commedia, iniziata secondo lui quando già la Monarchia era stata composta e, in alcuni suoi aspetti, superata, il « rapporto tra beatitudine terrena e beatitudine eterna, tra ragione e fede, tra filosofia e teologia » fosse tornato » (ma perché tornato?) « ad essere quello affermato dai francescani e da san Tommaso » (p. 309); convinto, per conseguenza, che « la ragione umana » avesse acquistata « ormai coscienza del suo limite » e necessitasse perciò « della rivelazione che sola può saziare la ‘sete naturale’ di verità », ritenne che nel « quodammodo » brillasse l’incerta luce della verità che sta per nascere, e che, insomma, la Commedia vi fosse presentata e annunziata – Le ragioni per le quali, nelle sue linee, generali e particolari, questa interpretazione è inaccettabile sono state, via via che se ne presentava l’occasione, e anche in riferimento a Nardi, esposte nel corso della ricerca. E qui basterà aggiungere che tale è la prepotenza che, nel tracciare sé stessa, questa linea interpretativa esercita su quello stesso che l’ha ideata, da far pensare che nel Convivio e nella Monarchia la questione del limite comunque intrinseco alla ragione umana da Dante non fosse stata avvertita. Il che, come il Nardi stesso sapeva meglio di ogni altro, non corrisponde alla verità. Sulla questione del « quodammodo », cfr. ora anche B. Martinelli, Sul ‘quodammodo’ di ‘Monarchia’ III XV 17, in Miscellanea di studi in onore di V. Branca, I, Dal Medioevo al Petrarca, Firenze 1983, pp. 193-214.
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stione dell’autonomia e dell’immediata derivazione da Dio dei due poteri, su queste si ragioni con qualche rigore. Per procedere, una volta tanto, more geometrico, e nella speranza di trarne qualche giovamento esegetico, si assuma allora Dio, la fonte divina, come un punto, dipartendosi dal quale i due raggi rappresentativi del potere filosofico (politico) e di quello teologico (religioso) proseguono, senza incontrarsi, senza intrecciarsi e senza, sopra tutto, subordinarsi l’uno all’altro, la loro marcia in avanti, coincidente con il cammino della storia. Il rigore geometrico della rappresentazione, che alla sua radice presenta l’idea della simbolica inestensione del punto, implicherebbe, se lo si tenesse fermo e lo si svolgesse nella sua conseguenza, che i due raggi che simultaneamente ne nascono si tocchino e per un attimo stiano l’uno nell’altro: non potrebbero altrimenti stare nel punto inesteso e, come si dice, nascerne. Ma anche implicherebbe che subito dopo, nascendo, divergessero l’uno dall’altro in modo da poter proseguire lungo due linee sempre più distanziantisi a misura che indietro resta il punto simbolico della loro origine. Non che in questa trascrizione geometrica del concetto dell’autonomia e della simultanea dipendenza da Dio tutto proceda senza difficoltà. A esserne soddisfatta è senza dubbio, almeno per un verso, l’esigenza dantesca che comune a entrambi i raggi, e nel segno appunto dell’assoluta simultaneità e contemporaneità, sia l’origine. Non così per il resto. L’idea, per esempio, che nell’inestensione del punto possano trovar posto, sia pure in statu nascendi, i due raggi anzidetti, non è che un mito: dal momento che dove si dia dualità, è impossibile che anche si dia inestensione. E non parliamo poi di quel che dalla logica geometrica della rappresentazione deriverebbe se la figura che si forma quando da un punto si facciano partire due semirette che si prolungano nella direzione dell’infinito (o del futuro) fosse interpretata come espressiva del concetto dei due poteri e della loro indipendenza. Poiché, a misura che il prolungamento delle semirette si determina, anche avviene che fra le due la distanza progressivamente cresca, non ci vuol molto a capire che, se questa figura fosse ripetuta anche per quel che concerne il cammino dell’Impero e della Chiesa, si avrebbe che tanto più il primo si allontana dalla seconda quanto più questa si allontana dal primo. E la conseguenza sarebbe che sconvolta alla radice verrebbe a essere l’idea delle due parallele che, correndo alla stessa distanza l’una dall’altra nella direzione del futuro, costituiscono le due vie, né divergenti né convergenti, lungo le quali l’umanità persegue la mèta della sua duplice felicità. Un inconveniens, senza dubbio, se alle figure geometriche, e alla loro logica, non s’inten-
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desse rinunziare. Un inconveniens: che sempre si darebbe a vedere quando si tornasse a considerare che, se la volontà di Dio fosse (come qui si è supposto) simboleggiata in un punto inesteso, arduo sarebbe intendere come a nascerne potessero essere due semirette, ma ancora più arduo come queste potessero mai essere parallele. Si dirà che queste sono difficoltà intrinseche all’assunzione di un modello, di un costume argomentativo che non può mai, senza ingenerarne di ulteriori e assai gravi, essere trasferito là dove un diverso modello, un diverso costume si rivela adeguato all’indagine concettuale. E sia. Ma non si dimentichi che il ricorso al modello geometrico fu escogitato per rendere ancora più « evidente » una difficoltà che proprio a quello concettuale è, e si rivela, intrinseca quando dell’unica volontà divina s’intenda fare il « luogo » in cui, pacificamente, due atti si costituiscono, uno relativo alla felicità terrena, l’altro a quella celeste, e non si considera che, poiché entrambi sono inclusi nel medesimo atto, la loro distinzione qualitativa non dovrebbe, a rigore, essere considerata possibile. Come potrebbe, la volontà divina, essere l’atto nel quale, contemporaneamente, due diversi atti sono inclusi? Non furono per altro, si può ben supporlo, queste le difficoltà che a un certo punto Dante dovette affrontare. Il che non toglie che su questa via, solo in apparenza astratta, occorre procedere ancora perché a essere rimasta inattinta è forse la questione che in questo quadro si rivela come la più importante. Per quanto il suo sforzo più grande fosse diretto a far coesistere, entro un orizzonte agguagliante, l’uno e l’altro sole, Dante non poteva ignorare quel che nella sua coscienza stava come un punto pur sempre fermo e irrinunciabile: e cioè che, se al simbolo della luna e del sole, coerentemente al suo assunto filoimperiale, aveva sostituito l’altro dei due soli e della loro reciproca non subordinazione, impossibile era tuttavia non ammettere che dei due astri il secondo, quello teologico, proiettasse la sua luce in alto, nella direzione di Dio, il secondo invece in basso, nella direzione dei beni terreni e di quanto quaggiù, sulla terra, fosse conseguibile. I due astri erano entrambi luminosi per la luce che direttamente ricevevano da Dio. Ma l’uno era come se, direttamente la restituisse a lui: l’altro, no. Il che comportava che fin tanto che da questa dualità non si fossero tratte conseguenze politiche, e l’allegoria non fosse stata diretta a rendere queste ultime, se non più chiare, più eloquenti, questioni non ne nascevano. Ma non così se, scavando nel simbolo alla ricerca dei significati essenziali, ad emergerne fosse stata la vera difficoltà dalla quale il tentativo
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di Dante era, in realtà, sotteso. Gli astri erano due: l’umanità, invece, una. E poiché era questa, era l’unica e non divisa umanità, a dover camminare nella direzione che quelli indicavano, che ne derivassero difficoltà era inevitabile: dal momento che, sebbene fossero concepite come parallele e non interferenti l’una con l’altra, le due vie erano anche tali che dell’una, quella spirituale, doveva pur ammettersi che, « quodammodo », stesse al di sopra dell’altra. Lo si comprende, del resto, anche se al ragionamento dantesco relativo alla pari dignità dei due astri si cerca di dare un altro avvio: a partire tuttavia da qualcosa che nella sua logica era presente, agiva e produceva conseguenze. Se, come due semirette da un punto ideale (Dio) geometricamente prospettato, i due poteri erano concepiti come « nati insieme », dell’Imperatore e del papa, che li incarnano, dovrebbe dirsi che sono fratelli; e, per di più, gemelli, tali che, nati insieme, né all’uno né all’altro potrebbero, se non per convenzionale decisione, essere attribuiti la primogenitura e il primato. Che sia così, e, al di là di questo specifico paragone, dei due poteri dell’Imperatore e del papa questo proprio Dante predicasse, e cioè l’ideale parità nel segno della contemporanea derivazione di entrambi dall’atto creatore di Dio, è evidente. Consuona con il suo pensiero. Ne discende con necessità inesorabile: talché pretendere che altro fosse il suo concetto è semplicemente assurdo. Ma è anche vero, tuttavia, che se dal rigore geometrico della rappresentazione si fosse trascorsi a considerare la concreta realtà; se i due poteri fossero stati prospettati nella concretezza della storia, difficile sarebbe stato non convenire sul punto che quelli che, per la logica e la geometria, erano fratelli, per la realtà (e anche per la logica) erano invece un pater e un filius: come Dante ben sapeva e riconosceva e poneva in rilievo quando in questi termini prospettava, « quodammodo », il loro rapporto. Con il che, senza che al suo concetto dovesse rinunziare (se vi avesse rinunziato il « quodammodo » non avrebbe avuto più alcun senso), è pur evidente che nel profondo vi si era insinuato qualcosa che resisteva alla sua piena esplicazione e non riusciva a ben essere sistemato nel suo ambito. Dava perciò luogo al disagio, che fu in primo luogo di Dante, e da lui passò a ogni interprete che, di fronte alle difficoltà, essendo onesto, invece di farle sparire con abili giochi di prestigio, vi avesse con radicalità ragionato intorno. Fu la crisi immanente a questa situazione concettuale che, con ferma intenzione, faceva nascere i due poteri, nello stesso atto, dalla stessa fonte, e tendeva perciò a disporli nel segno della reciproca autonomia,
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– fu questa crisi 5 a dettare le parole che chiudono la Monarchia. Fu, con tutto ciò che altresì le si connetteva, questa crisi, e non dunque un timore e tremore che all’improvviso, e dal di fuori, si fosse impadronito dell’autore, a far sì che quel che non era stato vinto nel pensiero trovasse una via d’espressione e desse segno di sé. E se è così, se questo luogo critico è stato chiarito nella sua estrema delicatezza, si passi allora a osservare quel che, nel quadro di questa ricerca, ne è richiesto. Si osservi allora la sintesi che degli argomenti svolti nel corso del trattato Dante fece nella pagina che lo conclude 6. La sintesi, come s’è detto, fu eseguita in modo mirabile. Fu quale poteva uscire dalla mente di un simile scultore di cose essenziali. Ma, con tutto il rispetto, non potrebbe tuttavia senz’altro assumersi che gli elementi che la costituirono e che essa strinse nel suo segno vi si mantenessero quali Dante li aveva delineati nei momenti più alti della sua investigazione. Evitata, per esempio, e sia pure attraverso un giro assai abile di parole, fu la questione relativa alla possibilità che, collocate in ambiti così diversi, eterogenei e persino opposti, la felicità terrena e quella celeste fossero tuttavia includibili in un ambito unitario, all’interno del quale fossero, per così dire, prese in cura rispettivamente dalla filosofia e dalla teologia. Se n’è discusso. È inutile ripetersi. Ma sulla questione dello strumento filosofico di per sé considerato, occorre invece fermarsi per dire che assai più audace, rigorosa e radicale ne era riuscita, nel primo libro, la trattazione. Lì l’intelletto, il suo essere sempre in atto come pensiero del genere umano totum et simul acceptum. Qui, nella sintesi finale, un più cauto e prudente ripiegamento sull’idea di una ragione umana ammaestrata dai filosofi 7, nel rispetto delle virtù morali e intellettuali. Quindi, accanto alla filosofia, e oltre il segno di questa, la teologia, anch’essa da apprendere attraverso i documenta spiritualia que humanam rationem transcendunt. E se per questi ultimi gli esempi sono quelli che ciascuno si sarebbe aspettato di trovar citati in questo punto del discorso, dove si parla infatti dello Spirito santo che, per mezzo dei profeti e degli agiografi, per coecternum sibi Dei filium Iesum Cristum et per eius discipulos 5
Che va intesa quindi in modo molto diverso da quello tenuto dal Nardi nei tanti luoghi che via via sono stati indicati, e, da ultimo, in quello ricordato nella precedente nota. 6 Mon. III XV 7-15. E cfr. anche III XII 1-2. 7 III XV 8 : « ... ad primam beatitudinem per phylosophica documenta venimus ... ».
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supernaturalem veritatem ac nobis necessariam revelavit 8; se, per quanto concerne la filosofia, potrebbe persino, non senza qualche artificio tuttavia, sostenersi che il luogo in cui è detto che le conclusioni e i mezzi intellettuali licet ostensa sint nobis [...] ab humana ratione que per phylosophos tota nobis innotuit, è riconducibile a quello del terzo capitolo del primo libro in cui la teoria dell’intelletto trovò la formulazione più radicale, quel che invece subito dopo viene detto della cupidigia 9 suscita, qualora del passo relativo alla filosofia si desse quest’ultima interpretazione, un non piccolo sconcerto logico. Capirne la ragione, non è difficile. Se l’intelletto umano realizza sé stesso nelle cose teoretiche e, per estensione, in quelle pratiche, e non può dunque accadere che, relativo com’è allo humanum genus totaliter acceptum, non sia sempre e tutto in atto; se, come conseguenza di questa impostazione, anche deve accadere che l’Impero sia sempre, da questo necessario paradosso a risultare esclusa non dovrebbe forse essere proprio la cupidigia; che, come quello è un simbolo di unità, altrettanto, e contrario, lo è di disunione e disintegrazione? Così, certamente, dovrebbe dirsi se dall’iniziale paradosso concernente l’essere sempre in atto dell’intelletto, e l’esser sempre dell’Impero, ogni conclusione fosse tratta con rigore. Conclusioni che, come vedemmo, Dante trasse e anche non trasse: dal momento che, accanto all’idea dell’unico intelletto conservò quella degli individuali intelletti e all’aporetico concetto della loro « collaborazione » in vista del fine ultimo non fu in grado di sottrarre la sua coerenza. E al rigore della premessa, in qualche modo, venne meno. Si aggiunga, e si ricordi, quel che a suo tempo già fu detto: e cioè che, come l’idea dell’attualità dell’intelletto conferiva il massimo dell’energia alla volontà che l’Impero appartenesse all’essere stesso delle cose, così alla radice di quella agiva qualcosa che, in re, ne costituiva la negazione: non l’esserci sempre dell’Impero, ma al contrario il suo attuale non esserci a causa, appunto, della cupidigia che aveva lacerato il velo maestoso dell’unità e rese nemiche le parti che, nel costituirla, anche ne erano tenute ferme e concordi. Dallo spettacolo miserando della cupidigia e delle sue conseguenze Dante era stato tratto a contemplare il volto dell’unità. E l’una e l’altra aveva pensate in modo tale che, plausibili, e l’una necessaria all’altra nell’opposizione a cui davano luogo, esse per certo erano sotto il profilo psicologico. Ma, sotto quello logico, no, in nessun modo.
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L’Impero e la cupidigia, la cupidigia e l’Impero. Se nell’ideale processo del pensiero si determina qualcosa come un arresto, e questo, il pensiero, sia perciò costretto a subirne il contraccolpo, si fa presto, allora, a dire e a nominare, l’una dopo l’altra, e quale che sia l’ordine della nominazione, queste due parole, espressive di due contrapposte potenze dell’umanità. Si fa presto, d’altra parte, a dire, con le parole, del pensiero che subisce un arresto e, in questo vuoto intervallo, rende, per così dire, possibile e pensabile quel che possibile e pensabile in senso assoluto non è. Si fa presto, sempre con le parole, ad assumere, nel pensiero, il « non pensato »; che sarebbe in questo caso, proprio quel che s’è detto, e cioè la coesistenza, entro un orizzonte che non può in nessun modo essere assunto come pensabile, di quelle due opposte potenze, di quelle due opposte passioni, quella della cupidigia che, per contrasto, produce l’esigenza della monarchia universale, e quella di quest’ultima che, nell’atto in cui la fa insorgere, ribadisce la sua inattualità, il suo non esserci. Non è, quella che così, velocemente, è stata richiamata, una questione facile; e anzi, tanto più difficile quanto più si renda visibile in ogni indagine che si conduca intorno a un « pensiero ». Non a questo tema, per altro, conviene ora dare risalto e svolgimento. Ma all’altro che, sia pure tormentosamente, concerne questo problema dantesco dell’Impero e della cupidigia; che non è d’altra parte se non un aspetto di quello che più volte è emerso nel corso dell’indagine e che riguarda la discrasia che il tema logico stabilisce con quello fenomenologico, l’essere, se si preferisce, con il dover essere. L’analisi del terzo libro ha avuto il suo inizio dalla fine. Ma se dalla conclusione si risale all’esordio, subito deve constatarsi che questa proprio che è stata definita come la questione delle questioni assume prepotentemente il centro della scena e fa sentire la sua voce imperiosa. Bastava infatti che, in analogia con quel che era accaduto all’inizio dei due precedenti libri, Dante si ponesse alla ricerca del principio direttivo perché, immediatamente, la questione si ripresentasse. La irrefragabilis veritas in cui il principio consiste, la premessa che non si può discutere perché discuterla e revocarla in dubbio, sarebbe come discutere e revocare in dubbio la verità, – ebbene, questa verità è, ancora una volta, che quel che nature intentioni repugnat Deus nolit (III II 2). E nel suo svolgimento logico questa verità rifulge altresì nell’asserto che, se questo non fosse vero, se cioè fosse falso che è contrario e opposto al volere di Dio quel che anche ripugna all’intenzione della natura, ne conseguirebbe allora che il primo vuole quel che la seconda non vuole. E poi-
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ché la natura è, di Dio, lo strumento essenziale, e, se le si attribuisce un fine, questo non può essere diverso, contrario e opposto al fine stesso del suo creatore, l’ulteriore conseguenza sarebbe, se a quella premessa si seguitasse a tener fermo, che nello stesso atto questo vuole e non vuole. Ne conseguirebbe, insomma, la contraddizione, alla quale, per dire così, immaginosamente, la sua essenza si rivelerebbe identica 10. Sfrondato dei codicilli che a questo nucleo argomentativo Dante aggiunse e che, concernendo il nolle e il non nolle, il velle e il non velle, il non odire, al quale è necessario che a conseguire siano aut amare aut non amare (« non enim non amare est odire, nec non velle est nolle ») 11, sono espressione del suo virtuosismo dialettico, ma non richiedono particolare commento, il punto essenziale dell’argomento è quello che s’è detto. È il punto dal quale consegue l’altro relativo al fine della natura e del suo impedimento da parte di Dio; e che anch’esso darebbe luogo alla suprema delle contraddizioni. Il fine della natura è il fine stesso di Dio: com’è possibile, dunque, che ne sia impedito e che, volendo il fine della natura, che è il suo, altresì egli voglia che sia impedito? Forse che non si darebbe in tale caso una volontà disvolente sé stessa (e tuttavia anche, di nuovo, una volontà che, nel disvolersi, non potrebbe anche disvolere questo suo disvolere)? Il che fu, del resto, argomentato là dove, acutamente Dante accennò all’impossibilità che sul serio Dio potesse volere l’impedimento della natura. Se questo volesse, anche infatti vorrebbe il fine di questo impedimento, o, se si preferisce, questo impedimento come la stessa cosa del fine: con quel che segue nel passo in cui questo fondamentale rilievo è contenuto 12. Se è così, è evidente allora perché qui sopra si dicesse che a emergere da questa situazione è di nuovo il paradosso del conflitto che divide il logico e il fenomenologico. Se la natura persegue il suo fine, che è quello stesso che, attribuendolo a lei, è come se Dio lo attribuisse a sé stesso, anche occorre (o occorrerebbe) ammettere che questo ne fosse, sempre e per intero, realizzato: ché, in caso contrario, verrebbe ad essere vero ciò che è falso, e cioè che l’operare della natura sia un ozioso operare; che ozioso, attraverso l’operare della natura, si riveli l’operare di Dio. Se per altro questo si ammettesse, come anche potrebbe farsi
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III III III
II II II
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spazio all’idea che, nel quadro delle cose naturali e, in connessione con queste, con le cose umane, si desse qualcosa come un principio di resistenza al corso della natura, dal quale questa fosse impedita nella realizzazione del suo fine, e deviata da questo? È la grande questione del male e della sua ammissibilità, di fatto e di diritto, entro un ordine concettuale che di per sé stesso non la prevede nemmeno nella forma dell’eccezione, – è questa la questione che già emersa, in precedenti pagine e a proposito di altri luoghi, torna qui a presentare il suo volto. E a imporre la sua presenza. Torna a dar segno di sé al di là del divieto che, appunto, da questo contesto dovrebbe derivarle. Il ferreo razionalismo al quale, in accordo sostanziale con quello aristotelico, Dante aveva ispirata la sua idea del nesso indissolubile che lega a Dio la natura, e del fine che a entrambi è perciò allo stesso modo intrinseco, venne così a trovarsi di fronte a qualcosa che, senza che per questa sua insorgenza potesse addurre alcun titolo legittimo, tuttavia gli si imponeva esibendo il volto scandaloso di ciò che è impossibile, e, nondimeno, esiste. In un universo costruito e concepito nel segno della razionalità non c’è, per il male, più posto che in uno costruito e concepito nel segno della assoluta bontà e giustizia del dio. Ma il male, tuttavia, esisteva. Esisteva la cupidigia, sua massimo espressione. « Hominibus nanque rationis intuitum voluntate prevolantibus hoc saepe contingit: ut, male affecti, lumine rationis postposito, affectu quasi ceci trahantur et pertinaciter suam denegent cecitatem » 13. È un passo 13
III III 4-5. Con il Ficino e il codice Trivulziano, seguìto dalla gran parte degli editori moderni, ma non dal Ricci nella sua ed., p. 226, leggo voluntate, e non voluntatem, intuitum, e non intuitu. Non mi pare che il testo possa altrimenti (ossia con la scelta operata dal Ricci) ricevere un’interpretazione in qualche modo plausibile. Quel che nel luogo citato è stato argomentato dal Ricci è altrettanto poco convincente della citazione da lui proposta di Conv. I IV 3 e III X 2, nonché di Par. XIII 120: plausibili in sé, non però in riferimento al passo in questione. La lezione del Ricci darebbe senso se praevolare potesse significare « guidare » (guidare la volontà con l’intuito, o il lume, della ragione: come intende il Nardi, p. 439). Ma dagli esempi addotti dal Forcellini, ad v., praevolare significa « volare innanzi »: come, per es., in Tac. hist. 1, 62: con la conseguenza che se, forzandone comunque il significato, lo si prendesse nel senso di « guidare », « dirigere » etc., e il testo fosse quello restituito dal Ricci, ne deriverebbe una traduzione altrettanto assurda di quella fornita dal Nardi: « giacché ad uomini avvezzi a guidare la volontà col lume di ragione, accade spesso questo, che, mal disposti, lasciatosi dietro il lume del raziocinio, sian trascinati come ciechi dalla passione e pertinacemente disconoscano la lor cecità » (p. 439). A chi sia « avvezzo a guidare la volontà col lume di ragione » come può ammettersi che « spesso » accada che sia così « maldisposto » nei confronti di questo lume da spegnerlo e consegnare sé
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cruciale; e merita di essere osservato con cura, a cominciare dall’attenzione che deve riservarsi alla contingentia per la quale quel che non dovrebbe si determina: ossia che sia la volontà ad andare innanzi alla ragione, non la ragione alla volontà, con la conseguenza della cecità a cui vanno incontro quelli ai quali hoc contingit: della cecità che, tale essendo anche nei riguardi di sé stessa, culmina in quel supremo atto di cecità che si esprime nella negazione del suo esser tale. Il passo, in effetti, è cruciale. E se, come non sembra discutibile, questa ne è la recta interpretatio, la questione che ne nasce investe direttamente la possibilità che quel che contingit sia tale da, appunto, contingere, accadere: dal momento che non si dà contingenza che, con il carattere dell’eccezione, entri in un universo che non ne contempli la possibilità, e vi realizzi il suo scandaloso diritto. Se appartiene all’ordine necessario delle cose che l’intelletto vada innanzi alla volontà che, in quello, trova la sua guida, com’è allora possibile che ciò che è necessario non lo sia, l’ordine sia violato, e sia la volontà ad andare innanzi all’intelletto, offuscandolo e spegnendone la luce? Possibile non dovrebbe essere. Ma accade che lo sia. E la difficoltà è evidente. La grande battaglia che intelletto, ragione e volontà sono chiamati a combattere contro le perfidie della cupidigia non ha, nel sistema dei concetti dai quali dovrebbe trarre la sua forza, alcun fondamento. E questo è bensì un crudo paradosso. Ma, tuttavia, necessario e non rimediabile. Un paradosso intrinseco allo squilibrio che nel mondo dantesco si era stabilito fra il piano dell’essere e della ragione e quello, da un’altra parte, della realtà storica che, risultando di volta in volta di-
stesso alla cecità procuratagli dall’incontrollata passione? Se viceversa si legge nell’altro modo, e si traduce di conseguenza, il senso del discorso torna ad essere plausibile. Sebbene debba concedersi che la sintassi del periodo sarebbe riuscita più limpida se, in luogo dell’accusativo, Dante avesse usato il dativo, il suo pensiero è tuttava chiaro. Egli avrà voluto dire che a quanti siano usi a scavalcare con la volontà la ragione, mettendo quella innanzi a questa, è inevitabile che spesso (saepe) accada di comportarsi da ciechi; da ciechi che, anche per la loro cecità, non hanno occhi. Altra interpretazione il passo non consente. Ed è notevole, nonché istruttivo, il disagio in cui venne a trovarsi, di fronte a questo passo (letto secondo la edizione del Ricci), Alessandro Ronconi (Monarchia. Epistole politiche cit., p. 135), il quale intese così: « agli uomini che sogliono correre con gli occhi della ragione oltre il loro talento »; e, sia detto con il riguardo che si deve a un così insigne latinista, anche lui attribuì a Dante un pensiero privo di senso. Se gli occhi della ragione sono, come deve supporsi che siano, « razionali », come può accadere che spingano e conducano coloro che li posseggano oltre il loro « talento »?
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fettiva dell’uno e dell’altra, li richiedeva e richiamava attraverso l’appello al Sollen, al dover essere. Il male, la folle passione che ha nome cupidigia, – tutto questo è il contrario/opposto del bene che si realizza nel conseguimento del fine che Dio e la natura perseguono. Il falso è il contrario/opposto del vero. E come del male è difficile, e anzi impossibile, pensare che possa costituirsi in sé stesso come un’antitesi reale del bene, così è del falso. Se appartenesse alla natura delle cose che, nella finalità che ad esse è intrinseca, rispondono all’intenzione di Dio, dovrebbe dunque dirsi che anche il male, e, si badi, il male in sé, non quello che, al di là del velo che lo ricopre, rende manifesta la sua tela provvidenziale, è conforme all’intenzione di Dio? Evidentemente no, se Dio è concepito come l’autore del bene e come bene esso stesso, se il suo carattere sia la coerenza, e non la contraddittorietà. Se tuttavia, e quale che ne sia il carattere, del male si assume che « esista », forse che occorrerà farlo risalire a un principio creatore diverso da quello onde Dio crea il bene? Ma una tesi dualistica di questa cruda natura appartiene alla storia delle eresie: e non era Dante il pensatore che a questa storia potesse attingere i suoi pensieri. Donde allora il male, la cupidigia, quella patologica antecedenza della volontà all’intelletto che sempre invece dovrebbe precederla illuminandola, e che configura la patologia, appunto, delle età di decadenza? Se questa, schematicamente prospettata, è la difficoltà che, comunque la si studi e la si essenzializzi, si rivela intrinseca alla questione del male, difficoltà non diverse avrebbero dovuto esser poste nel luogo in cui Dante parlò dei nemici del vero e, con forte accentuazione polemica, li raggruppò in tre classi 14, e uno per uno li confutò 15. Che Dante 14
Mon. III III 7-10. Nel primo gruppo è palese che rientri lo stesso pontefice, spinto zelo fortasse clavium. Nel secondo, che è quello delineato con minore determinazione, non però con minore veemenza, sono compresi, secondo il Nardi, p. 440, i reges e i principes di cui si dice in Mon. I I 3-5. Vi sono infine i decretalisti; uno dei quali fu udito dallo stesso Dante asserire che le decretali sono esse il fondamento della fede (III III 10). Sulla questione delle decretali, cfr. R. Manselli, Decretali, ED, II, 332 a-333 b (e anche il suo Dante e l’Ecclesia spiritualis, 1965, in Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo cit., pp. 57-58, passim). 15 Mon. III III 8 ss. E cfr. Par. XII 83 ; e IX 133-35, 136-42. Per la vicinanza di questa posizione dantesca al pensiero dell’Olivi e alla Lectura super Apocalipsim, cfr. Manselli, ED, I, 333a, e Dante e l’Ecclesia spiritualis cit., pp. 75 ss.
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parlasse così, e in questo modo definisse il campo costituito dagli avversari della verità che, per contro, con la massima energia egli sapeva esser tale, non sorprenderà certo quando si consideri che questo avviene sempre che si argomenti contro una tesi, alla quale deve bene attribuirsi realtà se l’intento sia appunto di contrastarla e, infine, di disperderla al vento. Ma, senza che nel rilievo che sta per essere proposto debba cogliersi un qualsiasi atteggiamento che, fra censorio e pedagogico, sarebbe innanzi tutto sommamente ridicolo, qualche sorpresa da queste pagine è pur vero che nasce. Nasce quando, lasciato il piano della controversia e considerato che non erano semplici opinioni, era la verità, quella che Dante opponeva alle « falsità » sostenute dagli avversari, si consideri che un accenno ulteriore a questo problema del vero e del falso sarebbe pur stato necessario nel quadro di una concezione qual era la sua: una concezione per la quale, la verità essendo Dio, si sarebbe pur dovuto assumere che non avesse avversari che, oltre alla nota della falsità, anche, e in primo luogo, possedessero quella della realtà: che, se è, come potrebbe esser falsa, e non essere? La questione che si è posta è sollecitata dal testo di Dante e da quel che gli si muove dentro. Ha per conseguenza bensì la forma dell’astrattezza, quasi che il testo di Dante non la contenesse in sé e non ne prevedesse i termini: non però la sostanza. E accade infatti che necessariamente emerga non appena il testo sia, non si dice « sollecitato », quanto invece toccato e interrogato nei suoi punti più sensibili. Lo si vede, del resto, e sia pure per vie oblique nel luogo in cui, assumendo che nei suoi avversari la obstinata cupiditas avesse estinto il lumen rationis 16, Dante in sostanza escluse che con loro fosse addirittura possibile condurre la disputa che in qualche modo aveva pur intrapresa e avviata. E considerò non che fossero quel che tuttavia, per una parte, presumeva; ossia gli avversari della verità che, per esser tali, è innanzi tutto necessario che siano e abitino una regione del reale; ma, addirittura che non fossero, che fossero, come si dice, « niente », proprio come quel famoso tronco aristotelico che non parla e perciò non confuta e nemmeno conferma il principio, e che invece, se si mettesse a parlare e dicesse qualcosa, allora addirittura ne proverebbe l’invincibilità 17 anche se si prendesse il piacere di definirlo, questo suo qualsiasi dire, inconsi-
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stente. Ci si guarda bene, in questa sede, dallo svolgere il tema aristotelico al quale, solo incidentalmente, si è alluso. Era sufficiente, in effetti, far vedere come esso fosse in qualche suo tratto pronto ad emergere non appena il testo fosse stato adeguatamente interrogato. E piuttosto gioverĂ osservare come a consumare la serietĂ argomentativa e, addirittura, lâ&#x20AC;&#x2122;esistenza degli avversari della veritĂ , fosse, a giudizio di Dante, la cupidigia che sâ&#x20AC;&#x2122;era impadronita della loro anima e, come diceva, li aveva resi ciechi: fosse cioè qualcosa, che, mentre per un verso alludeva alla genesi dellâ&#x20AC;&#x2122;errore e al ÂŤ perchĂŠ Âť del suo insorgere, per un altro metteva in campo il male morale, ossia proprio quello che si poneva in fermo e irresolubile contrasto con lâ&#x20AC;&#x2122;intenzione di Dio e della natura; che è intenzione del bene, e come potrebbe esserlo del male? Che, dâ&#x20AC;&#x2122;altra parte, Dante si fosse posta la questione dellâ&#x20AC;&#x2122;errore senza, tuttavia, scendere alla sua radice e interrogarsi sulla possibilitĂ sua e del suo oggetto, è provato da quel che si legge a partire dal quarto paragrafo del quarto capitolo. Che, come è stato proposto e indicato, egli qui risalisse, oltre gli Elenchi sofistici 18, da lui direttamente ricordati 19, anche alla Fisica, dove, A 186 a 6 ss., Aristotele parla di Parmenide, di Melisso e confuta la loro idea dellâ&#x20AC;&#x2122;essere, è piĂš che probabile: anche se non sia da escludere la presenza di altri testi dai quali, per esempio, possa essergli derivata la distinzione, nellâ&#x20AC;&#x2122;errore, della materia e della forma; che è quella a cui egli affidò la parte sostanziale del suo argomento. Nel primo caso, il falso era preso di per sĂŠ. E si dava quindi un ÂŤ falso Âť del quale poteva perciò assumersi lâ&#x20AC;&#x2122;ÂŤ in sĂŠ Âť; e anche tuttavia si sarebbe dovuto chiedere se, come ÂŤ in sĂŠ Âť del falso e come ÂŤ in sĂŠ Âť assumibile, fosse altrettanto falso del falso di cui era lâ&#x20AC;&#x2122;ÂŤ in sĂŠ Âť. Nel secondo caso, concernente la forma, lâ&#x20AC;&#x2122;errore non era che un sillogismo sbagliato, comâ&#x20AC;&#x2122;è quello di coloro che, appunto, Ď ÎšĎ&#x192;Ď&#x201E;Κκ Ď&#x201A; Ď&#x192;Ď&#x2026;ΝΝογ ΜονĎ&#x201E;ιΚ, e dei quali Aristotele aggiunge che, Ď&#x2C6;ÎľĎ&#x2026;δ ΝιΟβ νοĎ&#x2026;Ď&#x192;Κ κι Ď&#x192;Ď&#x2026;ΝΝ γΚĎ&#x192;Ď&#x201E;Îż Îľ Ď&#x192;Κν ÎąĎ&#x2026;Ď&#x201E; ν Îż Îť γοΚ (186 a 7-8). E su questo, dopo quel che giĂ si è detto qui su, non conviene insistere oltre: anche perchĂŠ quel che se mai, in questa sede, potrebbe farsi è di osservare la confutazione, molto brillante in effetti, che Dante 18
Arist. Sofist. el. I 18, 176 b 29. Se, comâ&#x20AC;&#x2122;è probabile, è questo il passo che Dante ebbe in mente, non è facile capire come, tuttavia, e perchĂŠ potĂŠ ÂŤ contaminarlo Âť con il luogo della Fisica, dal quale gli provennero gli esempi di Parmenide e Melisso, che, aggiungendo quello di Brisso, riprese in Par. XIII 121-26. 19 Mon. III IV 4.
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svolse della tesi di coloro che, per sostenere la superiorità del pontefice sull’Imperatore, allegorizzavano sul sole e sulla luna, e il primo intendevano come il potere spirituale, la seconda, che ha luce riflessa e non propria, come il potere temporale, subordinato perciò al primo 20. Ma anche di questa argomentazione, e delle altre che appartengono alla pars destruens, e dunque essenzialmente controversistica del terzo libro, non occorre che in questa sede ci si debba occupare in forma specifica e continua. Come più volte è stato necessario ricordare, lo scopo di questa indagine non è di fornire della Monarchia il commento sistematico che, da parte di altri, quest’opera ha ricevuto e ancora, per certi suoi aspetti, meriterebbe di ricevere. A richiedere di essere notati sono piuttosto spunti specifici, che emergono dal contesto per la loro peculiarità, e s’impongono all’attenzione. Restando, per esempio, nell’ambito problematico del quarto capitolo, prima ancora che all’osservazione relativa alla luna, che non dipende, quanto al suo essere, dal sole, e una qualche luce comunque la possiede anch’essa 21, conviene concedere attenzione al più generale contesto nel quale anche il rilievo che la concerne trova il suo posto. Il contesto è quello che Dante costituì mediante l’asserzione che il sole e la luna non sono allegorizzabili come i poteri, l’uno gerarchicamente sottomesso all’altro, di cui favoleggiano i sostenitori della superiorità pontificia. La luna e il sole furono creati da Dio nel quarto giorno, l’uomo nel sesto 22: così che, se egli li avesse originariamente intesi come simboli dei poteri preposti alla salute dell’uomo e al suo mantenimento, avrebbe agito come un medico che, prima che il malato sia tale, diagnostica, con la malattia che non c’è, il farmaco atto a guarirla 23. L’argomento non era, per la verità, irresistibile: presupponeva infatti il tempo, il prima e il poi, ai quali, poiché lui ne è il creatore, per definizione Dio non è sottoposto. Ma non è su questo piano immediatamente controversistico che il senso dell’argomento dantesco richiede di essere valutato. E deve perciò piuttosto ricordarsi quel che, nell’ambito della questione, a lui sembrò rilevante. A differenza del sole e della luna, ai quali, nell’ordine temporale, l’uomo tiene dietro, i due poteri, il religioso e il politico, che debbono guidarne il cammino verso la felici-
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tà, ne presuppongono invece l’esistenza. E non, si badi, quella, innocente e felice, che il primo uomo conduceva prima che, per il peccato commesso, fosse, con la sua donna, estromesso dal paradiso terrestre e condannato alla sofferenza e alla morte; ma proprio l’uomo caduto e la generazione che, nel segno del peccato, ne era derivata nel tempo. I due poteri (e questo è il punto che, innanzi tutto, merita di essere notato) furono dunque voluti da Dio come altrettanti remedia contra infirmitatem peccati. E che Dio li derivasse insieme dal medesimo atto di volontà in modo che, conforme a questa loro genesi, indipendentemente l’uno dall’altro, svolgessero nel tempo storico la loro missione, – questo è bensì il suo argomento, costante e fondamentale. Ma è anche quello che, nel contesto che ora ci sta di fronte, rende evidenti le difficoltà 24 che già, per altro, avevano cominciato a dar segno di sé. 24 Le difficoltà alle quali si accenna nel testo non hanno a che vedere con quelle sollevate dal Vinay, pp. 216-19, e discusse dal Nardi, pp. 450-52. Vorrei però soltanto osservare che non è niente più che un brillante sofisma l’osservazione del primo, secondo cui, se lo si intendesse come « connaturale all’uomo », lo Stato dovrebbe esserlo anche al primo uomo, ossia nell’età edenica dell’innocenza. È un sofisma perché a rendere uomo l’uomo, e necessario a lui perciò lo Stato, è per l’appunto il peccato per il quale esso perdè tutto ciò di cui Dio l’aveva dotato, a partire dall’autosufficienza e non indigenza; e, quel che naturalmente è più, dall’immortalità. Sono queste cose, che l’« antica » madre « perdeo », a far sì che l’uomo divenisse, e fosse, l’uomo, al quale lo Stato è perciò connaturale nel segno della necessità. Se dunque non sarebbe stato male che di questa cosa ovvia il Vinay si fosse ricordato, anche, per certo, non gli avrebbe nuociuto la considerazione che, il concetto della naturalità essendo di origine non cristiana, ma classica, e a questa essendo altresì intrinseca l’altra dell’impulso che spinge l’uomo e la donna a cercarsi l’un l’altra (cfr., per es., Cic. de off. 1, 4, 1-2), anche questa connotazione non può, allo « stato » edenico, non essere estranea: almeno nel senso che non fu un impulso di questa natura a spingere i due primi uomini al « gustar del legno » (Par. XXVI 113). La tentazione sessuale e il suo soddisfacimento sono a rigore estranei al racconto di Gen. 3, per il quale l’albero proibito non è, qualunque cosa sia e rappresenti, la voluptas, – quella cioè che, fra primi, Filone Ebreo vi identificò. E comunque sia delle interpretazioni che ne derivarono e, attraverso il Beverland, passarono nella cultura europea del Sette/Ottocento, resta che l’ipotesi sessuale si esaurisce nella condana religiosa della mulier, che sarebbe sensus, e solo sensus, laddove ratio sarebbe invece il vir (bella ratio, occorre dire, se alla prima occasione cedette al senso e se ne lasciò travolgere!). Resta altresì che, per forte che in lui potesse essere la tentazione allegorizzante, né a lui, né, che io sappia, ad altri venne mai in mente di cogliere nella filigrana della concupiscentia il volto dello Stato; e pour cause, perché sarebbe sul serio stato il colmo del ridicolo. Conviene aggiungere, poiché siamo in argomento, che l’interpretazione in termini sessuali del racconto biblico è accolta da Dante, che la presuppone: allo scopo, per altro, di limitarla e di suggerire che nell’infrazione del divieto consisté il vero peccato, che fu perciò, come sostenuto da Tommaso d’Aquino, Summa theol.
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Le difficoltà in questione si riassumono in una: che, può essere schematizzata così. Da una parte, con schietta movenza cristiana e con un evidente richiamo ad Agostino 25, il regimen politico era un remedium, un freno, qualcosa che, presupponendo il peccato e considerandolo non redimibile quaggiù, nella sua radice, tiene appunto a bada la natura inferma del genere umano, al quale in tal modo impedisce di svolgere fino in fondo le sue negative potenzialità. Qualcosa insomma che, sebbene lo si potesse pur sempre considerare come un momento interno al piano disposto dalla provvidenza, in sé stesso conservava tuttavia, e in qualche modo, il segno della realtà a cui si contrapponeva; e divinizzarlo sarebbe stato impossibile. Da un’altra parte, invece, con opposta movenza, aristotelica e, entro i limiti che si sono visti, averroistica, il regimen politico realizzava nel suo fine l’attuazione dell’intelletto possibile e, con questa, la felicità che quaggiù « conseguire si può ». E, fra le due tesi, il conflitto non poteva essere più grande, più profondo, più radicalmente inconciliabile: più espressivo, deve aggiungersi, di un’altra, e ancor più netta, inconciliabilità, di cui questa non è che una conseguenza e un aspetto. Il riferimento è al contrasto, al conflitto, all’inconciliabilità, appunto, sussistente fra la concezione dell’intelletto, che, nel primo libro, Dante aveva posta a fondamento della sua idea dell’Impero, e questa pessimistica dottrina cristiana dell’umanità malata e corrotta, che dal di fuori, con il vincolo coercitivo della legge, conviene tenere a freno. Nel quadro della prima teoria, l’umanità realizza sempre e tutta la potenza dell’intelletto: la realizza e, senza incorrere nel naufragio che misteriosamente mise fine al « folle volo » dell’eroe antico, perviene alla felicità. Nel secondo, e non altrimenti che attraverso l’imposizione di un freno, realizza, non la felicità, ma niente più che il suo tenersi al di qua del baratro che, senza quel freno, senza quel vincolo coercitivo, inesorabilmente l’attrarrebbe a sé. Che, di fronte a questo testo, si sia, da parte di alcuni, potuto parlare della naturalità (in senso aristotelico) dello Stato 26, ha quasi del-
II II q. c XIII, 1) di superbia: cfr. ancora Par. XXVI 113-17 (e anche XXXII 4-6: « la piaga che Maria richiuse e unse,/ quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi/ è colei che l’aperse e che la punse »). Sulla storia dell’interpretazione « sessuale » del racconto biblico, può vedersi il libro di A. Gerbi, Il peccato di Adamo ed Eva. Storia dell’ipotesi di Beverland, Milano 1933. 25 Cfr., per questo, cap. I, n. 18. 26 Il passo del de regimine principum III I 6, di Egidio Colonna espone una teoria aristotelico/tomistica dello Stato nascente dalla necessità che, naturaliter, gli uomini av-
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l’incredibile, se si pensa ai luoghi in cui a una siffatta teoria proprio Dante fece riferimento, utilizzandola. La teoria della naturalità delle forme politiche sta, come ben sappiamo, nel quarto trattato del Convivio; e con quella che, per contro, compare qui, in questo capitolo della Monarchia, non ha nulla a che vedere. Lì, nel Convivio, era una natura teleologicamente orientata a raggiungere un fine positivo quella che, attraverso una serie connessa e non casuale di gradi, perveniva al risultato della monarchia universale; e alla sua radice presupponeva qualcosa di altrettanto positivo del fine a cui l’uomo era destinato: la sua natura socievole. Ma qui, nel passo della Monarchia, che sta provocando queste considerazioni, di quale natura socievole lo Stato sarebbe espressione? Di quale teleologica necessità? Non della coercizione che (se, con la debita cautela, si vuole adoperare questa formula) la natura impone a sé stessa, configurandosi come procedente verso un fine che le sia intrinseco, – non di una coercizione siffatta potrebbe qui parlarsi. Ma se, mai, di una coercizione artificiale, e non naturale: atto di un individuo o di un’istituzione deputati al contenimento, alla correzione, alla punivertono in sé di magis pacifice vivere et magis resistere hostibus, che non ha a che vedere con quella del remedium e del freno imposti dalla legge per contenere l’inclinazione al male dell’humanum genus. I due concetti presentano una diversa configurazione interna; e in Dante, che li accoglie entrambi, non si dà, dall’uno all’altro, alcuna possibilità di passaggio. Nel suo pensiero questi due atteggiamenti concettuali, quello aristotelico/averroistico del primo libro, e questo del remedium, coesistono, de facto e non de iure, in quanto, lungi dal poter essere contenuta, spiegata e risolta nel quadro della prima concezione, la quaestio della cupidigia ricercava un altro e diverso orizzonte teorico e, rispetto al primo, era inevitabile che si rendesse autonoma, nel segno, occorre aggiungere, del pessimismo agostiniano. È a questa coesistenza di concetti disparati, non coordinabili in un quadro, e non riconducibili perciò alla coerenza che, nella distinzione, vi scorgeva, per es., l’Ercole, Per la genesi del pensiero politico di Dante, I, La base aristotelicotomistica, II, La base cristiano-patristica e l’idea dell’Impero universale, in Il pensiero politico di Dante, II, 43-131, 133-64 (cfr. anche, con più finezza, ma anche con minore impegno, A. Passerin d’Entrèves, Dante as a political Thinker, Oxford 1952, pp. 16-17), – è a questa coesistenza che occorre guardare per intendere e valutare la presenza del concetto agostiniano (ben compreso, in quanto tale, dal Nardi, Saggi di filosofia dantesca cit., pp. 216 ss., 224 ss., passim, e non invece, mi sembra, dal Parodi, Del concetto dell’Impero cit., pp. 143-44, che interpreta la coercizione e la forza, inconcepibili nell’Eden, come se fossero le due guide della concezione « naturalistica »): senza pretendere che, in questo suo essere incoerente, Dante non lo sia, e fra le due concezioni si dia pieno e logico passaggio. – Inconsistente ed estrinseca la considerazione conclusiva del Vinay che (p. 219) pretende di risolvere il problema (naturalità/non naturalità) riconducendo il primo libro alla delineazione dell’« astratto concetto dell’Impero », e il terzo all’intuizione e determinazione storiche di questo e della Chiesa.
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zione. In questa specifica accezione, in questa dimensione, in questo suo peculiare accento, la legge ha un volto che, a causa della sua artificialitĂ , ben potrebbe essere definito come ÂŤ positivo Âť. Se è cosĂŹ, a unâ&#x20AC;&#x2122;altra considerazione, che già è stata formulata, ma per la sua importanza richiede di esserlo ancora, deve darsi ulteriore corso. Riguarda la singolare scissione che, avendo alla sua radice quella che si determinò fra Cristianesimo e aristotelismo, pone da una parte il fine, qual è pensato in questâ&#x20AC;&#x2122;ultimo, e da unâ&#x20AC;&#x2122;altra quello che si definisce ed è pensato nel primo. Nel quadro che, in linea generale, può esser detto aristotelico, sia la natura operante nello schema del quarto trattato del Convivio, sia lâ&#x20AC;&#x2122;intelletto possibile teorizzato nel terzo del primo libro della Monarchia, si realizzano senza che mai vi intervenga e si renda percepibile il segno oscuro del pessimismo cristiano. La stessa provvidenza che, piĂš o meno visibile, sottende questi due schemi concettuali, non ha in realtĂ la forza bastante ad imporre la sua specifica tonalitĂ cristiana a due concetti che, nella loro tessitura, si presentano cosĂŹ saldi che sarebbe essa a esserne condizionata se vi entrasse in contatto. Sia nel quadro della natura, sia in quello dellâ&#x20AC;&#x2122;intelletto, il fine è conseguito nel suo significato piĂš pieno. E a esprimere il concetto di questa compiutezza può ben usarsi il termine greco Ď&#x201E;ξΝξΚ Ď&#x201E;ΡĎ&#x201A;, che vuol dire bensĂŹ anche ÂŤ finalitĂ Âť, ma nel senso, appunto, di cosa compiuta, alla quale niente câ&#x20AC;&#x2122;è da aggiungere ed è perciò ÂŤ perfetta Âť. Nellâ&#x20AC;&#x2122;altro quadro, invece, il fine non è se non il contenimento opposto al compiersi della corruzione; che, altrimenti, non potrebbe essere contrastata e impedita. La differenza è radicale. E poichĂŠ è stata fissata con sufficiente nettezza, nonchĂŠ spiegata nella sua genesi, quel che se nâ&#x20AC;&#x2122;è detto può bastare. Ă&#x2C6; una solenne banalitĂ dire che, non solo come poeta, ma anche come autore di prose volgari e latine, Dante possiede come nessun altro il genio della velocitĂ , della concisione, dellâ&#x20AC;&#x2122;estrema potenza linguistica. Ă&#x2C6; una banalitĂ non perchĂŠ non sia vero che queste qualitĂ gli appartengono in sommo grado, ma perchĂŠ, essendo vero, mille volte lo si è esaltato per questo; e ripetere senza necessitĂ quel che giĂ sia stato detto, ed è ovvio, questo, sopra tutto, se lo si riferisca a uno scrittore veloce, conciso e non incline a tornare sulle sue parole, â&#x20AC;&#x201C; questo è banale. Non lo è invece dire che tale è la sua velocitĂ , tale la concisione, tale la potenza espressiva, che quando pur sembri che delle cose sue si sia parlato con sufficiente larghezza, lâ&#x20AC;&#x2122;impressione di averne detto poco e male comunica una sorta di malessere: per rimediare al quale è
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al rischio della prolissità che ci si espone. Un rischio che deve, comunque, essere evitato. Per le aggiunte, come per gli eventuali ritorni autocritici, si darà, forse, un tempo. Dante non è, per chi lo studi sul serio, l’autore di una stagione. È l’autore di una vita. E poiché, d’altra parte, non è da tutti affrontarlo in giovane età, a nascerne è talvolta un malinconico paradosso; che impone la sua forza e non può non essere riconosciuto e accettato. Che altro dire? Quel che, nei limiti che non è stato possibile superare, si proponeva di raggiungere, questo saggio lo ha raggiunto. Non resta perciò da dire se non questo: che è giunto al termine.
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Vita nuova X 2-3 XLII 2-3
151 151
Rime Amor che ne la mente mi ragiona, Ibid. 73-86 Ibid. 21 ss. O dolci rime che parlando andate, 7-8 Oltre la spera che più largo gira, Parole mie che per lo mondo andate, I’ son pargoletta bella e nova,
76 2 7 146 151 146 149
Convivio Le dolci rime d’amor ch’io solia, 5-8 21 ss.
1 ss., 5 7
I I
I
II II III III III III III III III III III III III III III III III III III III
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1 3
43, 62 91
IV
II
1-9 7
147 144, 150
XII
4 4-6 II 7-8 II 14 III 12 VI 7 VI 7-8 VI 9 VI 9-10 IX 14 X 3 XIII 4-5 XIII 5 XIII 5-6 XIII 7 XIII 8 XV 1-2 V 2
62 66 67, 69 66, 80-81, 216-17 79 69 76-77 78 86 62 2 91 81 209 87-88 88-89 69 4
II II
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316 III III III III IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV IV
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XV XV XV XV
INDICE DEI PASSI DANTESCHI CITATI E COMMENTATI
3-4 5 7-8 9-10
70 ss. 70 ss. 73 ss. 74-76
10 3 III 10 IV 1-3 IV 3-4 IV 5-6 IV 6 V 1 V 3-9 V 3 ss. VI 8 VI 15 VI 17-18 VI 19 VI 20 VIII 10-11 VIII 11-16 VIII 14-15 IX 1-2 IX 4-6 IX 4-7 IX 7-8 IX 10 IX 16 XII 14-19 XIV 11 XX 9
7 47 12 15 155 17-18, 36 ss. 41 36 ss. 36 ss., 289 158 44 57 44-45 46-47 46 47, 49, 50 47 51 54 55 193 56 41 43 125 189 201
I
III
De vulgari eloquentia I VI 2
198
Epistole I 4 V 3 V 5 V 9 V 10 VI 2 VI 2-3 VI 4 VI 25 VII 2 VII 3
96 98 98 98-99 98-99 99, 101 42 42-44 180 102-103 102-103
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INDICE DEI PASSI DANTESCHI CITATI E COMMENTATI
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XII 4 XII 9
177 177
Monarchia I I 1 I I 2-3 I II 1 I II 4 I II 5 I II 5-6 I II 6 I III 1 I III 2-3 I III 3 I III 4-5 I III 5-9 I III 6-7 I III 7 I III 8 I III 9 I III 9-10 I III 15 I IV 1-2 I IV 2-3 I IV 5-6 I VI 1 I VI 2-3 I VI 3-4 I VIII 2 I VIII 4-5 I XI 4 I XI 11-12 I XI 20 I XII 6 I XIV 3 I XIV 6 I XIV 7 I XIV 7-11 I XV 1 I XVI 2-3 I XVI 3 I XVI 4
190 190-191 194 191 193 191 193 198 194 203 205 206 207-208 209 232 231 213 202 241 241-42 242 244 244 245 246 247 247 248 248 184-86 244 265 271 272 198, 250 250 250 178
II II II II II
198, 254 254 255 258 259
2 2 II 2-3 II 4 II 5 I
II
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318 II II II II II II II II II II III III III III III III III III III III III III
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5-6 7 II 8 V 1-2 V 3 X 1 X 4 X 4-5 XI 2-3 XI 5-6
262 262 262, 263 272-73 275-76, 277 280 281 280 289 283
II II
2-7 4 II 5-7 III 4-5 III 8 ss. IV 3 IV 4 IV 12 IV 13-14 XV 7-15 XV 9 XV 9-10
302 302 302 303 305-306 197 307 308 197, 308 162, 299 300 300
II
II
Commedia Inferno I 82-87 I 101 ss. I 109-10 II 16-24 II 24 II 23-24 II 100-102 VI 74-75 VI 85 XIII 139-48 XVI 38-45 XXVII 25-30 XXVII 85 XXVIII 103-108 XXVIII 124-25
10 179 ss. 181 179 163 38 ss. 153 111 112 113 112 110 129 112-13 112-13
Purgatorio III 34-35 VI 67 ss. VI 91-92 VI 150 VII 91-96
117 118 123 178 124
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IX 109-10 XI 115-17 XIV 16-18 XIV 28-52 XIV 103-11 XIV 125-25 XVI 1-2 XVI 67-72 XVI 67-81 XVI 67-105 XVI 85-88 XVI 96 XVI 106-107 XVI 106-108 XVI 115-29 XVI 141-45 XVII 94-111 XVIII 28-33 XVIII 118-23 XX 82-93 XXV 63 XXIX 107 XXX 52 XXX 73-75 XXX 115-41 XXX 133-35 XXXII 51 XXXII 61-63 XXXII 109-17 XXXII 118-23 XXXII 148-60 XXXII 154 XXXIII 37-39 XXXIII 85-86 XXXIII 85-90 XXXIII 89-90
156 155 120 121-22 122-23 122 120 124 24-25 101 125 21 126 96 127-28 128 25-26 118-19 119 129 117 132 137 142 143-44 152 135 137 160 140 141 140 141 149 144 144
Paradiso VI 2 VI 7-9 VI 10-27 VI 16-18 VI 41 VI 55-56 VI 73-81 VI 91-93 VI 94-96
167-68 170 173 126 173 163 163 164 127
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VII 46-47 VII 69 VIII 127-28 VIII 133-35 X 133-38 XIII 52-87 XIII 67 XIII 67-78 XV 99 XV 121-26 XVI 67-68 XVI 82-83 XVI 136-41 XX 55-57 XXI 124-41 XXII 89-96 XXIX 76-81 XXXI 52-60
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138 262 262 256 59 256 262 260 106 178 115 211 108 165 162 17 87 154
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INDICE DEI PERSONAGGI DANTESCHI Aldobrandi, Tegghiaio, 96, 111, 112. Amidei (famiglia), 109, 177. Anastagi (faliglia), 123. Beatrice, 132, 139, 140, 141, 142, 143, 144, 145, 147, 148, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 157, 158. Berti, Bellincione, 199. Bertran de Born, 112.
Lamberti, Mosca, 96, 111, 112. Lucia, santa, 153, 154.
Cacciaguida, 106, 128, 176, 178. Catone, 239. Cavalcanti, Cavalcante de’, 9. Ciacco, 111. Corrado da Palazzo, 127.
Maometto, 112. Marco Lombardo, 24, 101, 128, 132.
Enea, 39, 278.
Rinieri da Calboli, 120, 121, 122. Rodolfo I, 124. Rusticucci, Jacopo, 96, 111, 112.
Farinata degli Uberti, 111, 113. Federico Tignoso, 122. Fifanti, Arrigo, 111. Francesca da Rimini, 239. Fucci, Vanni, 96. Gaia da Cimino, 128. Gherardo, 127.
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Giacomo di sant’Andrea, 113. Guerra, Guido, 96, 111, 112. Guido da Castello, 127. Guido da Montefeltro, 110. Guido da Prato, 122. Guido Del Duca, 120, 121, 122, 123.
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Oderisi da Gubbio, 155.
Saltarelli, Lapo, 199. Sordello da Goito, 118. Stazio, 116. Ugolino della Gheradesca, 96. Ulisse, 18, 73, 211, 239.
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INDICE DEI NOMI Agapito I, 126, 173. Ageno, F., 72. Agostino, Aurelio sant’, 8, 12, 20, 21, 22, 56, 172, 255. Alberto I d’Asburgo, 119. Alberto Magno, 65, 70, 75. Alessandro Magno, 249. Alessandro di Roes, 286. Alighieri, Pietro, 181. Anassagora, 223. Antonio, Marco, 163. Ario, 141. Aristotele, 10, 12, 14, 17, 30, 43, 44, 46, 47, 48, 52, 55, 56, 57, 62, 75, 76, 77, 82, 92, 93, 191, 193, 197, 198, 200, 201, 203, 206, 211, 212, 222, 223, 224, 226, 227, 230, 231, 244, 258, 259, 265, 273, 274, 306, 307. Arnaldi, G., 9, 129. Arrigo VII, 43, 98, 180, 184, 190, 295. Augusto, Ottaviano Giulio Cesare, 158, 163, 164, 172, 251, 281, 282. Averroè, 91, 116, 117, 203, 208, 210, 221, 227, 228, 236, 237, 240. Baeumker, C., 64. Barabbàs, 284. Barbaro, Ermolao, 166. Barbi, M., 1, 38, 39, 40, 65, 89, 90, 96, 104, 128, 135, 144, 145, 146, 149, 150, 152, 196, 197, 263. Battaglia, S., 151. Belisario, 173. Benvenuto (Rambaldi de) da Imola, 126, 133, 181.
Beverland, Adrian, 309. Boccaccio, Giovanni, 38, 39, 158. Boezio, Severino, 56. Bonaventura di Bagnoreggio, 161. Bonifacio VIII, 130. Bosco, U., 147. Boureau, A., 160. Branca, V., 158. Brisso, 308. Brugnoli, G., 7. Bruni, Leonardo, 43, 99. Bruto, Giunio Lucio, 173. Buonaiuti, E., 160. Buondelmonti, Buondelmonte de’, 108, 109, 177. Busnelli, G., 1, 2, 3, 59, 72, 281. Buti, Francesco da, 135. Caetani, Benedetto (poi Bonifacio VIII), 131. Calasso, F., 128, 130. Calderone, S., 126. Camillo, Marco Furio, 173. Cangrande della Scala, 92. Capeto, Ugo, 132. Capitani, O., 96, 126, 131, 160, 161, 174. Carlomagno, 127, 163, 173. Carneade, 275. Carrol, J.S., 144. Casella, M., 166. Cathala, M.R., 17. Catone, Marco, 173. Cavalcanti, Guido, 9, 10, 139, 158. Cecchini, E., 7. Chiappelli, A., 263.
A causa della difficoltà che d’incontra a distinguere con nettezza i due casi, il nome di Virgilio compare in questo elenco sia come quello del personaggio storico sia come quello del personaggio della Commedia.
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INDICE DEI NOMI
Chiaudano, M., 263. Chiavacci Leonardi, A.M., 161, 292. Cian, V., 160, 180. Cicerone, Marco Tullio, 14, 56, 309. Cincinnato, Lucio Quinzio, 173. Cino da Pistoia, 1. Clemente V, 295. Cleopatra, 163. Cola di Rienzo, 100. Colonna, Giacomo, 130. Colonna, Pietro, 130. Comparetti, D., 32. Contini, G., 1, 9, 146, 149. Corti, M., 11, 58, 147, 148. Cosmo, U., 104, 160. Costantino, 95, 134, 135, 136, 140, 165, 169, 179. Coste, J., 130. Croce, B., 104, 118, 137. Cullmann, O., 285, 287. D’Ancona, A., 141, 180. Davis, Ch. T., 160, 179, 181. Del Lungo, I., 40, 135. Dentato, Manlio Curio, 173. De Robertis, D., 2, 3, 11. De Sanctis, F., 103, 107. Dibelius, M., 285. Dionisotti, C., 166. Döllinger, J. von, 160. Domenico, san, 160, 162. D’Ovidio, F., 36. Duprè Theseider, E., 130. Egidio Romano (Egidio Colonna), 273, 274, 311. Ercole, F., 38, 128, 130, 235, 311. Erode Antipa, 284. Fabrizio, 173. Fassò, G., 270. Federico II, 11, 41, 43. Federzoni, G., 152. Ferretti, G., 39. Ficino, Marsilio, 249, 303. Filetico, Martino, 166. Filippo IV, il Bello, 129.
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Filone Ebreo, 309. Finke, H., 130. Flori, E., 196, 197. Folena, G., 36, 95. Forni, A., 96, 161. Francesco d’Assisi, san, 160, 162. Frugoni, A., 7, 8, 97, 177. Gentile, G., 209, 210, 226. Gerbi, A., 310. Giannini, C., 135. Gilbert, A., 11, 17. Gilson, E., 44, 89, 161, 228, 235. Giovanni, evang., 284. Giovanni XXII, 184. Giustiniano, 126, 162, 169, 172, 173, 174. Gorni, G., 152. Grabher, C., 112, 121. Gramsci, A., 107. Gregory, T., 65. Grignaschi, M., 251. Grossi, P., 264. Grundmann, H., 160, 286. Guerri, D., 39. Hoffmann, E., 64. Inglese, G., 17, 40, 62, 77. Jean de Jandun, 229. Jordanus di Osnabrück, 286, 288. Kaske, R.E., 181. Kelsen, H., 271. Kocken, E.J., 185. Kraus, F.X., 160. Kristeller, P.O., 249. Lacaita, G.F., 126. Lana, Jacopo della, 123, 181. Latini, Brunetto, 126. Lattanzio, Firmiano, 275. Liber de causis, 63, 64, 66. Lombardi, B., 38. Luca, evang., 283, 284. Lucrezia, 173. Lucrezio Caro, Tito, 13.
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INDICE DEI NOMI
Maccarrone, M., 292. Machiavelli, Niccolò, 108, 109. Mayer, F.G., 8. Manselli, R., 96, 130, 131, 140, 141, 150, 160, 305. Mariotti, S., 173, 185, 187. Marti, M., 148. Martina, A., 8. Martinelli, B., 295. Mattalia, D., 146. Matteini, N., 210. Mazzantini, P., 184. Mazzarino, S., 8, 126, 283. Mazzoni, F., 7, 97, 152, 184, 185. Medina, A., 180. Melisso, 307. Mellone, A., 65. Mengaldo, P.V., 7, 36, 95. Minio Paluello, L., 11. Moerbeke, Guglielmo di, 11. Momigliano, A., 105. Monteverdi, A., 11. Moore, E., 172. Morghen, R., 161. Moschetti, M.M., 77.
Parodi, E.G., 36, 38, 40, 72, 95, 97, 133, 135, 144, 160, 177, 185, 235, 311. Pasquali, G., 32. Pasquini, E., 161. Passerin d’Entrèves, A., 311. Pastore Stocchi, M., 185. Pattin, A., 63. Pellegrini, F., 72. Pernicone, V., 1, 72. Petrarca, Francesco, 100. Petrocchi, G., 1, 104, 146. Piattoli, R., 104. Pietrobono, L., 40, 89, 90, 95, 121, 134, 135, 144, 145, 149, 181. Pilato, Ponzio, 283, 284, 285, 287. Pincherle, A., 8. Piron, S., 160, 161. Polono, Martino, 126.
Nardi, B., 2, 4, 7, 11, 26, 59, 62, 64, 65, 66, 72, 75, 77, 89, 97, 125, 135, 140, 144, 151, 161, 184, 185, 189, 190, 193, 203, 209, 226, 229, 235, 236, 244, 254, 256, 275, 277, 295, 299, 303, 305, 309, 311. Nerone, 43.
Sallustio, Crispo, 21. Salvatorelli, L., 196. Sapegno, N., 17, 38, 118, 121, 124, 130, 132, 161, 166. Sarolli, G.R., 181. Sasso, G., 13, 100, 108, 109. Scartazzini, G.A., 111, 141. Schiaffini, A., 148. Seneca, Lucio Anneo, 273. Sestan, E., 14, 126, 174. Sigieri di Brabante, 59, 161. Silverstein, Th., 272. Silvestro I, 126. Simonelli, M., 62, 147. Solerti, A., 43, 99. Solmi, A., 196, 197, 263. Spiazzi, R.M., 17. Stauffer, E., 285. Straub, J., 8. Stuart Crawford, F., 203. Susemihl, Fr., 11.
Oliger, L., 130. Olivi, Pietro di Giovanni, 96, 131, 160, 161, 305. Omodeo, A., 284, 285, 288. Orosio, Paolo, 8, 12. Ottaviano, Giulio Cesare, vedi Augusto. Ottimo (L’) Commento, 123, 181. Padovani, V.A., 77. Paolo di Tarso, 140, 288. Paradisi, B., 264. Paratore, E., 166, 169, 173. Parmenide, 307.
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Quaglio, A.E., 160. Ricci, P.G., 185, 244, 254, 303, 304. Ristoro d’Arezzo, 12. Ronconi, A., 304. Russo, V., 117.
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INDICE DEI NOMI
Tacito, Cornelio, 303. Tiberio, 137, 158, 164, 251, 281, 282, 289. Tito, 164, 172, 173. Tocco, F., 141, 142. Toynbee, P., 272. Tolomeo da Lucca, 33, 198. Tommaso dâ&#x20AC;&#x2122;Aquino, 13, 17, 55, 59, 65, 67, 70, 117, 161, 192, 225, 226, 246, 270, 271, 274, 309. Tondelli, L., 161. Torquato, Tito Manlio, 173. Torraca, F., 40, 272.
Valerio Massimo, 189. Vallone, A., 11, 90, 185. Vandelli, G., 1, 72, 111, 141, 281. Vasoli, C., 2, 3, 4, 5, 11, 17, 57, 59, 70, 73, 80, 81. Vernani, Guido, 210. Vinay, 8, 184, 189, 190, 238, 239, 248, 270, 272, 277, 286, 292, 309, 311. Virgilio, Marone Publio, 9, 10, 20, 25, 36, 34, 35, 102, 110, 113, 166.
Ubertino da Casale, 96, 160.
Zingarelli, N., 40, 104, 184, 185.
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Wegele, F., 107. Witte, C., 185.
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INDICE GENERALE
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Pag.
VII
Avvertenza . . . . .bibliografica . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
IX
Capitolo . . . . I –. Storia . . .romana . . e. impero . . . nel. «.Convivio . . .» . . . . .
»
1
Capitolo . . . . II . – .Aristotele . . . nel . .« Convivio . . . ». . . . . . . . . .
»
57
Capitolo . . . . III. –. Attraverso . . . .la .« Commedia . . . .» . . . . . . . . .
»
93
Capitolo . . . . IV. – . L’intelletto . . . . e l’Impero . . . . . . . . . . . . . .
»
183
Capitolo . . . . V . – .Storia . . romana . . .e storia . . .cristiana . . . . . . . . . .
»
253
Capitolo . . . . VI. – . L’Impero . . . e. la . Chiesa . . . . . . . . . . . . .
»
291
Indici . . . dei. passi . . danteschi . . . citati . . e. commentati . . . . . . . . . . . .
»
315
Indice . . . dei. personaggi . . . . danteschi . . . . . . . . . . . . . . . .
»
321
Indice . . . dei. nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
323
CCCXXVIII
PRESENTAZIONE