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LEGGERE ÈÈ INCONTRARE INCONTRARE LEGGERE
È E R E G LEG INCONTRARE Si andava per funghi Si andava per funghi sui tappeti di muschi dei castagni. Si andava per grilli e le lucciole erano i nostri fanali. Si andava per lucertole e non ne ho mai uccisa una. Eugenio Montale
CANTO
E non è mica vero Per iniziare un anno tutti insieme occorre che ciascuno di noi “ci sia”!
Ascolto Quadri da un’esposizione di Modest Petrovič Musorgskij
La composizione racconta di una visita in un museo, descrivendo pian piano tutti i quadri che si vedono.
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Heidi scopre le montagne Heidi si mise a sedere vicino a Peter e si guardò intorno. La valle si stendeva giù, avvolta nella luce del mattino. Di fronte c’era un grande, candido nevaio che si stagliava contro il blu cupo del cielo; a sinistra si ergeva un enorme masso roccioso fiancheggiato da alti picchi che si innalzavano verso il cielo e che sembravano guardare Heidi severamente. La bimba stava seduta lì, muta come un pesce. Intorno a lei regnava un silenzio profondo: solo il vento passava lieve sulle campanule azzurre. Heidi non si era mai sentita così bene e non desiderava altro che restare sempre così. Passò un bel po’ di tempo. Heidi guardava gli alti monti intorno con tale intensità che alla fine le pareva avessero un volto conosciuto e che la guardassero, a loro volta, come vecchi amici. E così la giornata era trascorsa in fretta. Il sole già si preparava a calare dietro le montagne. Heidi si rimise seduta guardando in silenzio le campanule blu che risplendevano alla luce del tramonto: anche le rocce, in alto, cominciarono a scintillare mandando bagliori violenti. Heidi saltò in piedi gridando: «Peter, Peter al fuoco, al fuoco! Tutte le montagne bruciano, e anche il nevaio, e il cielo. Guarda lassù come ardono le rocce! Guarda le rocce, gli abeti: brucia tutto!». «È sempre così» disse calmo Peter, agitando in aria il bastone «ma non è fuoco». «Ma allora cos’è?» domandò Heidi. «È una cosa che viene da sé» rispose Peter. «Ma guarda, guarda: tutto diventa rosa. Guarda quelle rocce aguzze coperte di neve. Come si chiamano Peter?». «Le montagne non hanno un nome», osservò Peter. E Heidi rimase delusa. Tornarono a casa e alla sera Heidi si mise a sedere sulla seggiola alta davanti alla ciotola del latte con il nonno a fianco. «Perché nonno, le montagne non hanno un nome?» domandò Heidi. «Ma ce l’hanno il nome,» rispose il nonno «e se sei capace di descrivermene una, ti dirò come si chiama». Allora Heidi si mise a descrivere la montagna rocciosa con due alte torri così come l’aveva vista.
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LEGGERE ÈÈ INCONTRARE INCONTRARE LEGGERE Il nonno rispose che la conosceva e che si chiamava “Nido di falco”. «Ne hai viste ancora?» chiese. Heidi allora descrisse la montagna con il grande nevaio che era diventato rosso fuoco, poi rosa e alla fine si era impallidito. «Anche questa la conosco» disse il nonno «è la Scesaplana». «Allora, ti è piaciuto andare al pascolo?» proseguì il nonno. Heidi gli raccontò tutto e di come era stato tutto bello lassù, soprattutto il fuoco al tramonto. Johanna Spyri, Heidi, Piemme
ergeva: innalzava. Sei stato in qualche bel luogo durante la scorsa estate? Racconta.
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La conchiglia in segno di amicizia
Sullo scoglio «tutto esaurito»
Sono sulla spiaggia di Valverde di Cesenatico, a fare con la mamma e il papà le mie vacanze al mare. Mi sento felice; mi tuffo e mi rituffo, nuoto e ho tanta voglia di giocare. Sulla spiaggia la solita coloratissima confusione di ombrelloni, di sedie a sdraio, cuscini, costumi, palloni, secchielli, bambini. Tutto questo mi mette allegria. L’ombrellone davanti al nostro ripara una simpatica famiglia tedesca: padre, madre e tre figli. Vorrei intendermi con la piccola Anne, darle magari un bacino. Ma niente da fare: lei è timida, non capisce le mie parole, non si fida. Provo a mostrarle una conchiglia per attirarla, le dico: “Vieni, Anne!”. Ma la bimba non si avvicina, ha un’aria incerta e buffa sul visino. Per fortuna, scopro che nella pensione in cui alloggiamo, c’è una signora di Bolzano che è sposata ad un austriaco e parla ugualmente bene l’italiano e il tedesco. Mi rivolgo subito a lei, le porgo un foglio e la prego di scrivermi in tedesco la frase: “Vieni, Anna: prendi la conchiglia!”. “Komm, Anne: nimmdie muschel”. Il mattino dopo, prendo una bella conchiglia, la mostro alla piccola Anne e le rivolgo le parole che mi ha scritto la signora. Allora, la bambina mi sorride e si avvicina; poi, senza prendere la conchiglia, ne posa un’altra sul palmo della mia mano, in segno di amicizia. Sono felice. L’abbraccio e le do un bacino. Ormai, siamo amiche.
Non è rimasto un solo appartamento libero per tutta l’altezza dello scoglio semisommerso. Tutti i piani sono occupati, dalla cantina al tetto. Per cominciare, lo scantinato se l’è preso il granchio. Arcigno e indipendente, entra ed esce senza chiedere permesso a nessuno; ed è anche estremamente abitudinario, tanto che in base ai suoi andirivieni si potrebbe regolare l’orologio. Al piano terra abita una coppia di pesci alquanto stravaganti: vanno e vengono a capriccio, nelle ore più impensate. Hanno fatto crescere sul loro balcone un’infinità di alghe che servono anche da riparo dagli sguardi indiscreti. Al secondo e al terzo piano sono venute ad abitare due famiglie di cozze molto numerose e assai rumorose, che comunque non si muovono mai. Al terzo, abitano le patelle. Sono molto gentili ed educate, portano una specie di mantellina a cappe, e non escono mai di casa. All’ultimo piano, quello lussuoso con terrazza e piscina pensile, ci stanno dei gamberi che conducono una vita molto ritirata. Infine, sul tetto, si posano di tanto in tanto due gabbiani che vanno e vengono a piacimento. Anne-Marie Dalmais, Annie Bonhomme, 366… e più storie della natura, Fabbri Editori
Maria Mortillaro, Qui crescono le margherite, EP
Dove trascorre le vacanze estive, la protagonista? Con chi? Che cosa le piace fare?
Con chi non riesce a comunicare? In che modo risolve il suo problema? Hai conosciuto un nuovo amico durante le vacanze? Racconta.
arcigno: imbronciato. pensile: sospesa.
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In gita Un giorno papà ha detto: «Domenica andiamo a farci una bella gita!». «Urrà!» abbiamo gridato io e Jonas. «Urrà per la gita!» ha detto Lotta. La domenica la mamma si è alzata presto per fare le frittelle e imburrare i panini e preparare i thermos con la cioccolata per noi e il caffè per lei e il papà. Avevamo anche la gazzosa. Quando il papà ha tirato fuori la macchina ha detto: «Adesso vediamo se c’è abbastanza posto in questo piccolo catorcio. Dobbiamo farci stare la mamma e Fracassone e Fracassina e Frastornina e ventisei frittellone e chissà quanti panini imburrati…». Siamo andati in un posto su un laghetto. Il papà ha messo la macchina lungo una stradina nel bosco e abbiamo portato il pranzo al sacco sulla riva. Nel lago c’era una lunga passerella di legno e io e Jonas e Lotta volevamo andarci per vedere se nell’acqua c’erano dei pesci. La mamma si è subito stesa nell’erba e ha detto al papà: «Io mi piazzo qui e non mi sposto per tutto il giorno. Oggi tocca a te star dietro ai bambini!». Il papà ci ha accompagnati sulla passerella e ci siamo distesi a pancia in giù e abbiamo visto un sacco di pesciolini piccolissimi che nuotavano veloci. E il papà ha costruito delle canne da pesca con dei lunghi bastoncini che ha trovato nel bosco e ci ha attaccato un filo e un ago come amo. Ci abbiamo infilato delle briciole di pane e siamo rimasti lì per un pezzo, ma non ha abboccato neanche un pesce. A quel punto siamo andati nel bosco, anche se la mamma ha detto che non dovevamo allontanarci troppo. Abbiamo visto un uccellino infilarsi in un cespuglio e poi volare via di nuovo, e allora siamo andati a guardare e lì in mezzo ai rami, quasi a terra, c’era un nido con quattro piccole uova azzurrine. Erano le più carine che avessi mai visto! Lotta voleva restare a guardare il nido per tutto il tempo e ha avvicinato Orso per farlo vedere anche a lui. Ma io e Jonas sapevamo di un bell’albero poco lontano e volevamo andare ad arrampicarci, e così Lotta è dovuta venire con noi, anche se non voleva. Io sono coraggiosa e mi arrampico sugli alberi, e anche Jonas, ma Lotta no.
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L’abbiamo aiutata a salire un pochino, ma lei si è messa a urlare: «Fatemi scendere! Fatemi scendere!». E quando è tornata giù ha guardato l’albero tutta arrabbiata e ha detto: «Ma è da pazzi arrampicarsi su alberi come questo!». Poi la mamma ci ha chiamato a mangiare e siamo corsi al laghetto. Aveva messo sull’erba una tovaglia di plastica e addirittura anche un bicchiere con delle primule al centro, e poi aveva tirato fuori i panini imburrati e le frittelle e tutto quanto. Ci siamo seduti a mangiare in mezzo all’erba. È molto più bello che mangiare a tavola. Le frittelle erano buonissime, perché ci abbiamo messo sopra sia la marmellata che lo zucchero. Astrid Lindgren, Lotta Combinaguai, Mondadori
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Gatti
Come sei bello!
Compagni dei pomeriggi più solitari, in quelle estati, erano i gatti che si aggiravano fra i cortili. Se ne vedevo uno mi fermavo, per non spaventarlo e, piano piano, cercavo di avvicinarmi. Li trovavo bellissimi, i gatti, con quelle pupille d'oro. Tigri piccole, di cui non avere paura. Riuscii a diventare amica di tutti i gatti del quartiere. Mi soppesavano a lungo, mi annusavano, cauti; poi si fidavano. Parevano capire che non volevo fare loro del male. Allungavo timidamente una mano ad accarezzarli: morbido, il manto, e caldo il ronfare delle fusa. Se il gatto di passaggio mi pareva magro gli dicevo: «Aspettami», e correvo in casa, e tornavo con una scodella di latte. Il gatto, di nuovo, mi fissava, annusava prudente, poi mangiava. Infine se ne andava, ed era inutile, lo sapevo, cercare di inseguirlo: con un salto si arrampicava sul pollaio e da lì, leggero, per appigli invisibili, era già sui tetti. Creature inafferrabili, imprevedibili, che tornavano un giorno dopo, oppure dieci. Il lampo allora dei loro occhi, nella penombra dell’imbrunire, e lo strusciarsi contro le mie gambe, come tra vecchi amici. Ma se un frullio d’ali ci sfiorava, ecco subito le pupille strette, lo sguardo predatore. Dio, pensavo, ha fatto delle tigri più piccole, perché i bambini le possano accarezzare.
Imparai ben presto a conoscere meglio questo fiore. C’erano sempre stati sul pianeta del piccolo principe dei fiori molto semplici, ornati di una sola raggiera di petali, che non tenevano posto e non disturbavano nessuno. Apparivano un mattino nell’erba e si spegnevano la sera. Ma questo era spuntato un giorno, da un seme venuto chissà da dove, e il piccolo principe aveva sorvegliato da vicino questo ramoscello che non assomigliava a nessun altro ramoscello. Poteva essere una nuova specie di baobab. Ma l’arbusto cessò presto di crescere e cominciò a preparare un fiore. Il piccolo principe, che assisteva alla formazione di un bocciolo enorme, sentiva che ne sarebbe uscita un’apparizione miracolosa, ma il fiore non smetteva più di prepararsi ad essere bello, al riparo della sua camera verde. Sceglieva con cura i suoi colori, si vestiva lentamente, aggiustava i suoi petali ad uno ad uno. Non voleva uscire sgualcito come un papavero. Non voleva apparire che nel pieno splendore della sua bellezza. Eh, sì, c’era una gran civetteria in tutto questo! La sua misteriosa toeletta era durata giorni e giorni. E poi, ecco che un mattino, proprio all’ora del levar del sole, si era mostrato. E lui, che aveva lavorato con tanta precisione, disse sbadigliando: «Ah! Mi sveglio ora. Ti chiedo scusa… sono ancora tutto spettinato…». Il piccolo principe allora non poté frenare la sua ammirazione: «Come sei bello!».
Marina Corradi, Con occhi di bambina, Edizioni Ares
soppesavano: esaminavano.
Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, Bompiani
civetteria: modo grazioso, smorfioso.
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Pippi va a scuola
Ricordi di scuola
«Da domani comincerò ad andare a scuola». Tommy ed Annika batterono le mani dalla gioia. «Urrà! Allora ti aspettiamo davanti al nostro cancello alle otto». «No, no – disse Pippi – non mi è possibile iniziare così presto. D’altronde io a scuola ci andrò a cavallo». E così fece. Esattamente alle dieci giunse nel cortile della scuola al galoppo più sfrenato, balzò dal cavallo in corsa, lo legò a un albero e spalancò la porta della classe con tale violenza che Tommy ed Annika insieme con i loro bravi compagni di scuola sobbalzarono sui banchi. «Salute a voi!» esclamò Pippi agitando il suo ampio cappello. Pippi si buttò a sedere in un banco libero, senza che alcuno glielo avesse assegnato, ma la maestra non sembrò notare la sua maniera sgangherata d’agire. Era una maestra davvero gentile e simpatica, aveva deciso di fare l’impossibile perché Pippi si trovasse a suo agio a scuola. «Benvenuta a scuola, piccola Pippi! Spero proprio che tu ti troverai bene e imparerai tante belle cose. Se intanto vorrai essere così gentile da dirmi qual è il tuo vero nome, – disse la maestra – io lo scriverò nel registro di classe». «Mi chiamo Pippilotta Pesanella Tapparella Succiamenta, figlia del Capitano Efraim Calzelunghem, prima terrore dei mari, ora re dei negri. Pippi non è che il mio diminutivo, perché papà trovava Pippilotta troppo lungo». «Bene – disse la maestra – anche noi ti chiameremo semplicemente Pippi».
La scuola mi aprì nuovi orizzonti: storia, scienze e aritmetica. Ma alcune materie erano noiose specie l’aritmetica: sottrazioni e addizioni mi facevano pensare ad un registratore di cassa. Un giorno, in aula, durante l’intervallo recitai ad uno dei miei compagni una filastrocca umoristica. Il nostro insegnante alzò gli occhi da ciò che stava facendo e si divertì tanto che, quando la scolaresca tornò in classe, me la fece recitare ai compagni i quali si sbellicarono dalle risa. Subito la mia fama si diffuse e l’indomani mi fecero fare il giro di tutte le classi della scuola per ripetere l’esibizione. La scuola cominciò ad entusiasmarmi. Da quel timido e oscuro ragazzetto che ero, divenni il centro dell’interesse sia del maestro che degli scolari. Da allora anche il mio rendimento scolastico migliorò.
Astrid Lindgren, Pippi Calzelunghe, Salani
Hai anche tu un soprannome o un diminutivo con cui ti chiamano? Ti piace essere chiamato così? Perché?
Charlie Chaplin, La mia vita, Rizzoli
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Benvenuta Petra
Un libro dopo l’altro
La mia maestra di terza elementare, Iride, sapeva capire i bambini anche se a volte non esprimevano le loro emozioni. Un giorno arrivò nella nostra scuola Petra, una bambina del circo, da pochi giorni in città. La ricordo con i capelli castani e lisci, incapace di pronunciare una frase di senso compiuto in italiano. Era slava. La maestra sapeva che si sarebbe fermata solo un paio di mesi, ma come fare in modo che quel tempo diventasse un’esperienza utile sia per lei che per noi? Così quella mattina ci fece disegnare il circo. Alla fine incollammo i disegni su un cartellone su cui scrivemmo: BENVENUTA PETRA Lei aggiunse alcune parole nella sua lingua. Il giorno dopo, la maestra arrivò in classe accompagnata da un clown, con le guance e il naso rossi. Sotto il braccio teneva un libro scritto in due lingue: italiano – sloveno. Scoprimmo che Petra aveva scritto sul cartellone: CHE BELLO ESSERE QUI CON VOI!!
Tutti i giorni Matilde faceva una passeggiata fino alla biblioteca. Ci metteva solo dieci minuti e poi, tranquillamente seduta, trascorreva due ore meravigliose in un angolo accogliente e quieto, divorando un libro dopo l’altro. Un giorno la bibliotecaria le disse: «Sai che in una biblioteca pubblica si possono prendere in prestito i libri e portarli a casa?». «No, non lo sapevo» disse Matilde. «Potrei farlo anch’io?». «Certo. Scegli il libro che vuoi e portamelo, in modo che possa registrarlo; puoi tenerlo due settimane e prenderne più di uno se vuoi». Da quel momento Matilde andò in biblioteca solo una volta la settimana, per prendere nuovi libri e rendere quelli già letti. La sua cameretta diventò una sala di lettura, dove passava i pomeriggi seduta a leggere con una tazza di cioccolata calda accanto. I libri le aprivano mondi nuovi e le facevano conoscere persone straordinarie che vivevano una vita piena di avventure. Girava il mondo stando seduta nella sua stanza… Roald Dahl, Matilde, Salani
Che cosa significa la frase: «Girava il mondo stando seduta nella sua stanza…»? È capitato anche a te di girare il mondo leggendo o sentendo leggere? Racconta.
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Cimabue e il bambino Per le campagne del Mugello passeggiava un giorno il pittore Cimabue, venuto a prendere il fresco, dato che in città, a Firenze, il sole dell’estate toglieva il fiato. Mentre passava accanto a un pascolo, vide su una larga pietra chiara al bordo della stradina il disegno di un albero così semplice e ben fatto da lasciarlo a bocca aperta per lo stupore. Cimabue guardò attorno, e non vide nessuno, tranne un pastorello che sorvegliava un gregge di pecore. «Non sapevo che quassù ci fosse un bravo pittore!» pensò Cimabue, e continuò la sua passeggiata. Poco più avanti, ecco un’altra pietra chiara, con il disegno di un uccello in volo così ben fatto da sembrar vero. Incuriosito, Cimabue si chinò a guardare da vicino il disegno, e annuiva lentamente con la testa. Siccome era ora di
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tornare, voltò il passo e riprese la strada. Il pastorello era ancora nel pascolo, e grattava la testa a un grosso cane dal pelo chiaro. Cimabue si fermò, e chiese: – Bambino, sai come si chiama, e dove abita, il pittore che ha fatto i disegni sulle pietre? – Vuoi dire quell’uccello lassù, e quell’albero laggiù, signore? – Proprio quelli. – Ce ne sono altri di disegni, lo sai? – disse allegramente il piccolo. – Vicino alla quercia, là sopra, c’è il disegno di un bue, e poi nel bosco, su una roccia grande, c’è quello di due caprioli! – Ah, bene! – disse Cimabue. – Ma dimmi, piccolo, dove abita il pittore che li ha disegnati? – Non c’è nessun pittore! – rispose il bambino. – E chi ha fatto i disegni, allora? – Io! Cimabue corrugò la fronte. – Non raccontarmi bugie, piccolo! – disse. – Nessun bambino sa disegnare un uccello come quello! Il bambino, senza parlare, prese un bastone dalla punta bruciacchiata che stava accanto a lui, sedette davanti a una pietra, e guardando ogni tanto una pecora che brucava lì vicino, cominciò a disegnare. Cimabue, zittissimo, lo guardava. In pochi minuti la pecora era sulla pietra: ferma, ma sembrava viva. – Qual è il tuo nome, piccolo? – disse allora Cimabue con voce commossa. – Mi chiamo Giotto, signore. – Giotto, ti piacerebbe venire a Firenze con me, e diventare pittore? – A me piacerebbe molto, signore, ma bisogna vedere se piacerebbe a mio padre! Allora Cimabue andò al paese, che si chiamava Vicchio, e cercò il padre del bambino, che si chiamava Bondone, e tanto disse che lo convinse a lasciar andare Giotto a Firenze, nella sua bottega di pittura. E Giotto andò, e imparò a disegnare non con legno bruciato, ma con olio, tempere e terre colorate, e diventò il miglior pittore del suo tempo, e di lui si parla ancora oggi. Roberto Piumini, Storie in un fiato, Einaudi Ragazzi
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Mettiamoci all’opera Copia dal vero Per disegnare occorre osservare con attenzione, guardare le forme e le dimensioni, notare le sfumature dei colori e i particolari che la luce evidenzia. All’inizio dell’autunno molti elementi della natura ci stupiscono per i loro vividi colori e le loro forme. Con i tuoi compagni porta a scuola zucche o pannocchie, grappoli d’uva, melagrane o cachi oppure dei fiori di questa stagione. Disponeteli in un punto illuminato. Ora con pastelli a olio o tempere con cura provate a riprodurli su un foglio ruvido. Caravaggio, Canestro di frutta (la fiscella), Pinacoteca Ambrosiana, Milano.
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I E N O I G STA
R ICOR RENZE
Il Calendario Oh, il caro libretto dei giorni dell’anno! Un foglio per ogni giorno e su ogni foglio un numero: nero per i giorni feriali, rosso per il dì di festa. Sotto ogni numero il nome di un giorno della settimana e, più sotto, il nome di un Santo. C’è tutto il Paradiso, tutte le stagioni, tutta la vita dell’anno nuovo. Ogni foglio è una promessa, una felicità o un dolore. Ed ecco le lune: ora sottili come pesci, ora rotonde come pomi. Chi scrisse il calendario pensava alla terra, ma guardava il cielo. Renzo Pezzani
Canto Dario Walter Muto
Il tempo se ne va, divorato da un affamato bambino.
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Autunno
San Francesco e gli uccelli
Il sole non era ancora tutto apparso all’orizzonte. Il cielo era tutto sereno. Di mano in mano che il sole si alzava dietro il monte si vedeva la sua luce, dalle sommità dei monti opposti, scendere, come piegandosi rapidamente, giù per i pendii e nella valle. Un venticello d’autunno, staccando le foglie appassite del gelso, le portava a cadere qualche passo distante dall’albero. A destra e a sinistra nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte. La terra, lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta nei campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza del mattino.
Un giorno san Francesco, camminando fra Todi e Perugia, sentì delle grida venire da un campo. Incuriosito uscì dalla strada e, dopo qualche passo, vide quattro contadini che correvano di qua e di là agitando bastoni, e urlando brutte parole verso il cielo. San Francesco chiamò: – Fratelli! Ehi, buoni fratelli! Cosa succede? Volete forse spaventare le nuvole con i vostri bastoni, e farle fuggire? Invece la terra ha bisogno della pioggia! – Santo frate! Noi non ce l’abbiamo con le nuvole, ma con i passeri! – risposero i contadini.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi, Hoepli
stoppie: steli secchi, paglia. guazza: rugiada.
Giotto, Predica agli uccelli, Basilica superiore, Assisi.
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– Appena seminiamo ne arrivano a centinaia, e portano via i semi: come potrà crescere il grano? Quei passeri sono una maledizione! – Nessuna creatura è una maledizione – disse Francesco. – Vedrò quello che si può fare. Ma ora allontanatevi, per favore, e abbassate i vostri bastoni. Rimasto solo nel campo, Francesco chiamò: – Fratelli passeri! Fratelli miei! Da ogni parte del cielo, in pochi minuti, calarono attorno a lui centinaia di passeri. Quando il loro brusio si spense, il santo disse: – Fratelli carissimi, devo dirvi una cosa: i contadini non sono contenti di voi, perché mangiate i loro semi. – Ma noi abbiamo fame – risposero i passeri. – C’è poco cibo nel bosco, quest’anno, e noi dobbiamo sfamare i piccoli nel nido! San Francesco disse: – Ma se trovaste un po’ di grano, lascereste i semi per terra? – Certo! – risposero i passeri, sbattendo le ali. – Ma dove lo troveremo, il grano? – Domani cercate sugli alberi attorno al campo – disse Francesco, poi diede loro la benedizione e li lasciò volar via. Tornati i contadini, il santo disse: – Fratelli contadini, un chicco è solo un chicco, mentre un seme è mille chicchi futuri: date un po’ di chicchi agli uccelli, per avere le spighe! I contadini accettarono. Il mattino dopo, quando i passeri volarono sul campo, videro che sugli alberi, a ogni forca di rami, c’erano piccoli cestini pieni di grano. Così i passeri ebbero da mangiare, i semi restarono nel campo, e i contadini non corsero più in giro, gridando e agitando bastoni. E san Francesco continuò il suo pacifico cammino. Roberto Piumini, Storie in un fiato, Enaudi Ragazzi
Secondo te, qual è il messaggio di questa lettura?
brusio: bisbiglio, rumore leggero. forca: biforcazione, divisione in due.
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Ottobre gioca Ottobre comincia il suo gioco: dipinge le foglie di croco, le indora: se sbaglia le strappa, le dona al vento che scappa. Accende l’ultimo lampo, saluta chi semina il campo, la rondine che trasvola, i bimbi che tornano a scuola. Ma ad un tratto…dov’è la sua gioia? Ottobre fa il broncio, si annoia, piagnucola …pioggerellina monotona, fina fina… Dina McArthur Rebucci
croco: il fiore dello zafferano.
La foglia nella pozzanghera Sullo specchio appannato d’una pozzanghera ho visto cadere una foglia. Tremava nell’acqua limacciosa portando con sé l’ultimo brivido del vento di novembre. Girava lentamente lungo le sponde del livido lago senza approdare mai. Nel silenzio si udì cadere qualche goccia e la fragile foglia rovesciò l’oro di tutte le stagioni nell’acqua fangosa. M. Altieri
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STAGIONI E RICORRENZE
STAGIONI E RICORRENZE
Un Natale tutto nostro
Lettera da Babbo Natale
La mamma arrivò a casa a mani vuote. Ciò nonostante quella sera festeggiarono il Natale. Il papà accese le candele sull’albero e Nelly recitò una poesia. Sapeva solo le prime due strofe, poi si bloccò. Ma alla mamma piacque lo stesso e il papà non si era neppure accorto che dovesse continuare. La cena fu più breve del previsto. «Così non ho lo stomaco pesante come l’anno scorso,» disse il papà «un cibo così nutriente non mi fa più bene». Non c’erano neppure molti regali da aprire. Così rimase tempo. Molto tempo. Nelly andò a prendere il “Memory” che aveva ricevuto il Natale passato; ogni domenica dell’anno appena trascorso aveva aspettato invano che qualcuno trovasse il tempo di giocare con lei. Adesso i genitori avevano tempo. Il papà non aveva mai giocato a Memory. Dopo un po’ Nelly aveva già trovato sette coppie di carte, la mamma tre e il papà, che di solito voleva sapere tutto meglio degli altri, cercava sempre nel posto sbagliato. Provò ad aiutarsi con dei trucchi, come mettere di nascosto briciole di pane sulle carte che si ricordava. Oppure tenere la mano sul tavolo in modo da segnare con il pollice la direzione in cui si trovava una determinata carta. Nelly scoprì i suoi trucchi. Giocarono una seconda e terza volta e il papà non si arrabbiò per il fatto che aveva sempre perso. Poi giocarono a filetto e a carte. A mezzanotte il papà spense la luce e tutti insieme guardarono fuori dalla finestra. La neve emanava una luce chiara e si sentivano le campane di Natale. «A quest’ora duemila anni fa, è nato il nostro Salvatore» disse la mamma e Nelly sentì che, dopo tutto, adesso era veramente contenta che fosse arrivato il Natale. Quando Nelly andò a letto disse: «E proprio un bel Natale». «Veramente?» chiese la mamma stupita. «Non abbiamo avuto nessuna cena speciale e pochissimi regali». «Però abbiamo avuto tanto tempo» rispose Nelly.
Casa fra le Vette, Cima del Mondo, vicino al Polo Nord Natale 1925 Miei cari ragazzi,
Eveline Hasler, Un sacco di nulla, Piemme Junior.
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quest'anno sono davvero occupatissimo – quando ci penso la mia mano si fa più tremolante che mai – e mica tanto ricco. Sono infatti capitate cose orribili: alcuni regali si sono rovinati, l'Orso Bianco del Nord non mi ha minimamente aiutato e appena prima di Natale ho dovuto traslocare. Potete dunque immaginare in che stato siano le cose, e capirete perché ho un indirizzo nuovo e come mai scriva un'unica lettera per tutti e due. È successo tutto così: un giorno ventosissimo dello scorso novembre mi è volato via il cappuccio, che è andato a piantarsi proprio sulla punta del Polo Nord. Gli ho detto di non farlo, ma l'Orso Bianco del Nord si è arrampicato su quella sottilissima guglia per ricuperarlo e... l'ha fatto. Il palo del Polo si è rotto esattamente nel mezzo ed è piombato sul tetto di casa mia; l'Orso Bianco del Nord è precipitato attraverso il buco ed è finito nella sala da pranzo con il mio
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cappuccio infilato sul naso; la neve del tetto è caduta tutta dentro la casa; sciogliendosi ha spento tutti i fuochi e poi è colata giù nelle cantine dove stavo accatastando i regali di quest'anno. Infine, l'Orso Bianco del Nord si è fratturato una zampa. Adesso è guarito, ma io ero irritatissimo con lui; e così lui mi ha detto che non cercherà mai più di aiutarmi... Credo che si sia offeso e che gli passerà solo il Natale prossimo. Vi mando un disegno dell'incidente e della mia nuova casa in cima alle vette rocciose che sovrastano il Polo Nord (la quale ha delle cantine bellissime scavate all'interno delle rocce). Tanti saluti affettuosi sia a voi due sia a Christopher, il cui nome è piuttosto simile a come suona il mio in inglese, vale a dire Christmas. È tutto: arrivederci. Babbo Natale John Ronald Reuel Tolkien, Lettere da Babbo Natale, Bompiani
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L’abete Non si può parlare delle piante di Natale senza partire dall’abete: è lui, indubbiamente, il principale protagonista della vegetazione delle feste. La sua compatta ed elegante forma a cono lo rende molto adatto a troneggiare nelle case, indicando il cielo con la punta che regge una stella e ospitando sotto le sue fronde sempreverdi i donì destinati ai bambini. Le origini dell’albero di Natale sono però incerte; una tradizione sostiene che durante il Medioevo, nelle piazze davanti alle cattedrali tedesche, si innalzava l’albero del bene e del male, quello, cioè, del Paradiso Terrestre con appese le mele del peccato originale. Infatti Gesù Bambino veniva a cancellare la colpa di Adamo ed Eva e dunque era giusto ricordarlo a tutti i fedeli. Col tempo, poi, le mele rosse e lucide sono diventate palle luccicanti e multicolori, mentre all’albero sono state aggiunte candele e più tardi luci elettriche, a indicare la luminosità spirituale della notte di Betlemme. È dunque un errore sostenere che l’albero di Natale sarebbe un simbolo “meno cristiano” del Presepe: molto usato nei paesi nordici, secondo la sua origine e il suo significato, è anch’esso un segno importante di Cristo, albero luminoso che offre al mondo i frutti del bene. «Popotus», 9 dicembre 2014
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La leggenda del “pan de Toni” Regnava in quei tempi su Milano Bernabò Visconti, famoso per le sue crudeltà. Anni terribili per i poveri lombardi, decimati dalla carestia e dalla peste. I pochi fanciulli che rimanevano erano per lo più orfani e vivevano d’elemosina come Antonio da Terzago, Toni per gli amici. Abitava in una casupola presso un convento e i frati l’avevano occupato come fornaio nella panetteria dei Rosti. Poi, a causa della carestia, il forno era stato chiuso e allora il fanciullo aveva fatto un po’ di tutto: dal garzone dell’ortolano al galoppino. Era la Vigilia di Natale e Toni, senza lavoro e senza un quattrino, si trovò con un sacchetto di castagne secche e un boccale di vino, ingredienti necessari per preparare un pestavino, grossolano ma ghiotto piatto di quei tempi. Aveva anche un po’ di farina bianca, un pezzetto di burro, un po’ di zucchero, un uovo e un cartoccino d’uva passa. Egli avrebbe mangiato il pestavino e con il resto avrebbe preparato un piccolo dolce che avrebbe poi venduto. Fuori nevicava e Toni, mentre le castagne cuocevano, preparò una pagnottella, la tagliò alla sommità con una croce poi, mentre lievitava, preparò il forno, nel quale finì per collocarla al momento opportuno. La levò che suonava la mezzanotte e mentre la posava sulla tavola si sentiva crescere l’acquolina in bocca. Com’era bella, fragrante, con quella bella crosta dorata e qualche uvetta. In quel momento bussarono e come ebbe aperto la porta, Toni si trovò davanti un bel bimbetto quasi nudo, lacero, sfinito, coperto di neve e di fango. «Per carità» disse entrando «un po’ di fuoco, sono intirizzito e ho tanta fame». «Oh, povero piccolo!» esclamò il fornaio «Vieni avanti. Stavo mettendomi a tavola». E riattizzato il fuoco, vi fece sedere accanto il fanciulletto, che aveva due meravigliosi occhi azzurri e riccioli che sembravano oro filato. La scodella di castagne che gli servì sparì in un baleno. «Chi sei? Da dove vieni?». Un gesto vago, un balbettio indistinto poi il bimbo chiuse gli occhi, chinò il capo e s’addormentò. Quando all’alba il piccolo si sveglio e vide Toni
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chino su di lui sorrise e quel sorriso riempì il cuore del fornaio d’una gioia mai provata. «Hai dormito bene?». «Sì!». «Bene. Alzati e vieni a mangiare». «Ancora castagne?». «Ah, no! Ho qualcos’altro per te, un piccolo dolce». E Toni mise la sua pagnottella sulla tavola. Il fanciullo s’avvicinò alla tavola, toccò il dono dell’amico, con una delle sue rosee manine. Poi, mentre una lacrima gli brillava tra le ciglia, mormorò con dolcissima voce: «Grazie Toni, ma è troppo piccolo questo pane per il tuo grande cuore, e io desidero che la tua bontà non finisca mai come finirà questo dolce di Natale, che ogni anno farà la felicità di tanti bimbi, creando a te e alla tua città grande fama. Non dimenticarmi, Toni… sii sempre buono e generoso. Ci rivedremo». Al tocco della piccola mano la pagnottella aveva cominciato a crescere di volume, mentre la figura del bimbo si faceva sempre più luminosa, trasparente. «Gesù, Gesù mio!» gridò Toni cadendo in ginocchio. Quando si alzò, sulla tavola troneggiava un pane enorme, che spandeva all’intorno una deliziosa fragranza. Dopo un lungo esitare, Toni si decise finalmente a tagliarne una bella fetta. Come fu sazio, ne mise alcune fette in un cestello, ripose il resto nella credenza e uscì chiudendosi la porta alle spalle. Conosceva gente in peggiori condizioni delle sue e a quelle recò in dono le porzioni del dolce squisito. Quando rientrò trovò che il grosso dolce era diventato intero: non ne mancava una briciola, ne tagliò altre fette e per tutto il giorno continuò a beneficiare amici e conoscenti poveri, che lo colmavano di benedizioni. Il Natale era ormai passato, e Toni cominciò a vendere quel pan dolce, almeno a coloro che potevano pagare.
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Quante statuine nel presepe!
La notte di Capodanno
Nel presepio possiamo trovare, oltre a Gesù, Maria e Giuseppe, altri personaggi: l’asino, il bue, i Magi, i Pastori, gli Angeli. A volte anche Erode e il Diavolo! Osservando le pose delle statuine si comprende quale rapporto avessero questi personaggi con il bambino Gesù. Il Bambino, avvolto in fasce e accomodato nella greppia, è fatto per essere accolto prima da Maria e Giuseppe e poi da tutti quelli che lo visitano e che desiderano toccarlo e tenerlo tra le mani almeno un po’. Maria, Giuseppe, i Magi, i Pastori, l’asino e il bue, sono coloro che accolsero il bambino. Maria è come una madre regina: a volte in ginocchio che prega, a volte sdraiata e pensierosa con gli occhi rivolti al suo sposo, a volte ancora ha Gesù in braccio per coccolarlo o allattarlo. Giuseppe è sempre di fianco al Bambino e a Maria: è il custode, il protettore della famiglia; spesso prega vicino a Gesù e Maria, a volte sembra desideroso di prenderlo in braccio ma poi lo guarda e basta; a volte ancora allunga la mano per accarezzarlo; spesso allarga le braccia per abbracciare sia Maria che il Bambino. Gli Angeli cantano, suonano e così ci chiamano per far festeggiare l’arrivo nel mondo di Gesù. I Re Magi sono i saggi, coloro che hanno il dono della sapienza e arrivano davanti al bambino dopo un lungo viaggio di ricerche. Hanno dei doni per Gesù: offrono una parte di se stessi a un bambino! Il più anziano è di solito in ginocchio, si è tolto la corona e la depone ai piedi di Gesù perché è il Re dei Re quindi la sua corona non gli serve più. Anche i Pastori, come i Magi, fanno un viaggio per raggiungere Gesù dopo l’esortazione dell’angelo. Non erano saggi come i magi, possedevano poco ma una volta chiamati non esitano a rispondere: svegliano le pecore, le radunano e si mettono in moto. Proprio nella risposta semplice e veloce dei pastori ognuno di noi può identificarsi per decidere di andare verso Gesù.
Un aereo sconosciuto, che stava finendo il carburante, atterrò sull’aeroporto della capitale alle ventitré e ventisette precise. Mancavano trentatré minuti a mezzanotte, ma non a una mezzanotte qualunque. Era infatti la notte del 31 dicembre e in tutto il mondo si attendeva l’anno nuovo. Il pilota sconosciuto balzò a terra agilmente e subito cominciò a dare ordini: – Scaricate i miei bauli. Sono dodici … – Prima si dovranno chiarire alcune cosette, non le pare? – disse il comandante dell’aeroporto. – La prego di mostrarmi i suoi documenti … Venga nel mio ufficio. – Guardi – disse il misterioso pilota – che sono molto atteso. – Per la mezzanotte, immagino! – Appunto, comandante. – Io invece, come vede, sono di servizio e passerò la notte di Capodanno all’aeroporto. Se lei non mi mostrerà i documenti, mi terrà compagnia. – I miei documenti? Ma lei ne è già in possesso – e lo sconosciuto indicò il calendario dell’anno nuovo che pendeva dalla parete dietro una scrivania. – Quello è il documento. Sono il Tempo. Nei miei bauli ci sono dodici mesi che dovranno avere inizio fra ventinove minuti precisi. – Vedo che le va di scherzare. Benissimo, mi terrà allegro. Le dispiace se accendo il televisore? Non vorrei perdermi l’annuncio della mezzanotte. – Accenda, accenda pure. Ma non ci sarà nessun annuncio, fin che lei mi trattiene. Sul teleschermo era in corso uno spettacolo di canzoni. Di quando in quando la presentatrice consultava un grande orologio, appeso dietro l’orchestra, e annunciava: – Mancano venticinque minuti all’anno nuovo… mancano ventidue minuti … mancano venti minuti … Il pilota sconosciuto canterellava, batteva il piede a tempo con l’orchestra, si divertiva … – Un minuto a mezzanotte – disse il comandante a un tratto. – Mi dispiace di non poterle offrire lo spumante. In servizio io non bevo. – Grazie; ma lo spumante non serve. Da questo preciso momento il tempo cesserà di scorrere. Dia un’occhiata all’orologio. Il comandante guardò il
Riduzione da Guida al Presepio, Tools Mostre
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quadrante, si accostò il polso all’orecchio: l’orologio camminava, ma la sfera dei secondi non girava più. Anche sul grande orologio del teleschermo le sfere erano immobili. L’annunciatrice, con un sorriso imbarazzato, stava dicendo: – Sembra che ci sia un piccolo guasto… Musicisti, cantanti e spettatori cominciarono a scrutare gli orologi, a scuoterli, ad accostarli all’orecchio con aria sorpresa. In breve, tutti si convinsero che le sfere non si muovevano più. – Il tempo si è fermato! – gridò qualcuno. Il comandante dell’aeroporto gettò uno sguardo allarmato sullo strano forestiero, il quale gli sorrise. – Ha visto? Colpa sua. – Come sarebbe … colpa mia – balbettò il comandante. – Non è ancora convinto che io sia il Tempo? – Il comandante balzò in piedi e si attaccò al telefono… Poco dopo la telefonata del comandante al ministro, dovunque si sapeva che il Tempo si era fermato in aeroporto perché era privo di documenti. – Evviva! – gridava la gente esultante – Il tempo non scorre più! Non invecchieremo più!
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Da ogni parte qualcuno telefonava al comandante dell’aeroporto per raccomandargli: – Non si lasci scappare il Tempo! … Lo tenga stretto… – Ma un bambino, svegliato dal fracasso e messo al corrente dell’accaduto, cominciò a protestare: – Cosa? Sarà sempre adesso? Allora io non diventerò più grande? Ah, no! Non accetto. Si attaccò al telefono e dette l’allarme agli amici. I bambini scesero per le strade a protestare. – Però, hanno ragione! – disse un passante. – Se il tempo non scorre più, sarà sempre il trentun dicembre, sempre inverno… Sarà sempre notte! Il comandante cominciò a ricevere telefonate allarmate, che chiedevano la liberazione del Tempo. Egli prima esitò poi, finalmente, si decise. – Se ne vada, lei è libero! – Disse aprendo la porta. Il Tempo uscì. Le sfere degli orologi ricominciarono a muoversi. Sessanta secondi più tardi scoccò la mezzanotte. Il nuovo anno era cominciato. Gianni Rodari, Il pianeta degli alberi di Natale, Einaudi Ragazzi
Perché il comandante dell’aeroporto vuole trattenere il pilota sconosciuto? Qual è il documento che lo sconosciuto vuole esibire e cosa contengono i dodici bauli? Per quale motivo il tempo cessò di scorrere? Come reagirono le persone quando si accorsero che il tempo si era fermato? Dopo una iniziale esitazione, perché il comandante decise di lasciare libero il tempo? Il tempo scorre sempre uguale… talvolta ci sembra però che corra veloce o in alcuni momenti sembra quasi che si fermi. Racconta due esperienze che spieghino la percezione che hai del tempo.
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Piccole farfalle Dalle finestre si vedeva il cielo pieno di piccole farfalle che si posavano senza far rumore al suolo. – Non c’è più il cortile! – urlò Severino. – È sparito il prato! Uscimmo nel giardino a veder la neve che aveva già coperto tutto il e continuava a cadere sempre più fitta. – Che silenzio! – Disse Lucia meravigliata. – Sapore di neve – disse Severino – e anche fuori c’è un odore particolare. Uno scricciolo, volando basso a piccoli balzi, entrò in un cespuglio di rose, rovistò, poi volò più in là. Dopo un po’, passarono due cornacchie, volavano alte e lente. Poi giunsero dei passeri: si posarono sui rami del fico, gonfiarono le piume, si capiva che cercavano cibo. Allora Lucia andò in casa, sbriciolò del pane e glielo buttò sotto il portico. Intanto
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Micione saltava nella neve come un pagliaccio, con i baffi d’argento. Arrivò all’abete e da sotto si arrampicò come una scimmia. I rintocchi del campanile si sentivano appena, come se le campane fossero chiuse dentro una scatola. – Avete visto che anche i colori cambiano? – disse Lucia. – Micione, che è grigio, pare nero, la casa è più scura, tutto è cambiato! Quando la neve cessò, c’era un paesaggio di fiaba: tutto era ricamato di pizzi. – C’è la luna! – gridò Lucia sbirciando fuori. – E la neve è azzurra. La luna piena ricreava un mondo e ce lo donava come una fiaba. Mario Lodi, Il cielo che si muove, E. Elle
Spiega i due diversi significati dei seguenti omonimi; poi, scrivi una frase con ognuno di essi.
lente: lente: reale: reale: Nel testo, compare tre volte la parola “disse”. Sostituiscila con un sinonimo che sia adatto al contesto. Trova i sinonimi adatti ai diversi contesti:
una bambina buona:
fare un discorso:
una torta buona:
fare un lavoro:
una buona occasione:
fare i compiti:
un buon affare:
fare una festa:
un’idea buona:
fare amicizia:
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Filastrocca mascherata
Gara di stagioni
È fiorito
Quando giochi, tu dici «Io ero un re guerriero Eravamo nemici Eri mio prigioniero!». Ma quando è Carnevale Non si dice «io ero» Proprio questo è il suo dono Ti mascheri davvero E puoi dire «io sono»! «Mamma, sono un vampiro!». «Aiuto, c’è un vampiro!». «Uuuhhh! Ora ti acchiappo!». «Aiuto, dove scappo?». «Arrivo, ora ti piglio!». «Dove sarà mio figlio? Il vampiro è vicino, Aiuto, ora mi prende! Se non c’è il mio bambino Nessuno mi difende!». Tu ti togli la maschera «Eccomi! Sono io!» E la mamma ti abbraccia «Sei tu, bambino mio!». E allora giù la maschera Di nuovo sulla faccia «No, io sono un vampiro!». «Aiuto, c’è un Vampiro!». «Uuuhhh! Ora ti acchiappo!». «Aiuto, dove scappo?».
Inverno freddo e grigio e Primavera chiara a Marzo s’incontrarono e fecero una gara. Inverno andò veloce, coprì di neve i rami, filò la bianca brina in splendidi ricami. Del ghiaccio duro e spesso di sopra l’acqua pose, con nebbia fina fina il mondo poi nascose. Ma, allegra, Primavera portò raggi di sole, la nebbia e il ghiaccio sciolse e sparse gemme e viole. Ridiede il verde ai prati e liberò i ruscelli, fece suonar nell’aria il canto degli uccelli. Si arrese il vecchio Inverno sbuffando, un po’ scontento. Giovane, Primavera correva con il vento.
Ohimè! che cosa è accaduto? Il mandorlo è fiorito, ed io nulla ho sentito, nulla ho veduto! S’è guernito e coronato d’un diadema di stelle d’argento: tutta notte ha lavorato e sull’alba splendeva contento. Ed ora le sue stelle le dà al vento: la ghirlandetta fragile e superba la sparpaglia sull’erba del fresco prato! Il miracolo è compiuto: ma io nulla ho veduto, nulla ho sentito! Che cosa dunque è accaduto? Dov’era questo povero cuore assorto, dov’era questo povero cuore muto, se il mandorlo è fiorito ed esso di nulla s’è accorto?
Bruno Tognolini, Libri e altre scritture, G BABY, San Paolo
Maria Loretta Giraldo, Rime per tutto l’anno, Giunti
Angiolo Silvio Novaro
guernito: decorato. assorto: preso da altro.
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Voci del bosco
Dappertutto mammole
Il bosco echeggiava di voci diverse. Il rigogolo lanciava incessanti grida di gioia, i piccioni tubavano senza tregua, i merli fischiavano, i fringuelli trillavano, i pettirossi cinguettavano, le cinciallegre pigolavano. In mezzo a quel coro, si levava lo schiamazzo delle ghiandaie, la risata ciarliera delle gazze e irrompeva lo stridio metallico dei fagiani. A tratti su quelle voci dominava il grido squillante e breve del picchio o quello acuto e lieto del falco.
Dappertutto mammole: nel prato dietro casa, lungo i cigli dei viali, sulle rive del laghetto, all’ombra dei pini e dei pioppi. Non vi è tronco che non abbia, alla radice, tra i fili d’erba e i ciuffi dell’edera, la sua corona di mammole… di una fragranza così penetrante, che le narici le sentono prima che l’occhio le scopra. Se mi curvo su di loro, le distinguo una per una, e nessuna è uguale all’altra: c’è quella più scura e quella più smorta, quella socchiusa e quella troppo aperta; ma tutte col gambo debole e corto, la testina che si piega, una grazia nascosta più espressiva della parola.
Felix Salten, Bambi. La vita di un capriolo, Vallardi A.
Ada Negri, Di giorno in giorno, Mondadori
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Pasqua di Resurrezione
Quando fa caldo…
Io canto la canzon di primavera, andando come libera gitana, in patria terra ed in terra lontana, con ciuffi d’erba ne la treccia nera. E con un ramo di mandorlo in fiore a le finestre batto e dico: Aprite, Cristo è risorto e germinan le vite nove e ritorna con l’April l’amore! Amatevi fra voi, pei dolci e belli sogni ch’oggi fioriscon su la terra, uomini della penna e de la guerra uomini de le vanghe e dei martelli. Schiudete i cuori: in essi erompa intera di questo dì l’eterna giovinezza; io passo e canto che vita è bellezza, passa e canta con me la primavera. Ada Negri
Quando fa caldo molto caldo se mi parlate per favore usate solo parole con molte effe e vi fffresche e vvventose. Parlatemi con soffi, con affetto, parlatemi davvero, siate affabili, parlatemi di tuffi, stoffe, staffe, avventure, avvocati con i baffi, parlate di farfalle, di favole, affari, offese, avvisi, parlatemi di uffici, di ufficiali, e quando finirete le parole per favore ditemi solo fff e vvv, ma tanto, fin quando viene sera e cala il sole. Roberto Piumini, Io mi ricordo, Nuove Edizioni Romane
echeggiava: risonava ripetutamente. schiamazzo: verso rauco e stridulo. strido metallico: grido acuto, duro e freddo. Riscrivi il brano sul tuo quaderno, trasformando i verbi del brano dal tempo passato a quello presente.
mammole: violette. cigli: bordi, margini. fragranza: profumo intenso e delicato.
Sta per arrivare l’estate… Che desideri hai, che cosa vorresti fare durante le prossime vacanze?
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Momenti indimenticabili
Più vivo di prima!
Per il pranzo di Pasqua mio padre dipingeva le uova. Gliele preparava, sode, mia madre; e per lei e per ciascuno dei commensali lui, servendosi di colori a tempera e di un pennellino, inventava un piccolo capolavoro. C’era l’uovo con la chiesetta di un paesino di montagna («Vi piace questa?» chiedeva); c’era l’uovo con i fiori di campo e quello con la colomba della pace; c’era l’uovo con il mare e infine, ambito fra tutti, l’uovo con il cielo attraversato da un volo di rondini. Ogni anno ci proponevamo di conservare le uova dipinte; poi, invece, già alla metà del pranzo di Pasqua le avevamo sgusciate. L’uovo con il cielo attraversato da rondini era l’ultimo ad essere aperto. Mio padre ne rompeva il guscio delicatamente in modo che la parte dipinta rimanesse intatta. «Guardate, guardate ragazzi…». Così dicendo s’era alzato e, sollevando quel che aveva salvato del guscio, sovrapponeva nel vano della finestra il suo pezzetto di cielo dipinto a quello vero di primavera. «Guardate ragazzi: le rondini volano via… attenzione…». Mia madre sorrideva. Noi quattro figli anche, inteneriti da quel sorriso pieno d’amore. E con noi le nostre mogli, che anno dopo anno avevano fatto la tavola pasquale della famiglia più grande e più felice. I bambini, invece, guardavano il nonno con trepidazione, aspettando l’avverarsi di quel prodigioso avvenimento. «Volano, attenzione, volano via…». Il nonno diventava mago e il garrire delle rondini sembrava farsi assordante.
Quando Gesù è morto, i suoi amici tirano giù il corpo dalla croce. Le donne lo avvolgono in un lenzuolo, lo ungono con degli oli speciali profumati e lo mettono nella tomba, una specie di caverna. Poi la chiudono con un bel pietrone. Quel lenzuolo esiste ancora, si chiama Sacra Sindone e, in un modo misterioso che nessuno scienziato è mai riuscito a spiegare, porta impressa l’immagine di un volto. Gesù però non è rimasto a lungo nella tomba. Due giorni dopo la sua morte, mentre i soldati sono fuori di guardia, il pietrone si muove e il corpo di Gesù, senza che nessuno lo avesse rubato, non c’è più. È rimasto lì il lenzuolo ripiegato, vuoto. È domenica all’alba. Questo fenomeno, unico nella storia del mondo, ha un nome speciale che noi ricordiamo la notte di Pasqua: Resurrezione. Gesù, che era morto, non è più morto, risorge, torna vivo con un corpo tutto splendente. Tutto vivo, più vivo di prima! È così vivo Gesù che da quel momento tutti gli uomini possono avere nel cuore la speranza e la gioia. Quando tu incontri degli amici bravi, delle maestre brave, quando trovi una compagnia come questa, tutto ciò è il segno di Gesù che è vivo. Lo scoprirete man mano che diventerete grandi. La Pasqua è Gesù vivo per sempre in mezzo a noi. Gli uomini che amano il buio credevano di farlo morire per sempre; invece, Gesù è risorto ed ha vinto. Ha vinto la luce e, da quella luce, è nata come una grande pianta, la nostra compagnia. Risorgendo, Gesù ha fatto una cosa grandissima: ha “accartocciato” tutto il tempo, tutti i giorni della settimana: lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato e domenica; tutte le settimane; tutti gli anni; tutti i secoli. Il tempo è lunghissimo, ma il cuore degli uomini ha bisogno di cose corte e, per questo, Gesù accartoccia tutto il tempo, lo stringe, fa come una pallottolina piccola piccola piccola, così quello che era di duemila anni fa, di colpo è presente oggi. Perciò Gesù, che è di duemila anni fa, è presente adesso.
Benedetto Mosca, Caro papà. Ricordi di un figlio, Rizzoli
Sottolinea nel testo le frasi che secondo te spiegano il titolo.
Carlo Romagnoni, Tu ed io. Storia dell'amicizia tra Dio e l'uomo, Itaca
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Mettiamoci all'opera La luce e il mare La Manneporte è un quadro dipinto dal pittore francese Claude Monet mentre si trovava sulle coste frastagliate della Normandia, nel nord-ovest della Francia. Qui lo si vedeva scalare le scogliere e sfidare le intemperie con il suo cavalletto alla ricerca del punto e del momento più adatti per catturare la luce dei paesaggi che più lo colpivano. Claude Monet, The Manneporte (Étretat), The Metropolitan Museum of Art, New York.
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Prova anche tu a guardare con gli occhi di Monet: scegli un quadro di Monet che rappresenti il mare, preferibilmente senza troppi particolari. Procurati un cartoncino delle dimensioni di circa 18 x 22 cm e una scatola di pastelli a olio. Traccia a grandi linee con la matita grafite gli elementi che andranno ad occupare lo spazio e con i pastelli a olio sbizzarrisciti utilizzando tratti lunghi e veloci, cambiando i colori alla ricerca delle tonalità di colore e dei giochi di luce che Monet sapeva raccontare nelle sue tele. Fai molta attenzione alla direzione dei tratti, che determinerà la sensazione di movimento del mare o del vento, e ai contrasti di colore che determineranno luci e ombre.
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IO E GLI A LT R I Chi sa perché? Curioso, certe volte è così bello il mondo, tutto mi par giocando, tutto mi dà piacer! Allor mi sembra tutta simpatica la gente, cortese, compiacente, piena di buon voler. Tanti giorni invece, avvien tutto il contrario, ognuno è un avversario, tutti l’han su con me. Chi sa, chi sa il perché di questa strana cosa? To’ sarebbe curiosa, dipendesse da me! Lina Schwarz
Ascolto Concerto per Pianoforte Mib Wolfgang Amadeus Mozart
Canto Come ti chiami tu? Carlo Pastori
Un canto per conoscerci e riconoscerci.
Il concerto vede svilupparsi il rapporto tra pianoforte e orchestra, in un rapporto di continua contrapposizione come in un incontro tra due persone.
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Diventare grandi
La storia di Ricciolo
Angelica si era appena svegliata e guardava sconsolata fuori dalla finestra: «Un’altra giornata di pioggia» pensò rattristata «anche oggi non potrò uscire in giardino a giocare». Si alzò e senza nessuna voglia andò in bagno a lavarsi. Si vestì e scese al piano di sotto, in cucina, dove la mamma aveva già cominciato a preparare la colazione. «Mamma, che cosa posso fare oggi?» le chiese appena entrata. «Dunque, anche oggi dovremo trovarti una occupazione» la prese in giro la mamma. «Hai già chiesto a tuo fratello se vuole giocare con te?». «Ma mamma! Giocare con Alessandro è una vera noia! A lui piacciono solo macchinine e palloni!». Angelica cominciava a preoccuparsi veramente; neanche il papà, che si era appena svegliato ed era sceso per bere il suo caffè, aveva un’idea che potesse soddisfarla. Ma a quel punto i problemi di Angelica scomparvero. Samuele, il fratellino più piccolo, era entrato in cucina trascinando il suo orsacchiotto di pezza. «Ho trovato!» esclamò Angelica, sorridendo per la prima volta da quando si era svegliata. «Insegnerò a Samuele come ci si può divertire in un giorno di pioggia!». E se ne andò, dimenticando la colazione e la noia. La mamma e il papà si guardarono sollevati: Angelica aveva risolto da sola il suo problema. Forse cominciava a diventare grande.
Vivevano in una grande città, una mamma, un papà e la loro bambina che aveva circa nove anni. Questi genitori avevano da sempre desiderato tanti bambini, perché nel loro cuore e nella loro casa, c’era tanto spazio; così quando l’Angelo Gelsomino raccontò loro la storia di un bimbo col cuoricino matto, che aveva bisogno di due genitori, rimasero per un attimo pensosi, poi sorrisero e cercarono di immaginare il visetto di questo loro secondo figlio. Il bimbo arrivò nella loro famiglia in un giorno di primavera; era molto piccolo. Tutti lo aspettavano e avevano preparato mille cose belle per lui. La sorellina, che si chiamava Alexandra, saltava come un grillo dalla gioia e decise di dargli un nome: dapprima pensò di chiamarlo Cocò, perché questo suono lo faceva tanto ridere; ma poi, guardando i suoi capelli, pensò che poteva essere Ricciolo. In realtà, un nome l’aveva fin dalla nascita, ma era troppo complicato!! Così, da quel giorno, fu per tutti... Ricciolo.
Maestra Paola
Emi Bondioli De Ponti, La storia di Ricciolo, Itaca
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Sempre uguale, sempre diversa
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IO E GLI ALTRI Vero o falso? Indica con una crocetta.
Ha 56 anni ma ne ha combinate così tante da poter bastare per tre vite: ha viaggiato per il mondo in lungo e il largo, alla guida di camper e catamarani, ha indossato vestiti firmati dagli stilisti più famosi, è stata campionessa olimpionica, candidata presidentessa d’America ed è persino andata sulla luna! Impossibile? Non per Barbie! Con i suoi 29 cm e mezzo di altezza, una passione sfrenata per il rosa, una fissazione per l’ultimo grido della moda questa donna in miniatura è stata fedele compagna di tante bambine di ieri e di oggi. Proprio una bambina e i suoi giochi hanno ispirato la nascita di Barbie. Succedeva nel 1959, nel salotto di Ruth Handler, una madre americana come tante: osservando la figlia, si accorse che snobbava i bambolotti costosi che le venivano regalati, preferendo ritagliare le sagome di personaggi famosi dalle riviste, per poi vestirle con altri ritagli e inventare storie apposta per loro. Ecco, allora, l’idea: creare una bambola adulta che le bambine potessero usare per giocare a “fare le grandi”. Grazie all’aiuto del marito, il fondatore della casa di giocattoli Mattel, Ruth creò la bambola destinata a diventare la più famosa al mondo, chiamandola proprio con il soprannome di sua figlia: Barbie! «Popotus», 5 novembre 2015
catamarani: grandi navi. stilisti: disegnatori di vestiti di moda. snobbava: sminuiva, non considerava degni di attenzione.
VERO
FALSO
Barbie ha viaggiato per tutto il mondo.
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Barbie è andata sulla Luna.
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Barbie è atterrata su Marte.
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Barbie è la bambola più famosa al mondo.
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Barbie è stata inventata da una mamma che desiderava avere una bambola adulta.
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Barbie è stata inventata da una mamma che desiderava creare una bambola adulta per le bambine che volevano giocare a “fare le grandi”.
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Barbie fu inventata nel 1959 da una madre americana che osservava sua figlia mentre giocava.
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Barbie era il soprannome della figlia di Ruth.
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Grazie all’aiuto del marito, il fondatore della casa di giocattoli Mattel, Ruth creò Barbie.
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Parlo di me: un gioco che mi ricorda la mia infanzia. Quale gioco conservi ancora in casa, che ti ricorda la tua infanzia in modo particolare? Com’è fatto? Descrivilo. Se osservi in silenzio il tuo vecchio gioco, quali ricordi fioriscono nella tua mente?
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IO E GLI ALTRI
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IO E GLI ALTRI
Troppo disordine
Le multe
Anna era una bambina molto disordinata. Quando giocava, in un momento riusciva a mettere la casa a soqquadro. Perciò Anna e la mamma erano sempre occupate a mettere in ordine e non avevano mai tempo di fare una passeggiata prima di pranzo o di leggere una storia prima di cena. La bambina non era affatto contenta di ciò, né contenta era la mamma. «Cara pasticciona,» diceva sempre la mamma «non so come farai a fare un tale disordine». «Non lo so nemmeno io» sospirava Anna. Il giorno dopo fece attenzione per vedere come si formava il disordine. Notò che, per giocare, ella tirava fuori una cosa, poi un’altra e un’altra ancora. «Forse» pensò «se io rimetto a posto una cosa prima di tirarne fuori un’altra, il disordine non si farà più». E così fece: ogni volta che cercava un nuovo giocattolo, prima di tirarlo fuori dall’armadio rimetteva a posto quello con cui aveva giocato prima. Quando venne l’ora in cui bisognava rimettere a posto, la bambina non poteva credere ai suoi occhi: non c’era nulla da mettere a posto! Anche la mamma ne fu molto contenta. «Come hai fatto a mettere le cose in ordine così in fretta?» domandò. «È un segreto!» disse Anna, sorridendo. Da allora in poi, invece di passare tutto il tempo a mettere in ordine, la mamma portò Anna a passeggio e le lesse molte belle storie.
C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così:
Kathryn Jackson, 365 storie, Mondadori
soqquadro: in disordine, sottosopra.
GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA
Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l’aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d’impegno, se l’era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava
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con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così:
QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA
E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. Beatrice Masini, Un papà racconta, Einaudi Ragazzi
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La mamma La mamma lavora in un negozio di cartoleria. È sempre molto occupata e quindi non sta molto con me; io sto con lei e mi piace guardarla. In negozio guardo la mamma mentre serve i clienti, il negozio è grande e non so come faccia a sapere sempre dove sono le cose che le chiedono. In casa guardo la mamma quando si mette il rossetto e vedo tutte le smorfie che fa con la bocca allo specchio vicino alla porta d’uscita. La mamma è allegra e si fa i complimenti da sola. Per esempio quando cucina un buon pranzetto dice sempre: “Brava, Giulietta!”. A volte la mamma è triste ma, se io la guardo, sorride. La cosa più bella della mamma è che sa quello che mi piace anche quando io non lo so. Al mio compleanno mi ha regalato un ombrello giallo. Io non volevo un ombrello e il mio colore preferito è il verde, ma ora sono contenta quando piove perché posso sfoggiare il mio grazioso ombrello giallo.
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Lettera al figlio
A pesca con papà
Caro Giuliano, come stai nella nuova scuola? Cosa ti piace di più: il vivere accanto al mare o il vivere vicino alle foreste, tra i grandi alberi? Se vuoi farmi un piacere, dovresti descrivermi una tua giornata da quando ti levi dal letto fino a quando la sera ti addormenti. Così io potrò immaginare meglio la tua vita, vederti in quasi tutti i tuoi movimenti. Descrivimi anche l’ambiente, i tuoi compagni, i maestri, gli animali, tutto: scrivi un po’ per volta, così non ti stancherai e poi scrivi come se volessi farmi ridere, per divertirti anche tu. Caro, ti abbraccio. Papà
Un sabato, io e mio padre siamo usciti al mattino presto. Abbiamo caricato nel bagagliaio le canne da pesca, i panini e un thermos di tè caldo. – Faremo una gita in un posto segreto – mi disse mio padre. Siamo saliti in macchina e siamo partiti. Quando ci siamo fermati, mio padre ha detto: – Senti l’odore del fiume? Che meraviglia! Sentivo l’odore del fiume. – Quando ero bambino – disse il papà – acchiappavo l’aria, acchiappavo il vento e me li portavo a casa. – E dove abitavi da bambino? – chiesi. – In una casetta. – Com’era la casa dove abitavi da bambino? – chiesi. Il papà ha chiuso gli occhi e ha detto: – Era una casetta grigia con una veranda storta, piccole finestre e il tetto rosso. Intorno alla casa c’erano campi verdi con vivaci fiori rossi e intorno ai campi c’erano alberi alti e verdissimi. – E che cosa c’era oltre gli alberi? – chiesi. – C’era un fiume chiaro e fresco, come questo, dove ho imparato a pescare. – E chi ti ha insegnato a pescare? – Ah! – disse il papà e chiuse gli occhi – È stato mio papà. Mio papà mi ha insegnato a pescare.
Antonio Gramsci, Lettere ai figli, Editpress
Sharon Creech, A pesca nell’aria, Mondadori
Hai mai avuto modo di osservare un fiume, da vicino? Prova a descriverne il colore, l’odore, il rumore e tutti i particolari che hai rilevato con i tuoi sensi.
veranda: terrazzino o balcone chiuso.
Descrivi, per il tuo papà, la giornata di scuola.
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I colori delle nonne
I magnifici dieci
Io e mia cugina Francesca avevamo due nonne colorate, una per ciascuna. La mia nonna si chiamava Bianca ed era una nonna dolcissima, con i capelli bianchi, avvolti in una crocchia, gli occhi chiari e le guance rosa. Questa nonna Bianca cucinava pranzetti deliziosi e mi regalava sacchetti pieni di dolci, ogni domenica. Francesca, invece, aveva una nonna di nome Rosa che aveva anche lei capelli candidi, occhi azzurri, guance rosa e che cucinava molto bene. Quando ero molto piccola, a causa di una buffa coincidenza di nomi, pensavo veramente che tutte le nonne avessero un colore… bianco, oppure rosa, al massimo azzurro, ma di un azzurrino pallido pallido… Poi ho capito che non era affatto così anche perché avevamo, io e Francesca, un’altra nonna, in comune, che indossava vestiti dai colori vivaci, si chiamava Ida e non cucinava quasi mai. La nonna Ida non aveva i capelli bianchi e si dipingeva un pochino le gote con il rossetto… La nonna Ida era di Milano ed era quindi molto buffa quando cercava di parlare il dialetto triestino; non era portata per le lingue, ma in cambio era laureata in matematica, cosa straordinaria per una donna di quei tempi, se si pensa che era nata alla fine dell’800. Ogni tanto ci raccontava le sue avventure di quando frequentava il Politecnico di Milano e doveva entrare in aula immediatamente dopo il professore, per non essere assalita dai fischi degli ammiratori… «Perché sapete…» ci diceva la nonna Ida sorridendo maliziosa… «Ero l’unica signorina…». Noi tre cugine l’ascoltavamo a bocca aperta, forse un po’ invidiose. La nonna Ida mi dava molti consigli di bellezza, una volta mi ha messo i bigodini e il giorno dopo, a scuola, non mi riconosceva più nessuno… una disperazione!
«Nonno, nonno mi accompagni a prendere il latte?» Filo ha afferrato il nonno per la manica della giacca da camera, con foga: già gli si scioglieva in bocca il cioccolatino promesso in premio dalla mamma. «Come, cosa? A prendere le tazze?» ha domandato il nonno, senza capire. «Ma sono in cucina, le tazze, perché mi porti sul pianerottolo?» ha brontolato poi, cambiandosi la giacca in fretta e furia. «Latte, nonno, latte, non tazze! Su, andiamo!» ha urlato allegro Filo, e intanto lo spingeva nell’ascensore senza tanti complimenti. «Latte, va bene, latte, ho sentito, non sono mica sordo» ha precisato il nonno, abbottonandosi la giacca. Il nonno, professore di matematica da anni in pensione, l’avrete certo capito, è un po’ duro d’orecchi. Lui sostiene che quel «lieve deficit uditivo» gliel’hanno procurato i suoi 4800 allievi, che in 40 anni di servizio gli hanno gridato a più non posso con la mano alzata: «Professore, non ho capito, me lo rispiega?». Ogni volta che il nonno racconta dei 4800 allievi in 40 anni, gli si gonfia il cuore di emozione, poi inforca gli occhiali a bruciapelo: «4800 allievi in 40 anni: quanti allievi fanno in un anno?». Eh, sì, è più forte di lui: non può smettere di interrogare. Il tempo, per il nonno, s’è fermato quel brutto giorno che è stato «collocato a riposo», costretto a lasciare l’insegnamento per «raggiunti limiti d’età». Ma il mondo della scuola gli è rimasto dentro, lì, in fondo al cuore, né riesce a sentirsi altro che un professore. Così, succede che noi di famiglia abbiamo dovuto indossare i panni dei suoi allievi. A volte, però, non bastiamo come classe, e finisce che se la prende persino con gli estranei. Ricordo che un giorno, entrando in una panetteria gremita di gente vociante, si portò l’indice alle labbra e, severo, comandò: «Sssssssshhh… fate silenzio!». Si voltarono tutti, ma proprio tutti; io volevo scomparire, perché mi aspettavo già il seguito: «E ognuno al suo posto!».
Nicoletta Costa, I miei nonni, I Quaderni di Barbara, Ed. Andersen
Anna Cerasoli, I magnifici Dieci. L'avventura di un bambino nel mondo della matematica, Sperling & Kupfer
foga: fretta.
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Uno zio speciale
Non tutti gli ospiti vengono per nuocere!
Niente da fare. In famiglia c’è una vena di stramberia. È una delle frasi preferite da papà quando intende riferirsi a zio Remigio. A me, invece, lo zio piace così com’è. A lui non importa dei vestiti e s’infila addosso la prima cosa che trova a portata di mano: il pullover a rovescio, la camicia che esce dai pantaloni, il cappello schiacciato come una focaccia. Un tipo strano? Certo, se essere strani vuol dire battere tutti a biglie, costruire un mulino a vento con qualche legnetto e due turaccioli, conoscere decine di giochi con le carte, tutti diversi. Lo zio Remigio è proprio speciale: è un asso del computer, e quindi immagini che sia precisissimo, invece casa sua sembra un campo di battaglia: pile di libri ammucchiati qua e là, scatole di biscotti abbandonate per terra, piante secche che nessuno innaffia da mesi e mesi. Insomma, quando c’è lui, noi bambini non vediamo nessun altro, come dice la mamma. Credo proprio che il papà sia un po’ geloso di un tipo tanto speciale.
«Stasera abbiamo ospiti a cena, comportatevi bene». Ospiti a cena... ospiti adulti che per tutta la sera parleranno di cose da adulti, di lavoro, di politica. Che noia! Il problema degli ospiti a cena è che la cena è lunga e spesso le pietanze sono complicate. Con gli ospiti a cena potete sognarveli la cotoletta con le patatine o gli gnocchi al ragù, slurp. Gli ospiti a cena portano doni, ma sono bottiglie di vino che ai ragazzi non interessano o scatole di cioccolatini complicati con creme strane o perfino il liquore, non dei bei semplici gianduiotti. Ospiti a cena. E i ragazzi devono “comportarsi bene”. Comportarsi bene va tradotto così: sedersi insieme a tutti gli altri, non alzarsi prima che gli adulti si alzino, forchetta afferrata dal fondo, pulirsi la bocca prima di bere, tovagliolo da usare ma, perbacco, mantenere pulito: ma se deve restare pulito, allora non usiamolo! Invece il rimprovero è inevitabile: «Guarda lì come hai ridotto il tovagliolo». Come se ci si potesse pulire con la manica (altra cosa che rientra nel “comportarsi male”). E ancora: parlare solo se avete il permesso anche se gli argomenti sono di una noia mortale. Ah, poter finire in fretta, alzarsi e fuggire in camera a giocare... Invece no. E, appena finito, è così tardi che bisogna andare subito a letto. Poi gli ospiti arrivano («Stringete bene la mano, non datela moscia e flaccida!»). Sorpresa! Niente vino millesimato, niente cioccolatini belgi. «Vi piace il Lego? Abbiamo portato un trasporto di Guerre Stellari per i ragazzi. Perché non lo costruite subito? Non starete mica a tavola con noi tutto il tempo…». Ospiti meravigliosi! I genitori non possono opporsi. Perfino il polpettone con le verdure scivola giù senza danni. E poi... «Ehm, poi ci fate giocare con voi? Sorpresa: abbiamo portato anche un caccia ribelle». Il problema delle serate con gli ospiti è che i figli si comportino bene, siamo d’accordo. Ma se sono gli ospiti i primi a comportarsi bene, le cose andranno benissimo.
Beatrice Masini, Mio tuo nostro, De Agostini
Qual è una delle frasi preferite dal papà, quando vuole riferirsi allo zio Remigio? Come si veste lo zio Remigio? Cosa sa fare Remigio? Conosci una persona che tu consideri speciale, con «una vena di stramberia»? Descrivi le sue caratteristiche. Cosa ama fare? Cosa ti colpisce di tale persona?
Umberto Folena, Benedetta Famiglia, da «Popotus», n. 1964, 2 febbraio 2017
stramberia: stranezza, particolarità. turaccioli: tappi di sughero.
pietanze: cibi. vino millesimato: vino prodotto con i vitigni di una singola annata.
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La signorina Euforbia
L’ingaggio
Cosa ci facesse negli anni duemila la Signorina Euforbia era difficile a dirsi. Già il nome suonava di un altro tempo, ma non era certo colpa sua se il papà l’aveva chiamata così perché adorava le piante e, fra tutte, l’Euforbia in particolare. Sì, proprio quella piantina verde, sconosciuta ai più, la cui bellezza non deriva tanto dai suoi fiori, quanto dalla trasformazione delle foglioline che in una certa stagione dell’anno al loro interno si colorano di scuro e creano una curiosa forma a cuore. Allo stesso modo, anche da Euforbia nascevano fiori insoliti, che solo i veri intenditori sapevano riconoscere. E in qualche modo anch’essi avevano a che fare col cuore, e la sua dolcezza. Che dire poi di quel signorina costantemente appiccicato al suo nome? Nonostante l’età non fosse più quella di una giovinetta, lei ci teneva moltissimo a chiamarsi così; tanto che nessuno conosceva il suo vero cognome e per tutti era semplicemente la Signorina Euforbia, con due maiuscole. Dunque, la Signorina Euforbia aveva un negozio tutto suo in città, a metà circa di una strada deserta. Era il tipico posto dove o ci si capita per errore – nel qual caso significa che ci si è veramente persi – o si cerca giusto quello. In tutta la via non c’era altro. […] Eh già, la Signorina Euforbia aveva una pasticceria. Aveva imparato quel mestiere da bambina grazie a sua zia Maria, che a sua volta l’aveva imparato dalla zia Adelina che era stata a scuola da zia Elvira. Da chi l’avesse imparato quest’ultima si perdeva nella notte dei tempi, ma di sicuro c’era stata una qualche trisavola che aveva provveduto. Essere pasticciera era, infatti, una tradizione delle donne di famiglia.
Una banda di ragazzi giocava a pallone nel campetto. Bruno moriva dalla voglia di unirsi a loro. «Perché non vai a giocare anche tu?» gli chiese sua madre. «Non li conosco, non mi vorranno di sicuro». «Ma non dire sciocchezze! Tu giochi bene a calcio. Prova a chiedere almeno!». Bruno era molto timido, ma prese il coraggio a due mani, scese in strada e si diresse verso di loro. «Ehi, ragazzi, posso giocare con voi?» gridò. «Giocare?» fece Ciccio «E chi gioca? Noi siamo in allenamento». «E non potrei allenarmi con voi?» supplicò Bruno. Gli altri si guardarono perplessi. «E va bene» decise Cesare. «Vediamo un po’ cosa sai fare». Bruno non fece una gran figura: mancava la palla, inciampava, cadeva, rovinava tutte le azioni, urtava e spingeva i suoi compagni. «È perché non mi alleno da un sacco di tempo» cercò di scusarsi. «Mettiamolo in porta» propose Sgrinfia «lì non farà malanni». Dopo essersi abituato al nuovo ruolo, Bruno cominciò a divertirsi. Poco dopo Bruno fece una parata particolarmente spettacolare. «Niente male! Proprio niente male!» disse Sgrinfia. «Vieni con noi sabato, potrai essere la nostra riserva, amico!». Colin McNaughton, Partita di pallone, Edizioni EL
Luigi Ballerini, La signorina Euforbia, San Paolo Edizioni
perplessi: poco convinti, dubbiosi. spettacolare: grandioso, bellissimo. Ti è mai capitato di vedere dei bambini giocare e di provare il desiderio di unirti a loro? Come ti sei comportato? Racconta.
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Manuel e la lucertola Cacciavo le lucertole con dei lunghi fili d’erba. Ne prendevo uno, sulla punta legavo un cappio; poi mi sdraiavo e, rimanendo immobile, aspettavo che la lucertola si avvicinasse. E, soprattutto, che si abituasse a me, alla mia presenza. Avevo appena cinque anni, ero piccolo e magrissimo. «Deve essere molto facile catturare una lucertola con i fili d’erba del padrone» pensai sdraiato tra l’erba irregolare e selvatica di un praticello sperduto in mezzo al bosco, appena fuori dal paese. Una mosca si posò sulla punta del mio naso, camminò con le sue minuscole zampettine sulla mia pelle, si fermò a due dita dai miei occhi, muovendo le antenne e roteando su se stessa, poi si librò in aria, ma il suo volo durò meno di un secondo. Si posò sulla mia fronte. Non riuscivo a vederla, naturalmente, ma sentivo il suo incedere lieve e pruriginoso. Avrei voluto scacciarla via, in fondo sarebbe bastato il gesto di una mano, eppure rimasi immobile, il collo rigido, la testa marmorea, riuscivo persino a controllare il battito delle ciglia. Non potevo certo mandare all’aria il mio piano e ore di pazientissima attesa per una stupida mosca! E proprio mentre stavo per farcela! Poi la mosca se ne andò e io rimasi solo e immobile di fronte alla mia preda. Osservavo le sue quattro zampe, il suo corpo verdastro, piatto e squamoso e la sua lunga coda; ma lei pareva non avermi visto o forse si era abituata alla mia presenza. «Che bella… Chissà a cosa sta pensando… Forse mi ha preso per un sasso o per un grande animale» fantasticavo tra me e me, innestando una catena di domande una più strampalata dell’altra. «Ma le lucertole pensano? E le mucche? E quei cani feroci? Perché gli animali non parlano e noi sì? Ma quando muggiscono, quando abbaiano si capiscono? E i pesci? Poverini, loro stanno sempre zitti e sono sempre bagnati». La mia mente vagava tra mille fantasticherie, ma poi tornava alla lucertola. Stavo cacciando e nulla avrebbe potuto distrarmi, nemmeno un tuono, né il crollo di un albero, né la pioggia incessante. Avevo lanciato la sfida e non potevo perderla proprio alle ultime mosse, le più difficili. Smisi di pensare alle mie stramberie e passai all’azione. Le mie dita stringevano l’estremità del filo d’erba e iniziai a muoverle molto lentamente verso il piccolo rettile, immobile di fronte a me e intento a catturare gli ultimi tepori di un sole sempre più sbiadito. Sapevo di non avere più molto tempo e lanciai l’attacco finale. Spostai la
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mano un po’ più in là continuando a fissare la lucertola, che però sembrava assopita. Ormai ero diventato un cacciatore provetto e sapevo di poter vincere. Avanzai le dita di un paio di centimetri, osservando compiaciuto il cappio d’erba immobile di fronte alla sua testa. «Stupida lucertola! Non ti accorgi di niente!» pensai, preparando l’ultima, decisiva mossa. Contai nella mia mente: «Uno, due e… tre!». Infilai il cappio nella testa e lo serrai rapidamente. Solo allora la lucertola iniziò a dimenarsi e io a esultare. «Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!». Più lei si agitava, più io ridevo, ma il mio non era il crudele compiacimento per la sofferenza impartita, bensì il giusto orgoglio per la perizia dimostrata. Sì, ero bravo, anche se nessuno me lo diceva mai. Nessuno mi faceva mai i complimenti, non i miei familiari, né i miei amici. Be’, amici era una parola grossa, diciamo i bambini del mio villaggio che ogni tanto giocavano anche con me. E allora mi congratulavo da solo: «Bravo Manuel!». E ridevo, eccome se ridevo. Solo, in mezzo a un prato. E poi non facevo male a nessuno. Gli altri bimbi si divertivano a torturare le lucertole. Ma io non ero come loro e a me quelle cose facevano proprio schifo. Io non odiavo gli animali, io non provavo piacere a farli soffrire. Io le lucertole non le uccidevo mai. Le rispettavo e concludevo la caccia a modo mio. Appendevo il collare dal quale penzolava la lucertola a un tronco d’albero e poi aspettavo. Io iniziai a contare. «Uno… tre… sei…». Conoscevo già il finale. Al dieci riuscì a spezzare il laccio d’erba attorno al collo, la vidi cadere sulla schiena, girarsi rapidamente su se stessa e fuggire sotto un cespuglio. Il duello era finito senza vinti, né vincitori, come sempre. Io avevo dimostrato a me stesso quanto ero abile; la lucertola, dimenandosi, era riuscita a restare in vita. Marcello Foa, Manuel Antonio Bragonzi, Il bambino invisibile, Piemme
innestando: dando inizio.
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Femmina
Tu sei un bene per me
C’era una banda di bambini vicino a casa mia, ma erano tutti maschi, e nati, poi, in quel paese di montagna. «Sei una femmina, non puoi giocare con noi», mi dicevano. Li stavo a guardare, arrampicata su una staccionata affacciata sul loro cortile. Giocavano a nascondino, a bandiera, a rincorrersi, e io sapevo che non avrei mai corso veloce come loro. Un giorno giocavano a chi saltava dal punto più alto di un muro obliquo, parallelo a una scala. Si sfidavano, osando ciascuno ogni volta un salto più audace. Io li osservavo, zitta. Il salto più alto misurava quanto il piano di una casa: ai miei occhi, un abisso. Però, pensai improvvisamente, saltare, in fondo, era un attimo e avrei dimostrato di essere coraggiosa. Forse, mi avrebbero accettata fra loro. Mi alzai, e senza dire niente raggiunsi il punto più alto del muro. Sentivo nel petto il battito del mio cuore. I ragazzi si erano fermati a guardarmi, meravigliati, muti. Nessuno ancora aveva osato il salto più alto. Ricordo come fosse ora i loro occhi addosso, e la paura, e l'attimo di vuoto, e il tonfo sulla ghiaia, dura. Ci fu, allora, un istante di silenzio. Poi, il capo della banda venne a stringermi la mano. Da allora mi lasciarono giocare. Da allora non mi sentii mai, con la mia treccia sulle spalle, inferiore a loro.
Sono una maestra di scuola primaria, e con alcune amiche ho cominciato a insegnare italiano ai ragazzi che arrivano in Italia con i barconi; è un lavoro che faccio gratis, si chiama Caritativa. Fino a quando non li ho conosciuti, gli immigrati per me erano un po’ un fastidio e un problema: ma quanti ne arrivano? Sono buoni o ci sono anche i cattivi, quelli che fanno le stragi? Chiedono sempre soldi, dicono che hanno fame, ma io non posso mica aiutarli tutti! Così per strada passavo avanti, magari allungando distratta qualche spicciolo, fino al giorno in cui li ho conosciuti: ragazzi giovani dai nomi difficili da ricordare, tutti con la pelle nera, i vestiti presi alla Caritas. Ci siamo stretti la mano, abbiamo cominciato a parlare un po’ in italiano, un po’ in inglese e un po’ in francese. Su un mappamondo mi hanno fatto vedere la strada fatta spesso a piedi per arrivare fino in Libia, mi hanno raccontato dei barconi… alcuni dei loro amici sono morti nel nostro Mar Mediterraneo, così bello e così azzurro. Loro invece sono arrivati a Rimini, fino a me e alle mie amiche: le nostre strade si sono incrociate. A volte ridiamo, perché c’è sempre qualcuno di loro che sbuffa: «Italiano difficile! Mi fa male la testa!». Allora si fa una pausa, ci raccontiamo le cose della vita: alcuni hanno lasciato nei loro paesi dei figli piccoli, la famiglia. Altri hanno vissuto dei grandi dolori, così tanto brutti che ancora i loro occhi si riempiono di lacrime; io racconto delle mie figlie grandi, della mia famiglia, del mio lavoro di maestra. Una volta hanno riso, perché ho detto che studiavano i verbi più dei miei bambini a scuola! Questi ragazzi mi accolgono sempre col sorriso, hanno voglia di imparare a parlare e leggere la nostra lingua. «Perché?» ho chiesto un giorno a Samson. Lui mi ha risposto: «Per avere degli amici e per lavorare». Samson poi ha preso la sua matita e mi ha detto: «Vedi? Se io piego questa, si rompe, ma se prendo due e metto vicine e piego, non si spezzano, sono forti. Ecco amicizia, come con te». L’italiano non era proprio corretto, ma ho capito bene cosa voleva dire: io e lui siamo amici.
Marina Corradi, Con occhi di bambina. Settantotto racconti, Edizioni Ares
Maestra Carla
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Perché abbiamo la pelle di colori diversi? Oggi a scuola è arrivata una bambina nuova con la pelle scura e le treccine: si chiama AIFA. «Perché Aifa ha la pelle di un colore diverso dal nostro?» chiede Anna alla maestra. «Perché ha più MELANINA di noi…» dice la maestra «… è un “colorante” che protegge dai raggi del sole. Aifa proviene dal Ghana, un Paese caldo, e la melanina protegge la sua pelle dalle scottature». «Maestra allora perché Ola è così chiaro? Non può prendere il sole?» chiede Giacomo incuriosito. «La famiglia di Ola una volta abitava in Norvegia, un Paese nel quale il sole scotta meno, e quindi la sua pelle e quella dei suoi familiari hanno meno… “colorante”! Tutti loro, qui da noi dove il sole è più caldo, d’estate si devono proteggere con la crema, altrimenti si scottano». «Sulla terra» spiega la mastra ai bambini «siamo in molti e siamo tutti diversi! Non potete trovare da nessuna parte un bambino uguale a voi. Ogni uomo ha la pelle di colore diverso a seconda del luogo in cui vive o dal quale proviene la sua famiglia». «Ognuno di noi, inoltre, ha anche gli occhi di una forma e di un colore diversi da tutti gli altri» spiega la maestra. «Pure i nasi sono diversi» aggiunge Sara. «Avete proprio ragione!» esclama la maestra. «Pensate a come sarebbe triste se gli uomini fossero tutti uguali» suggerisce la maestra. «Se fossimo tutti uguali e ci vestissimo nello stesso modo non potremmo riconoscerci» prosegue Pier Francesco. «Non sapremmo più chi è la nostra mamma o la nostra migliore amica» aggiunge Lucia. «Se chiamassi “Giovanni” si girerebbero in dieci e io non saprei qual è quello giusto» dice Damiano. «E se il mondo fosse tutto di un solo colore? Che cosa ne pensate bambini?» chiede la maestra. «Io lo vorrei tutto rosa» dice Alice. «Ma io sono un bambino!» esclama Enrico. «Io propongo di colorare tutto di azzurro, allora» ribatte Luca.
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«Così dovrei vestirmi di azzurro anche io!» dice Alice. «Per fortuna ci sono molti colori: così la smettete di litigare» conclude Giacomo. «Siamo tutti diversi, ma ci sono delle cose che amiamo tutti, qualsiasi siano il colore della nostra pelle e la forma dei nostri occhi…» dice la maestra. «Mangiare?» suggerisce Michela. «Esatto! Brava, Michela!» conferma la maestra. «Anche se qualcuno mangia le formiche e qualcun altro preferisce il prosciutto». «Secondo me, tutti i bambini del mondo amano giocare» dice Arianna. «È vero!» esclama Aifa sorridendo. “Anche se spesso fanno giochi diversi…». «Io sono sicura che tutti i bambini vogliono le coccole!» dice Lucia. «Hai proprio ragione!» osserva la maestra. «Come i fiori hanno colori differenti, ma sono tutti profumati, così gli uomini sono diversi ma vogliono tutti essere amati». Sara Agostini, Le sei storie dei perché, Gribaudo
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Giampi il piangina È difficile spiegare perché uno si chiama Giampiero: forse perché il nome piaceva a papà e mamma, forse perché era morto un nonno che si chiamava così. Fatto sta che il nostro amico si chiamava Giampiero. È più facile spiegare perché il nome fu trasformato in Giampi: perché così sembrava più simpatico ed era più corto. Ma tutti capiscono perché di fatto lo chiamavano «Giampi il piangina» o anche semplicemente «Il piangina». Infatti fin da quando era piccolo e non sapeva ancora parlare il suo passatempo preferito era piangere. Piangeva di giorno e piangeva di notte, piangeva strillando e piangeva singhiozzando, piangeva versando lacrime e piangeva a ciglio asciutto. Papà e mamma non sapevano più che cosa fare: non riuscivano a dormire di notte per più di quattro ore di seguito, e di giorno la mamma non riusciva neppure a fare i mestieri di casa, tanto era occupata a consolare questo bambino. Già, come consolarlo? Posso assicurarvi che stava bene di salute, che era amato, coccolato, curato come un principe e non gli mancava nulla. Ma il fatto è che Giampi piangina continuava a piangere. Se vedeva una caramella la pretendeva a tutti i costi, e se non gliela davano subito si metteva a strillare in un modo che i vicini di casa pensavano che lo stessero torturando. Se passando per strada vedeva in una vetrina un giocattolo che ancora non possedeva cominciava col dire: «Lo voglio! Lo voglio!», e finiva per piangere lacrimoni tali che perfino il vigile ne restava commosso e diceva alla mamma: «Ma non sia cattiva, glielo compri...». Quando crebbe i suoi genitori lo mandavano all’oratorio e lui ci andava volentieri e portava il suo bellissimo pallone di cuoio: così poteva far giocare chi voleva lui. E il più delle volte tornava a casa piangendo perché i suoi amici non l’avevano fatto giocare in attacco, ma, visto che era un brocco, l’avevano costretto a stare in porta. Insomma, Giampiero poteva accontentare tutti i suoi capricci, aveva due genitori che gli volevano un bene grande così, aveva la casa traboccante di giocattoli di ogni specie, aveva intorno gente normale, un po’ simpatica e un po’ antipatica, ma insomma gente per bene. A scuola se la cavava senza troppi problemi. E con tutto questo trovava sempre un motivo per essere
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scontento. Un bel giorno Giampi piangina avvertì in casa un’aria nuova: mamma e papà confabulavano tra loro come di cose segrete, qualche volta nel pomeriggio la mamma invece di fare i mestieri se ne stava in poltrona; qualche mattina il papà non partiva per il lavoro all’orario di sempre. Insomma, stava per arrivare una sorellina. Quando nacque fu una gran festa: vennero persino gli zii del Veneto e quelli delle Puglie. La battezzarono e la chiamarono Eleonora. Il nome fu presto abbreviato in Lola e poco mancò che la sorella del Giampi piangina fosse chiamata Lola piagnona. Ma la mamma, che ora aveva molto da fare, ebbe l’idea di affidarla al Giampi: «Sta’ un po’ attento a tua sorella, che io devo cucinare...». E Giampi si metteva d’impegno, a tal punto che si dimenticava di piangere. E anzi, imparò il segreto della gioia. Siccome voleva bene a sua sorella, faceva di tutto perché fosse contenta quando la mamma gliela affidava per qualche tempo: raccontava storie, faceva versi e partecipava ai giochi idioti delle bambine piccole (certo che se l’avessero visto i suoi compagni... sarebbe diventato di tutti i colori dalla vergogna!). E perfino i suoi giocattoli, custoditi con ogni cura nei suoi armadi, venivano concessi almeno da vedere alla Lola. Quando poi fece a pezzi una vecchia automobilina del Giampi, lui invece di diventare furioso, come ci si poteva aspettare, si mise a ridere e disse: «Vuoi sempre vedere cosa c’è dentro: finirai per fare il meccanico...». Il segreto della gioia è dunque questo: non preoccuparsi più solo di se stessi, anzi, farsi carico della gioia degli altri. Mario Delpini, E la farfalla volò. 52 storie sorprendenti, Ancora
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Filastrocca sulla filastrocca La filastrocca è stramba le manca una gamba ma suona la tromba. La filastrocca è ghiotta è ghiotta di parole farlocca filastrocca. Sulla rocca c’è una sciocca che fila una filastrocca. La filastrocca è strana sta nella tana mangia la rana suona la campana aspetta la Befana porta la sottana
Canto Il gioco dell’oca Paolo Amelio
Un gioco di parole per capire che per giocare è necessario essere di buon umore e non prendersela per delle piccole “offese”.
che sia un’anziana? La filastrocca è ghiotta è ghiotta di parole le mangia in un boccone con grande confusione. La filastrocca è rotta ma si aggiusta mentre sale su per le scale. La filastrocca è stretta ma si lascia attraversare da tutto quanto il mare. La filastrocca è vecchia ma ogni giorno ci riprova balocca filastrocca. Fabrizio Frasnedi, Leda Poli, La retorica dei ritmi e del senso. Dalla poesia all'argomentazione, Thema
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Gattopiatto
Pippi Calzelunghe
Edo vorrebbe tanto avere un gatto ma la mamma non vuole. Allora prende i pastelli e ne disegna uno su di un foglio. Purtroppo, non è un gatto paffuto e morbido come gli altri, è un gattopiatto. All’improvviso il gatto disegnato sul foglio gli strizza l’occhio e inizia a raccontare cosa fa un gattopiatto: mangia solo tagliatelle molto piatte, sogliole, fette di ananas e pizza molto sottile; è contento quando può andare in moto (occupa poco spazio). Se vuole tornare in fretta a casa diventa cartolina e si fa spedire! Gli piace leggere e fa volentieri da segnalibro; si trova bene in compagnia dei quadri; ama la musica e l’ascolta in compagnia di altri dischi. Quando trova una poltrona comoda nessuno si accorge di lui! Non c’è cane prepotente che gli possa fare del male; sulla spiaggia fa ombra ai granchi. Conosce personalmente molti marziani; è fidanzato con una televisione… molto piatta! Se c’è bel tempo, gli piace diventare un aquilone. Quando Edo si risveglia il gattopiatto è sparito. Edo si stropiccia gli occhi e guarda sconsolato il gatto che ha disegnato sul foglio piatto e immobile. Un attimo dopo il gattopiatto gli strizza l’occhio e lo invita a seguirlo in nuove avventure…
Tommy e Annika si stavano annoiando, quando all’improvviso videro uscire dal cancello della casa vicina la più curiosa bambina che avessero mai visto: era vestita in modo bizzarro e i suoi capelli color carota erano stretti in due treccioline, ritte in fuori; il naso pareva una patatina ed era tutto spruzzato di lentiggini. Sotto il naso si apriva una bocca decisamente grande, con due file di denti bianchissimi e forti. Il suo vestito era originalissimo: Pippi se l’era cucito da sola. Veramente la sua idea sarebbe stata di farlo blu, ma poi, non bastandole la stoffa, ci aveva applicato qua e là delle toppe rosse. Un paio di calze lunghe, una marrone e l’altra nera, le coprivano le gambe magre. Le sue scarpe nere erano lunghe esattamente il doppio dei piedi: gliele aveva comprate il suo papà nel Sudamerica, grandi così perché i piedi di Pippi potessero crescervi a loro agio e lei non ne aveva mai volute altre. La cosa strana era che quella bambina camminava all’indietro. «Perché cammini a quel modo?» le chiese Tommy. «Tutti in Egitto camminano così» rispose la bambina. «Questa è una bugia bella e buona» osservò Tommy. «Hai ragione... Saremo amici lo stesso, vero?». «Naturale» esclamò Tommy. E all’improvviso si rese conto che quella non sarebbe stata davvero una giornata noiosa.
Luciano Mereghetti, Gattopiatto, Fabbrica dei Segni
sconsolato: triste.
Astrid Lindgren, Pippi Calzelunghe, Salani
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La merenda di Bertoldino
Pinocchio e la medicina
Il maestro Michele ci ha letto oggi un brano molto simpatico. Pensate, è stato scritto quasi cinquecento anni fa! Lo scrittore era appassionato di versi e cominciò a girovagare per corti e fiere raccontando storie. I personaggi principali delle sue storie erano Bertoldo e Bertoldino: il primo astuto e ricco di bonomia e il figlio, invece, stolto e buffone di corte. Queste storie allora facevano ridere molto, e oggi?
Appena i tre medici furono usciti di camera, la Fata si accostò a Pinocchio, e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accorse che era travagliato da un febbrone da non si dire. Allora sciolse una certa polverina bianca in un mezzo bicchier d’acqua, e porgendolo al burattino, gli disse amorosamente: «Bevila, e in pochi giorni sarai guarito». Pinocchio guardò il bicchiere, storse un po’ la bocca, e poi domandò con voce di piagnisteo: «È dolce o amara?». «È amara, ma ti farà bene». «Se è amara non la voglio». «Da’ retta a me: bevila». «A me l’amaro non mi piace». «Bevila: e quando l’avrai bevuta, ti darò una pallina di zucchero, per rifarti la bocca». «Dov’è la pallina di zucchero?». «Eccola qui» disse la Fata, tirandola fuori da una zuccheriera d’oro. «Prima voglio la pallina di zucchero, e poi beverò quell’acquaccia amara…». «Me lo prometti?». «Sì…». La fata gli diede la pallina, e Pinocchio, dopo averla sgranocchiata e ingoiata in un attimo, disse leccandosi i labbri: «Bella cosa se anche lo zucchero fosse una medicina! Mi purgherei tutti i giorni». «Ora mantieni la promessa e bevi queste poche gocciole d’acqua, che ti renderanno la salute». Pinocchio prese di mala voglia il bicchiere in mano e vi ficcò dentro la punta del naso: poi se l’accostò alla bocca: poi tornò a ficcarci la punta del naso: finalmente disse: «È troppo amara! Troppo amara! Io non la posso bere».
Regina: Hai tu merendato bene? Bertoldino: Signora sì. Regina: Che t’hanno dato di buono? Bertoldino: Del lasame e del pane. Regina: Che cosa? Bertoldino: Samale. Regina: Non ti capisco. Bertoldino: Del malase. Regina: Peggio che peggio. Bertoldino: Dico che ho mangiato del lamase. Io parlo chiaro e torno a dire che io ho mangiato del masale. Mi avete capito questa volta? Regina: Che nomi sono questi? Lasame, samale, malase, lamase, masale. Non capisco proprio quel che vuol dire costui, né credo che lo capiscano altri. Filandro: Egli vuol dire salame, serenissima signora. Guardi, maestà, che questo è proprio uno zuccone da friggere, se non è stato capace per cinque volte di dire salame. Se la Regina rise di simile fatto, lo lascio pensare ai miei lettori. Intanto giunse il Re, e, appresa la causa delle risate della Regina, si diede a ridere tanto che alle sue risa rideva tutta la corte. E quel ridere durò tutto il giorno, e talmente furono ripetute quelle parole di lasame, samale, malase, lamase, masale, che quando volevano del salame essi pareva che non sapessero più dire se non lasame, samale e malase, lamase e masale. E ciò durò parecchi giorni. Giulio Cesare Croce, Camillo Scaligeri Della Fratta, Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, Bur
bonomia: bontà di cuore.
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«Come fai a dirlo, se non l’hai nemmeno assaggiata?». «Me lo figuro! L’ho sentita all’odore. Voglio prima un’altra pallina di zucchero… e poi la berrò!». Allora la Fata, con tutta la pazienza di una buona mamma, gli pose in bocca un altro po’ di zucchero; e dopo gli presentò daccapo il bicchiere. «Così non lo posso bere!» disse il burattino, facendo mille smorfie. «Perché?». «Perché mi dà noia quel guanciale che ho laggiù sui piedi». La Fata gli levò il guanciale. «È inutile! Nemmeno così la posso bere…». «Che cos’altro ti dà noia?». «Mi dà noia l’uscio di camera, che è mezzo aperto». La Fata andò, e chiuse l’uscio di camera. «Insomma,» gridò Pinocchio dando in uno scoppio di pianto «quest’acquaccia amara, non la voglio bere, no, no, no!…». «Ragazzo mio, te ne pentirai…». «Non me n’importa…». «La tua malattia è grave». «Non me n’importa…». «La febbre ti porterà in poche ore all’altro mondo…». «Non me n’importa…». «Non hai paura della morte?». «Punto paura! Piuttosto morire, che bevere quella medicina cattiva». A questo punto, la porta della camera si spalancò, ed entrarono dentro quattro conigli neri come l’inchiostro, che portavano sulle spalle una piccola bara da morto. «Che cosa volete da me?» gridò Pinocchio, rizzandosi tutto impaurito a sedere sul letto. «Siamo venuti a prenderti» rispose il coniglio più grosso. «A prendermi? Ma io non sono ancora morto!». «Ancora no: ma ti restano pochi momenti di vita, avendo tu rifiutato di bere la medicina, che ti avrebbe guarito dalla febbre!». «O Fata mia, o Fata mia,» cominciò allora a strillare il burattino «datemi subito quel bicchiere… Spicciatevi, per carità, perché non voglio morire, no… non voglio morire». E preso il bicchiere con tutt’e due le mani, lo votò in un fiato.
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PER SORRIDERE «Pazienza!» dissero i conigli. «Per questa volta abbiamo fatto il viaggio a ufo». E tiratisi di nuovo la piccola bara sulle spalle, uscirono di camera bofonchiando e mormorando fra i denti. Fatto sta che di lì a pochi minuti, Pinocchio saltò giù dal letto, bell’e guarito; perché bisogna sapere che i burattini di legno hanno il privilegio di ammalarsi di rado e di guarire prestissimo. E la Fata, vedendolo correre e ruzzare per la camera, vispo e allegro come un gallettino di primo canto, gli disse: «Dunque la mia medicina t’ha fatto bene davvero?». «Altro che bene! Mi ha rimesso al mondo!». «E allora come mai ti sei fatto tanto pregare a beverla?». «È che noi ragazzi siamo tutti così! Abbiamo più paura delle medicine che del male». «Vergogna! I ragazzi dovrebbero sapere che un buon medicamento preso a tempo può salvarli da una grave malattia e forse anche dalla morte…». «Oh! Ma un’altra volta non mi farò tanto pregare! Mi rammenterò di quei conigli neri, con la bara sulle spalle… e allora piglierò subito il bicchiere in mano e giù!…». Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, Fabbri Editori
guanciale: cuscino. a ufo: a scrocco, senza pagare.
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Un modo di dire
Ridere in famiglia
– Che pioggia! – brontolò Bobby. – Che pioggia! – sospirò Tina. E appoggiando al vetro i loro nasi, i due bambini contemplarono malinconicamente il cielo grigio, la pioggia grigia, le case grigie. D’un tratto Bobby si volse. – Dove sta di casa il commendatore Fadelli? – chiese a sua madre che leggeva il giornale. – Il capoufficio di papà? –domandò la mamma. – E perché mai? – Perché bisognerebbe mandargli a dire che faccia uscire il sole. – Al commendatore Fadelli? Ma cosa dici! – esclamò la mamma un po’ stupita. – Non ho mai sentito discorsi così strampalati come quelli che inventi tu. – Non li invento io – ribatté Bobby, imbronciato. – È papà che l’ha detto. – Ma che cosa ha detto papà? – domandò la mamma più che mai stupita. – Papà ha detto ieri allo zio Camillo: “Adesso che è arrivato il commendator Fadelli, è lui che fa la pioggia e il bel tempo!”.
Domenica 25 marzo, cenavamo tranquilli finché a un certo punto mio fratello maggiore Giacomo ha incominciato a raccontare barzellette, mio papà Marco moriva dal ridere come non mai e la mamma Chiara era andata nella camera da letto perché non ce la faceva più ad ascoltare barzellette. Mio fratello Davide sveniva da quanto rideva, io non ridevo perché non le capivo e allora dicevo: «Cosa ci trovate di divertente?» allora me lo spiegavano tutti insieme. È stata una serata meravigliosa insieme alla mia famiglia! La prossima volta vorrei essere io a raccontare le barzellette almeno le capirei e mi divertirei molto di più.
Annie Vivanti, Sua Altezza. (Favola Candida), Bemporad
«Fa la pioggia e il bel tempo» è un modo di dire, cioè un’espressione caratteristica della lingua italiana. Fare la pioggia e il bel tempo, oppure fare il bello e il cattivo tempo significa imporre la propria volontà in un determinato ambiente, nei confronti di certe persone. Che cosa voleva dire con questa espressione il papà di Bobby? Quale significato le ha invece attribuito il bambino? Conosci altri modi di dire? Se sì, quali? Che cosa significano?
Irene, classe III
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Ranocchi principi
Le mucche senza coda
C’era una fata che andava in giro da uno stagno all’altro trasformando in principi tutti i ranocchi che incontrava. Era più forte di lei: ogni volta che vedeva un ranocchio non resisteva e… zacchete! Lo faceva diventare alto, biondo e con gli occhi azzurri. I ranocchi non erano per niente contenti e speravano di non incontrare mai quella fata. Purtroppo, non era facile per i ranocchi non farsi trovare in casa, così, prima o poi, venivano trasformati in principi. Quei poveri principi però non riuscivano a procurarsi il pranzo. Correvano avanti e indietro con la bocca spalancata per acchiappare moscerini, mosche e zanzare ma restavano quasi sempre a pancia vuota! Un giorno, finalmente, un ranocchio molto intelligente capì che la fata poverina si sentiva sola e sperava in quel modo strampalato di trovare il suo principe azzurro. Allora prese un foglio e scrisse una lettera alla fata: «Cara fata, piuttosto che trasformare tutti i ranocchi in principi, non faresti meglio a trasformare te in ranocchia? Ciao dal tuo ranocchio azzurro». La fata trovò che era davvero un buon consiglio, anche perché era stanca di vagare per paludi. Si trasformò in ranocchia e annullò tutti gli incantesimi fatti prima. Sprigionò e riranocchiò tutti con grande soddisfazione. Infine, sposò il ranocchio intelligente e visse felice e contenta in un fresco stagno verde e blu.
Fra Pierino era buono come il pane. Quando si ammalò Fra Giodòco, passò a letto più di un mese facendo un sacco di storie: – Fra Pierino, sistemami il cuscino, portami la medicina, avvicinami la bottiglia, porta via questo piatto… Diceva che gli faceva male dappertutto: i piedi, la testa, le mani, le reni, il cuore, le dita, il naso, le orecchie… La sera non riusciva ad addormentarsi se Fra Pierino non gli raccontava una favola. Una notte si svegliò e disse: – Mi sento molto male. C’è soltanto una cosa che mi potrebbe guarire. – Che cosa? – Un bel brodo di coda di mucca. Fra Pierino non ci stette a pensare neanche un momento. La mattina seguente prese un coltello, aprì la porta e corse in montagna. Vide due mucche che pascolavano, si avvicinò in punta di piedi e… Zac, zac! Tagliò la coda ad entrambe. Le due mucche si lanciarono all’inseguimento di Fra Pierino sbuffando e soffiando. Fra Pierino corse a precipizio verso il convento. Fra Cipriano, l’ortolano, andava cantando per la strada con un grosso cesto di pomodori. Come li vide, gettò il cesto e scappò via di corsa. Fra Marziano stava accendendo la fucina; fece un balzo e salì sul camino. Fra Olegario, il vecchierello, che camminava appoggiandosi al suo bastone, lo tirò lontano e si arrampicò su un albero. Gli altri frati passeggiavano tranquillamente davanti alla porta del convento leggendo dei libri; gettarono via i libri e salirono sul campanile. Fra Pierino arrivò al convento, fece un salto ed entrò dalla finestra della cucina. Arrivarono le mucche e sfondarono la porta riducendola in pezzi. Finalmente si persero all’orizzonte in un nuvolone di polvere. Arrivò il padrone delle mucche che, infuriato, si mise a rompere i vetri insultando i frati e chiamandoli ladri. Quando tornò Fra Pierino, tutto stracciato, lo rimproverarono molto e gli domandarono di andare a chiedere scusa al mandriano e alle mucche. Fra Pierino andò a mettersi in ginocchio davanti all’uomo che vedendone l’umiltà lo abbracciò. Il frate si avvicinò alle mucche, le baciò sul muso e se ne tornò al convento. Fece bollire le code e preparò un ottimo brodo. Fra Giodòco lo sorbì e si leccò i baffi.
Guido Quarzo, Ranocchi a merenda, Piemme
Perché il ranocchio, nella lettera che scrive alla fata, si firma «ranocchio azzurro»?
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Un soffione Un soffione non è un uomo alto e grasso che gonfiando le gote soffia molto forte, ma un fiore leggero e tondo come una palla che al minimo soffio sparisce. Antonio Porta, Giovanni Raboni, Pin Pidìn. Poeti d'oggi per i bambini, Feltrinelli
gote: guance.
Così Fra Giodòco guarì; fra Pierino andò a ringraziare san Francesco e pregò per le mucche: – Ti prego san Francesco, fa’ che le loro code ricrescano. – Ma che strane cose che mi chiedi! – Certo! Altrimenti come faranno le mucche a scacciare le mosche? – Hai ragione. Pregherò per loro. Il santo si mise a pregare e, dopo pochi giorni, alle mucche crebbero delle belle code lunghe, nuove di zecca. Juan Muñoz Martín, Fra Pierino e il suo ciuchino, Piemme Junior
correre a precipizio: correre velocemente.
Il tacchino è: ⬜ un piccolo tacco ⬜ un animale
Il pulcino è: ⬜ una piccola pulce ⬜ il figlio della gallina
Il torrone è: ⬜ un dolce ⬜ una grande torre
Il burrone è: ⬜ un precipizio ⬜ un grosso burro
Il merletto è: ⬜ un piccolo merlo ⬜ un pizzo
Il postino è: ⬜ chi porta la posta ⬜ un piccolo posto
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La patata affettata La signora Patata Cruda andò a trovare il signor Coltello Affilato. – Buongiorno! – disse lui. – Prego, si accomodi! –. La signora Patata Cruda entrò, ma faceva molto caldo, e disse: – Che caldo, qui! Potrei togliermi la buccia? – Ma certo! Posso aiutare? – disse Coltello Affilato. – Sì, grazie! – e il signor Coltello Affilato cominciò a togliere la buccia alla Patata Cruda. – Basta così, signora? – No, ho ancora caldo... – Va bene così? – No, ho caldo ancora...
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Alla fine, la signora Patata Cruda fu senza buccia, e allora cominciarono a parlare. – Come sta? – chiese il signor Coltello Affilato. – Sa, a volte, mi sento sola... Mi piacerebbe essere in due… – rispose la signora Patata Cruda. – Posso tagliarla a metà – propose il signor Coltello Affilato. – Così sarebbe in coppia… – Davvero? Lo faccia subito! – disse lei, e lui, zac, la tagliò in due parti. – Come sta, anzi, come state, adesso? – Bene, benissimo! – dissero le due mezze patate. – Talmente bene che ci piacerebbe essere anche di più! – Posso tagliarvi ancora un po’. – Grazie, sì! – Zac, zac! – Eccovi divise in quattro! – Ancora! Ancora! – Zac, zac, zac, zac: – Eccovi divise in otto! – Che bella compagnia! Ancora, ancora! – Eccovi divise in sedici... Basta così? – Ancora, ancora! Il signor Coltello Affilato tagliò tanti piccoli pezzettini, che parlavano, ridevano, così contenti, che alla fine dissero: – Ci piacerebbe fare un bagno insieme! – C’è qui vicina una padella piena d’olio, – disse il signor Coltello Affilato. – Volete tuffarvi lì? È un po’ caldo, ma così profumato… – Sì, sì! – gridavano le fettine di patata, e tutte si tuffarono nell’olio, e saltando e ridendo diventarono patatine fritte, e finirono nella bocca di due bambini, e così la storia finì: perché la storia di una patata finisce quando è mangiata. Roberto Piumini, C’era una volta, ascolta, Einaudi Ragazzi
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La maglia hi-tech scende in pista Nel prossimo campionato di Formula1, i piloti della McLaren indosseranno Hitoe, una maglietta intelligente che controlla e trasmette i parametri vitali di chi la indossa. Ci sono magliette strette e larghe, a maniche lunghe o corte, belle e brutte, simpatiche o magari antipatiche. E ci sono pure magliette intelligenti. Sì, intelligenti. Una si chiama Hitoe ed è capace di capire come va la nostra salute semplicemente rimanendo attaccata alla nostra pelle. Per merito di una serie di complicate tecnologie riesce a rilevare vari parametri vitali: poi, grazie a un collegamento bluetooth, tramite il nostro ormai inseparabile telefonino o a un computer, li invia a un server che li elabora fotografando come stiamo. Dalla frequenza dei battiti cardiaci a quanto stiamo sudando, da come sono messi i muscoli a tutto il resto. Una gran bella innovazione su cui ha messo gli occhi il mondo della Formula1. Nel corso del prossimo campionato mondiale che impegna i bolidi su quattro ruote e comincerà in primavera, Hitoe sarà indossata
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dai piloti della storica scuderia McLaren. Quella di Senna e Prost ieri, Fernando Alonso oggi. Grazie a essa e alle sue mille funzioni, tecnici, meccanici e medici impegnati nei box potranno conoscere in tempo reale le condizioni del pilota in gara, in modo da gestirlo a distanza. Questo è solo il primo utilizzo della maglietta intelligente, ma è facile pensare che in futuro possa essere usata in mille altre maniere. Per esempio da chi va in palestra, chi corre in bicicletta o magari fa jogging, per le forze dell’ordine e i vigili del fuoco spesso impegnati in servizi che mettono a dura prova il fisico. Hitoe è capace di rilevare anche la postura, quindi può aiutare tutti a stare seduti meglio tanto davanti alla scrivania quanto dietro un banco di scuola. Potrebbe diventare un’amica anche delle mamme, che facendola indossare ai figli riuscirebbero a controllare in ogni momento se stanno sudando troppo, se sono un tantino emozionati o magari arrabbiati. Per il momento non pare che Hitoe sia capace di controllare anche se i piccoli hanno mangiato. Il pensiero fisso per le mamme. Tutte. «Popotus», n. 1958, 12 gennaio 2017
hi-tech: alta tecnologia. collegamento bluetooth: collega, unisce due dispositivi elettronici senza fili. bolide: oggetto che si muove ad alta velocità.
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Che vacanza
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Mettiamoci all’opera Libro pop up
I soldi non bastavano per la villeggiatura, quell’estate, bisognava rinunciare. Ma, a vedere i visi delusi dei figli, la signora Seppietti esclamò: – Quest’anno, faremo le più belle vacanze della nostra vita ... Mare, più montagna, più campagna! Non era impazzita, aveva soltanto avuto un’idea originale. Si trattava, però, di adattare il loro appartamento. La campagna la crearono nella sala da pranzo, portando tutti i vasi di fiori che si trovavano sui davanzali. Con poster e fotografie di alberi alle pareti inventarono un magnifico paesaggio. La montagna fu sistemata nella stanza con il balconcino, dal quale, con il binocolo, si poteva ammirare la suggestiva vista delle vette più alte, cioè i più alti tra i palazzi circostanti. Nella camera del mare, quella più assolata, piantarono l’ombrellone. In costume da bagno, con gli occhiali neri, ci si sdraiava su una spiaggia morbidissima: due sacchetti si segatura sul pavimento. Per bagnarsi, bastava fare due passi ed immergersi a turno nella vasca da bagno. La famiglia Seppietti quell’estate non si abbronzò molto, ma si divertì tanto: genitori e figli non erano mai stati tanto insieme a giocare. Marcello Argilli, I viaggi di Osvaldo e fantageografia, Piccoli
Insieme ai tuoi compagni puoi illustrare una storiella, un racconto o una fiaba attraverso la realizzazione di un libro pop up. Fatevi aiutare da un adulto per la struttura del libro. Stabilite prima che cosa disegnare e di quali dimensioni facendo molta attenzione a ciò che sta davanti e a ciò che sta dietro. Potrete disegnare ambienti, personaggi oggetti magici e animali fantastici su cartoncino. Ritagliate con cura gli elementi e incollateli con colla Vinavil facendo in modo che i disegni non si sgualciscano alla chiusura della pagina e si possano ben vedere all’apertura. Potrete decidere se realizzare una sola pagina oppure illustrare in più pagine le diverse sequenze della vostra storia.
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R A E R T N O INC GLI A MBIEN TI
Rio Bo Tre casettine dai tetti aguzzi, un verde praticello, un esiguo ruscello: Rio Bo, un vigile cipresso. Microscopico paese, è vero, paese da nulla, ma però... c’è sempre di sopra una stella, una grande magnifica stella, che a un dipresso... occhieggia con la punta del cipresso di Rio Bo. Una stella innamorata? Chissà se nemmeno ce l’ha una grande città.
Ascolto La Moldava Bedřich Smetana
La musica descrive il fiume nel suo percorso e racconta la vita che si anima nelle terre bagnate dalle sue acque.
Aldo Palazzeschi
Canto Preziosa vita Paolo Amelio
Un invito a scoprire la bellezza nascosta in ogni particolare della natura intorno a noi.
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Terra Per un piatto di cavolini di Bruxelles comprammo un pezzo di terra. Un pezzo di terra di un metro per un metro per un piatto di cavolini sembrava un buon acquisto. Ma i miei fratelli non ne andavano pazzi. Non erano interessati alla terra, e nemmeno ai cavoli. Io sì, ma quello non contava. Era una cosa nuova come un’altra, per quello avevano fatto lo scambio. Non si poteva mai sapere cosa ne sarebbe venuto. «Scegliete» disse nostro padre. «Quale pezzo volete in cambio dei cavoli? Terra con erba, terra con fiori o terra con terra e basta?». I miei fratelli si guardarono e fecero schioccare le labbra. Scelsero il pezzo di terra con i fiori. Ero a bocca aperta. Perché non il pezzo con l’erba? Lì almeno ci si poteva tenere un coniglio. O perché invece non il pezzo con terra e basta? Lì poteva crescere di tutto: una parte con l’erba per il coniglio, e una parte con i fiori per bellezza, come si preferiva. E terse era così, certo, ma i miei fratelli avevano fiuto per gli affari. Disegnarono un quadrato nell’aiuola dei fiori e dissero: «Questo pezzo». «Questo?» chiese nostro padre. «D’accordo. Allora questo sarà. è alto e profondo, ed è tutto vostro». «Sì!» dissero i miei fratelli, e: «Sì!» dissi io, ed entrammo in casa perché
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dovevamo ancora mangiare. Uno dei miei fratelli disse che avevamo bisogno di un paio di forbici, che dovevamo raccogliere. «Raccogliere cosa?» chiesi io. «Giusto, raccogliere» ripeterono i miei fratelli. «Raccogliere i frutti della terra». E scossero la testa, e fecero roteare gli occhi. Come era possibile, chiedevano, che avessi una fronte così alta eppure così poco cervello? Raccolsero le margherite. Ne fecero dei mazzetti da dieci e le avvolsero in un vecchio giornale, e poi andarono a venderle porta a porta. Dicevano che erano per i bambini poveri e non era una bugia: noi di nostro non avevamo un soldo. L’ultimo mazzetto i miei fratelli lo vendettero a Focke. Era una buona idea: saremmo comunque dovuti andare da lui, alla fine, e così almeno ci risparmiavamo il doppio viaggio. La moglie di Focke andò a prendere una scatola di semi tra la frutta e la verdura, e lasciò che i miei fratelli ci frugassero dentro. Dalla scatola scelsero un grosso pacco con sopra la foto di un mazzo di crescione, e un sacchetto piccolo con una foto di un cestino di prezzemolo. «Semi buoni per piante sane» disse Focke. «Vogliamo sperarlo!» dissero i miei fratelli.