Leggere e incontrare

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È E R E G LEG INCONTRARE Si andava per funghi Si andava per funghi sui tappeti di muschi dei castagni. Si andava per grilli e le lucciole erano i nostri fanali. Si andava per lucertole e non ne ho mai uccisa una. Eugenio Montale

CANTO E NON È MICA VERO Per iniziare un anno tutti insieme occorre che ciascuno di noi “ci sia”!

ASCOLTO QUADRI DA UN’ESPOSIZIONE di Modest Petrovič Musorgskij

La composizione racconta di una visita in un museo, descrivendo pian piano tutti i quadri che si vedono.


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Heidi scopre le montagne Heidi si mise a sedere vicino a Peter e si guardò intorno. La valle si stendeva giù, avvolta nella luce del mattino. Di fronte c’era un grande, candido nevaio che si stagliava contro il blu cupo del cielo; a sinistra si ergeva un enorme masso roccioso fiancheggiato da alti picchi che si innalzavano verso il cielo e che sembravano guardare Heidi severamente. La bimba stava seduta lì, muta come un pesce. Intorno a lei regnava un silenzio profondo: solo il vento passava lieve sulle campanule azzurre. Heidi non si era mai sentita così bene e non desiderava altro che restare sempre così. Passò un bel po’ di tempo. Heidi guardava gli alti monti intorno con tale intensità che alla fine le pareva avessero un volto conosciuto e che la guardassero, a loro volta, come vecchi amici. E così la giornata era trascorsa in fretta. Il sole già si preparava a calare dietro le montagne. Heidi si rimise seduta guardando in silenzio le campanule blu che risplendevano alla luce del tramonto: anche le rocce, in alto, cominciarono a scintillare mandando bagliori violenti. Heidi saltò in piedi gridando: «Peter, Peter al fuoco, al fuoco! Tutte le montagne bruciano, e anche il nevaio, e il cielo. Guarda lassù come ardono le rocce! Guarda le rocce, gli abeti: brucia tutto!». «È sempre così» disse calmo Peter, agitando in aria il bastone «ma non è fuoco». «Ma allora cos’è?» domandò Heidi. «È una cosa che viene da sé» rispose Peter. «Ma guarda, guarda: tutto diventa rosa. Guarda quelle rocce aguzze coperte di neve. Come si chiamano Peter?». «Le montagne non hanno un nome», osservò Peter. E Heidi rimase delusa. Tornarono a casa e alla sera Heidi si mise a sedere sulla seggiola alta davanti alla ciotola del latte con il nonno a fianco. «Perché nonno, le montagne non hanno un nome?» domandò Heidi. «Ma ce l’hanno il nome,» rispose il nonno «e se sei capace di descrivermene una, ti dirò come si chiama». Allora Heidi si mise a descrivere la montagna rocciosa con due alte torri così come l’aveva vista.

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Il nonno rispose che la conosceva e che si chiamava “Nido di falco”. «Ne hai viste ancora?» chiese. Heidi allora descrisse la montagna con il grande nevaio che era diventato rosso fuoco, poi rosa e alla fine si era impallidito. «Anche questa la conosco» disse il nonno «è la Scesaplana». «Allora, ti è piaciuto andare al pascolo?» proseguì il nonno. Heidi gli raccontò tutto e di come era stato tutto bello lassù, soprattutto il fuoco al tramonto. Johanna Spyri, Heidi, Piemme

ergeva: innalzava. Sei stato in qualche bel luogo durante la scorsa estate? Racconta.


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La conchiglia in segno di amicizia

Sullo scoglio «tutto esaurito»

Sono sulla spiaggia di Valverde di Cesenatico, a fare con la mamma e il papà le mie vacanze al mare. Mi sento felice; mi tuffo e mi rituffo, nuoto e ho tanta voglia di giocare. Sulla spiaggia la solita coloratissima confusione di ombrelloni, di sedie a sdraio, cuscini, costumi, palloni, secchielli, bambini. Tutto questo mi mette allegria. L’ombrellone davanti al nostro ripara una simpatica famiglia tedesca: padre, madre e tre figli. Vorrei intendermi con la piccola Anne, darle magari un bacino. Ma niente da fare: lei è timida, non capisce le mie parole, non si fida. Provo a mostrarle una conchiglia per attirarla, le dico: «Vieni, Anne!». Ma la bimba non si avvicina, ha un’aria incerta e buffa sul visino. Per fortuna, scopro che nella pensione in cui alloggiamo, c’è una signora di Bolzano che è sposata ad un austriaco e parla ugualmente bene l’italiano e il tedesco. Mi rivolgo subito a lei, le porgo un foglio e la prego di scrivermi in tedesco la frase: “Vieni, Anna: prendi la conchiglia!”. “Komm, Anne: nimmdie muschel”. Il mattino dopo, prendo una bella conchiglia, la mostro alla piccola Anne e le rivolgo le parole che mi ha scritto la signora. Allora, la bambina mi sorride e si avvicina; poi, senza prendere la conchiglia, ne posa un’altra sul palmo della mia mano, in segno di amicizia. Sono felice. L’abbraccio e le do un bacino. Ormai, siamo amiche.

Non è rimasto un solo appartamento libero per tutta l’altezza dello scoglio semisommerso. Tutti i piani sono occupati, dalla cantina al tetto. Per cominciare, lo scantinato se l’è preso il granchio. Arcigno e indipendente, entra ed esce senza chiedere permesso a nessuno; ed è anche estremamente abitudinario, tanto che in base ai suoi andirivieni si potrebbe regolare l’orologio. Al piano terra abita una coppia di pesci alquanto stravaganti: vanno e vengono a capriccio, nelle ore più impensate. Hanno fatto crescere sul loro balcone un’infinità di alghe che servono anche da riparo dagli sguardi indiscreti. Al secondo e al terzo piano sono venute ad abitare due famiglie di cozze molto numerose e assai rumorose, che comunque non si muovono mai. Al terzo, abitano le patelle. Sono molto gentili ed educate, portano una specie di mantellina a cappe, e non escono mai di casa. All’ultimo piano, quello lussuoso con terrazza e piscina pensile, ci stanno dei gamberi che conducono una vita molto ritirata. Infine, sul tetto, si posano di tanto in tanto due gabbiani che vanno e vengono a piacimento. Anne-Marie Dalmais, Annie Bonhomme, 366… e più storie della natura, Fabbri Editori

Maria Mortillaro, Qui crescono le margherite, EP

Dove trascorre le vacanze estive, la protagonista? Con chi? Che cosa le piace fare? Con chi non riesce a comunicare? In che modo risolve il suo problema? Hai conosciuto un nuovo amico durante le vacanze? Racconta.

arcigno: imbronciato. pensile: sospesa.


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In gita Un giorno papà ha detto: «Domenica andiamo a farci una bella gita!». «Urrà!» abbiamo gridato io e Jonas. «Urrà per la gita!» ha detto Lotta. La domenica la mamma si è alzata presto per fare le frittelle e imburrare i panini e preparare i thermos con la cioccolata per noi e il caffè per lei e il papà. Avevamo anche la gazzosa. Quando il papà ha tirato fuori la macchina ha detto: «Adesso vediamo se c’è abbastanza posto in questo piccolo catorcio. Dobbiamo farci stare la mamma e Fracassone e Fracassina e Frastornina e ventisei frittellone e chissà quanti panini imburrati…». Siamo andati in un posto su un laghetto. Il papà ha messo la macchina lungo una stradina nel bosco e abbiamo portato il pranzo al sacco sulla riva. Nel lago c’era una lunga passerella di legno e io e Jonas e Lotta volevamo andarci per vedere se nell’acqua c’erano dei pesci. La mamma si è subito stesa nell’erba e ha detto al papà: «Io mi piazzo qui e non mi sposto per tutto il giorno. Oggi tocca a te star dietro ai bambini!». Il papà ci ha accompagnati sulla passerella e ci siamo distesi a pancia in giù e abbiamo visto un sacco di pesciolini piccolissimi che nuotavano veloci. E il papà ha costruito delle canne da pesca con dei lunghi bastoncini che ha trovato nel bosco e ci ha attaccato un filo e un ago come amo. Ci abbiamo infilato delle briciole di pane e siamo rimasti lì per un pezzo, ma non ha abboccato neanche un pesce. A quel punto siamo andati nel bosco, anche se la mamma ha detto che non dovevamo allontanarci troppo. Abbiamo visto un uccellino infilarsi in un cespuglio e poi volare via di nuovo, e allora siamo andati a guardare e lì in mezzo ai rami, quasi a terra, c’era un nido con quattro piccole uova azzurrine. Erano le più carine che avessi mai visto! Lotta voleva restare a guardare il nido per tutto il tempo e ha avvicinato Orso per farlo vedere anche a lui. Ma io e Jonas sapevamo di un bell’albero poco lontano e volevamo andare ad arrampicarci, e così Lotta è dovuta venire con noi, anche se non voleva. Io sono coraggiosa e mi arrampico sugli alberi, e anche Jonas, ma Lotta no.

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L’abbiamo aiutata a salire un pochino, ma lei si è messa a urlare: «Fatemi scendere! Fatemi scendere!». E quando è tornata giù ha guardato l’albero tutta arrabbiata e ha detto: «Ma è da pazzi arrampicarsi su alberi come questo!». Poi la mamma ci ha chiamato a mangiare e siamo corsi al laghetto. Aveva messo sull’erba una tovaglia di plastica e addirittura anche un bicchiere con delle primule al centro, e poi aveva tirato fuori i panini imburrati e le frittelle e tutto quanto. Ci siamo seduti a mangiare in mezzo all’erba. È molto più bello che mangiare a tavola. Le frittelle erano buonissime, perché ci abbiamo messo sopra sia la marmellata che lo zucchero. Astrid Lindgren, Lotta Combinaguai, Mondadori


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Gatti

Come sei bello!

Compagni dei pomeriggi più solitari, in quelle estati, erano i gatti che si aggiravano fra i cortili. Se ne vedevo uno mi fermavo, per non spaventarlo e, piano piano, cercavo di avvicinarmi. Li trovavo bellissimi, i gatti, con quelle pupille d'oro. Tigri piccole, di cui non avere paura. Riuscii a diventare amica di tutti i gatti del quartiere. Mi soppesavano a lungo, mi annusavano, cauti; poi si fidavano. Parevano capire che non volevo fare loro del male. Allungavo timidamente una mano ad accarezzarli: morbido, il manto, e caldo il ronfare delle fusa. Se il gatto di passaggio mi pareva magro gli dicevo: «Aspettami», e correvo in casa, e tornavo con una scodella di latte. Il gatto, di nuovo, mi fissava, annusava prudente, poi mangiava. Infine se ne andava, ed era inutile, lo sapevo, cercare di inseguirlo: con un salto si arrampicava sul pollaio e da lì, leggero, per appigli invisibili, era già sui tetti. Creature inafferrabili, imprevedibili, che tornavano un giorno dopo, oppure dieci. Il lampo allora dei loro occhi, nella penombra dell’imbrunire, e lo strusciarsi contro le mie gambe, come tra vecchi amici. Ma se un frullio d’ali ci sfiorava, ecco subito le pupille strette, lo sguardo predatore. Dio, pensavo, ha fatto delle tigri più piccole, perché i bambini le possano accarezzare.

Imparai ben presto a conoscere meglio questo fiore. C’erano sempre stati sul pianeta del piccolo principe dei fiori molto semplici, ornati di una sola raggiera di petali, che non tenevano posto e non disturbavano nessuno. Apparivano un mattino nell’erba e si spegnevano la sera. Ma questo era spuntato un giorno, da un seme venuto chissà da dove, e il piccolo principe aveva sorvegliato da vicino questo ramoscello che non assomigliava a nessun altro ramoscello. Poteva essere una nuova specie di baobab. Ma l’arbusto cessò presto di crescere e cominciò a preparare un fiore. Il piccolo principe, che assisteva alla formazione di un bocciolo enorme, sentiva che ne sarebbe uscita un’apparizione miracolosa, ma il fiore non smetteva più di prepararsi ad essere bello, al riparo della sua camera verde. Sceglieva con cura i suoi colori, si vestiva lentamente, aggiustava i suoi petali ad uno ad uno. Non voleva uscire sgualcito come un papavero. Non voleva apparire che nel pieno splendore della sua bellezza. Eh, sì, c’era una gran civetteria in tutto questo! La sua misteriosa toeletta era durata giorni e giorni. E poi, ecco che un mattino, proprio all’ora del levar del sole, si era mostrato. E lui, che aveva lavorato con tanta precisione, disse sbadigliando: «Ah! Mi sveglio ora. Ti chiedo scusa… sono ancora tutto spettinato…». Il piccolo principe allora non poté frenare la sua ammirazione: «Come sei bello!».

Marina Corradi, Con occhi di bambina, Edizioni Ares

soppesavano: esaminavano.

Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, Bompiani

civetteria: modo grazioso, smorfioso.


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Pippi va a scuola

Ricordi di scuola

«Da domani comincerò ad andare a scuola». Tommy ed Annika batterono le mani dalla gioia. «Urrà! Allora ti aspettiamo davanti al nostro cancello alle otto». «No, no – disse Pippi – non mi è possibile iniziare così presto. D’altronde io a scuola ci andrò a cavallo». E così fece. Esattamente alle dieci giunse nel cortile della scuola al galoppo più sfrenato, balzò dal cavallo in corsa, lo legò a un albero e spalancò la porta della classe con tale violenza che Tommy ed Annika insieme con i loro bravi compagni di scuola sobbalzarono sui banchi. «Salute a voi!» esclamò Pippi agitando il suo ampio cappello. Pippi si buttò a sedere in un banco libero, senza che alcuno glielo avesse assegnato, ma la maestra non sembrò notare la sua maniera sgangherata d’agire. Era una maestra davvero gentile e simpatica, aveva deciso di fare l’impossibile perché Pippi si trovasse a suo agio a scuola. «Benvenuta a scuola, piccola Pippi! Spero proprio che tu ti troverai bene e imparerai tante belle cose. Se intanto vorrai essere così gentile da dirmi qual è il tuo vero nome, – disse la maestra – io lo scriverò nel registro di classe». «Mi chiamo Pippilotta Pesanella Tapparella Succiamenta, figlia del Capitano Efraim Calzelunghem, prima terrore dei mari, ora re dei negri. Pippi non è che il mio diminutivo, perché papà trovava Pippilotta troppo lungo». «Bene – disse la maestra – anche noi ti chiameremo semplicemente Pippi».

La scuola mi aprì nuovi orizzonti: storia, scienze e aritmetica. Ma alcune materie erano noiose specie l’aritmetica: sottrazioni e addizioni mi facevano pensare ad un registratore di cassa. Un giorno, in aula, durante l’intervallo recitai ad uno dei miei compagni una filastrocca umoristica. Il nostro insegnante alzò gli occhi da ciò che stava facendo e si divertì tanto che, quando la scolaresca tornò in classe, me la fece recitare ai compagni i quali si sbellicarono dalle risa. Subito la mia fama si diffuse e l’indomani mi fecero fare il giro di tutte le classi della scuola per ripetere l’esibizione. La scuola cominciò ad entusiasmarmi. Da quel timido e oscuro ragazzetto che ero, divenni il centro dell’interesse sia del maestro che degli scolari. Da allora anche il mio rendimento scolastico migliorò.

Astrid Lindgren, Pippi Calzelunghe, Salani

Hai anche tu un soprannome o un diminutivo con cui ti chiamano? Ti piace essere chiamato così? Perché?

Charlie Chaplin, La mia vita, Rizzoli


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Benvenuta Petra

Un libro dopo l’altro

La mia maestra di terza elementare, Iride, sapeva capire i bambini anche se a volte non esprimevano le loro emozioni. Un giorno arrivò nella nostra scuola Petra, una bambina del circo, da pochi giorni in città. La ricordo con i capelli castani e lisci, incapace di pronunciare una frase di senso compiuto in italiano. Era slava. La maestra sapeva che si sarebbe fermata solo un paio di mesi, ma come fare in modo che quel tempo diventasse un’esperienza utile sia per lei che per noi? Così quella mattina ci fece disegnare il circo. Alla fine incollammo i disegni su un cartellone su cui scrivemmo: BENVENUTA PETRA Lei aggiunse alcune parole nella sua lingua. Il giorno dopo, la maestra arrivò in classe accompagnata da un clown, con le guance e il naso rossi. Sotto il braccio teneva un libro scritto in due lingue: italiano – sloveno. Scoprimmo che Petra aveva scritto sul cartellone: CHE BELLO ESSERE QUI CON VOI!!

Tutti i giorni Matilde faceva una passeggiata fino alla biblioteca. Ci metteva solo dieci minuti e poi, tranquillamente seduta, trascorreva due ore meravigliose in un angolo accogliente e quieto, divorando un libro dopo l’altro. Un giorno la bibliotecaria le disse: «Sai che in una biblioteca pubblica si possono prendere in prestito i libri e portarli a casa?». «No, non lo sapevo» disse Matilde. «Potrei farlo anch’io?». «Certo. Scegli il libro che vuoi e portamelo, in modo che possa registrarlo; puoi tenerlo due settimane e prenderne più di uno se vuoi». Da quel momento Matilde andò in biblioteca solo una volta la settimana, per prendere nuovi libri e rendere quelli già letti. La sua cameretta diventò una sala di lettura, dove passava i pomeriggi seduta a leggere con una tazza di cioccolata calda accanto. I libri le aprivano mondi nuovi e le facevano conoscere persone straordinarie che vivevano una vita piena di avventure. Girava il mondo stando seduta nella sua stanza… Roald Dahl, Matilde, Salani

Che cosa significa la frase: «Girava il mondo stando seduta nella sua stanza…»? È capitato anche a te di girare il mondo leggendo o sentendo leggere? Racconta.


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Cimabue e il bambino Per le campagne del Mugello passeggiava un giorno il pittore Cimabue, venuto a prendere il fresco, dato che in città, a Firenze, il sole dell’estate toglieva il fiato. Mentre passava accanto a un pascolo, vide su una larga pietra chiara al bordo della stradina il disegno di un albero così semplice e ben fatto da lasciarlo a bocca aperta per lo stupore. Cimabue guardò attorno, e non vide nessuno, tranne un pastorello che sorvegliava un gregge di pecore. «Non sapevo che quassù ci fosse un bravo pittore!» pensò Cimabue, e continuò la sua passeggiata. Poco più avanti, ecco un’altra pietra chiara, con il disegno di un uccello in volo così ben fatto da sembrar vero. Incuriosito, Cimabue si chinò a guardare da vicino il disegno, e annuiva lentamente con la testa. Siccome era ora di

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tornare, voltò il passo e riprese la strada. Il pastorello era ancora nel pascolo, e grattava la testa a un grosso cane dal pelo chiaro. Cimabue si fermò, e chiese: – Bambino, sai come si chiama, e dove abita, il pittore che ha fatto i disegni sulle pietre? – Vuoi dire quell’uccello lassù, e quell’albero laggiù, signore? – Proprio quelli. – Ce ne sono altri di disegni, lo sai? – disse allegramente il piccolo. – Vicino alla quercia, là sopra, c’è il disegno di un bue, e poi nel bosco, su una roccia grande, c’è quello di due caprioli! – Ah, bene! – disse Cimabue. – Ma dimmi, piccolo, dove abita il pittore che li ha disegnati? – Non c’è nessun pittore! – rispose il bambino. – E chi ha fatto i disegni, allora? – Io! Cimabue corrugò la fronte. – Non raccontarmi bugie, piccolo! – disse. – Nessun bambino sa disegnare un uccello come quello! Il bambino, senza parlare, prese un bastone dalla punta bruciacchiata che stava accanto a lui, sedette davanti a una pietra, e guardando ogni tanto una pecora che brucava lì vicino, cominciò a disegnare. Cimabue, zittissimo, lo guardava. In pochi minuti la pecora era sulla pietra: ferma, ma sembrava viva. – Qual è il tuo nome, piccolo? – disse allora Cimabue con voce commossa. – Mi chiamo Giotto, signore. – Giotto, ti piacerebbe venire a Firenze con me, e diventare pittore? – A me piacerebbe molto, signore, ma bisogna vedere se piacerebbe a mio padre! Allora Cimabue andò al paese, che si chiamava Vicchio, e cercò il padre del bambino, che si chiamava Bondone, e tanto disse che lo convinse a lasciar andare Giotto a Firenze, nella sua bottega di pittura. E Giotto andò, e imparò a disegnare non con legno bruciato, ma con olio, tempere e terre colorate, e diventò il miglior pittore del suo tempo, e di lui si parla ancora oggi. Roberto Piumini, Storie in un fiato, Einaudi Ragazzi


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METTIAMOCI ALL’OPERA COPIA DAL VERO Per disegnare occorre osservare con attenzione, guardare le forme e le dimensioni, notare le sfumature dei colori e i particolari che la luce evidenzia. All’inizio dell’autunno molti elementi della natura ci stupiscono per i loro vividi colori e le loro forme. Con i tuoi compagni porta a scuola zucche o pannocchie, grappoli d’uva, melagrane o cachi oppure dei fiori di questa stagione. Disponeteli in un punto illuminato. Ora con pastelli a olio o tempere con cura provate a riprodurli su un foglio ruvido. Caravaggio, Canestro di frutta

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STAGIONI E RICORRENZE

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Autunno Il sole non era ancora tutto apparso all’orizzonte. Il cielo era tutto sereno. Di mano in mano che il sole si alzava dietro il monte si vedeva la sua luce, dalle sommità dei monti opposti, scendere, come piegandosi rapidamente, giù per i pendii e nella valle. Un venticello d’autunno, staccando le foglie appassite del gelso, le portava a cadere qualche passo distante dall’albero. A destra e a sinistra nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte. La terra, lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta nei campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza del mattino. Alessandro Manzoni, I promessi sposi, Hoepli

stoppie: steli secchi, paglia. guazza: rugiada.

San Francesco e gli uccelli Un giorno san Francesco, camminando fra Todi e Perugia, sentì delle grida venire da un campo. Incuriosito uscì dalla strada e, dopo qualche passo, vide quattro contadini che correvano di qua e di là agitando bastoni, e urlando brutte parole verso il cielo. San Francesco chiamò: – Fratelli! Ehi, buoni fratelli! Cosa succede? Volete forse spaventare le nuvole con i vostri bastoni, e farle fuggire? Invece la terra ha bisogno della pioggia! – Santo frate! Noi non ce l’abbiamo con le nuvole, ma con i passeri! –


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risposero i contadini. – Appena seminiamo ne arrivano a centinaia, e portano via i semi: come potrà crescere il grano? Quei passeri sono una maledizione! – Nessuna creatura è una maledizione – disse Francesco. – Vedrò quello che si può fare. Ma ora allontanatevi, per favore, e abbassate i vostri bastoni. Rimasto solo nel campo, Francesco chiamò: – Fratelli passeri! Fratelli miei! Da ogni parte del cielo, in pochi minuti, calarono attorno a lui centinaia di passeri. Quando il loro brusio si spense, il santo disse: – Fratelli carissimi, devo dirvi una cosa: i contadini non sono contenti di voi, perché mangiate i loro semi. – Ma noi abbiamo fame – risposero i passeri. – C’è poco cibo nel bosco, quest’anno, e noi dobbiamo sfamare i piccoli nel nido! San Francesco disse: – Ma se trovaste un po’ di grano, lascereste i semi per terra? – Certo! – risposero i passeri, sbattendo le ali. – Ma dove lo troveremo, il grano? – Domani cercate sugli alberi attorno al campo – disse Francesco, poi diede loro la benedizione e li lasciò volar via. Tornati i contadini, il santo disse: – Fratelli contadini, un chicco è solo un chicco, mentre un seme è mille chicchi futuri: date un po’ di chicchi agli uccelli, per avere le spighe! I contadini accettarono. Il mattino dopo, quando i passeri volarono sul campo, videro che sugli alberi, a ogni forca di rami, c’erano piccoli cestini pieni di grano. Così i passeri ebbero da mangiare, i semi restarono nel campo, e i contadini non corsero più in giro, gridando e agitando bastoni. E san Francesco continuò il suo pacifico cammino. Roberto Piumini, Storie in un fiato, Enaudi Ragazzi

Secondo te, qual è il messaggio di questa lettura?

brusio: bisbiglio, rumore leggero. forca: biforcazione, divisione in due.

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Ottobre gioca Ottobre comincia il suo gioco: dipinge le foglie di croco, le indora: se sbaglia le strappa, le dona al vento che scappa. Accende l’ultimo lampo, saluta chi semina il campo, la rondine che trasvola, i bimbi che tornano a scuola. Ma ad un tratto…dov’è la sua gioia? Ottobre fa il broncio, si annoia, piagnucola …pioggerellina monotona, fina fina… Dina McArthur Rebucci

croco: il fiore dello zafferano.

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La foglia nella pozzanghera Sullo specchio appannato d’una pozzanghera ho visto cadere una foglia. Tremava nell’acqua limacciosa portando con sé l’ultimo brivido del vento di novembre. Girava lentamente lungo le sponde del livido lago senza approdare mai. Nel silenzio si udì cadere qualche goccia e la fragile foglia rovesciò l’oro di tutte le stagioni nell’acqua fangosa. M. Altieri


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Un Natale tutto nostro

Lettera da Babbo Natale

La mamma arrivò a casa a mani vuote. Ciò nonostante quella sera festeggiarono il Natale. Il papà accese le candele sull’albero e Nelly recitò una poesia. Sapeva solo le prime due strofe, poi si bloccò. Ma alla mamma piacque lo stesso e il papà non si era neppure accorto che dovesse continuare. La cena fu più breve del previsto. «Così non ho lo stomaco pesante come l’anno scorso,» disse il papà «un cibo così nutriente non mi fa più bene». Non c’erano neppure molti regali da aprire. Così rimase tempo. Molto tempo. Nelly andò a prendere il “Memory” che aveva ricevuto il Natale passato; ogni domenica dell’anno appena trascorso aveva aspettato invano che qualcuno trovasse il tempo di giocare con lei. Adesso i genitori avevano tempo. Il papà non aveva mai giocato a Memory. Dopo un po’ Nelly aveva già trovato sette coppie di carte, la mamma tre e il papà, che di solito voleva sapere tutto meglio degli altri, cercava sempre nel posto sbagliato. Provò ad aiutarsi con dei trucchi, come mettere di nascosto briciole di pane sulle carte che si ricordava. Oppure tenere la mano sul tavolo in modo da segnare con il pollice la direzione in cui si trovava una determinata carta. Nelly scoprì i suoi trucchi. Giocarono una seconda e terza volta e il papà non si arrabbiò per il fatto che aveva sempre perso. Poi giocarono a filetto e a carte. A mezzanotte il papà spense la luce e tutti insieme guardarono fuori dalla finestra. La neve emanava una luce chiara e si sentivano le campane di Natale. «A quest’ora duemila anni fa, è nato il nostro Salvatore» disse la mamma e Nelly sentì che, dopo tutto, adesso era veramente contenta che fosse arrivato il Natale. Quando Nelly andò a letto disse: «E proprio un bel Natale». «Veramente?» chiese la mamma stupita. «Non abbiamo avuto nessuna cena speciale e pochissimi regali». «Però abbiamo avuto tanto tempo» rispose Nelly.

Casa fra le Vette, Cima del Mondo, vicino al Polo Nord Natale 1925 Miei cari ragazzi,

Eveline Hasler, Un sacco di nulla, Piemme Junior.

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quest'anno sono davvero occupatissimo – quando ci penso la mia mano si fa più tremolante che mai – e mica tanto ricco. Sono infatti capitate cose orribili: alcuni regali si sono rovinati, l'Orso Bianco del Nord non mi ha minimamente aiutato e appena prima di Natale ho dovuto traslocare. Potete dunque immaginare in che stato siano le cose, e capirete perché ho un indirizzo nuovo e come mai scriva un'unica lettera per tutti e due. È successo tutto così: un giorno ventosissimo dello scorso novembre mi è volato via il cappuccio, che è andato a piantarsi proprio sulla punta del Polo Nord. Gli ho detto di non farlo, ma l'Orso Bianco del Nord si è arrampicato su quella sottilissima guglia per ricuperarlo e... l'ha fatto. Il palo del Polo si è rotto esattamente nel mezzo ed è piombato sul tetto di casa mia; l'Orso Bianco del Nord è precipitato attraverso il buco ed è finito nella sala da pranzo con il mio


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cappuccio infilato sul naso; la neve del tetto è caduta tutta dentro la casa; sciogliendosi ha spento tutti i fuochi e poi è colata giù nelle cantine dove stavo accatastando i regali di quest'anno. Infine, l'Orso Bianco del Nord si è fratturato una zampa. Adesso è guarito, ma io ero irritatissimo con lui; e così lui mi ha detto che non cercherà mai più di aiutarmi... Credo che si sia offeso e che gli passerà solo il Natale prossimo. Vi mando un disegno dell'incidente e della mia nuova casa in cima alle vette rocciose che sovrastano il Polo Nord (la quale ha delle cantine bellissime scavate all'interno delle rocce). Tanti saluti affettuosi sia a voi due sia a Christopher, il cui nome è piuttosto simile a come suona il mio in inglese, vale a dire Christmas. È tutto: arrivederci. Babbo Natale John Ronald Reuel Tolkien, Lettere da Babbo Natale, Bompiani

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L’abete Non si può parlare delle piante di Natale senza partire dall’abete: è lui, indubbiamente, il principale protagonista della vegetazione delle feste. La sua compatta ed elegante forma a cono lo rende molto adatto a troneggiare nelle case, indicando il cielo con la punta che regge una stella e ospitando sotto le sue fronde sempreverdi i donì destinati ai bambini. Le origini dell’albero di Natale sono però incerte; una tradizione sostiene che durante il Medioevo, nelle piazze davanti alle cattedrali tedesche, si innalzava l’albero del bene e del male, quello, cioè, del Paradiso Terrestre con appese le mele del peccato originale. Infatti Gesù Bambino veniva a cancellare la colpa di Adamo ed Eva e dunque era giusto ricordarlo a tutti i fedeli. Col tempo, poi, le mele rosse e lucide sono diventate palle luccicanti e multicolori, mentre all’albero sono state aggiunte candele e più tardi luci elettriche, a indicare la luminosità spirituale della notte di Betlemme. È dunque un errore sostenere che l’albero di Natale sarebbe un simbolo “meno cristiano” del Presepe: molto usato nei paesi nordici, secondo la sua origine e il suo significato, è anch’esso un segno importante di Cristo, albero luminoso che offre al mondo i frutti del bene. «Popotus», 9 dicembre 2014


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La leggenda del “pan de Toni” Regnava in quei tempi su Milano Bernabò Visconti, famoso per le sue crudeltà. Anni terribili per i poveri lombardi, decimati dalla carestia e dalla peste. I pochi fanciulli che rimanevano erano per lo più orfani e vivevano d’elemosina come Antonio da Terzago, Toni per gli amici. Abitava in una casupola presso un convento e i frati l’avevano occupato come fornaio nella panetteria dei Rosti. Poi, a causa della carestia, il forno era stato chiuso e allora il fanciullo aveva fatto un po’ di tutto: dal garzone dell’ortolano al galoppino. Era la Vigilia di Natale e Toni, senza lavoro e senza un quattrino, si trovò con un sacchetto di castagne secche e un boccale di vino, ingredienti necessari per preparare un pestavino, grossolano ma ghiotto piatto di quei tempi. Aveva anche un po’ di farina bianca, un pezzetto di burro, un po’ di zucchero, un uovo e un cartoccino d’uva passa. Egli avrebbe mangiato il pestavino e con il resto avrebbe preparato un piccolo dolce che avrebbe poi venduto. Fuori nevicava e Toni, mentre le castagne cuocevano, preparò una pagnottella, la tagliò alla sommità con una croce poi, mentre lievitava, preparò il forno, nel quale finì per collocarla al momento opportuno. La levò che suonava la mezzanotte e mentre la posava sulla tavola si sentiva crescere l’acquolina in bocca. Com’era bella, fragrante, con quella bella crosta dorata e qualche uvetta. In quel momento bussarono e come ebbe aperto la porta, Toni si trovò davanti un bel bimbetto quasi nudo, lacero, sfinito, coperto di neve e di fango. «Per carità» disse entrando «un po’ di fuoco, sono intirizzito e ho tanta fame». «Oh, povero piccolo!» esclamò il fornaio «Vieni avanti. Stavo mettendomi a tavola». E riattizzato il fuoco, vi fece sedere accanto il fanciulletto, che aveva due meravigliosi occhi azzurri e riccioli che sembravano oro filato.

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La scodella di castagne che gli servì sparì in un baleno. «Chi sei? Da dove vieni?». Un gesto vago, un balbettio indistinto poi il bimbo chiuse gli occhi, chinò il capo e s’addormentò. Quando all’alba il piccolo si sveglio e vide Toni chino su di lui sorrise e quel sorriso riempì il cuore del fornaio d’una gioia mai provata. «Hai dormito bene?». «Sì!». «Bene. Alzati e vieni a mangiare». «Ancora castagne?». «Ah, no! Ho qualcos’altro per te, un piccolo dolce». E Toni mise la sua pagnottella sulla tavola. Il fanciullo s’avvicinò alla tavola, toccò il dono dell’amico, con una delle sue rosee manine. Poi, mentre una lacrima gli brillava tra le ciglia, mormorò con dolcissima voce: «Grazie Toni, ma è troppo piccolo questo pane per il tuo grande cuore, e io desidero che la tua bontà non finisca mai come finirà questo dolce di Natale, che ogni anno farà la felicità di tanti bimbi, creando a te e alla tua città grande fama. Non dimenticarmi, Toni… sii sempre buono e generoso. Ci rivedremo». Al tocco della piccola mano la pagnottella aveva cominciato a crescere di volume, mentre la figura del bimbo si faceva sempre più luminosa, trasparente. «Gesù, Gesù mio!» gridò Toni cadendo in ginocchio. Quando si alzò, sulla tavola troneggiava un pane enorme, che spandeva all’intorno una deliziosa fragranza. Dopo un lungo esitare, Toni si decise finalmente a tagliarne una bella fetta. Come fu sazio, ne mise alcune fette in un cestello, ripose il resto nella credenza e uscì chiudendosi la porta alle spalle. Conosceva gente in peggiori condizioni delle sue e a quelle recò in dono le porzioni del dolce squisito. Quando rientrò trovò che il grosso dolce era diventato intero: non ne mancava una briciola, ne tagliò altre fette e per tutto il giorno continuò a beneficiare amici e conoscenti poveri, che lo colmavano di benedizioni. Il Natale era ormai passato, e Toni cominciò a vendere quel pan dolce, almeno a coloro che potevano pagare.


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Quante statuine nel presepe!

La notte di Capodanno

Nel presepio possiamo trovare, oltre a Gesù, Maria e Giuseppe, altri personaggi: l’asino, il bue, i Magi, i Pastori, gli Angeli. A volte anche Erode e il Diavolo! Osservando le pose delle statuine si comprende quale rapporto avessero questi personaggi con il bambino Gesù. Il Bambino, avvolto in fasce e accomodato nella greppia, è fatto per essere accolto prima da Maria e Giuseppe e poi da tutti quelli che lo visitano e che desiderano toccarlo e tenerlo tra le mani almeno un po’. Maria, Giuseppe, i Magi, i Pastori, l’asino e il bue, sono coloro che accolsero il bambino. Maria è come una madre regina: a volte in ginocchio che prega, a volte sdraiata e pensierosa con gli occhi rivolti al suo sposo, a volte ancora ha Gesù in braccio per coccolarlo o allattarlo. Giuseppe è sempre di fianco al Bambino e a Maria: è il custode, il protettore della famiglia; spesso prega vicino a Gesù e Maria, a volte sembra desideroso di prenderlo in braccio ma poi lo guarda e basta; a volte ancora allunga la mano per accarezzarlo; spesso allarga le braccia per abbracciare sia Maria che il Bambino. Gli Angeli cantano, suonano e così ci chiamano per far festeggiare l’arrivo nel mondo di Gesù. I Re Magi sono i saggi, coloro che hanno il dono della sapienza e arrivano davanti al bambino dopo un lungo viaggio di ricerche. Hanno dei doni per Gesù: offrono una parte di se stessi a un bambino! Il più anziano è di solito in ginocchio, si è tolto la corona e la depone ai piedi di Gesù perché è il Re dei Re quindi la sua corona non gli serve più. Anche i Pastori, come i Magi, fanno un viaggio per raggiungere Gesù dopo l’esortazione dell’angelo. Non erano saggi come i magi, possedevano poco ma una volta chiamati non esitano a rispondere: svegliano le pecore, le radunano e si mettono in moto. Proprio nella risposta semplice e veloce dei pastori ognuno di noi può identificarsi per decidere di andare verso Gesù.

Un aereo sconosciuto, che stava finendo il carburante, atterrò sull’aeroporto della capitale alle ventitré e ventisette precise. Mancavano trentatré minuti a mezzanotte, ma non a una mezzanotte qualunque. Era infatti la notte del 31 dicembre e in tutto il mondo si attendeva l’anno nuovo. Il pilota sconosciuto balzò a terra agilmente e subito cominciò a dare ordini: – Scaricate i miei bauli. Sono dodici … – Prima si dovranno chiarire alcune cosette, non le pare? – disse il comandante dell’aeroporto. – La prego di mostrarmi i suoi documenti … Venga nel mio ufficio. – Guardi – disse il misterioso pilota – che sono molto atteso. – Per la mezzanotte, immagino! – Appunto, comandante. – Io invece, come vede, sono di servizio e passerò la notte di Capodanno all’aeroporto. Se lei non mi mostrerà i documenti, mi terrà compagnia. – I miei documenti? Ma lei ne è già in possesso – e lo sconosciuto indicò il calendario dell’anno nuovo che pendeva dalla parete dietro una scrivania. – Quello è il documento. Sono il Tempo. Nei miei bauli ci sono dodici mesi che dovranno avere inizio fra ventinove minuti precisi. – Vedo che le va di scherzare. Benissimo, mi terrà allegro. Le dispiace se accendo il televisore? Non vorrei perdermi l’annuncio della mezzanotte. – Accenda, accenda pure. Ma non ci sarà nessun annuncio, fin che lei mi trattiene. Sul teleschermo era in corso uno spettacolo di canzoni. Di quando in quando la presentatrice consultava un grande orologio, appeso dietro l’orchestra, e annunciava: – Mancano venticinque minuti all’anno nuovo… mancano ventidue minuti … mancano venti minuti … Il pilota sconosciuto canterellava, batteva il piede a tempo con l’orchestra, si divertiva … – Un minuto a mezzanotte – disse il comandante a un tratto. – Mi dispiace di non poterle offrire lo spumante. In servizio io non bevo. – Grazie; ma lo spumante non serve. Da questo preciso momento il tempo cesserà di scorrere. Dia un’occhiata all’orologio. Il comandante guardò il

Riduzione da Guida al Presepio, Tools Mostre


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quadrante, si accostò il polso all’orecchio: l’orologio camminava, ma la sfera dei secondi non girava più. Anche sul grande orologio del teleschermo le sfere erano immobili. L’annunciatrice, con un sorriso imbarazzato, stava dicendo: – Sembra che ci sia un piccolo guasto… Musicisti, cantanti e spettatori cominciarono a scrutare gli orologi, a scuoterli, ad accostarli all’orecchio con aria sorpresa. In breve, tutti si convinsero che le sfere non si muovevano più. – Il tempo si è fermato! – gridò qualcuno. Il comandante dell’aeroporto gettò uno sguardo allarmato sullo strano forestiero, il quale gli sorrise. – Ha visto? Colpa sua. – Come sarebbe … colpa mia – balbettò il comandante. – Non è ancora convinto che io sia il Tempo? – Il comandante balzò in piedi e si attaccò al telefono… Poco dopo la telefonata del comandante al ministro, dovunque si sapeva che il Tempo si era fermato in aeroporto perché era privo di documenti. – Evviva! – gridava la gente esultante – Il tempo non scorre più! Non invecchieremo più! Da ogni parte qualcuno telefonava al comandante dell’aeroporto per

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raccomandargli: – Non si lasci scappare il Tempo! … Lo tenga stretto… – Ma un bambino, svegliato dal fracasso e messo al corrente dell’accaduto, cominciò a protestare: – Cosa? Sarà sempre adesso? Allora io non diventerò più grande? Ah, no! Non accetto. Si attaccò al telefono e dette l’allarme agli amici. I bambini scesero per le strade a protestare. – Però, hanno ragione! – disse un passante. – Se il tempo non scorre più, sarà sempre il trentun dicembre, sempre inverno… Sarà sempre notte! Il comandante cominciò a ricevere telefonate allarmate, che chiedevano la liberazione del Tempo. Egli prima esitò poi, finalmente, si decise. – Se ne vada, lei è libero! – Disse aprendo la porta. Il Tempo uscì. Le sfere degli orologi ricominciarono a muoversi. Sessanta secondi più tardi scoccò la mezzanotte. Il nuovo anno era cominciato. Gianni Rodari, Il pianeta degli alberi di Natale, Einaudi Ragazzi

Perché il comandante dell’aeroporto vuole trattenere il pilota sconosciuto? Qual è il documento che lo sconosciuto vuole esibire e cosa contengono i dodici bauli? Per quale motivo il tempo cessò di scorrere? Come reagirono le persone quando si accorsero che il tempo si era fermato? Dopo una iniziale esitazione, perché il comandante decise di lasciare libero il tempo? Il tempo scorre sempre uguale… talvolta ci sembra però che corra veloce o in alcuni momenti sembra quasi che si fermi. Racconta due esperienze che spieghino la percezione che hai del tempo.


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Piccole farfalle Dalle finestre si vedeva il cielo pieno di piccole farfalle che si posavano senza far rumore al suolo. – Non c’è più il cortile! – urlò Severino. – È sparito il prato! Uscimmo nel giardino a veder la neve che aveva già coperto tutto il e continuava a cadere sempre più fitta. – Che silenzio! – Disse Lucia meravigliata. – Sapore di neve – disse Severino – e anche fuori c’è un odore particolare. Uno scricciolo, volando basso a piccoli balzi, entrò in un cespuglio di rose, rovistò, poi volò più in là. Dopo un po’, passarono due cornacchie, volavano alte e lente. Poi giunsero dei passeri: si posarono sui rami del fico, gonfiarono le piume, si capiva che cercavano cibo. Allora Lucia andò in casa, sbriciolò del pane e glielo buttò sotto il portico. Intanto Micione saltava nella neve come un pagliaccio, con

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i baffi d’argento. Arrivò all’abete e da sotto si arrampicò come una scimmia. I rintocchi del campanile si sentivano appena, come se le campane fossero chiuse dentro una scatola. – Avete visto che anche i colori cambiano? – disse Lucia. – Micione, che è grigio, pare nero, la casa è più scura, tutto è cambiato! Quando la neve cessò, c’era un paesaggio di fiaba: tutto era ricamato di pizzi. – C’è la luna! – gridò Lucia sbirciando fuori. – E la neve è azzurra. La luna piena ricreava un mondo e ce lo donava come una fiaba. Mario Lodi, Il cielo che si muove, E. Elle

Spiega i due diversi significati dei seguenti omonimi; poi, scrivi una frase con ognuno di essi. lente: lente: reale: reale: Nel testo, compare tre volte la parola “disse”. Sostituiscila con un sinonimo che sia adatto al contesto. Trova i sinonimi adatti ai diversi contesti: una bambina buona:

fare un discorso:

una torta buona:

fare un lavoro:

una buona occasione:

fare i compiti:

un buon affare:

fare una festa:

un’idea buona:

fare amicizia:


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Filastrocca mascherata

Gara di stagioni

È fiorito

Quando giochi, tu dici «Io ero un re guerriero Eravamo nemici Eri mio prigioniero!». Ma quando è Carnevale Non si dice «io ero» Proprio questo è il suo dono Ti mascheri davvero E puoi dire «io sono»! «Mamma, sono un vampiro!». «Aiuto, c’è un vampiro!». «Uuuhhh! Ora ti acchiappo!». «Aiuto, dove scappo?». «Arrivo, ora ti piglio!». «Dove sarà mio figlio? Il vampiro è vicino, Aiuto, ora mi prende! Se non c’è il mio bambino Nessuno mi difende!». Tu ti togli la maschera «Eccomi! Sono io!» E la mamma ti abbraccia «Sei tu, bambino mio!». E allora giù la maschera Di nuovo sulla faccia «No, io sono un vampiro!». «Aiuto, c’è un Vampiro!». «Uuuhhh! Ora ti acchiappo!». «Aiuto, dove scappo?».

Inverno freddo e grigio e Primavera chiara a Marzo s’incontrarono e fecero una gara. Inverno andò veloce, coprì di neve i rami, filò la bianca brina in splendidi ricami. Del ghiaccio duro e spesso di sopra l’acqua pose, con nebbia fina fina il mondo poi nascose. Ma, allegra, Primavera portò raggi di sole, la nebbia e il ghiaccio sciolse e sparse gemme e viole. Ridiede il verde ai prati e liberò i ruscelli, fece suonar nell’aria il canto degli uccelli. Si arrese il vecchio Inverno sbuffando, un po’ scontento. Giovane, Primavera correva con il vento.

Ohimè! che cosa è accaduto? Il mandorlo è fiorito, ed io nulla ho sentito, nulla ho veduto! S’è guernito e coronato d’un diadema di stelle d’argento: tutta notte ha lavorato e sull’alba splendeva contento. Ed ora le sue stelle le dà al vento: la ghirlandetta fragile e superba la sparpaglia sull’erba del fresco prato! Il miracolo è compiuto: ma io nulla ho veduto, nulla ho sentito! Che cosa dunque è accaduto? Dov’era questo povero cuore assorto, dov’era questo povero cuore muto, se il mandorlo è fiorito ed esso di nulla s’è accorto?

Bruno Tognolini, Libri e altre scritture, G BABY, San Paolo

Maria Loretta Giraldo, Rime per tutto l’anno, Giunti

Angiolo Silvio Novaro

guernito: decorato. assorto: preso da altro.


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Voci del bosco Il bosco echeggiava di voci diverse. Il rigogolo lanciava incessanti grida di gioia, i piccioni tubavano senza tregua, i merli fischiavano, i fringuelli trillavano, i pettirossi cinguettavano, le cinciallegre pigolavano. In mezzo a quel coro, si levava lo schiamazzo delle ghiandaie, la risata ciarliera delle gazze e irrompeva lo stridio metallico dei fagiani. A tratti su quelle voci dominava il grido squillante e breve del picchio o quello acuto e lieto del falco. Felix Salten, Bambi. La vita di un capriolo, Vallardi A.

Dappertutto mammole Dappertutto mammole: nel prato dietro casa, lungo i cigli dei viali, sulle rive del laghetto, all’ombra dei pini e dei pioppi. Non vi è tronco che non abbia, alla radice, tra i fili d’erba e i ciuffi dell’edera, la sua corona di mammole… di una fragranza così penetrante, che le narici le sentono prima che l’occhio le scopra. Se mi curvo su di loro, le distinguo una per una, e nessuna è uguale all’altra: c’è quella più scura e quella più smorta, quella socchiusa e quella troppo aperta; ma tutte col gambo debole e corto, la testina che si piega, una grazia nascosta più espressiva della parola. Ada Negri, Di giorno in giorno, Mondadori

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Aprile

Quando fa caldo…

Aprile Aprile mese sottile mese di petali mese che piove mese di strilli mese di giochi mese di gioie e cose nuove. Roberto Piumini

Felicità C'è un'ape che se posa sopr'un botton de rosa l'annusa e se ne va... In fonno la felicità è una piccola cosa. Trilussa

Quando fa caldo molto caldo se mi parlate per favore usate solo parole con molte effe e vi fffresche e vvventose. Parlatemi con soffi, con affetto, parlatemi davvero, siate affabili, parlatemi di tuffi, stoffe, staffe, avventure, avvocati con i baffi, parlate di farfalle, di favole, affari, offese, avvisi, parlatemi di uffici, di ufficiali, e quando finirete le parole per favore ditemi solo fff e vvv, ma tanto, fin quando viene sera e cala il sole. Roberto Piumini, Io mi ricordo, Nuove Edizioni Romane

echeggiava: risonava ripetutamente. schiamazzo: verso rauco e stridulo. strido metallico: grido acuto, duro e freddo. Riscrivi il brano sul tuo quaderno, trasformando i verbi del brano dal tempo passato a quello presente.

mammole: violette. cigli: bordi, margini. fragranza: profumo intenso e delicato. Sta per arrivare l’estate… Che desideri hai, che cosa vorresti fare durante le prossime vacanze?


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Momenti indimenticabili

Più vivo di prima!

Per il pranzo di Pasqua mio padre dipingeva le uova. Gliele preparava, sode, mia madre; e per lei e per ciascuno dei commensali lui, servendosi di colori a tempera e di un pennellino, inventava un piccolo capolavoro. C’era l’uovo con la chiesetta di un paesino di montagna («Vi piace questa?» chiedeva); c’era l’uovo con i fiori di campo e quello con la colomba della pace; c’era l’uovo con il mare e infine, ambito fra tutti, l’uovo con il cielo attraversato da un volo di rondini. Ogni anno ci proponevamo di conservare le uova dipinte; poi, invece, già alla metà del pranzo di Pasqua le avevamo sgusciate. L’uovo con il cielo attraversato da rondini era l’ultimo ad essere aperto. Mio padre ne rompeva il guscio delicatamente in modo che la parte dipinta rimanesse intatta. «Guardate, guardate ragazzi…». Così dicendo s’era alzato e, sollevando quel che aveva salvato del guscio, sovrapponeva nel vano della finestra il suo pezzetto di cielo dipinto a quello vero di primavera. «Guardate ragazzi: le rondini volano via… attenzione…». Mia madre sorrideva. Noi quattro figli anche, inteneriti da quel sorriso pieno d’amore. E con noi le nostre mogli, che anno dopo anno avevano fatto la tavola pasquale della famiglia più grande e più felice. I bambini, invece, guardavano il nonno con trepidazione, aspettando l’avverarsi di quel prodigioso avvenimento. «Volano, attenzione, volano via…». Il nonno diventava mago e il garrire delle rondini sembrava farsi assordante.

Quando Gesù è morto, i suoi amici tirano giù il corpo dalla croce. Le donne lo avvolgono in un lenzuolo, lo ungono con degli oli speciali profumati e lo mettono nella tomba, una specie di caverna. Poi la chiudono con un bel pietrone. Quel lenzuolo esiste ancora, si chiama Sacra Sindone e, in un modo misterioso che nessuno scienziato è mai riuscito a spiegare, porta impressa l’immagine di un volto. Gesù però non è rimasto a lungo nella tomba. Due giorni dopo la sua morte, mentre i soldati sono fuori di guardia, il pietrone si muove e il corpo di Gesù, senza che nessuno lo avesse rubato, non c’è più. È rimasto lì il lenzuolo ripiegato, vuoto. È domenica all’alba. Questo fenomeno, unico nella storia del mondo, ha un nome speciale che noi ricordiamo la notte di Pasqua: Resurrezione. Gesù, che era morto, non è più morto, risorge, torna vivo con un corpo tutto splendente. Tutto vivo, più vivo di prima! È così vivo Gesù che da quel momento tutti gli uomini possono avere nel cuore la speranza e la gioia. Quando tu incontri degli amici bravi, delle maestre brave, quando trovi una compagnia come questa, tutto ciò è il segno di Gesù che è vivo. Lo scoprirete man mano che diventerete grandi. La Pasqua è Gesù vivo per sempre in mezzo a noi. Gli uomini che amano il buio credevano di farlo morire per sempre; invece, Gesù è risorto ed ha vinto. Ha vinto la luce e, da quella luce, è nata come una grande pianta, la nostra compagnia. Risorgendo, Gesù ha fatto una cosa grandissima: ha “accartocciato” tutto il tempo, tutti i giorni della settimana: lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato e domenica; tutte le settimane; tutti gli anni; tutti i secoli. Il tempo è lunghissimo, ma il cuore degli uomini ha bisogno di cose corte e, per questo, Gesù accartoccia tutto il tempo, lo stringe, fa come una pallottolina piccola piccola piccola, così quello che era di duemila anni fa, di colpo è presente oggi. Perciò Gesù, che è di duemila anni fa, è presente adesso.

Benedetto Mosca, Caro papà. Ricordi di un figlio, Rizzoli

Sottolinea nel testo le frasi che secondo te spiegano il titolo.

Carlo Romagnoni, Tu ed io. Storia dell'amicizia tra Dio e l'uomo, Itaca


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METTIAMOCI ALL'OPERA LA LUCE E IL MARE La Manneporte è un quadro dipinto dal pittore francese Claude Monet mentre si trovava sulle coste frastagliate della Normandia, nel nordovest della Francia. Qui lo si vedeva scalare le scogliere e sfidare le intemperie con il suo cavalletto alla ricerca del punto e del momento più adatti per catturare la luce dei paesaggi che più lo colpivano. Claude Monet, La Manneporte

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Prova anche tu a guardare con gli occhi di Monet: scegli un quadro di Monet che rappresenti il mare, preferibilmente senza troppi particolari. Procurati un cartoncino delle dimensioni di circa 18 x 22 cm e una scatola di pastelli a olio. Traccia a grandi linee con la matita grafite gli elementi che andranno ad occupare lo spazio e con i pastelli a olio sbizzarrisciti utilizzando tratti lunghi e veloci, cambiando i colori alla ricerca delle tonalità di colore e dei giochi di luce che Monet sapeva raccontare nelle sue tele. Fai molta attenzione alla direzione dei tratti, che determinerà la sensazione di movimento del mare o del vento, e ai contrasti di colore che determineranno luci e ombre.


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Chi sa perché?

Curioso, certe volte è così bello il mondo, tutto mi par giocando, tutto mi dà piacer! Allor mi sembra tutta simpatica la gente, cortese, compiacente, piena di buon voler. Tanti giorni invece, avvien tutto il contrario, ognuno è un avversario, tutti l’han su con me. Chi sa, chi sa il perché di questa strana cosa? To’ sarebbe curiosa, dipendesse da me! Lina Schwarz

ASCOLTO CONCERTO PER PIANOFORTE MIb Wolfgang Amadeus Mozart

CANTO COME TI CHIAMI TU? Carlo Pastori

Un canto per conoscerci e riconoscerci.

Il concerto vede svilupparsi il rapporto tra pianoforte e orchestra, in un rapporto di continua contrapposizione come in un incontro tra due persone.


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Diventare grandi

La storia di Ricciolo

Angelica si era appena svegliata e guardava sconsolata fuori dalla finestra: «Un’altra giornata di pioggia» pensò rattristata «anche oggi non potrò uscire in giardino a giocare». Si alzò e senza nessuna voglia andò in bagno a lavarsi. Si vestì e scese al piano di sotto, in cucina, dove la mamma aveva già cominciato a preparare la colazione. «Mamma, che cosa posso fare oggi?» le chiese appena entrata. «Dunque, anche oggi dovremo trovarti una occupazione» la prese in giro la mamma. «Hai già chiesto a tuo fratello se vuole giocare con te?». «Ma mamma! Giocare con Alessandro è una vera noia! A lui piacciono solo macchinine e palloni!». Angelica cominciava a preoccuparsi veramente; neanche il papà, che si era appena svegliato ed era sceso per bere il suo caffè, aveva un’idea che potesse soddisfarla. Ma a quel punto i problemi di Angelica scomparvero. Samuele, il fratellino più piccolo, era entrato in cucina trascinando il suo orsacchiotto di pezza. «Ho trovato!» esclamò Angelica, sorridendo per la prima volta da quando si era svegliata. «Insegnerò a Samuele come ci si può divertire in un giorno di pioggia!». E se ne andò, dimenticando la colazione e la noia. La mamma e il papà si guardarono sollevati: Angelica aveva risolto da sola il suo problema. Forse cominciava a diventare grande.

Vivevano in una grande città, una mamma, un papà e la loro bambina che aveva circa nove anni. Questi genitori avevano da sempre desiderato tanti bambini, perché nel loro cuore e nella loro casa, c’era tanto spazio; così quando l’Angelo Gelsomino raccontò loro la storia di un bimbo col cuoricino matto, che aveva bisogno di due genitori, rimasero per un attimo pensosi, poi sorrisero e cercarono di immaginare il visetto di questo loro secondo figlio. Il bimbo arrivò nella loro famiglia in un giorno di primavera; era molto piccolo. Tutti lo aspettavano e avevano preparato mille cose belle per lui. La sorellina, che si chiamava Alexandra, saltava come un grillo dalla gioia e decise di dargli un nome: dapprima pensò di chiamarlo Cocò, perché questo suono lo faceva tanto ridere; ma poi, guardando i suoi capelli, pensò che poteva essere Ricciolo. In realtà, un nome l’aveva fin dalla nascita, ma era troppo complicato!! Così, da quel giorno, fu per tutti... Ricciolo.

Maestra Paola

Emi Bondioli De Ponti, La storia di Ricciolo, Itaca


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Sempre uguale, sempre diversa Ha 56 anni ma ne ha combinate così tante da poter bastare per tre vite: ha viaggiato per il mondo in lungo e il largo, alla guida di camper e catamarani, ha indossato vestiti firmati dagli stilisti più famosi, è stata campionessa olimpionica, candidata presidentessa d’America ed è persino andata sulla luna! Impossibile? Non per Barbie! Con i suoi 29 cm e mezzo di altezza, una passione sfrenata per il rosa, una fissazione per l’ultimo grido della moda questa donna in miniatura è stata fedele compagna di tante bambine di ieri e di oggi. Proprio una bambina e i suoi giochi hanno ispirato la nascita di Barbie. Succedeva nel 1959, nel salotto di Ruth Handler, una madre americana come tante: osservando la figlia, si accorse che snobbava i bambolotti costosi che le venivano regalati, preferendo ritagliare le sagome di personaggi famosi dalle riviste, per poi vestirle con altri ritagli e inventare storie apposta per loro. Ecco, allora, l’idea: creare una bambola adulta che le bambine potessero usare per giocare a “fare le grandi”. Grazie all’aiuto del marito, il fondatore della casa di giocattoli Mattel, Ruth creò la bambola destinata a diventare la più famosa al mondo, chiamandola proprio con il soprannome di sua figlia: Barbie! «Popotus», 5 novembre 2015

catamarani: grandi navi. stilisti: disegnatori di vestiti di moda. snobbava: sminuiva, non considerava degni di attenzione.

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Vero o falso? Indica con una crocetta.

VERO

FALSO

Barbie ha viaggiato per tutto il mondo.

Barbie è andata sulla Luna.

Barbie è atterrata su Marte.

Barbie è la bambola più famosa al mondo.

Barbie è stata inventata da una mamma che desiderava avere una bambola adulta.

Barbie è stata inventata da una mamma che desiderava creare una bambola adulta per le bambine che volevano giocare a “fare le grandi”.

Barbie fu inventata nel 1959 da una madre americana che osservava sua figlia mentre giocava.

Barbie era il soprannome della figlia di Ruth.

Grazie all’aiuto del marito, il fondatore della casa di giocattoli Mattel, Ruth creò Barbie.

Parlo di me: un gioco che mi ricorda la mia infanzia. Quale gioco conservi ancora in casa, che ti ricorda la tua infanzia in modo particolare? Com’è fatto? Descrivilo. Se osservi in silenzio il tuo vecchio gioco, quali ricordi fioriscono nella tua mente?


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Troppo disordine

Le multe

Anna era una bambina molto disordinata. Quando giocava, in un momento riusciva a mettere la casa a soqquadro. Perciò Anna e la mamma erano sempre occupate a mettere in ordine e non avevano mai tempo di fare una passeggiata prima di pranzo o di leggere una storia prima di cena. La bambina non era affatto contenta di ciò, né contenta era la mamma. «Cara pasticciona,» diceva sempre la mamma «non so come farai a fare un tale disordine». «Non lo so nemmeno io» sospirava Anna. Il giorno dopo fece attenzione per vedere come si formava il disordine. Notò che, per giocare, ella tirava fuori una cosa, poi un’altra e un’altra ancora. «Forse» pensò «se io rimetto a posto una cosa prima di tirarne fuori un’altra, il disordine non si farà più». E così fece: ogni volta che cercava un nuovo giocattolo, prima di tirarlo fuori dall’armadio rimetteva a posto quello con cui aveva giocato prima. Quando venne l’ora in cui bisognava rimettere a posto, la bambina non poteva credere ai suoi occhi: non c’era nulla da mettere a posto! Anche la mamma ne fu molto contenta. «Come hai fatto a mettere le cose in ordine così in fretta?» domandò. «È un segreto!» disse Anna, sorridendo. Da allora in poi, invece di passare tutto il tempo a mettere in ordine, la mamma portò Anna a passeggio e le lesse molte belle storie.

C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così:

Kathryn Jackson, 365 storie, Mondadori

soqquadro: in disordine, sottosopra.

GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA

Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l’aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d’impegno, se l’era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava


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con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così:

QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA

E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. Beatrice Masini, Un papà racconta, Einaudi Ragazzi

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La mamma La mamma lavora in un negozio di cartoleria. È sempre molto occupata e quindi non sta molto con me; io sto con lei e mi piace guardarla. In negozio guardo la mamma mentre serve i clienti, il negozio è grande e non so come faccia a sapere sempre dove sono le cose che le chiedono. In casa guardo la mamma quando si mette il rossetto e vedo tutte le smorfie che fa con la bocca allo specchio vicino alla porta d’uscita. La mamma è allegra e si fa i complimenti da sola. Per esempio quando cucina un buon pranzetto dice sempre: “Brava, Giulietta!”. A volte la mamma è triste ma, se io la guardo, sorride. La cosa più bella della mamma è che sa quello che mi piace anche quando io non lo so. Al mio compleanno mi ha regalato un ombrello giallo. Io non volevo un ombrello e il mio colore preferito è il verde, ma ora sono contenta quando piove perché posso sfoggiare il mio grazioso ombrello giallo.


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Lettera al figlio

A pesca con papà

Caro Giuliano, come stai nella nuova scuola? Cosa ti piace di più: il vivere accanto al mare o il vivere vicino alle foreste, tra i grandi alberi? Se vuoi farmi un piacere, dovresti descrivermi una tua giornata da quando ti levi dal letto fino a quando la sera ti addormenti. Così io potrò immaginare meglio la tua vita, vederti in quasi tutti i tuoi movimenti. Descrivimi anche l’ambiente, i tuoi compagni, i maestri, gli animali, tutto: scrivi un po’ per volta, così non ti stancherai e poi scrivi come se volessi farmi ridere, per divertirti anche tu. Caro, ti abbraccio. Papà

Un sabato, io e mio padre siamo usciti al mattino presto. Abbiamo caricato nel bagagliaio le canne da pesca, i panini e un thermos di tè caldo. – Faremo una gita in un posto segreto – mi disse mio padre. Siamo saliti in macchina e siamo partiti. Quando ci siamo fermati, mio padre ha detto: – Senti l’odore del fiume? Che meraviglia! Sentivo l’odore del fiume. – Quando ero bambino – disse il papà – acchiappavo l’aria, acchiappavo il vento e me li portavo a casa. – E dove abitavi da bambino? – chiesi. – In una casetta. – Com’era la casa dove abitavi da bambino? – chiesi. Il papà ha chiuso gli occhi e ha detto: – Era una casetta grigia con una veranda storta, piccole finestre e il tetto rosso. Intorno alla casa c’erano campi verdi con vivaci fiori rossi e intorno ai campi c’erano alberi alti e verdissimi. – E che cosa c’era oltre gli alberi? – chiesi. – C’era un fiume chiaro e fresco, come questo, dove ho imparato a pescare. – E chi ti ha insegnato a pescare? – Ah! – disse il papà e chiuse gli occhi – È stato mio papà. Mio papà mi ha insegnato a pescare.

Antonio Gramsci, Lettere ai figli, Editpress

Sharon Creech, A pesca nell’aria, Mondadori

Hai mai avuto modo di osservare un fiume, da vicino? Prova a descriverne il colore, l’odore, il rumore e tutti i particolari che hai rilevato con i tuoi sensi. veranda: terrazzino o balcone chiuso.

Descrivi, per il tuo papà, la giornata di scuola.


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I colori delle nonne

I magnifici dieci

Io e mia cugina Francesca avevamo due nonne colorate, una per ciascuna. La mia nonna si chiamava Bianca ed era una nonna dolcissima, con i capelli bianchi, avvolti in una crocchia, gli occhi chiari e le guance rosa. Questa nonna Bianca cucinava pranzetti deliziosi e mi regalava sacchetti pieni di dolci, ogni domenica. Francesca, invece, aveva una nonna di nome Rosa che aveva anche lei capelli candidi, occhi azzurri, guance rosa e che cucinava molto bene. Quando ero molto piccola, a causa di una buffa coincidenza di nomi, pensavo veramente che tutte le nonne avessero un colore… bianco, oppure rosa, al massimo azzurro, ma di un azzurrino pallido pallido… Poi ho capito che non era affatto così anche perché avevamo, io e Francesca, un’altra nonna, in comune, che indossava vestiti dai colori vivaci, si chiamava Ida e non cucinava quasi mai. La nonna Ida non aveva i capelli bianchi e si dipingeva un pochino le gote con il rossetto… La nonna Ida era di Milano ed era quindi molto buffa quando cercava di parlare il dialetto triestino; non era portata per le lingue, ma in cambio era laureata in matematica, cosa straordinaria per una donna di quei tempi, se si pensa che era nata alla fine dell’800. Ogni tanto ci raccontava le sue avventure di quando frequentava il Politecnico di Milano e doveva entrare in aula immediatamente dopo il professore, per non essere assalita dai fischi degli ammiratori… «Perché sapete…» ci diceva la nonna Ida sorridendo maliziosa… «Ero l’unica signorina…». Noi tre cugine l’ascoltavamo a bocca aperta, forse un po’ invidiose. La nonna Ida mi dava molti consigli di bellezza, una volta mi ha messo i bigodini e il giorno dopo, a scuola, non mi riconosceva più nessuno… una disperazione!

«Nonno, nonno mi accompagni a prendere il latte?» Filo ha afferrato il nonno per la manica della giacca da camera, con foga: già gli si scioglieva in bocca il cioccolatino promesso in premio dalla mamma. «Come, cosa? A prendere le tazze?» ha domandato il nonno, senza capire. «Ma sono in cucina, le tazze, perché mi porti sul pianerottolo?» ha brontolato poi, cambiandosi la giacca in fretta e furia. «Latte, nonno, latte, non tazze! Su, andiamo!» ha urlato allegro Filo, e intanto lo spingeva nell’ascensore senza tanti complimenti. «Latte, va bene, latte, ho sentito, non sono mica sordo» ha precisato il nonno, abbottonandosi la giacca. Il nonno, professore di matematica da anni in pensione, l’avrete certo capito, è un po’ duro d’orecchi. Lui sostiene che quel «lieve deficit uditivo» gliel’hanno procurato i suoi 4800 allievi, che in 40 anni di servizio gli hanno gridato a più non posso con la mano alzata: «Professore, non ho capito, me lo rispiega?». Ogni volta che il nonno racconta dei 4800 allievi in 40 anni, gli si gonfia il cuore di emozione, poi inforca gli occhiali a bruciapelo: «4800 allievi in 40 anni: quanti allievi fanno in un anno?». Eh, sì, è più forte di lui: non può smettere di interrogare. Il tempo, per il nonno, s’è fermato quel brutto giorno che è stato «collocato a riposo», costretto a lasciare l’insegnamento per «raggiunti limiti d’età». Ma il mondo della scuola gli è rimasto dentro, lì, in fondo al cuore, né riesce a sentirsi altro che un professore. Così, succede che noi di famiglia abbiamo dovuto indossare i panni dei suoi allievi. A volte, però, non bastiamo come classe, e finisce che se la prende persino con gli estranei. Ricordo che un giorno, entrando in una panetteria gremita di gente vociante, si portò l’indice alle labbra e, severo, comandò: «Sssssssshhh… fate silenzio!». Si voltarono tutti, ma proprio tutti; io volevo scomparire, perché mi aspettavo già il seguito: «E ognuno al suo posto!».

Nicoletta Costa, I miei nonni, I Quaderni di Barbara, Ed. Andersen

Anna Cerasoli, I magnifici Dieci. L'avventura di un bambino nel mondo della matematica, Sperling & Kupfer

foga: fretta.


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Uno zio speciale

Non tutti gli ospiti vengono per nuocere!

Niente da fare. In famiglia c’è una vena di stramberia. È una delle frasi preferite da papà quando intende riferirsi a zio Remigio. A me, invece, lo zio piace così com’è. A lui non importa dei vestiti e s’infila addosso la prima cosa che trova a portata di mano: il pullover a rovescio, la camicia che esce dai pantaloni, il cappello schiacciato come una focaccia. Un tipo strano? Certo, se essere strani vuol dire battere tutti a biglie, costruire un mulino a vento con qualche legnetto e due turaccioli, conoscere decine di giochi con le carte, tutti diversi. Lo zio Remigio è proprio speciale: è un asso del computer, e quindi immagini che sia precisissimo, invece casa sua sembra un campo di battaglia: pile di libri ammucchiati qua e là, scatole di biscotti abbandonate per terra, piante secche che nessuno innaffia da mesi e mesi. Insomma, quando c’è lui, noi bambini non vediamo nessun altro, come dice la mamma. Credo proprio che il papà sia un po’ geloso di un tipo tanto speciale.

«Stasera abbiamo ospiti a cena, comportatevi bene». Ospiti a cena... ospiti adulti che per tutta la sera parleranno di cose da adulti, di lavoro, di politica. Che noia! Il problema degli ospiti a cena è che la cena è lunga e spesso le pietanze sono complicate. Con gli ospiti a cena potete sognarveli la cotoletta con le patatine o gli gnocchi al ragù, slurp. Gli ospiti a cena portano doni, ma sono bottiglie di vino che ai ragazzi non interessano o scatole di cioccolatini complicati con creme strane o perfino il liquore, non dei bei semplici gianduiotti. Ospiti a cena. E i ragazzi devono “comportarsi bene”. Comportarsi bene va tradotto così: sedersi insieme a tutti gli altri, non alzarsi prima che gli adulti si alzino, forchetta afferrata dal fondo, pulirsi la bocca prima di bere, tovagliolo da usare ma, perbacco, mantenere pulito: ma se deve restare pulito, allora non usiamolo! Invece il rimprovero è inevitabile: «Guarda lì come hai ridotto il tovagliolo». Come se ci si potesse pulire con la manica (altra cosa che rientra nel “comportarsi male”). E ancora: parlare solo se avete il permesso anche se gli argomenti sono di una noia mortale. Ah, poter finire in fretta, alzarsi e fuggire in camera a giocare... Invece no. E, appena finito, è così tardi che bisogna andare subito a letto. Poi gli ospiti arrivano («Stringete bene la mano, non datela moscia e flaccida!»). Sorpresa! Niente vino millesimato, niente cioccolatini belgi. «Vi piace il Lego? Abbiamo portato un trasporto di Guerre Stellari per i ragazzi. Perché non lo costruite subito? Non starete mica a tavola con noi tutto il tempo…». Ospiti meravigliosi! I genitori non possono opporsi. Perfino il polpettone con le verdure scivola giù senza danni. E poi... «Ehm, poi ci fate giocare con voi? Sorpresa: abbiamo portato anche un caccia ribelle». Il problema delle serate con gli ospiti è che i figli si comportino bene, siamo d’accordo. Ma se sono gli ospiti i primi a comportarsi bene, le cose andranno benissimo.

Beatrice Masini, Mio tuo nostro, De Agostini

Qual è una delle frasi preferite dal papà, quando vuole riferirsi allo zio Remigio? Come si veste lo zio Remigio? Cosa sa fare Remigio? Conosci una persona che tu consideri speciale, con «una vena di stramberia»? Descrivi le sue caratteristiche. Cosa ama fare? Cosa ti colpisce di tale persona?

Umberto Folena, Benedetta Famiglia, da «Popotus», n. 1964, 2 febbraio 2017

stramberia: stranezza, particolarità. turaccioli: tappi di sughero.

pietanze: cibi. vino millesimato: vino prodotto con i vitigni di una singola annata.


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La signorina Euforbia

L’ingaggio

Cosa ci facesse negli anni duemila la Signorina Euforbia era difficile a dirsi. Già il nome suonava di un altro tempo, ma non era certo colpa sua se il papà l’aveva chiamata così perché adorava le piante e, fra tutte, l’Euforbia in particolare. Sì, proprio quella piantina verde, sconosciuta ai più, la cui bellezza non deriva tanto dai suoi fiori, quanto dalla trasformazione delle foglioline che in una certa stagione dell’anno al loro interno si colorano di scuro e creano una curiosa forma a cuore. Allo stesso modo, anche da Euforbia nascevano fiori insoliti, che solo i veri intenditori sapevano riconoscere. E in qualche modo anch’essi avevano a che fare col cuore, e la sua dolcezza. Che dire poi di quel signorina costantemente appiccicato al suo nome? Nonostante l’età non fosse più quella di una giovinetta, lei ci teneva moltissimo a chiamarsi così; tanto che nessuno conosceva il suo vero cognome e per tutti era semplicemente la Signorina Euforbia, con due maiuscole. Dunque, la Signorina Euforbia aveva un negozio tutto suo in città, a metà circa di una strada deserta. Era il tipico posto dove o ci si capita per errore – nel qual caso significa che ci si è veramente persi – o si cerca giusto quello. In tutta la via non c’era altro. […] Eh già, la Signorina Euforbia aveva una pasticceria. Aveva imparato quel mestiere da bambina grazie a sua zia Maria, che a sua volta l’aveva imparato dalla zia Adelina che era stata a scuola da zia Elvira. Da chi l’avesse imparato quest’ultima si perdeva nella notte dei tempi, ma di sicuro c’era stata una qualche trisavola che aveva provveduto. Essere pasticciera era, infatti, una tradizione delle donne di famiglia.

Una banda di ragazzi giocava a pallone nel campetto. Bruno moriva dalla voglia di unirsi a loro. «Perché non vai a giocare anche tu?» gli chiese sua madre. «Non li conosco, non mi vorranno di sicuro». «Ma non dire sciocchezze! Tu giochi bene a calcio. Prova a chiedere almeno!». Bruno era molto timido, ma prese il coraggio a due mani, scese in strada e si diresse verso di loro. «Ehi, ragazzi, posso giocare con voi?» gridò. «Giocare?» fece Ciccio «E chi gioca? Noi siamo in allenamento». «E non potrei allenarmi con voi?» supplicò Bruno. Gli altri si guardarono perplessi. «E va bene» decise Cesare. «Vediamo un po’ cosa sai fare». Bruno non fece una gran figura: mancava la palla, inciampava, cadeva, rovinava tutte le azioni, urtava e spingeva i suoi compagni. «È perché non mi alleno da un sacco di tempo» cercò di scusarsi. «Mettiamolo in porta» propose Sgrinfia «lì non farà malanni». Dopo essersi abituato al nuovo ruolo, Bruno cominciò a divertirsi. Poco dopo Bruno fece una parata particolarmente spettacolare. «Niente male! Proprio niente male!» disse Sgrinfia. «Vieni con noi sabato, potrai essere la nostra riserva, amico!».

Luigi Ballerini, La signorina Euforbia, San Paolo Edizioni

Colin McNaughton, Partita di pallone, Edizioni EL

perplessi: poco convinti, dubbiosi. spettacolare: grandioso, bellissimo. Ti è mai capitato di vedere dei bambini giocare e di provare il desiderio di unirti a loro? Come ti sei comportato? Racconta.


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Manuel e la lucertola Cacciavo le lucertole con dei lunghi fili d’erba. Ne prendevo uno, sulla punta legavo un cappio; poi mi sdraiavo e, rimanendo immobile, aspettavo che la lucertola si avvicinasse. E, soprattutto, che si abituasse a me, alla mia presenza. Avevo appena cinque anni, ero piccolo e magrissimo. «Deve essere molto facile catturare una lucertola con i fili d’erba del padrone» pensai sdraiato tra l’erba irregolare e selvatica di un praticello sperduto in mezzo al bosco, appena fuori dal paese. Una mosca si posò sulla punta del mio naso, camminò con le sue minuscole zampettine sulla mia pelle, si fermò a due dita dai miei occhi, muovendo le antenne e roteando su se stessa, poi si librò in aria, ma il suo volo durò meno di un secondo. Si posò sulla mia fronte. Non riuscivo a vederla, naturalmente, ma sentivo il suo incedere lieve e pruriginoso. Avrei voluto scacciarla via, in fondo sarebbe bastato il gesto di una mano, eppure rimasi immobile, il collo rigido, la testa marmorea, riuscivo persino a controllare il battito delle ciglia. Non potevo certo mandare all’aria il mio piano e ore di pazientissima attesa per una stupida mosca! E proprio mentre stavo per farcela! Poi la mosca se ne andò e io rimasi solo e immobile di fronte alla mia preda. Osservavo le sue quattro zampe, il suo corpo verdastro, piatto e squamoso e la sua lunga coda; ma lei pareva non avermi visto o forse si era abituata alla mia presenza. «Che bella… Chissà a cosa sta pensando… Forse mi ha preso per un sasso o per un grande animale» fantasticavo tra me e me, innestando una catena di domande una più strampalata dell’altra. «Ma le lucertole pensano? E le mucche? E quei cani feroci? Perché gli animali non parlano e noi sì? Ma quando muggiscono, quando abbaiano si capiscono? E i pesci? Poverini, loro stanno sempre zitti e sono sempre bagnati». La mia mente vagava tra mille fantasticherie, ma poi tornava alla lucertola. Stavo cacciando e nulla avrebbe potuto distrarmi, nemmeno un tuono, né il crollo di un albero, né la pioggia incessante. Avevo lanciato la sfida e non potevo perderla proprio alle ultime mosse, le più difficili. Smisi di pensare alle mie stramberie e passai all’azione. Le mie dita stringevano l’estremità del filo d’erba e iniziai a muoverle molto lentamente verso il piccolo rettile, immobile di fronte a me e intento a catturare gli ultimi tepori di un sole sempre più sbiadito. Sapevo di non avere più molto tempo e lanciai l’attacco finale. Spostai la

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mano un po’ più in là continuando a fissare la lucertola, che però sembrava assopita. Ormai ero diventato un cacciatore provetto e sapevo di poter vincere. Avanzai le dita di un paio di centimetri, osservando compiaciuto il cappio d’erba immobile di fronte alla sua testa. «Stupida lucertola! Non ti accorgi di niente!» pensai, preparando l’ultima, decisiva mossa. Contai nella mia mente: «Uno, due e… tre!». Infilai il cappio nella testa e lo serrai rapidamente. Solo allora la lucertola iniziò a dimenarsi e io a esultare. «Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!». Più lei si agitava, più io ridevo, ma il mio non era il crudele compiacimento per la sofferenza impartita, bensì il giusto orgoglio per la perizia dimostrata. Sì, ero bravo, anche se nessuno me lo diceva mai. Nessuno mi faceva mai i complimenti, non i miei familiari, né i miei amici. Be’, amici era una parola grossa, diciamo i bambini del mio villaggio che ogni tanto giocavano anche con me. E allora mi congratulavo da solo: «Bravo Manuel!». E ridevo, eccome se ridevo. Solo, in mezzo a un prato. E poi non facevo male a nessuno. Gli altri bimbi si divertivano a torturare le lucertole. Ma io non ero come loro e a me quelle cose facevano proprio schifo. Io non odiavo gli animali, io non provavo piacere a farli soffrire. Io le lucertole non le uccidevo mai. Le rispettavo e concludevo la caccia a modo mio. Appendevo il collare dal quale penzolava la lucertola a un tronco d’albero e poi aspettavo. Io iniziai a contare. «Uno… tre… sei…». Conoscevo già il finale. Al dieci riuscì a spezzare il laccio d’erba attorno al collo, la vidi cadere sulla schiena, girarsi rapidamente su se stessa e fuggire sotto un cespuglio. Il duello era finito senza vinti, né vincitori, come sempre. Io avevo dimostrato a me stesso quanto ero abile; la lucertola, dimenandosi, era riuscita a restare in vita. Marcello Foa, Manuel Antonio Bragonzi, Il bambino invisibile, Piemme

innestando: dando inizio.


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Tu sei un bene per me Sono una maestra di scuola primaria, e con alcune amiche ho cominciato a insegnare italiano ai ragazzi che arrivano in Italia con i barconi; è un lavoro che faccio gratis, si chiama Caritativa. Fino a quando non li ho conosciuti, gli immigrati per me erano un po’ un fastidio e un problema: ma quanti ne arrivano? Sono buoni o ci sono anche i cattivi, quelli che fanno le stragi? Chiedono sempre soldi, dicono che hanno fame, ma io non posso mica aiutarli tutti! Così per strada passavo avanti, magari allungando distratta qualche spicciolo, fino al giorno in cui li ho conosciuti: ragazzi giovani dai nomi difficili da ricordare, tutti con la pelle nera, i vestiti presi alla Caritas. Ci siamo stretti la mano, abbiamo cominciato a parlare un po’ in italiano, un po’ in inglese e un po’ in francese. Su un mappamondo mi hanno fatto vedere la strada fatta spesso a piedi per arrivare fino in Libia, mi hanno raccontato dei barconi… alcuni dei loro amici sono morti nel nostro Mar Mediterraneo, così bello e così azzurro. Loro invece sono arrivati a Rimini, fino a me e alle mie amiche: le nostre strade si sono incrociate. A volte ridiamo, perché c’è sempre qualcuno di loro che sbuffa: «Italiano difficile! Mi fa male la testa!». Allora si fa una pausa, ci raccontiamo le cose della vita: alcuni hanno lasciato nei loro paesi

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71 dei figli piccoli, la famiglia. Altri hanno vissuto dei grandi dolori, così tanto brutti che ancora i loro occhi si riempiono di lacrime; io racconto delle mie figlie grandi, della mia famiglia, del mio lavoro di maestra. Una volta hanno riso, perché ho detto che studiavano i verbi più dei miei bambini a scuola! Questi ragazzi mi accolgono sempre col sorriso, hanno voglia di imparare a parlare e leggere la nostra lingua. «Perché?» ho chiesto un giorno a Samson. Lui mi ha risposto: «Per avere degli amici e per lavorare». Samson poi ha preso la sua matita e mi ha detto: «Vedi? Se io piego questa, si rompe, ma se prendo due e metto vicine e piego, non si spezzano, sono forti. Ecco amicizia, come con te». L’italiano non era proprio corretto, ma ho capito bene cosa voleva dire: io e lui siamo amici. Maestra Carla


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Giampi il piangina È difficile spiegare perché uno si chiama Giampiero: forse perché il nome piaceva a papà e mamma, forse perché era morto un nonno che si chiamava così. Fatto sta che il nostro amico si chiamava Giampiero. È più facile spiegare perché il nome fu trasformato in Giampi: perché così sembrava più simpatico ed era più corto. Ma tutti capiscono perché di fatto lo chiamavano «Giampi il piangina» o anche semplicemente «Il piangina». Infatti fin da quando era piccolo e non sapeva ancora parlare il suo passatempo preferito era piangere. Piangeva di giorno e piangeva di notte, piangeva strillando e piangeva singhiozzando, piangeva versando lacrime e piangeva a ciglio asciutto. Papà e mamma non sapevano più che cosa fare: non riuscivano a dormire di notte per più di quattro ore di seguito, e di giorno la mamma non riusciva neppure a fare i mestieri di casa, tanto era occupata a consolare questo bambino. Già, come consolarlo? Posso assicurarvi che stava bene di salute, che era amato, coccolato, curato come un principe e non gli mancava nulla. Ma il fatto è che Giampi piangina continuava a piangere. Se vedeva una caramella la pretendeva a tutti i costi, e se non gliela davano subito si metteva a strillare in un modo che i vicini di casa pensavano che lo stessero torturando. Se passando per strada vedeva in una vetrina un giocattolo che ancora non possedeva cominciava col dire: «Lo voglio! Lo voglio!», e finiva per piangere lacrimoni tali che perfino il vigile ne restava commosso e diceva alla mamma: «Ma non sia cattiva, glielo compri...». Quando crebbe i suoi genitori lo mandavano all’oratorio e lui ci andava volentieri e portava il suo bellissimo pallone di cuoio: così poteva far giocare chi voleva lui. E il più delle volte tornava a casa piangendo perché i suoi amici non l’avevano fatto giocare in attacco, ma, visto che era un brocco, l’avevano costretto a stare in porta. Insomma, Giampiero poteva accontentare tutti i suoi capricci, aveva due genitori che gli volevano un bene grande così, aveva la casa traboccante di giocattoli di ogni specie, aveva intorno gente normale, un po’ simpatica e un po’ antipatica, ma insomma gente per bene. A scuola se la cavava senza troppi

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problemi. E con tutto questo trovava sempre un motivo per essere scontento. Un bel giorno Giampi piangina avvertì in casa un’aria nuova: mamma e papà confabulavano tra loro come di cose segrete, qualche volta nel pomeriggio la mamma invece di fare i mestieri se ne stava in poltrona; qualche mattina il papà non partiva per il lavoro all’orario di sempre. Insomma, stava per arrivare una sorellina. Quando nacque fu una gran festa: vennero persino gli zii del Veneto e quelli delle Puglie. La battezzarono e la chiamarono Eleonora. Il nome fu presto abbreviato in Lola e poco mancò che la sorella del Giampi piangina fosse chiamata Lola piagnona. Ma la mamma, che ora aveva molto da fare, ebbe l’idea di affidarla al Giampi: «Sta’ un po’ attento a tua sorella, che io devo cucinare...». E Giampi si metteva d’impegno, a tal punto che si dimenticava di piangere. E anzi, imparò il segreto della gioia. Siccome voleva bene a sua sorella, faceva di tutto perché fosse contenta quando la mamma gliela affidava per qualche tempo: raccontava storie, faceva versi e partecipava ai giochi idioti delle bambine piccole (certo che se l’avessero visto i suoi compagni... sarebbe diventato di tutti i colori dalla vergogna!). E perfino i suoi giocattoli, custoditi con ogni cura nei suoi armadi, venivano concessi almeno da vedere alla Lola. Quando poi fece a pezzi una vecchia automobilina del Giampi, lui invece di diventare furioso, come ci si poteva aspettare, si mise a ridere e disse: «Vuoi sempre vedere cosa c’è dentro: finirai per fare il meccanico...». Il segreto della gioia è dunque questo: non preoccuparsi più solo di se stessi, anzi, farsi carico della gioia degli altri. Mario Delpini, E la farfalla volò. 52 storie sorprendenti, Ancora


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Femmina

Perché abbiamo la pelle di colori diversi?

C’era una banda di bambini vicino a casa mia, ma erano tutti maschi, e nati, poi, in quel paese di montagna. «Sei una femmina, non puoi giocare con noi», mi dicevano. Li stavo a guardare, arrampicata su una staccionata affacciata sul loro cortile. Giocavano a nascondino, a bandiera, a rincorrersi, e io sapevo che non avrei mai corso veloce come loro. Un giorno giocavano a chi saltava dal punto più alto di un muro obliquo, parallelo a una scala. Si sfidavano, osando ciascuno ogni volta un salto più audace. Io li osservavo, zitta. Il salto più alto misurava quanto il piano di una casa: ai miei occhi, un abisso. Però, pensai improvvisamente, saltare, in fondo, era un attimo e avrei dimostrato di essere coraggiosa. Forse, mi avrebbero accettata fra loro. Mi alzai, e senza dire niente raggiunsi il punto più alto del muro. Sentivo nel petto il battito del mio cuore. I ragazzi si erano fermati a guardarmi, meravigliati, muti. Nessuno ancora aveva osato il salto più alto. Ricordo come fosse ora i loro occhi addosso, e la paura, e l'attimo di vuoto, e il tonfo sulla ghiaia, dura. Ci fu, allora, un istante di silenzio. Poi, il capo della banda venne a stringermi la mano. Da allora mi lasciarono giocare. Da allora non mi sentii mai, con la mia treccia sulle spalle, inferiore a loro.

Oggi a scuola è arrivata una bambina nuova con la pelle scura e le treccine: si chiama AIFA. «Perché Aifa ha la pelle di un colore diverso dal nostro?» chiede Anna alla maestra. «Perché ha più MELANINA di noi…» dice la maestra «… è un “colorante” che protegge dai raggi del sole. Aifa proviene dal Ghana, un Paese caldo, e la melanina protegge la sua pelle dalle scottature». «Maestra allora perché Ola è così chiaro? Non può prendere il sole?» chiede Giacomo incuriosito. «La famiglia di Ola una volta abitava in Norvegia, un Paese nel quale il sole scotta meno, e quindi la sua pelle e quella dei suoi familiari hanno meno… “colorante”! Tutti loro, qui da noi dove il sole è più caldo, d’estate si devono proteggere con la crema, altrimenti si scottano». «Sulla terra» spiega la mastra ai bambini «siamo in molti e siamo tutti diversi! Non potete trovare da nessuna parte un bambino uguale a voi. Ogni uomo ha la pelle di colore diverso a seconda del luogo in cui vive o dal quale proviene la sua famiglia». «Ognuno di noi, inoltre, ha anche gli occhi di una forma e di un colore diversi da tutti gli altri» spiega la maestra. «Pure i nasi sono diversi» aggiunge Sara. «Avete proprio ragione!» esclama la maestra. «Pensate a come sarebbe triste se gli uomini fossero tutti uguali» suggerisce la maestra. «Se fossimo tutti uguali e ci vestissimo nello stesso modo non potremmo riconoscerci» prosegue Pier Francesco. «Non sapremmo più chi è la nostra mamma o la nostra migliore amica» aggiunge Lucia. «Se chiamassi “Giovanni” si girerebbero in dieci e io non saprei qual è quello giusto» dice Damiano. «E se il mondo fosse tutto di un solo colore? Che cosa ne pensate bambini?» chiede la maestra. «Io lo vorrei tutto rosa» dice Alice. «Ma io sono un bambino!» esclama Enrico. «Io propongo di colorare tutto di azzurro, allora» ribatte Luca.

Marina Corradi, Con occhi di bambina. Settantotto racconti, Edizioni Ares


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«Così dovrei vestirmi di azzurro anche io!» dice Alice. «Per fortuna ci sono molti colori: così la smettete di litigare» conclude Giacomo. «Siamo tutti diversi, ma ci sono delle cose che amiamo tutti, qualsiasi siano il colore della nostra pelle e la forma dei nostri occhi…» dice la maestra. «Mangiare?» suggerisce Michela. «Esatto! Brava, Michela!» conferma la maestra. «Anche se qualcuno mangia le formiche e qualcun altro preferisce il prosciutto». «Secondo me, tutti i bambini del mondo amano giocare» dice Arianna. «È vero!» esclama Aifa sorridendo. “Anche se spesso fanno giochi diversi…». «Io sono sicura che tutti i bambini vogliono le coccole!» dice Lucia. «Hai proprio ragione!» osserva la maestra. «Come i fiori hanno colori differenti, ma sono tutti profumati, così gli uomini sono diversi ma vogliono tutti essere amati». Sara Agostini, Le sei storie dei perché, Gribaudo

IO E GLI ALTRI

METTIAMOCI ALL’OPERA CORNICE REGALO Ecco come realizzare un piccolo dono per la mamma, i nonni o per un amico. Prendi un cartoncino A4 bianco o colorato e piegalo con attenzione in modo da ottenere due rettangoli uguali. Sul fronte di un rettangolo disegna e ritaglia un foro ovale o rettangolare in modo da ottenere una cornice. All'interno del biglietto incolla un disegno o una fotografia che vuoi usare come ricordo o augurio. Decora liberamente la cornice con i pastelli o con un collage scegliendo un soggetto adatto alla persona che lo riceverà.

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PER SORRIDERE

PER SORRIDERE

Filastrocca sulla filastrocca La filastrocca è stramba le manca una gamba ma suona la tromba. La filastrocca è ghiotta è ghiotta di parole farlocca filastrocca. Sulla rocca c’è una sciocca che fila una filastrocca. La filastrocca è strana sta nella tana mangia la rana suona la campana aspetta la Befana porta la sottana che sia un’anziana?

CANTO IL GIOCO DELL’OCA Paolo Amelio

Un gioco di parole per capire che per giocare è necessario essere di buon umore e non prendersela per delle piccole “offese”.

La filastrocca è ghiotta è ghiotta di parole le mangia in un boccone con grande confusione. La filastrocca è rotta ma si aggiusta mentre sale su per le scale. La filastrocca è stretta ma si lascia attraversare da tutto quanto il mare. La filastrocca è vecchia ma ogni giorno ci riprova balocca filastrocca. Fabrizio Frasnedi, Leda Poli, La retorica dei ritmi e del senso. Dalla poesia all'argomentazione, Thema

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Gattopiatto

Pippi Calzelunghe

Edo vorrebbe tanto avere un gatto ma la mamma non vuole. Allora prende i pastelli e ne disegna uno su di un foglio. Purtroppo, non è un gatto paffuto e morbido come gli altri, è un gattopiatto. All’improvviso il gatto disegnato sul foglio gli strizza l’occhio e inizia a raccontare cosa fa un gattopiatto: mangia solo tagliatelle molto piatte, sogliole, fette di ananas e pizza molto sottile; è contento quando può andare in moto (occupa poco spazio). Se vuole tornare in fretta a casa diventa cartolina e si fa spedire! Gli piace leggere e fa volentieri da segnalibro; si trova bene in compagnia dei quadri; ama la musica e l’ascolta in compagnia di altri dischi. Quando trova una poltrona comoda nessuno si accorge di lui! Non c’è cane prepotente che gli possa fare del male; sulla spiaggia fa ombra ai granchi. Conosce personalmente molti marziani; è fidanzato con una televisione… molto piatta! Se c’è bel tempo, gli piace diventare un aquilone. Quando Edo si risveglia il gattopiatto è sparito. Edo si stropiccia gli occhi e guarda sconsolato il gatto che ha disegnato sul foglio piatto e immobile. Un attimo dopo il gattopiatto gli strizza l’occhio e lo invita a seguirlo in nuove avventure…

Tommy e Annika si stavano annoiando, quando all’improvviso videro uscire dal cancello della casa vicina la più curiosa bambina che avessero mai visto: era vestita in modo bizzarro e i suoi capelli color carota erano stretti in due treccioline, ritte in fuori; il naso pareva una patatina ed era tutto spruzzato di lentiggini. Sotto il naso si apriva una bocca decisamente grande, con due file di denti bianchissimi e forti. Il suo vestito era originalissimo: Pippi se l’era cucito da sola. Veramente la sua idea sarebbe stata di farlo blu, ma poi, non bastandole la stoffa, ci aveva applicato qua e là delle toppe rosse. Un paio di calze lunghe, una marrone e l’altra nera, le coprivano le gambe magre. Le sue scarpe nere erano lunghe esattamente il doppio dei piedi: gliele aveva comprate il suo papà nel Sudamerica, grandi così perché i piedi di Pippi potessero crescervi a loro agio e lei non ne aveva mai volute altre. La cosa strana era che quella bambina camminava all’indietro. «Perché cammini a quel modo?» le chiese Tommy. «Tutti in Egitto camminano così» rispose la bambina. «Questa è una bugia bella e buona» osservò Tommy. «Hai ragione... Saremo amici lo stesso, vero?». «Naturale» esclamò Tommy. E all’improvviso si rese conto che quella non sarebbe stata davvero una giornata noiosa.

Luciano Mereghetti, Gattopiatto, Fabbrica dei Segni

sconsolato: triste.

Astrid Lindgren, Pippi Calzelunghe, Salani


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PER SORRIDERE

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La merenda di Bertoldino

Pinocchio e la medicina

Il maestro Michele ci ha letto oggi un brano molto simpatico. Pensate, è stato scritto quasi cinquecento anni fa! Lo scrittore era appassionato di versi e cominciò a girovagare per corti e fiere raccontando storie. I personaggi principali delle sue storie erano Bertoldo e Bertoldino: il primo astuto e ricco di bonomia e il figlio, invece, stolto e buffone di corte. Queste storie allora facevano ridere molto, e oggi?

Appena i tre medici furono usciti di camera, la Fata si accostò a Pinocchio, e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accorse che era travagliato da un febbrone da non si dire. Allora sciolse una certa polverina bianca in un mezzo bicchier d’acqua, e porgendolo al burattino, gli disse amorosamente: «Bevila, e in pochi giorni sarai guarito». Pinocchio guardò il bicchiere, storse un po’ la bocca, e poi domandò con voce di piagnisteo: «È dolce o amara?». «È amara, ma ti farà bene». «Se è amara non la voglio». «Da’ retta a me: bevila». «A me l’amaro non mi piace». «Bevila: e quando l’avrai bevuta, ti darò una pallina di zucchero, per rifarti la bocca». «Dov’è la pallina di zucchero?». «Eccola qui» disse la Fata, tirandola fuori da una zuccheriera d’oro. «Prima voglio la pallina di zucchero, e poi beverò quell’acquaccia amara…». «Me lo prometti?». «Sì…». La fata gli diede la pallina, e Pinocchio, dopo averla sgranocchiata e ingoiata in un attimo, disse leccandosi i labbri: «Bella cosa se anche lo zucchero fosse una medicina! Mi purgherei tutti i giorni». «Ora mantieni la promessa e bevi queste poche gocciole d’acqua, che ti renderanno la salute». Pinocchio prese di mala voglia il bicchiere in mano e vi ficcò dentro la punta del naso: poi se l’accostò alla bocca: poi tornò a ficcarci la punta del naso: finalmente disse: «È troppo amara! Troppo amara! Io non la posso bere».

Regina: Hai tu merendato bene? Bertoldino: Signora sì. Regina: Che t’hanno dato di buono? Bertoldino: Del lasame e del pane. Regina: Che cosa? Bertoldino: Samale. Regina: Non ti capisco. Bertoldino: Del malase. Regina: Peggio che peggio. Bertoldino: Dico che ho mangiato del lamase. Io parlo chiaro e torno a dire che io ho mangiato del masale. Mi avete capito questa volta? Regina: Che nomi sono questi? Lasame, samale, malase, lamase, masale. Non capisco proprio quel che vuol dire costui, né credo che lo capiscano altri. Filandro: Egli vuol dire salame, serenissima signora. Guardi, maestà, che questo è proprio uno zuccone da friggere, se non è stato capace per cinque volte di dire salame. Se la Regina rise di simile fatto, lo lascio pensare ai miei lettori. Intanto giunse il Re, e, appresa la causa delle risate della Regina, si diede a ridere tanto che alle sue risa rideva tutta la corte. E quel ridere durò tutto il giorno, e talmente furono ripetute quelle parole di lasame, samale, malase, lamase, masale, che quando volevano del salame essi pareva che non sapessero più dire se non lasame, samale e malase, lamase e masale. E ciò durò parecchi giorni. Giulio Cesare Croce, Camillo Scaligeri Della Fratta, Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, Bur

bonomia: bontà di cuore.

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«Come fai a dirlo, se non l’hai nemmeno assaggiata?». «Me lo figuro! L’ho sentita all’odore. Voglio prima un’altra pallina di zucchero… e poi la berrò!». Allora la Fata, con tutta la pazienza di una buona mamma, gli pose in bocca un altro po’ di zucchero; e dopo gli presentò daccapo il bicchiere. «Così non lo posso bere!» disse il burattino, facendo mille smorfie. «Perché?». «Perché mi dà noia quel guanciale che ho laggiù sui piedi». La Fata gli levò il guanciale. «È inutile! Nemmeno così la posso bere…». «Che cos’altro ti dà noia?». «Mi dà noia l’uscio di camera, che è mezzo aperto». La Fata andò, e chiuse l’uscio di camera. «Insomma,» gridò Pinocchio dando in uno scoppio di pianto «quest’acquaccia amara, non la voglio bere, no, no, no!…». «Ragazzo mio, te ne pentirai…». «Non me n’importa…». «La tua malattia è grave». «Non me n’importa…». «La febbre ti porterà in poche ore all’altro mondo…». «Non me n’importa…». «Non hai paura della morte?». «Punto paura! Piuttosto morire, che bevere quella medicina cattiva». A questo punto, la porta della camera si spalancò, ed entrarono dentro quattro conigli neri come l’inchiostro, che portavano sulle spalle una piccola bara da morto. «Che cosa volete da me?» gridò Pinocchio, rizzandosi tutto impaurito a sedere sul letto. «Siamo venuti a prenderti» rispose il coniglio più grosso. «A prendermi? Ma io non sono ancora morto!». «Ancora no: ma ti restano pochi momenti di vita, avendo tu rifiutato di bere la medicina, che ti avrebbe guarito dalla febbre!». «O Fata mia, o Fata mia,» cominciò allora a strillare il burattino «datemi subito quel bicchiere… Spicciatevi, per carità, perché non voglio morire, no… non voglio morire». E preso il bicchiere con tutt’e due le mani, lo votò in un fiato.

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«Pazienza!» dissero i conigli. «Per questa volta abbiamo fatto il viaggio a ufo». E tiratisi di nuovo la piccola bara sulle spalle, uscirono di camera bofonchiando e mormorando fra i denti. Fatto sta che di lì a pochi minuti, Pinocchio saltò giù dal letto, bell’e guarito; perché bisogna sapere che i burattini di legno hanno il privilegio di ammalarsi di rado e di guarire prestissimo. E la Fata, vedendolo correre e ruzzare per la camera, vispo e allegro come un gallettino di primo canto, gli disse: «Dunque la mia medicina t’ha fatto bene davvero?». «Altro che bene! Mi ha rimesso al mondo!». «E allora come mai ti sei fatto tanto pregare a beverla?». «È che noi ragazzi siamo tutti così! Abbiamo più paura delle medicine che del male». «Vergogna! I ragazzi dovrebbero sapere che un buon medicamento preso a tempo può salvarli da una grave malattia e forse anche dalla morte…». «Oh! Ma un’altra volta non mi farò tanto pregare! Mi rammenterò di quei conigli neri, con la bara sulle spalle… e allora piglierò subito il bicchiere in mano e giù!…». Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, Fabbri Editori

guanciale: cuscino. a ufo: a scrocco, senza pagare.


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Un modo di dire

Ridere in famiglia

– Che pioggia! – brontolò Bobby. – Che pioggia! – sospirò Tina. E appoggiando al vetro i loro nasi, i due bambini contemplarono malinconicamente il cielo grigio, la pioggia grigia, le case grigie. D’un tratto Bobby si volse. – Dove sta di casa il commendatore Fadelli? – chiese a sua madre che leggeva il giornale. – Il capoufficio di papà? –domandò la mamma. – E perché mai? – Perché bisognerebbe mandargli a dire che faccia uscire il sole. – Al commendatore Fadelli? Ma cosa dici! – esclamò la mamma un po’ stupita. – Non ho mai sentito discorsi così strampalati come quelli che inventi tu. – Non li invento io – ribatté Bobby, imbronciato. – È papà che l’ha detto. – Ma che cosa ha detto papà? – domandò la mamma più che mai stupita. – Papà ha detto ieri allo zio Camillo: “Adesso che è arrivato il commendator Fadelli, è lui che fa la pioggia e il bel tempo!”.

Domenica 25 marzo, cenavamo tranquilli finché a un certo punto mio fratello maggiore Giacomo ha incominciato a raccontare barzellette, mio papà Marco moriva dal ridere come non mai e la mamma Chiara era andata nella camera da letto perché non ce la faceva più ad ascoltare barzellette. Mio fratello Davide sveniva da quanto rideva, io non ridevo perché non le capivo e allora dicevo: «Cosa ci trovate di divertente?» allora me lo spiegavano tutti insieme. È stata una serata meravigliosa insieme alla mia famiglia! La prossima volta vorrei essere io a raccontare le barzellette almeno le capirei e mi divertirei molto di più.

Annie Vivanti, Sua Altezza. (Favola Candida), Bemporad

«Fa la pioggia e il bel tempo» è un modo di dire, cioè un’espressione caratteristica della lingua italiana. Fare la pioggia e il bel tempo, oppure fare il bello e il cattivo tempo significa imporre la propria volontà in un determinato ambiente, nei confronti di certe persone. Che cosa voleva dire con questa espressione il papà di Bobby? Quale significato le ha invece attribuito il bambino? Conosci altri modi di dire? Se sì, quali? Che cosa significano?

Irene, classe III


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Ranocchi principi

Le mucche senza coda

C’era una fata che andava in giro da uno stagno all’altro trasformando in principi tutti i ranocchi che incontrava. Era più forte di lei: ogni volta che vedeva un ranocchio non resisteva e… zacchete! Lo faceva diventare alto, biondo e con gli occhi azzurri. I ranocchi non erano per niente contenti e speravano di non incontrare mai quella fata. Purtroppo, non era facile per i ranocchi non farsi trovare in casa, così, prima o poi, venivano trasformati in principi. Quei poveri principi però non riuscivano a procurarsi il pranzo. Correvano avanti e indietro con la bocca spalancata per acchiappare moscerini, mosche e zanzare ma restavano quasi sempre a pancia vuota! Un giorno, finalmente, un ranocchio molto intelligente capì che la fata poverina si sentiva sola e sperava in quel modo strampalato di trovare il suo principe azzurro. Allora prese un foglio e scrisse una lettera alla fata: «Cara fata, piuttosto che trasformare tutti i ranocchi in principi, non faresti meglio a trasformare te in ranocchia? Ciao dal tuo ranocchio azzurro». La fata trovò che era davvero un buon consiglio, anche perché era stanca di vagare per paludi. Si trasformò in ranocchia e annullò tutti gli incantesimi fatti prima. Sprigionò e riranocchiò tutti con grande soddisfazione. Infine, sposò il ranocchio intelligente e visse felice e contenta in un fresco stagno verde e blu.

Fra Pierino era buono come il pane. Quando si ammalò Fra Giodòco, passò a letto più di un mese facendo un sacco di storie: – Fra Pierino, sistemami il cuscino, portami la medicina, avvicinami la bottiglia, porta via questo piatto… Diceva che gli faceva male dappertutto: i piedi, la testa, le mani, le reni, il cuore, le dita, il naso, le orecchie… La sera non riusciva ad addormentarsi se Fra Pierino non gli raccontava una favola. Una notte si svegliò e disse: – Mi sento molto male. C’è soltanto una cosa che mi potrebbe guarire. – Che cosa? – Un bel brodo di coda di mucca. Fra Pierino non ci stette a pensare neanche un momento. La mattina seguente prese un coltello, aprì la porta e corse in montagna. Vide due mucche che pascolavano, si avvicinò in punta di piedi e… Zac, zac! Tagliò la coda ad entrambe. Le due mucche si lanciarono all’inseguimento di Fra Pierino sbuffando e soffiando. Fra Pierino corse a precipizio verso il convento. Fra Cipriano, l’ortolano, andava cantando per la strada con un grosso cesto di pomodori. Come li vide, gettò il cesto e scappò via di corsa. Fra Marziano stava accendendo la fucina; fece un balzo e salì sul camino. Fra Olegario, il vecchierello, che camminava appoggiandosi al suo bastone, lo tirò lontano e si arrampicò su un albero. Gli altri frati passeggiavano tranquillamente davanti alla porta del convento leggendo dei libri; gettarono via i libri e salirono sul campanile. Fra Pierino arrivò al convento, fece un salto ed entrò dalla finestra della cucina. Arrivarono le mucche e sfondarono la porta riducendola in pezzi. Finalmente si persero all’orizzonte in un nuvolone di polvere. Arrivò il padrone delle mucche che, infuriato, si mise a rompere i vetri insultando i frati e chiamandoli ladri. Quando tornò Fra Pierino, tutto stracciato, lo rimproverarono molto e gli domandarono di andare a chiedere scusa al mandriano e alle mucche. Fra Pierino andò a mettersi in ginocchio davanti all’uomo che vedendone l’umiltà lo abbracciò. Il frate si avvicinò alle mucche, le baciò sul muso e se ne tornò al convento. Fece bollire le code e preparò un ottimo brodo. Fra Giodòco lo sorbì e si leccò i baffi.

Guido Quarzo, Ranocchi a merenda, Piemme

Perché il ranocchio, nella lettera che scrive alla fata, si firma «ranocchio azzurro»?


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Un soffione Un soffione non è un uomo alto e grasso che gonfiando le gote soffia molto forte, ma un fiore leggero e tondo come una palla che al minimo soffio sparisce. Antonio Porta, Giovanni Raboni, Pin Pidìn. Poeti d'oggi per i bambini, Feltrinelli

gote: guance.

Così Fra Giodòco guarì; fra Pierino andò a ringraziare san Francesco e pregò per le mucche: – Ti prego san Francesco, fa’ che le loro code ricrescano. – Ma che strane cose che mi chiedi! – Certo! Altrimenti come faranno le mucche a scacciare le mosche? – Hai ragione. Pregherò per loro. Il santo si mise a pregare e, dopo pochi giorni, alle mucche crebbero delle belle code lunghe, nuove di zecca. Juan Muñoz Martín, Fra Pierino e il suo ciuchino, Piemme Junior

correre a precipizio: correre velocemente.

Il tacchino è: ⬜ un piccolo tacco ⬜ un animale

Il merletto è: ⬜ un piccolo merlo ⬜ un pizzo

Il burrone è: ⬜ un precipizio. ⬜ un grosso burro.

Il torrone è: ⬜ un dolce ⬜ una grande torre.

Il pulcino è: ⬜ una piccola pulce. ⬜ il figlio della gallina.

Il postino è: ⬜ chi porta la posta. ⬜ un piccolo posto.


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La patata affettata La signora Patata Cruda andò a trovare il signor Coltello Affilato. – Buongiorno! – disse lui. – Prego, si accomodi! –. La signora Patata Cruda entrò, ma faceva molto caldo, e disse: – Che caldo, qui! Potrei togliermi la buccia? – Ma certo! Posso aiutare? – disse Coltello Affilato. – Sì, grazie! – e il signor Coltello Affilato cominciò a togliere la buccia alla Patata Cruda. – Basta così, signora? – No, ho ancora caldo... – Va bene così? – No, ho caldo ancora...

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Alla fine, la signora Patata Cruda fu senza buccia, e allora cominciarono a parlare. – Come sta? – chiese il signor Coltello Affilato. – Sa, a volte, mi sento sola... Mi piacerebbe essere in due… – rispose la signora Patata Cruda. – Posso tagliarla a metà – propose il signor Coltello Affilato. – Così sarebbe in coppia… – Davvero? Lo faccia subito! – disse lei, e lui, zac, la tagliò in due parti. – Come sta, anzi, come state, adesso? – Bene, benissimo! – dissero le due mezze patate. – Talmente bene che ci piacerebbe essere anche di più! – Posso tagliarvi ancora un po’. – Grazie, sì! – Zac, zac! – Eccovi divise in quattro! – Ancora! Ancora! – Zac, zac, zac, zac: – Eccovi divise in otto! – Che bella compagnia! Ancora, ancora! – Eccovi divise in sedici... Basta così? – Ancora, ancora! Il signor Coltello Affilato tagliò tanti piccoli pezzettini, che parlavano, ridevano, così contenti, che alla fine dissero: – Ci piacerebbe fare un bagno insieme! – C’è qui vicina una padella piena d’olio, – disse il signor Coltello Affilato. – Volete tuffarvi lì? È un po’ caldo, ma così profumato… – Sì, sì! – gridavano le fettine di patata, e tutte si tuffarono nell’olio, e saltando e ridendo diventarono patatine fritte, e finirono nella bocca di due bambini, e così la storia finì: perché la storia di una patata finisce quando è mangiata. Roberto Piumini, C’era una volta, ascolta, Einaudi Ragazzi


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La maglia hi-tech scende in pista Nel prossimo campionato di Formula1, i piloti della McLaren indosseranno Hitoe, una maglietta intelligente che controlla e trasmette i parametri vitali di chi la indossa. Ci sono magliette strette e larghe, a maniche lunghe o corte, belle e brutte, simpatiche o magari antipatiche. E ci sono pure magliette intelligenti. Sì, intelligenti. Una si chiama Hitoe ed è capace di capire come va la nostra salute semplicemente rimanendo attaccata alla nostra pelle. Per merito di una serie di complicate tecnologie riesce a rilevare vari parametri vitali: poi, grazie a un collegamento bluetooth, tramite il nostro ormai inseparabile telefonino o a un computer, li invia a un server che li elabora fotografando come stiamo. Dalla frequenza dei battiti cardiaci a quanto stiamo sudando, da come sono messi i muscoli a tutto il resto. Una gran bella innovazione su cui ha messo gli occhi il mondo della Formula1. Nel corso del prossimo campionato mondiale che impegna i bolidi su quattro ruote e comincerà in primavera, Hitoe sarà indossata

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95 dai piloti della storica scuderia McLaren. Quella di Senna e Prost ieri, Fernando Alonso oggi. Grazie a essa e alle sue mille funzioni, tecnici, meccanici e medici impegnati nei box potranno conoscere in tempo reale le condizioni del pilota in gara, in modo da gestirlo a distanza. Questo è solo il primo utilizzo della maglietta intelligente, ma è facile pensare che in futuro possa essere usata in mille altre maniere. Per esempio da chi va in palestra, chi corre in bicicletta o magari fa jogging, per le forze dell’ordine e i vigili del fuoco spesso impegnati in servizi che mettono a dura prova il fisico. Hitoe è capace di rilevare anche la postura, quindi può aiutare tutti a stare seduti meglio tanto davanti alla scrivania quanto dietro un banco di scuola. Potrebbe diventare un’amica anche delle mamme, che facendola indossare ai figli riuscirebbero a controllare in ogni momento se stanno sudando troppo, se sono un tantino emozionati o magari arrabbiati. Per il momento non pare che Hitoe sia capace di controllare anche se i piccoli hanno mangiato. Il pensiero fisso per le mamme. Tutte. «Popotus», n. 1958, 12 gennaio 2017

hi-tech: alta tecnologia. collegamento bluetooth: collega, unisce due dispositivi elettronici senza fili. bolide: oggetto che si muove ad alta velocità.


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Che vacanza

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METTIAMOCI ALL’OPERA LIBRO POP UP

I soldi non bastavano per la villeggiatura, quell’estate, bisognava rinunciare. Ma, a vedere i visi delusi dei figli, la signora Seppietti esclamò: – Quest’anno, faremo le più belle vacanze della nostra vita ... Mare, più montagna, più campagna! Non era impazzita, aveva soltanto avuto un’idea originale. Si trattava, però, di adattare il loro appartamento. La campagna la crearono nella sala da pranzo, portando tutti i vasi di fiori che si trovavano sui davanzali. Con poster e fotografie di alberi alle pareti inventarono un magnifico paesaggio. La montagna fu sistemata nella stanza con il balconcino, dal quale, con il binocolo, si poteva ammirare la suggestiva vista delle vette più alte, cioè i più alti tra i palazzi circostanti. Nella camera del mare, quella più assolata, piantarono l’ombrellone. In costume da bagno, con gli occhiali neri, ci si sdraiava su una spiaggia morbidissima: due sacchetti si segatura sul pavimento. Per bagnarsi, bastava fare due passi ed immergersi a turno nella vasca da bagno. La famiglia Seppietti quell’estate non si abbronzò molto, ma si divertì tanto: genitori e figli non erano mai stati tanto insieme a giocare. Marcello Argilli, I viaggi di Osvaldo e fantageografia, Piccoli

Insieme ai tuoi compagni puoi illustrare una storiella, un racconto o una fiaba attraverso la realizzazione di un libro pop up. Fatevi aiutare da un adulto per la struttura del libro. Stabilite prima che cosa disegnare e di quali dimensioni facendo molta attenzione a ciò che sta davanti e a ciò che sta dietro. Potrete disegnare ambienti, personaggi oggetti magici e animali fantastici su cartoncino. Ritagliate con cura gli elementi e incollateli con colla vinilica facendo in modo che i disegni non si sgualciscano alla chiusura della pagina e si possano ben vedere all’apertura. Potrete decidere se realizzare una sola pagina oppure illustrare in più pagine le diverse sequenze della vostra storia.


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INCONTRARE GLI AMBIENTI

R A E R T N O INC GLI A MBIEN TI

Rio Bo

Tre casettine dai tetti aguzzi, un verde praticello, un esiguo ruscello: Rio Bo, un vigile cipresso. Microscopico paese, è vero, paese da nulla, ma però... c’è sempre di sopra una stella, una grande magnifica stella, che a un dipresso... occhieggia con la punta del cipresso di Rio Bo. Una stella innamorata? Chissà se nemmeno ce l’ha una grande città.

ASCOLTO MOLDAVA Bedřich Smetana

La musica descrive il fiume nel suo percorso e racconta la vita che si anima nelle terre bagnate dalle sue acque.

Aldo Palazzeschi

CANTO PREZIOSA VITA Paolo Amelio

Un invito a scoprire la bellezza nascosta in ogni particolare della natura intorno a noi.

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INCONTRARE GLI AMBIENTI

Terra Per un piatto di cavolini di Bruxelles comprammo un pezzo di terra. Un pezzo di terra di un metro per un metro per un piatto di cavolini sembrava un buon acquisto. Ma i miei fratelli non ne andavano pazzi. Non erano interessati alla terra, e nemmeno ai cavoli. Io sì, ma quello non contava. Era una cosa nuova come un’altra, per quello avevano fatto lo scambio. Non si poteva mai sapere cosa ne sarebbe venuto. «Scegliete» disse nostro padre. «Quale pezzo volete in cambio dei cavoli? Terra con erba, terra con fiori o terra con terra e basta?». I miei fratelli si guardarono e fecero schioccare le labbra. Scelsero il pezzo di terra con i fiori. Ero a bocca aperta. Perché non il pezzo con l’erba? Lì almeno ci si poteva tenere un coniglio. O perché invece non il pezzo con terra e basta? Lì poteva crescere di tutto: una parte con l’erba per il coniglio, e una parte con i fiori per bellezza, come si preferiva. E terse era così, certo, ma i miei fratelli avevano fiuto per gli affari. Disegnarono un quadrato nell’aiuola dei fiori e dissero: «Questo pezzo». «Questo?» chiese nostro padre. «D’accordo. Allora questo sarà. è alto e profondo, ed è tutto vostro». «Sì!» dissero i miei fratelli, e: «Sì!» dissi io, ed entrammo in casa perché

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dovevamo ancora mangiare. Uno dei miei fratelli disse che avevamo bisogno di un paio di forbici, che dovevamo raccogliere. «Raccogliere cosa?» chiesi io. «Giusto, raccogliere» ripeterono i miei fratelli. «Raccogliere i frutti della terra». E scossero la testa, e fecero roteare gli occhi. Come era possibile, chiedevano, che avessi una fronte così alta eppure così poco cervello? Raccolsero le margherite. Ne fecero dei mazzetti da dieci e le avvolsero in un vecchio giornale, e poi andarono a venderle porta a porta. Dicevano che erano per i bambini poveri e non era una bugia: noi di nostro non avevamo un soldo. L’ultimo mazzetto i miei fratelli lo vendettero a Focke. Era una buona idea: saremmo comunque dovuti andare da lui, alla fine, e così almeno ci risparmiavamo il doppio viaggio. La moglie di Focke andò a prendere una scatola di semi tra la frutta e la verdura, e lasciò che i miei fratelli ci frugassero dentro. Dalla scatola scelsero un grosso pacco con sopra la foto di un mazzo di crescione, e un sacchetto piccolo con una foto di un cestino di prezzemolo. «Semi buoni per piante sane» disse Focke. «Vogliamo sperarlo!» dissero i miei fratelli.


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INCONTRARE GLI AMBIENTI

Andammo a casa, entrammo dalla porta davanti, e uscimmo da quella sul retro, raggiungendo il nostro pezzo di terra. «Seminiamo» dissero i miei fratelli. Disegnarono una linea immaginaria che correva fino al cielo. Poi puntarono le mani in basso, come se soltanto con la forza del pensiero potessero mostrare quanto in profondità arrivava il pezzetto di terra che avevamo barattato. Sotto di noi era tutto nostro, fino al fuoco al centro della terra. Sopra la nostra testa era tutto nostro, all’infinito e ancora un chilometro in più. Io dissi che non avevo mai pensato che quando uno comprava un pezzo di terra comprava anche un pezzo di cielo. «Sì, sì!» dissero i miei fratelli. «Ma tanto i semi cadono in un posto solo, in mezzo tra i due. Qui». E indicarono il nostro pezzo di terra di un metro per un metro. Seminarono il crescione e il prezzemolo come se fosse zucchero di canna, e vuotarono tutto l’annaffiatoio. Si misero tutt’attorno alla nostra terra a braccia conserte, e rimasero a guardare l’acqua che piano piano veniva assorbita. Qua e là la terra borbottava. Era bello da vedere. lo indicai l’odore che veniva dalla terra e ti penetrava nel naso. Era l’odore di verde, di legno e di letame, ma i miei fratelli mi fraintesero. Pensavano che indicassi un lombrico che stava per affogare. «Movimento» disse uno dei miei fratelli. «Spettacolo» disse un altro mio fratello. Scoppiarono tutti a ridere, soprattutto perché uno dei miei fratelli non aveva mai visto un lombrico volante. «Oplà!» esclamarono. Poi andarono a giocare a calcio, e dopo a pescare, dopo fecero esplodere una rana, e dopo ancora fecero altre cose che finirono tutte quante in fretta. Da lontano mi gridarono se si vedeva già qualcosa. «Non ancora» dissi io, senza svelare che sentivo il crescione germogliare. Accarezzavo la terra con il nostro rastrello, e ogni tanto mi mettevo sulla nostra terra su un piede solo, e con il resto del corpo nel nostro cielo. Bart Moeyaert, Fratelli, Rizzoli

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Le Alpi

Parole di mare

Le Alpi se ne stanno silenziose sono regine le nubi ne sono le corone. Sono di terra e di cielo di verde e di gelo, in loro si muovono i ghiacciai risuonano valanghe clamorose e tacciono fossili che non vedremo mai. Sono regine piene di segreti boschi, torrenti, sterpeti. E tra le rocce o i rami si intravede un lampo di occhi mobili, vivi d’uomo o misteriosi animali che abitano macchie, crepe e rivi. Le Alpi non dicono niente solo a chi non sa ascoltare. Ma se taci di fronte a loro sedendo Senti il grande respiro arrivare che racconta il mistero del mondo.

Sai che il mare ha una sua voce? Per sentire cosa dice prova a metterti una volta con i piedi in acqua, e ascolta. Ma non farlo in pieno giorno quando troppa gente è intorno e si sentono gli strilli e si sentono gli sbuffi non si riesce a star tranquilli tra castelli, corse e tuffi. Sai che il mare ha una sua voce? Per sentire cosa dice scegli un tempo silenzioso quando il sole è più prezioso. Scegli l’alba di mattina o la sera maggiolina: è lì il mare che sussurra come canto di sirene la sua voce verde e azzurra la sua voce che va e viene e se parli ti risponde l’infinito delle onde.

Davide Rondoni

Chiara Carminati


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Alba in montagna La città, la confusione, lo studio… non ne potevo assolutamente più. Fu così che un giorno preparai il sacco da montagna, vi ficcai dentro della roba di lana e via: in montagna! Arrivai a Bormio che imbruniva. Sceso dalla corriera, invece che cercare un albergo per passarvi la notte, misi il sacco in spalla (non pesava molto, per fortuna) e m’incamminai per la strada che conduceva a Santa Caterina Valfurva. Avevo voglia di camminare e respirare aria pura, così da ossigenarmi… La notte era fonda, stellata, fredda, senza luna; la via lunga, ma avevo molte ore davanti a me… Dopo Santa Caterina, lasciata a destra la strada che conduceva al Passo Gavia, con ripide serpentine, presi a sinistra per l’ancora lontano rifugio Pizzini (2700 m); ma se la testa era libera, sentivo le gambe farsi più pesanti e più lente; così che, veduto un casolare abbandonato fra gli abeti, decisi di riposare un poco. Entrai. Era un fienile e… mi addormentai. Il sogno fu subito su di me, intorno a me, mi abbracciò con le sue soffici ali. Mi pareva d’essere sul Gran Zebrù (3860 m), la bellissima e grande montagna che incombeva sulla valle. Poi precipitavo, improvvisamente, dalla vertiginosa parete nord, di ghiaccio e la mia caduta era fermata da una gigantesca marmotta, che mi stringeva dolcemente fra le braccia, nel suo soffice mantello. Voi, le marmotte, le conoscete? Mi svegliai di colpo; il Gran Zebrù era lì davanti a me, tutto scuro nei primi albori dell’alba… ed un rombo d’acqua lì accanto, gaio, garrulo, scendeva a precipizio fra centinaia di cascate e cascatelle: che meraviglia quello spettacolo! Sembrava un frastagliato nastro d’argento che tagliava la montagna. Ezio Franceschini, La valle più bella del mondo. Racconti dal vero, Vita e Pensiero

Ho visto un’aquila Quella mattina siamo salite fino a Cogne, a 1534 metri di altitudine. Cogne è davvero un bel paese. Stefi ha voluto fare una passeggiata: circa tre chilometri in un percorso pianeggiante tutto nel bosco. Di lì ho potuto vedere le cascate che d’inverno ghiacciano. «Pensi che vedremo gli stambecchi nel Parco?» ho chiesto a Stefi. «Forse. Questi animali sono abbastanza coraggiosi e se vedono un uomo non scappano subito». «E le marmotte? È vero che le loro tane sono come un labirinto sotterraneo?». «È vero. I rifugi dove le marmotte stanno in letargo sono un intreccio di cunicoli, che le proteggono dal freddo durante l’inverno». Ma siamo state sfortunate: non abbiamo visto né stambecchi, né camosci, né marmotte! A un certo punto, però, mi è sembrato di vedere volteggiare in cielo un’aquila reale. Così ho attirato l’attenzione di Stefi. «Era lei?» le ho chiesto dopo che è scomparsa. «Penso proprio di sì». L’aquila per me rappresenta la libertà. E io amo la libertà. Nella mia vita voglio coltivare tanti sogni, incontrare tanta gente e conoscere mille e mille cose. Angelo Petrosino, Il viaggio in Italia di Valentina, Piemme


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Giocare con l’acqua

Giardino mediterraneo

Un gioco che mi sembra meraviglioso è guardare le bollicine che salgono nell’acqua minerale. Prima vengono su tutte insieme, fanno una gran confusione e non mi piace. Ma poi, quando il gas è uscito quasi tutto, le bollicine cominciano a venir fuori piano piano: si ingrossano sulla parete del bicchiere e poi si staccano d’un tratto e salgono su. Le bollicine grosse vengono a galla in un attimo, ma certe volte ce ne sono di piccolissime che vengono a galla piano piano, ma anche loro sono perfettamente tonde; non credo che sulla terra ci sia niente di più tondo e di più liscio di una bollicina in un bicchiere di acqua minerale. Un’altra cosa bellissima che si può fare sono le onde. Io credo che per giocare con l’acqua sia necessario essere delle persone pazienti. Qualche volta d’estate vado sopra un ponte che passa sopra un laghetto di acqua ferma. E dal ponte butto dei sassolini piccoli che fanno un’onda tonda, tutta regolare che si allarga finché arriva ai pilastri e poi sui pilastri si riflette e torna indietro. Si possono anche buttare due sassolini insieme ad una certa distanza e vedere le due onde che si intrecciano, e un’onda che ne attraversa un’altra come se neppure ci fosse, e tutti i disegni che fanno come grandi ragnatele sulla superficie dell’acqua.

Da anni avevo una casa mia, in alto, ad Anacapri, una piccola casa umida, alla fine di un lungo e stretto giardino di frutta che pur mi apparteneva. Limoni, prugne, uva, pesche, noci, fichi. Un bellissimo albero di albicocche ombreggiava la facciata della casa. Si potevano prendere i frutti allungando una mano da una finestra. Dal giardino si vedeva il mare. L'aria era così leggera e quando pioveva la terra bagnata sprigionava un odore indimenticabile e raro per chi, come me, vive in città e non saprebbe vivere altrove. Tutto intorno non vi erano prati all'inglese verdi e compatti come tappeti, o aiuole fiorite, curate o signorili, ma orti e vigne, boschi, limoni, nespoli e persino un melograno che dalla proprietà confinante protendeva un ramo verso il mio giardino.

Marcello Ceccarelli, Una betulla per la Pio. Appunti per insegnare la fisica (o per tentare di dimenticarla), Zanichelli

Con l’aiuto dell’insegnante e dei compagni cerca di spiegare il significato di questi modi di dire. A fior d’acqua. Avere l’acqua alla gola. Fare un buco nell’acqua. Essere come un pesce fuor d’acqua. Navigare in cattive acque. Acqua in bocca! Usa alcuni di questi modi di dire in frasi da te formulate.

Ugo Pirro, Mio figlio non sa leggere, Rizzoli

Fai un disegno che illustri il giardino descritto, tenendo conto di tutte le informazioni contenute nel testo.


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Piantare alberi C’era una volta, in Kenya, una donna di nome Wangari. Quando i laghi vicini al suo villaggio cominciarono a prosciugarsi e i ruscelli a scomparire, Wangari capì che doveva fare qualcosa. Così chiamò a raccolta alcune delle altre donne. «Il governo abbatte gli alberi per fare spazio alle fattorie, ma ora dobbiamo camminare chilometri per raccogliere legna da ardere» disse una dì loro. «Ripiantiamo gli alberi, allora» esclamò Wangari. «Quanti?» chiesero le altre. «Qualche milione dovrebbe bastare» rispose lei. «Qualche milione? Sei matta? Non esistono serre abbastanza grandi per coltivarne così tanti!».

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«Non li compreremo in una serra. Li coltiveremo noi, a casa». Fu così che Wangari e le sue amiche raccolsero i semi nella foresta e li piantarono in dei barattoli. Li annaffiarono e li accudirono finché le piante nate da quei semi non furono alte una trentina di centimetri. Poi, piantarono gli arboscelli in cortile. Tutto cominciò con un piccolo gruppetto di donne. Ma poi, proprio come un albero che spunta da un minuscolo seme, l’idea crebbe e diede vita a un grande movimento. L’organizzazione Green Belt Movement, fondata da Wangari, ha superato i confini del Kenya. Sono stati piantati quaranta milioni di alberi, e Wangari Maathai ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace per il suo lavoro. Ha festeggiato piantando un albero. Francesca Cavallo, Elena Favilli, Storie della buonanotte per bambine ribelli. 100 vite di donne straordinarie, Mondadori


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La strada antica

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METTIAMOCI ALL’OPERA LINEE IN COLLINA

La prima volta che Camilla mise i piedi sulla strada antica, lo fece per caso. Infatti la via passava dentro al suo giardino, ma era ricoperta dalla terra e nascosta dalle erbacce, dai cespugli, dagli alberi, dalle pietre e dai secoli. E dunque lei ci aveva già camminato sopra tante volte, ma senza saperlo. Dove adesso c’era il suo giardino, la strada antica correva lungo uno stagno pieno di canne e di uccelli dai molti colori. Vicino allo stagno c’era stata la casa di un mugnaio, che in seguito era diventata un’osteria, poi un granaio dei monaci e un covo dei briganti. Dopo che le città collegate dalla strada erano state distrutte, la via aveva perduto ogni importanza e si era ridotta ad un sentiero per il bestiame. Infine il lago salmastro aveva ricoperto tutto. Molti secoli dopo, la palude era stata bonificata dal nonno di Camilla, il conte Piero, che aveva costruito la sua villa all’incirca nel punto in cui un tempo sorgeva la casa del mugnaio. La villa era a due piani e aveva un porticato ad archi. Ci si arrivava per un viale di pini marittimi che la collegava alla litoranea. Accanto c’erano le stalle, i locali di servizio per la fattoria e una casetta disabitata che apriva le porte sui campi di grano. Dietro la villa si trovava un giardino circondato da un muretto. Poco più lontano, le zone incolte erano una grande macchia gialla dalla quale emergevano di tanto in tanto un pino o un eucalipto. Là rimaneva ancora qualche traccia della palude: le canne, gli uccelli, le zanzare, dei piccoli stagni… Tommaso di Carpegna Falconieri, La strada antica, Mondadori

A partire dalla foto di un paesaggio collinare individua le linee principali e tracciale con la matita grafite su un foglio da disegno, poi suddividi il territorio delle colline in campi. Ripassa i contorni con un pennarello nero Con i pennarelli colorati riempi le diverse porzioni di territorio attraverso delle texture di linee da te inventate, alternandole in modo che si evidenzi la differenza tra un campo e l’altro. Colora il cielo con le matite colorate.

Camille Pissarro, Jalais Hill, Pontoise,


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R A E R T N O INC L A STOR I A

Inno al Sole Tu sorgi bello all’orizzonte del cielo o Aton vivo, da cui nacque ogni vita. Quando ti levi all’orizzonte orientale tutte le terre riempi della tua bellezza. Tu sei bello, grande, splendente, eccelso in ogni paese; i tuoi raggi abbracciano le terre tenendole strette per il tuo amato figlio. Amenofi IV, Inno ad Aton, antico Egitto

Per VALERIA Illustrazione pagina singola

CANTO GAM GAM Il lingua ebraica, questo canto è un salmo del re Davide.

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C’era una volta Tutte le storie incominciano con «C’era una volta». E la nostra storia vuole raccontare proprio questo: che cosa c’era una volta. C’era una volta un’epoca preistorica in cui non c’erano ancora gli esseri umani. In cui le montagne non erano fatte come le vediamo oggi. Ma prima ancora che nascessero queste montagne, c’erano già degli animali. Erano molto diversi da quelli di oggi. Erano giganteschi, grossi quasi come draghi. Come facciamo a saperlo? Sotto terra ogni tanto si trovano le loro ossa. Eppure, anche quello non è stato l’inizio. Si può andare ancora più indietro di parecchi miliardi di anni. Facile a dirsi, ma fermati un momento a riflettere. Sai quanto dura un secondo? Appena il tempo di contare in fretta 1, 2, 3. E sai

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quanto durano un miliardo di secondi? 32 anni! Adesso potrai immaginarti quanto dura un miliardo di anni! A quel tempo non c’erano ancora grossi animali: solo lumache e molluschi. E se andiamo ancora più indietro, non c’erano neanche le piante. La Terra era deserta. Non c’era nulla: non un albero, non un cespuglio, niente erba, niente fiori, neanche un po’ di verde. Solo deserto, rocce e mare senza pesci, senza molluschi, persino senza alghe. Una volta la Terra probabilmente non era che una nuvola di gas addensata come quelle molto più grandi che possiamo vedere oggi con i nostri telescopi. Ha girato per milioni di anni attorno al Sole, senza rocce, senz’acqua, senza vita. E prima ancora? Prima ancora non c’era neanche il Sole, il nostro caro Sole. «C’era una volta»: quando mi sporgo a questo modo sul pozzo del passato, vengono le vertigini anche a me. Andiamo: meglio tornare al Sole, alla Terra, allo splendido mare, alle piante, ai molluschi, alle lucertole giganti, alle nostre montagne e finalmente agli esseri umani. Non ti sembra un po’ come quando si torna a casa? E per fare in modo che i «C’era una volta» non ci trascinino sempre più in basso nel buco senza fondo, sarà meglio che d’ora in poi noi ci chiediamo sempre: «Alt! Quando è successo?». Se poi ci chiediamo anche: «Ma come sono andate di preciso le cose?», ecco che vorremo conoscere la storia. Non una storia, ma la storia, la nostra storia, la storia del mondo. Vogliamo iniziare? Ernst Hans Josef Gombrich, Breve storia del mondo, Salani

addensata: densa, fitta. vertigini: capogiro.


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L’uomo e la mano

L’incontro con l’orso

La posizione eretta e l’uso della mano rivelano una condizione più elevata dell’uomo rispetto agli altri animali. Contigui al collo e alla testa negli animali sono le membra anteriori e il tronco. L’uomo, dunque, in luogo delle zampe e dei piedi anteriori ha le braccia e quelle che vengono chiamate mani. Tra gli animali infatti è l’unico eretto a causa del fatto che la sua natura e la sua essenza sono divine: e pensare e avere senno sono opera di ciò che è più divino. Ma ciò non è facile se la gran parte del corpo si trova nella zona superiore, giacché il peso rende l’intendimento e la sensazione comune difficili a muoversi. Pertanto, se il peso e la parte corporea diventano maggiori, è necessario che i corpi si pieghino a terra, sicché in luogo delle braccia e delle mani, per la saldezza, nei quadrupedi la natura ha disposto i piedi anteriori. Poiché l’uomo è eretto per natura, non ha nessun bisogno delle zampe anteriori, ma in luogo di queste la natura gli ha fornito braccia e mani. Chi, infatti, è più dotato di senno, fa uso convenientemente di moltissime cose, e si ammette comunemente che la mano non sia un solo strumento, bensì molti, giacché è come uno strumento preposto agli strumenti. Dunque, a chi può acquisire moltissime arti la natura ha assegnato la mano, che tra gli strumenti è di gran lunga la più utile.

La pelle del cervo ribelle era domata a poco a poco dalle forti mani della donna. Seduta presso l’ingresso della grotta, lavorava di raschietto con energia; la piccola lama di selce raschiava la pelle all’interno, togliendo ogni residuo di carne, e al tempo stesso la ammorbidiva. Si udì uno sciacquìo sul fiume, apparve una tozza imbarcazione, un uomo e un ragazzo la spingevano puntando due pali sul fondo. La donna sorrise. Ricordava quanto c’era voluto per scavare un bel tronco con il fuoco e ricavare così quella piroga che solcava le acque: bisognava porre continuamente della brace sul tronco, e ravvivarla perché consumasse il legno nei punti giusti e in modo eguale. La vita dell’uomo era fatta di pazienza: con la pazienza, con il fuoco e con le selci taglienti si ottenevano grandi risultati. C’erano anche altre cose che aiutavano l’uomo. Per esempio, le ossa degli animali. Nei giorni precedenti, la donna aveva scelto con cura gli ossicini di alcuni uccelli: nei punti in cui si biforcavano, erano ottimi ami per pescare nel fiume. «Com’è andata la pesca?» domandò speranzosa. Gli risposero con l’agitare un mucchio di pesci ancora guizzanti. Altre piroghe apparvero spuntando dalla curva del fiume, altre donne sospesero i loro lavori dinanzi alle varie caverne che qua e là punteggiavano la collina. Le famiglie si riunirono, raccolsero prede e materiali, e a gruppi si diressero verso le grotte che fungevano da abitazione, trasportando a spalla anche le imbarcazioni. «Non andrete a pesca, domani?» domandò al suo uomo la donna che lavorava le pelli. «No. Prepareremo una battuta di caccia». Negli occhi della donna passò un lampo di dispiacere: il placido fiume e i pacifici pesci erano ben diversi dalle terribili belve che popolavano le foreste. Ma il ragazzo era già tutto slanci ed entusiasmo: «Padre, potrò finalmente venire con te e con gli uomini della tribù?». «Sei ancora un bambino!» intervenne la madre. «Se non imparerò a cacciare, quando mai diventerò un uomo?». «Il ragazzo ha ragione» decise il padre. «È tempo che impari ad affrontare gli animali e i primi rischi. Sì, tu verrai…». S’interruppe per dire alla donna: «Non è

Riduzione da Aristotele, Le parti degli animali, Bur

eretta: dritta. contigui: vicini.

saldezza: stabilità. preposto: predisposto, progettato, pensato.


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una spedizione pericolosa, e saremo in molti a tenerlo d’occhio. Stai tranquilla». I giorni seguenti trascorsero nei preparativi del materiale occorrente per la battuta di caccia. E c’era davvero un bel da fare! Gruppi di uomini, con colpi precisi, frantumavano blocchi di selce, o battendoli contro altre pietre, o con mazze e punteruoli, in modo da ricavarne molte schegge taglienti. Le schegge più appuntite diventavano punte di giavellotti, quelle più larghe e lunghe erano pugnali, le più grandi e robuste erano lame di asce; tante schegge sottili in fila lungo un bastone formavano una spada. Ai ragazzi intanto era stato dato il compito di indurire lentamente, al calore del fuoco, la punta di lunghi rami diritti, che diventavano robuste lance. Le donne facevano lacci e reti con liane e con strisce di pelli, e perfezionavano le armi, con il materiale che avevano a disposizione. Una sistemava un frammento di selce tagliente nella spaccatura fatta sulla cima d’un bastone, e lo legava con strisce di pelle per farne un’ascia, un’altra otteneva la stessa arma incastrando la lama di selce in un grosso osso. Finalmente la spedizione fu pronta. Gli uomini partirono a gruppi, all’alba; il ragazzo seguiva suo padre. Un giorno di caccia sulle colline. Il ragazzo provò il suo giavellotto contro un cervo, che fuggì veloce nel bosco. Una notte all’addiaccio. Un nuovo giorno. Un cervo e alcuni conigli costituivano già il bottino e padre e figlio erano sulla pista d’un daino quando d’improvviso grosse nuvole coprirono il cielo e la pioggia cominciò a scrosciare violenta. I fulmini solcavano l’aria. Atterriti, gli uomini cercarono un rifugio. «Lassù, ci sono delle grotte!» indicò il babbo al ragazzo. «Seguimi!». I due corsero affannosamente, flagellati dalla pioggia e dal vento. Avevano abbandonato le prede, le avrebbero ritrovate poi;

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stringevano solo le armi, che invece non vanno lasciate. «Siamo al riparo!» gridò l’uomo, balzando sotto la volta d’una grotta, e si volse per sorreggere il figlio, che immaginava a pochi passi. Ma il ragazzo non si vedeva, i richiami lanciati dal padre si persero nel vento. Il ragazzo correva a testa bassa, riparandosi con le braccia dalle sferzate dei rami più bassi. Seguiva il padre quasi alla cieca, abbagliato dai lampi e battuto dalla pioggia, e quando si fermò un istante per riprendere il fiato si accorse di essere solo. «Ecco lì la grotta dove s’è diretto mio padre».


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Ma in quella spelonca non c’era nessuno. Stette al riparo, appoggiandosi alla piccola lancia per placare l’affanno e per riordinare le idee, e cominciò a guardarsi attorno, in fondo all’antro, nel buio, brillavano due punti luminosi. «Braci accese…» pensò il ragazzo. «Le avrà lasciate qualche cacciatore». È strano, però, che qualcuno abbia lasciato un fuoco acceso! Al ragazzo avevano sempre insegnato che il fuoco era sacro, andava onorato e sorvegliato. Ma quelle braci… si muovevano. Un brivido di terrore lo percorse: erano gli occhi luminosi d’una belva, una luce fredda come la morte. Lo spavento paralizzò il ragazzo per qualche istante, e l’animale venne avanti. Era un orso. Al piccolo cacciatore sembrò enorme. Gli sbarrava ormai l’uscita dalla caverna e veniva avanti. Il ragazzo si sentì perduto. Indietreggiò finché sentì la roccia dietro di sé. La bestia, orrenda, avanzava. «Aiuto! Aiuto!». Il grido disperato fece sobbalzare l’animale, che si gettò in avanti con le zampe aperte ad artigliare quell’intruso. Fortuna volle che il ragazzo, alle strette contro la parete, tenesse la lancia puntata in terra e protesa in avanti. Un grugnito altissimo di dolore echeggiò sotto le volte: il bestione era andato ad infilzarsi sul bastone appuntito. L’orso si ritirò un poco, con l’arma infitta nel corpaccio, ma si preparò a tornare inferocito all’attacco. «Aiuto! Aiuto!». Ma chi poteva udire un richiamo nello scatenarsi dell’uragano? La belva veniva avanti, la preda era ormai indifesa. Eppure, sembra che qualcuno abbia udito: un uomo si batté con l’orso, armato solo d’ascia. Ma ben presto rotolò in terra con l’animale, si coprì di sangue. È sangue dell’orso, e l’uomo riemerse da sotto la carcassa, trionfante. «Figliuolo!» disse, e allargò le braccia. «Babbo! Oh, babbo! Hai ucciso l’orso!». «No, figlio, lo abbiamo ucciso insieme. E le donne dovranno fare festa, stasera, per il nuovo cacciatore. Vedi? Già l’uragano si placa. Torniamo dalla mamma, che ci aspetta». Ruggero Y. Quintavalle, Domenico Volpi, Tra cronaca e storia, La Scuola

giavellotti: lance. all’addiaccio: all’aperto.

flagellati: colpiti, tormentati. sferzate: frustate.

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La meraviglia del fuoco Ark il forte, dopo essersi seduto a gambe incrociate, si era messo subito al lavoro. Le sue mani si muovevano rapidissime, senza fermarsi un momento, sfregando energicamente il bastoncino dall’alto verso il basso. Ako osservava attentamente. L’accensione del fuoco lo attirava in modo irresistibile e gli metteva sempre addosso una grande allegria. Il sottile bastoncino aveva la punta appoggiata su un altro pezzo di legno duro. Per un po’ non successe nulla, ma mentre l’oscurità ormai impediva di distinguere le facce dei cacciatori, dalla punta del legnetto, che ruotava sempre più veloce, cominciò a levarsi un filo di fumo. «Più veloce, più veloce» gli disse Ark. «Il legno è un po’ bagnato» osservò Ako. Subito Ark raddoppiò gli sforzi, incitato dagli altri che gli stavano attorno. La punta si era piantata un po’ nel legno e si stava arroventando per il continuo sfregamento. A un tratto Ark diede un ordine e Ako gettò sulla punta una manciata di pagliuzze, mettendosi subito a soffiare. Dopo un po’ apparve una fiammella che rapidamente divorò la paglia. Ako aggiunse alcuni ramoscelli e ben presto un bel fuoco rischiarava la radura. I cacciatori si erano radunati senza parlare attorno alle fiamme, i loro gesti erano lenti e solenni: quello spettacolo lo affascinava. Nessun essere vivente, prima di loro, era stato capace di far nascere o di domare quella cosa misteriosa che allontanava il buio della notte, dava calore e rendeva più tenera e facile da masticare la carne. Solo di tanto in tanto, erano capaci di fare il fuoco, ma era un fuoco che durava per giorni e giorni. Agostino Santolin, Ako bambino preistorico, Tredieci

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Un lungo braccio Clovis era piccolo: il più piccolo dei ragazzi della tribù della pianura, grandi cacciatori di cervi. I suoi compagni erano tutti più alti e forti di lui, e molti accompagnavano già gli uomini nella caccia. «Voglio venire anch’io!» ripeteva spesso al padre. Voglio cacciare i cervi per la tribù! Ma il padre scuoteva la testa: «Verrai solo quando saprai piantare una lancia in un albero a venti passi. Prima saresti solo un peso inutile». Clovis aveva provato tante volte a scagliare la lancia, ma le sue braccia non erano così lunghe e robuste come quelle di Nameh, che già era stato due volte a caccia con gli uomini. La lancia di Clovis spesso neppure arrivava all’albero, ma se lo colpiva ricadeva indietro senza forza. A ogni lancio i suoi amici ridevano e il ragazzino si sentiva umiliato e ferito. «Devi farti allungare un po’ le braccia o non raggiungerai mai quell’albero!» gli disse un giorno Nameh per scherzare, e Clovis si allontanò rosso di rabbia. Camminò tutto solo, attorno al villaggio, pieno di vergogna. Poi, ad un tratto, si ritrovò davanti alla fossa che usava la tribù per gettare i resti degli animali che erano stati uccisi e mangiati. C’erano lunghe ossa bianche e, guardandole, Clovis pensò che se avesse potuto ne avrebbe usate un paio per allungare le sue braccia. Prese due ossa, una per mano, e fece finta che fossero le sue nuove braccia. Immaginò di tirare una lancia con quelle lunghe leve e rise divertito. Poi però un’idea si fece strada nella sua mente: e se davvero fosse stato possibile lanciare con un braccio tanto lungo? Che cosa sarebbe successo? La lancia sarebbe andata più lontano? Con più forza? Le domande erano tante, ma c’era un solo modo per trovare le risposte: Clovis corse a prendere

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la sua lancia e un coltello di selce. Con la lama lavorò attorno alla testa dell’osso finché non riuscì a ricavare una sporgenza sulla quale appoggiare la base della sua lancia: sarebbe stato l’osso a spingere lontano la lancia, non la sua mano. In questo modo, il suo braccio sarebbe stato molto più lungo di quello di Nameh. Finalmente, quando tutto fu pronto, allungò il braccio con l’osso e ci sistemò sopra la lancia: ben salda contro la sporgenza, la lunga asta sembrava non vedere l’ora di volare via. Clovis lanciò e l’arma volò così lontano che il ragazzo quasi ne restò spaventato. Contò trentadue dei suoi passi prima di poter recuperare la lancia che si era conficcata profondamente in terra. Provò a lanciarla allora contro un albero lontano, e la punta dell’asta entrò così tanto nel legno che Clovis faticò non poco ad estrarla. Tutto contento, corse a cercare Nameh per sfidarlo. Il ragazzo accettò la sfida. Si sistemò a venti passi dall’albero scelto come bersaglio e piantò la sua lancia profondamente nel legno. Sentendosi già vincitore rise e, guardando il suo avversario con una punta di disprezzo, disse: «Tocca a te, braccino corto!». Clovis, senza arrabbiarsi, si sistemò a trenta passi dal bersaglio e poi scagliò la lancia usando il suo osso magico. L’arma volò veloce e sicura, e si conficcò nel legno tanto profondamente che non fu possibile estrarla senza romperla. Nameh era stupito, ma non solo lui: tutta la tribù seppe in poco tempo quello che era successo e tutti vollero vedere il braccio d’osso, il propulsore che Clovis aveva inventato. Il ragazzo lanciava e spiegava, tutto contento, sicuro che alla prossima caccia al cervo avrebbe partecipato anche lui. Stefano Bordiglioni, Storie prima della storia, Einaudi Ragazzi

Comprensione: 1. Perché Clovis non può andare a caccia e quando potrà andarci? 2. Cosa dice Nameh a Clovis? 3. Cosa inventa Clovis? 4. Perché Clovis decide di sfidare Nameh? 5. Secondo te Clovis parteciperà alla prossima caccia? Perché?


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Le donne hanno inventato l’agricoltura Com’è nata l’agricoltura? Quando l’uomo ha trasformato la propria esistenza cominciando ad avere una vera casa, una terra sua che gli offriva i prodotti del suolo? Per millenni gli uomini furono cacciatori: si spostavano da un territorio di caccia all’altro, in cerca di prede. Poi capirono che alcuni animali più mansueti potevano essere tenuti vicini, in greggi e mandrie, per avere latte e pelli e carne a disposizione quando occorreva. Anche i pastori erano costretti a spostarsi di terra in terra, in cerca di pascoli per il bestiame. Ad inventare l’agricoltura e a rendere stabile l’uomo nomade fu, forse, una donna. Possiamo immaginare quel che accadde, un giorno di alcuni millenni or sono. La donna aveva vagato tutto il giorno nella prateria ed ora tornava verso casa con fasci di erbe. Di queste, conosceva molte virtù: c’erano erbe che davano il sonno o curavano le piaghe, erbe che correggevano il sapore della carne, bacche dolci, e chicchi di cereali da sfarinare per farne focaccette che piacevano tanto ai bambini. Era stanca. La ricerca delle erbe, che le donne compivano a turno, era molto faticosa: le pianticelle utili crescevano qua e là a caso, nella prateria, e bisognava cercarle e raccoglierle ad una ad una.

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Finalmente la donna giunse alla sua capanna e poté riposarsi un po’, ma non per molto tempo: «Prima che mio marito ritorni» si disse «devo mettere un po’ d’ordine». Perciò, restando seduta, perché i piedi le facevano male, si mise a suddividere le erbe secondo le loro specie, in tanti cestini di vimini o in ciotole. In un recipiente c’erano alcuni chicchi di miglio che, per l’umidità, cominciavano già a germogliare. «Meglio gettarli via,» disse la donna «non vorrei che mi guastassero il nuovo miglio che ho raccolto». E cominciò a preparare un buon pranzetto al marito e ai figli che tornavano con le pecore. Passarono alcuni giorni, e la donna dimenticò quei semi gettati in terra, ma un giorno vide che alcune piantine di miglio erano cresciute vicino alla sua capanna. «Sono nate proprio là dove ho gettato quei semi di miglio!» pensò, e le raccolse. Poi continuò a rimuginare fra sé un’idea: «Certo, sarebbe comodo trovare vicino alla capanna tutte le piante di cui abbiamo bisogno! Oh, se si potesse trovare il modo di tenere con noi anche le buone erbe, oltre che gli animali! Ma si possono addomesticare le piante?». Tremante, come se stesse compiendo un’azione proibita, la donna prese un bastone, fece dei buchi in terra a distanze regolari e vi pose dei chicchi di miglio. Poi attese. Spuntarono le tenere piantine, tutte in fila, e crebbero le spighe, grosse e piene. La donna e suo marito assistettero ammirati a quel prodigio e ne ringraziarono Dio. Misero a dimora altre piante, e un giorno la donna disse all’uomo: «Dovresti fabbricarmi un arnese per fare nella terra i buchi in cui mettere i semi: in cima a un bastone lungo, lega un bastone corto, ad angolo, così potrò fare i buchi restando in piedi». Nasceva così la prima zappa, il primo arnese agricolo dell’uomo. Ruggero Y. Quintavalle, Domenico Volpi, Tra cronaca e storia, La Scuola

virtù: qualità. Perché la donna getta via alcuni chicchi di miglio? Cosa succede a quei chicchi gettati? Cosa fabbrica l’uomo per aiutare la donna?


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La scoperta della “grotta delle meraviglie” È domenica 18 dicembre. Attrezzati di tutto punto, gli speleologi salgono alla base della parete. L’aria esce sempre, chiaramente avvertibile, e i tre cominciano a rimuovere, cautamente, i sassi che ostruiscono il fondo del budello. Avanzano strisciando in orizzontale per cinque o sei metri, arrivano ad un pozzo verticale, vi si calano per una decina di metri e sbucano in quella che appare come una grande sala. A questo punto Jean Marie disse: «Questo è un colpo grosso!». «La nostra prima sensazione è stata infatti quella di un grande ritrovamento speleologico. Alla fioca luce delle pile frontali, il pavimento brillava di una miriade di cristalli di calcite, intravedevamo stalattiti e stalagmiti. Tanta era la paura di rovinare qualcosa, che ci siamo tolti gli scarponcini e abbiamo proseguito in fila indiana, con gli occhi a terra e mettendo i piedi ognuno sull’orma dell’altro. C’erano impronte e ossa di orso in quantità, e poi abbiamo visto un cranio di stambecco imprigionato nella calcite, e altri crani d’orso». Con il fiato sospeso, in silenzio, attenti solo a dove mettono i piedi, i tre esploratori oltrepassano cinque metri di parete dipinta senza neppure rendersene conto. Poi notano due segni rossi, di tipica

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127 fattura umana, e si dicono: «Ce ne devono essere altri». Voltandosi, il cerchio di luce di una pila frontale illumina, come un riflettore a teatro, il disegno di un piccolo mammut, di 25 centimetri; ed ecco l’esplosione delle immagini, ecco lo stordimento di fronte alla loro straordinaria bellezza. «La luce delle pile estraeva dal buio frammenti di animali, come se fossero vivi; ho visto la parte anteriore di un orso avventarsi verso di me da una grande parete, e i leoni fissarmi con uno sguardo che non dimenticherò mai più», ricorda ancora commosso Chauvet. Avevano cominciato alle tre del pomeriggio, un paio d’ore erano trascorse per aprirsi il passaggio nel budello. Quando escono, svuotati dall’emozione, sono le tre di notte. Ma prima di tornare a casa per qualche ora di sonno bisogna rimettere tutto a posto, sia per impedire eventuali intrusioni, sia per evitare il rischio che l’improvviso mutamento nel flusso della circolazione dell’aria inneschi processi di deterioramento. «Airone», maggio 1995

budello: cunicolo, tunnel. fioca: debole.


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Una scuola tutta d’argilla Cinquemila anni fa, nella Mesopotamia, la Terra fra i due fiumi, nasceva la civiltà. E sapete come? Nasceva con l’invenzione della scrittura, che permetteva di conservare le scoperte umane e di farle conoscere agli altri uomini, e con l’invenzione della scuola, che insegnava a leggere e a scrivere. Entriamo in una scuola di quel tempo, quando nella regione dominava l’attivo popolo dei Sumeri. Un muretto d’argilla, un cortile, e poi un grande edificio dalle pareti d’argilla: è diviso in varie stanze, e anche le pareti divisorie sono di creta seccata al sole. In ogni stanza vi sono sedili e scrittoi: banchi di scuola veri e propri, anch’essi di argilla. E gli alunni dove sono? In un angolo dell’edificio, insieme ai loro maestri, stanno impastando della creta! Ne tolgono tutte le impurità, la plasmano per bene, e ne fanno tavolette grandi quanto una mano, poi se le portano in classe. Per farne che cosa? Per scrivere! Con uno stilo di canna, tracciano segni sull’argilla molle: chi sbaglia può cancellare e correggere con la pressione di un dito, e poi le tavolette non costano niente e se ne può fare quante se ne vuole. Grazie a questa materia semplice, molle e disponibile ovunque, l’arte della scrittura si diffonde in Mesopotamia. La scuola si chiama, appunto, Casa delle Tavolette e gli scolari sono i Figli della Casa delle Tavolette. Osserviamo il maestro che fa lezione: spiega il significato dei segni, che corrispondono agli oggetti ed alle parole e mostra come si scrivono: li traccia di sua mano su una tavoletta, con arte. Gli scolari, con le loro incerte mani, debbono ricopiarli più e più volte. Man mano che progrediscono, copieranno interi elenchi di oggetti, di mestieri, e persino i sacri nomi degli dei. I più grandi arrivano a conoscere i segreti della lingua, e sanno fare moltiplicazioni, divisioni e persino estrazioni di radici quadrate e cubiche. Sempre sull’argilla molle, naturalmente. Gli scritti migliori, quelli che meritano di essere conservati come esempio di ciò che sanno fare i Figli della Casa delle Tavolette, vengono cotti nel forno, così la creta diventa terracotta dura e resistente, e i compiti degli scolari più bravi possono essere mostrati agli altri. Gli archeologi moderni, nel corso dei loro scavi, hanno ritrovato molte di

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quelle tavolette scritte a scuola. Su alcune di queste c’era il diario di uno scolaro. Possiamo così sapere com’era la giornata di un ragazzo sumero. Leggiamolo insieme: «Scolaro, dimmi: dove sei stato per tutto questo tempo?». «Nella Casa delle Tavolette». «Che cosa hai fatto là?». «Ho letto la tavoletta, ho mangiato la mia colazione, poi ho riempito di scrittura una tavoletta fino all’orlo. Finita la scuola, sono tornato a casa e ho recitato a mio padre ciò che avevo imparato. Gli ho letto la tavoletta, ed è rimasto contento. La mattina seguente, sono dovuto uscire ancora di buon’ora. Ho detto a mamma: “Dammi la colazione, perché debbo andare a scuola!”. La mamma ha tolto due pani dal forno per me, mi ha dato da bere, ed io sono corso alla Casa delle Tavolette. Nell’edificio, il sorvegliante mi ha gridato: “Perché arrivi in ritardo?”. Ho avuto paura, il cuore mi batteva forte. “Di corsa al tuo posto!” mi ha detto il maestro ed ha voluto esaminare la mia tavoletta. Non è stato contento e mi ha punito». Che ne dite? La giornata del ragazzo sumero somiglia, in modo sorprendente, alla giornata di uno scolaro d’oggi! La storia non si conclude con una punizione: quel ragazzo divenne bravo, puntuale, e fu promosso, così che su un’altra tavoletta possiamo leggere: «Il Figlio della Casa delle Tavole prese il maestro per mano, e con lui andò dal padre, a dimostrargli quante cose aveva imparato a scuola. Allora, lieto, il babbo disse al maestro: “Hai aiutato mio figlio a progredire, lo hai introdotto nelle scienze e gli hai insegnato l’arte della scrittura sulle tavolette. Ha appreso a fare di conto e a tenere la contabilità e tutti i compiti difficili ora gli sono chiari. Ti ringrazio!”». Con il lavoro di altri uomini che hanno continuato a leggere ed a studiare, queste tavolette sono state ritrovate e decifrate, con migliaia di altre, e abbiamo potuto conoscere molti particolari della vita dei popoli che abitarono la Mesopotamia. Ruggero Y. Quintavalle, Domenico Volpi, Tra cronaca e storia, La Scuola


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Il dono del Nilo

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METTIAMOCI ALL’OPERA IL PAPIRO

La gente, sulla soglia delle casupole, contemplava il fiume affascinata e come incantata. Finalmente il dio Nilo si era risvegliato e stava per benedire l’Egitto con la sua inondazione. L’acqua del Nilo scendeva veloce e impetuosa, ribollendo e trasportando rami di albero, tronchi, materiale strappato alle rive. Il livello del fiume si alzava continuamente e in poco tempo superò gli argini rovesciando un’enorme quantità di acqua e di fango sulle campagne intorno. Anche quest’anno il dio Nilo, salvatore e vita dell’Egitto, aveva assolto il suo compito. La notte, la gente del villaggio era rimasta alzata, con le torce in mano, a seguire l’andamento di quel fenomeno tanto atteso: chi rideva, chi innalzava preghiere di ringraziamento al dio Nilo, a Osiride, Iside, Horus… All’alba apparve uno spettacolo indescrivibile: il Nilo aveva invaso tutta la vallata che si era trasformata in un immenso lago. Gli aironi volteggiavano, come sorpresi su questo nuovo paesaggio, in cui i canneti delle rive erano scomparsi, sommersi. Stormi di anatre sorvolavano il fiume strepitando con i loro versi stonati, mentre le rondini si inseguivano sfiorando col petto l’acqua. Anche gli ippopotami che nuotavano a gruppi sembravano come spaesati, mentre i coccodrilli scivolavano in acqua dalle rive alla ricerca di qualche preda distratta. Lorenzo Taffarel, All’ombra della sfinge, Tredieci

Gli antichi Egizi utilizzavano i fusti della pianta del papiro per realizzare le pergamene sulle quali poi tracciavano i loro geroglifici e le loro rappresentazioni. Prova anche tu a realizzare una sorta di papiro procurandoti una lunga striscia di garza (quella semplice e non elastica che si utilizza per le fasciature), colla vinilica, caffè, un cartoncino A4 e un foglio o un sacchetto di plastica leggermente più grande del foglio A4. Adagia il foglio da disegno sulla plastica che hai recuperato. Crea una miscela liquida di colla, acqua e caffè nella quale immergerai, bagnandole, le strisce di garza lunghe quanto il foglio A4. Appoggia le strisce sul foglio ricoprendone interamente la lunghezza, poi crea un secondo strato di strisce sovrapponendole nel senso opposto. Se hai ancora garza crea un terzo strato, altrimenti sono sufficienti due strati. Lascia trascorrere almeno una notte e una volta asciutto potrai utilizzare il tuo foglio di papiro per disegnare e scrivere geroglifici. Puoi utilizzare le matite colorate o i pastelli a olio ma anche dipingere con tempera o acrilici utilizzando pennelli molto sottili.

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E E B A I F LEGGENDE

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Seppi cos’è il cavallo Seppi cos’è il cavallo sol quando vidi la bambina in rosa tirare in riva al prato il suo balocco di cartapesta sulle ruote lucide, lasciar cadere il filo, alzare il dito e dirgli: «Adesso, mangia!». Corrado Govoni

Filastrana Filastrana curiosa e arcana, cosa nascondi nella tua tana? Fiato di fata, pelle di rana, fiabe filate col filo di lana. Filastrana, curiosa e arcana, il suo nastro di sogno dipana. Silvia Roncaglia

ASCOLTO LE MILLE E UNA NOTTE

CANTO LA LEGGENDA DELLA GRIGNA

Per sopravvivere, la principessa Sheherazade racconta diverse fiabe dialogando con il Sultano.

La leggenda racconta come si è formata questa montagna lombarda, bella e pericolosa.


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Manitù Una bella mattina, Manitù si svegliò e pensò di fabbricare l’uomo. Prese un po’ di argilla e fece un bel pupazzo, con la testa, il busto, le braccia, le gambe. Poi accese un gran forno e vi mise dentro a cuocere il pupazzo. Ma quel giorno faceva caldo e Manitù aveva un po’ sonno: così pensò di schiacciare un pisolino all’ombra di un albero. Si addormentò e si dimenticò di svegliarsi in tempo… Quando si svegliò, sentì un forte odore di bruciaticcio. Balzò in piedi e si slanciò verso il forno. Ahimè, il pupazzo era stracotto e, quando Manitù lo tirò fuori, vide che era nero come il carbone. «Sarà la razza nera!» esclamò Manitù, che non voleva buttar via il suo pupazzo. E così fu. Il giorno dopo, Manitù fece un altro pupazzo, ma, per paura di bruciarlo, mise poca legna nel forno e levò fuori il pupazzo troppo presto. Altro disastro. Il pupazzo era mal cotto e appariva tutto pallido, bianco bianco. «Sarà la razza bianca!» disse. E fu così. Il giorno dopo, Manitù non si diede per vinto e fece un altro pupazzo. «Perché non si bruci» disse fra sé e sé «lo ungerò tutto d’olio». Ma anche questo sistema andò male. Manitù mise troppo olio e quando tirò fuori il pupazzo, questo aveva un color giallo, come il limone. «Sarà la razza gialla!» disse, senza perdersi di coraggio. Oramai Manitù aveva acquistato esperienza. Fatto un quarto pupazzo, sapeva come cuocerlo. Mise legna in quantità sufficiente, non mise troppo olio, sedette attento, alimentò bene il fuoco, diede ogni tanto qualche sbirciatina nel forno e tirò fuori il pupazzo cotto alla perfezione, d’un bel color rame. «Ecco la razza rossa!» esclamò Manitù soddisfatto. I Pellerossa sono infatti gli uomini più belli del mondo. Almeno così dicono i Pellerossa! Maria Tibaldi Chiesa, Le storie meravigliose. Fiabe e leggende di tutti i paesi, Utet

Il gigante Sassolungo Tanto e tanto tempo fa, i dintorni del massiccio del Sella erano abitati da un popolo di giganti mansueti e generosi che convivevano serenamente con gli uomini della valle. Tra i giganti però ve n’era uno che combinava sempre delle marachelle pensando di non essere scoperto. Questo gigante furfantello, che aveva nome Sassolungo, si divertiva a rubare nei campi o nei pollai dando poi la colpa ai topi, alle volpi o ai falchi. I suoi compagni erano creature bonaccione, ma non così ingenue da bersi tutte le bugie che Sassolungo raccontava. Decisero così di tenerlo d’occhio e in breve lo sorpresero in un paio d’occasioni con le mani nel sacco. Nonostante l’evidenza dei fatti, il gigante continuava a dire che era innocente e accusava i propri compagni di malfidenza. Arrivò infine il giorno in cui lo scoprirono a rubare per la terza volta nell’orto del vicino e questa non poteva sicuramente passare inosservata. Riunito tutto il popolo dei giganti, il grande saggio esortò Sassolungo a confessare le proprie malefatte. Ma vista l’ostinazione con cui il gigante negava ogni colpa, il saggio si infuriò e con un incantesimo lo fece sprofondare completamente sottoterra. Di tutta la grandezza del gigante Sassolungo, sbucava fuori dalle viscere della terra solo la sua mano aperta, che ancora oggi si può ammirare sul Sassolungo e prende appunto il nome di “Cinquedita”. malfidenza: sfiducia.


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La leggenda della genziana

La leggenda del lago di Carezza Molto tempo fa, in fondo al lago di Carezza, viveva una bellissima ninfa, la giovane dea del lago. Talvolta usciva dalle acque e si sedeva sulle rive a cantare e a pettinare i suoi lunghi capelli, ma appena sentiva un rumore si rituffava e scompariva. Sulla montagna vicino al lago viveva un mago, che si era innamorato della ninfa e voleva rapirla per sposarla, ma non riusciva nemmeno ad avvicinarla. Allora, disperato, si fece consigliare da una strega che gli disse: – Fabbrica un arcobaleno che unisca il lago alla cima della montagna. Vedrai che la ninfa incuriosita uscirà dalle acque: non ha mai visto un arcobaleno! Quando la ninfa sarà uscita, va’ da lei vestito da mercante e offrile un sacco di ricchi gioielli. Vedrai che riuscirai a portarla con te! Il giorno dopo il mago fabbricò un arcobaleno, un ponte di colori e di luce che unì il lago alla montagna. Subito la ninfa uscì per ammirare l’arcobaleno, ma il mago si era dimenticato di vestirsi da mercante. Appena le si avvicinò, la fanciulla lo riconobbe e immediatamente si immerse nel lago. Il mago furioso, per sfogare la sua ira, afferrò l’arcobaleno e lo fece a pezzi. I pezzi luminosi caddero nel lago e diedero alle acque i riflessi meravigliosi e i colori che tutti oggi possono ammirare.

Sulle Dolomiti si racconta la leggenda della piccola Genziana dagli occhi azzurri che dà origine al fiore. Genziana era una pastorella che viveva in una valle delle Dolomiti ed era molto bella. Tutti dicevano che aveva rubato l’azzurro ai laghi e ne aveva colorato le sue iridi. A forza di ripeterlo, il lago venne a saperlo e le acque si scurirono per l’indignazione. Come osava la pastorella rubare l’azzurro del suo lago? «La punirò per questo» diceva. Ma le piccole fate dei monti dissero alle fatine del lago che Genziana cantava divinamente ed era una buona idea farla diventare una di loro. Un giorno, mentre pascolava con le sue greggi nei pressi del lago, le fatine l’avvicinarono e le fecero la proposta. Lei rifiutò dicendo che non voleva lasciare la sua famiglia. Il lago si arrabbiò moltissimo al rifiuto. Le acque del lago si aprirono ed apparve un giovane dio che nel vedere la sua bellezza ne rimase incantato, e le chiese di sposarlo. Ma lei rifiutò anche questa volta e il giovane dio non controllò più la sua ira di innamorato respinto. Innalzò un’onda più alta delle altre che si chiuse sul capo della fanciulla, mentre si sentiva una voce gridare: «Hai rifiutato l’immortalità a fianco di un dio e io ti do la morte per aver rubato l’azzurro per i tuoi occhi». Quando fu tutto finito, le fate dei monti scesero a valle e per magia sulle rive del lago sbocciò un fiore azzurro come gli occhi di Genziana. Questa storia risuona ancora nelle foreste dei laghi alpini dove si dice che le fate la raccontino ai passanti, nelle sere di primavera, a ricordo della fanciulla.


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La gobba del cammello All’inizio del mondo, quando tutto era ancora nuovo, e gli Animali avevano appena incominciato a lavorare per l’Uomo, viveva, in mezzo al Deserto Ululante, un Cammello, che era proprio un gran fannullone, tanto che mangiava rametti e pruni, tamarischi e altre erbe, che poteva trovare nel deserto senza scomodarsi troppo; e quando Qualcuno gli rivolgeva la parola, rispondeva: «Bah!» solo: «Bah!» e nient’altro. Perciò, un lunedì mattina, il Cavallo andò da lui, con la sella sulla schiena e il morso in bocca, e disse: «Cammello, ehi, Cammello, vieni fuori a trottare come tutti noi». «Bah!» fece il Cammello; e il Cavallo se ne andò e lo riferì all’Uomo. Poi andò da lui il Cane, con un pezzo di legno in bocca; e disse: «Cammello, ehi, Cammello, vieni a stanare la selvaggina come tutti noi». «Bah!» fece il Cammello; e il Cane se ne andò e lo riferì all’Uomo. Poi andò da lui il Bue, con il giogo sul collo, e disse: «Cammello, ehi, Cammello, vieni ad arare come tutti noi». «Bah!» fece il Cammello, e il Bue se ne andò e lo riferì all’Uomo. Sul finire del giorno l’Uomo chiamò a raccolta il Cavallo, il Cane e il Bue e tenne loro questo discorsetto: «O miei Tre, sono molto spiacente per voi; quel Fannullone nel deserto non vuol proprio lavorare, mentre ormai dovrebbe già essere qui come voi; per cui sono costretto a lasciarlo solo, e voi dovrete lavorare il doppio per supplirlo». Ciò irritò molto i tre; ed essi si riunirono al confine del Deserto a congiurare; e venne anche il Cammello, più indolente che mai, ruminando erba, e rise loro in faccia. Poi fece: «Bah!» e se ne andò. Allora arrivò il Genio che ha in custodia tutti i Deserti, avvolto in una nube di polvere (i Geni viaggiano sempre in questo modo, perché è Magia), e si fermò a parlare coi tre. «Genio di Tutti i Deserti,» disse il Cavallo, «è giusto che qualcuno se ne stia in ozio con il mondo tutto nuovo?». «No di certo» rispose il Genio. «Ebbene,» soggiunse il Cavallo, «c’è un animale in mezzo al tuo Deserto Ululante, con lungo collo e lunghe gambe che non ha fatto ancora niente da lunedì mattina. Non vuole trottare». «Ohibò!» esclamò il Genio; «per tutto l’oro dell’Arabia, ma questo è il mio

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Cammello! E che scusa trova?». «Dice solo “Bah!”» disse il Cane, «e non vuole andare a stanare la selvaggina». «Dice qualcos’altro?». «Solo: “Bah!” e non vuole arare» disse il Bue. «Benissimo,» fece il Genio; «se avete la pazienza di aspettare un minuto lo


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farò sgobbare io». Il Genio si avvolse nel suo mantello di polvere, andò nel deserto, e trovò il Cammello più indolente che mai, che rimirava la sua immagine riflessa in una pozza d’acqua. «Mio lungo e indolente amico,» disse il Genio, «ho sentito sul tuo conto cose che ti fanno poco onore. È vero che non vuoi lavorare?». «Bah!» rispose il Cammello. Il Genio si sedette, col mento fra le mani, e si accinse ad escogitare qualche grande incantesimo, mentre il Cammello continuava a rimirare la sua immagine riflessa nell’acqua. «Tu hai costretto i tre a lavorare il doppio da lunedì mattina, e tutto per colpa della tua insopportabile pigrizia» disse il Genio, e continuò a pensare incantesimi col mento fra le mani. «Bah!» fece il Cammello. «Non lo ripeterei più se fossi in te,» disse il Genio; «potresti dirlo una volta di troppo. Fannullone, voglio che tu lavori». E il Cammello ripeté ancora: «Bah!» ma non aveva ancora finito di dirlo, che vide il suo dorso, del quale era così orgoglioso, gonfiarsi e gonfiarsi finché si formò su di esso una grande, immensa, traballante gobba. «Vedi cosa ti è successo?» disse il Genio; «questa gobba te la sei voluta proprio tu, con la tua pigrizia. Oggi è giovedì, e tu non hai fatto ancora nulla, mentre il lavoro ha avuto inizio lunedì. Ora devi andare a lavorare». «Come è possibile,» protestò il Cammello, «con questa gobba sulla schiena?». «Anzi, è fatta apposta,» replicò il Genio, «perché hai perso quei tre giorni. Ora potrai lavorare per tre giorni senza mangiare, perché puoi vivere a spese della tua gobba; e non ti venga in mente di dire che non ho fatto niente per te. Esci dal deserto, vai a raggiungere i tre, e comportati bene. E sgobba!». E il Cammello andò a raggiungere i tre, e sgobbò, nonostante la gobba. E da quel giorno in poi il Cammello ebbe sempre la gobba; ma non è ancora riuscito a recuperare i tre giorni che ha perso all’inizio del mondo, e non ha ancora imparato a comportarsi come si deve. Rudyard Kipling, La gobba del cammello, Mursia

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La leggenda del grillo Una volta i grilli non esistevano, ma c’era un uomo che sapeva tutte le cose. Quest’uomo si chiamava Shishuai e diceva soltanto la verità. Conosceva tutti i segreti del mondo. Conosceva i pensieri degli uomini. Sapeva la lingua dei fiori e degli alberi. Tutto il mondo era per lui una pagina di libro da leggersi a prima vista. La gente veniva da tutte le parti per vedere Shishuai. A uno diceva: «Sei un brav’uomo. Vivrai a lungo come un albero della montagna». Ad un altro: «Sei un uomo cattivo. Sarai punito». A tutti diceva la verità, ma gli uomini cattivi erano scontenti di ciò. Dicevano: «Ora sapranno che noi siamo uomini cattivi». Perciò, pensarono di ucciderlo. Shishuai sapeva benissimo che volevano ucciderlo. Egli sapeva tutto. Ma non se ne preoccupava. Come il fiore di loto aveva il profumo, così Shishuai aveva nel suo cuore la pace. I Geni, che vivevano in un palazzo nella sommità del cielo, non volevano che Shishuai morisse. Perciò quando gli uomini cattivi levarono le spade su di lui, lo trasformarono in un grillo. E l’uomo che conosceva le cose e diceva la verità, ora canta canzoni, che nessuno intende, ma tutti amano. E i Geni che abitano nel palazzo dei cielo sorridono alle canzoni del grillo perché sono le canzoni di uno che dice ancora la verità. George Selden, Un grillo a New York, Vallecchi


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La trappola dei sogni La principessa Rosalia non era contenta. Ma perché non era contenta? Una principessa ha tutto quello che serve per essere felice. Il fatto è che i sogni di Rosalia, all’alba, volavano via. Lei si svegliava, dopo aver fatto un bellissimo sogno, ma il sogno svaniva in un attimo, e questo la rendeva molto, molto triste. «Come mi piacerebbe che i sogni rimanessero con me anche al mattino!» sospirava. «Anzi, vorrei che rimanessero con me per sempre!». Un giorno Rosalia diede un ordine: «Voglio che la mia camera da letto sia completamente chiusa, sbarrata, senza neppure una fessura piccolissima: questo è quello che voglio!». Una squadra di falegnami, fabbri, muratori, si mise al lavoro, e con materiali speciali tappò ogni apertura della stanza da letto, anche la più piccola: neppure un piccolissimo insetto poteva passare, neppure un filo d’aria. Rosalia si addormentò beata, pronta a sognare cose meravigliose, belle, dolci, allegre, felici. Invece, quella notte, ecco arrivare sogni tremendi, mostri orribili, minacce, angosce, paure di ogni tipo. Rosalia si svegliò di colpo, sudata e ansimante, e per un attimo fu contenta di essersi svegliata: ma la sua contentezza fu breve, perché i brutti sogni, che volevano andarsene via, non trovavano nemmeno un buchino per uscire dalla stanza. Si scagliavano contro le pareti, contro il soffitto, strisciavano sul pavimento, ma non c’era niente da fare: la camera era sigillata. Rosalia se li trovò tutti attorno a letto, che si agitavano disperati, urlando, litigando, facendo un baccano infernale. La povera principessa, tappandosi gli occhi per non vedere e le orecchie per non sentire, cominciò a strillare e chiamare, fino a quando la sentirono e aprirono la porta: e i sogni, come una nuvola nera, uscirono tutti insieme, fischiando e stridendo. Rosalia era sul letto, sconvolta, pallida e tremante. «Forse è meglio lasciare qualche apertura in questa stanza, principessa... suggerì il consigliere, dopo aver sentito quello che era successo. Rosalia aprì gli occhi, e disse: «Ho un’idea migliore». In quello stesso giorno il letto della principessa fu trasportato su una grande terrazza, in mezzo a piante di glicine, limoni, rose e calicanto: e da allora, in

qualsiasi stagione, Rosalia dormì lassù, perché i suoi sogni, belli o brutti, al mattino potessero volarsene via. Roberto Piumini, Storie in un fiato, Einaudi Ragazzi


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Zefira La notte in cui nacque Zefira c’era nell’aria un silenzio che non si era mai sentito prima: perfino l’acqua del fiume sembrava stare zitta, e di cicale nemmeno l’ombra. Forse per via di tutto questo silenzio disteso intorno a lei, quando Zefira venne al mondo non ebbe per nulla paura e il primo respiro che fece non fu un pianto, né un grido, né un sospiro. Quando Zefira venne al mondo, spalancò la bocca, riempì per la prima volta i minuscoli polmoni… e cantò. Il canto di Zefira si sparse intorno come la musica di un piccolo flauto. La sua mamma sorrise, la sua nonna sorrise, ma la vecchia zia, che stava a guardia dell’acqua sul fuoco, fece una smorfia e gracchiò: «Canto di vento fin dentro la bocca, gran dispiacere a chi questo tocca». Appena Zefira imparò a stare dritta sulle gambe cercò di arrampicarsi sulla sedia per raggiungere la finestra, da dove sentiva venire i canti delle donne che intrecciavano le stuoie e quelli degli uomini che falciavano i campi. La vecchia zia la tirava giù e spostava la sedia di lato, dicendole: «Chi troppo in alto sale, cade in basso e si fa male». Eppure, dalla finestra senza vetri e dalla porta che rimaneva aperta, Zefira riusciva a sentire non solo i canti dei lavoratori, ma anche i suoni del fiume, degli animali e del vento tra le canne. Zefira indovinava tutte le musiche e le seguiva con la sua voce di flauto, come se rispondesse. Perfino quando imparò a parlare, le sue prime parole furono dette cantando. Un giorno che Zefira era già una bambina cresciuta, e aiutava la vecchia zia a fare da mangiare per tutta la famiglia mentre gli altri erano al lavoro, sentì un signore alla radio che parlava di una Scuola di Canto. Zefira abbandonò coltello e patata e corse accanto alla radio per sentire meglio. Il signore diceva che chi riusciva a entrare alla Scuola di Canto poteva imparare a cantare come gli angeli del fiume. Quando ebbe ascoltato tutto, Zefira disse alla zia con gli occhi brillanti: «Quando divento grande voglio andare alla Scuola di Canto!». La vecchia zia fece un sospiro che sembrava un grugnito e le rispose: «Pesce di fiume non può camminare, serpe di sabbia non sa volare».

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Eppure nessuno nel villaggio di Zefira aveva mai sentito una voce come la sua. Pareva che per cantare non facesse nessuno sforzo, le veniva naturale come il respiro. Con la sua voce era in grado di addolcire anche i lavori più pesanti. Per questo, appena fu in età da poter aiutare le donne al telaio, nel villaggio tutti si contendevano la sua presenza. Zefira non si stancava mai di cantare e di notte sognava di diventare leggera leggera e di galleggiare sulle onde della sua voce. La Scuola di Canto era in città e la città era lontana, Zefira lo sapeva: per raggiungerla bisognava prendere una corriera piena di gente e bisognava avere i soldi per pagare il biglietto. E per quanto ne parlasse in giro, e a tutti raccontasse il suo desiderio, da tutti riceveva sempre la stessa risposta: «Studiare canto? Sciocca, come se non ci fossero cose più importanti di cui occuparsi!» E chi sbuffava, chi scuoteva la testa, chi rideva dell’idea. La mamma e la nonna però, tutte le volte che al telaio si trovavano sedute vicine a Zefira, facevano in modo di passarle i fili migliori, insieme a qualche


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consiglio mormorato sottovoce. Così, cantando e lavorando, in breve tempo dal telaio di Zefira uscì una bellissima coperta. Quando la vecchia zia vide la coperta fatta da Zefira, chiese di averla come scendiletto: «Filo di sogno e freschi colori tolgono ai piedi mali e dolori». Ma Zefira portò invece la coperta a vendere al mercato. Con i soldi che riuscì a guadagnare comprò non solo il biglietto per andare alla Scuola di Canto in città, ma anche un paio di sandali e un biglietto per tornare. Salutò la mamma, salutò la nonna, salutò la vecchia zia, e partì. «Quando il pulcino solleva una zampa, col passo dopo di certo si inciampa». Sibilò la vecchia zia vedendola partire. Il viaggio fu lungo e anche piuttosto scomodo: siccome era la più piccola di tutta la corriera, Zefira dovette sistemarsi sul tetto insieme ai bagagli. A ogni buca della strada, la corriera faceva un balzo e Zefira si teneva stretta stretta ai sacchi che aveva intorno. Ma a dire il vero, non sentiva quasi nulla di quei fastidi: il suo pensiero era tutto concentrato a ripetersi quello che doveva fare. Per tutto il tempo del viaggio, Zefira cantò la canzone che aveva preparato per presentarsi alla Scuola di Canto. Per tutto il tempo pensò le musiche e le parole, cercando di stare attenta a non dimenticarsene nessuna. Ma appena arrivata in città, la prese una strana agitazione. Le tremavano le gambe e si sentiva i pensieri confusi. A mano a mano che si avvicinava alla Scuola di Canto, le sembrava che tutto quello che sapeva si stesse perdendo per strada. Le parole della canzone che si era preparata svolazzavano nella sua testa come foglie morte e poi sparivano. Non se le ricordava più! Al loro

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posto, le venivano in mente solo le frasi della vecchia zia, quelle che si era sentita ripetere per tutta una vita: «Canto di vento fin dentro la bocca… pesce di fiume non può camminare… col passo dopo di certo si inciampa… cade in basso e si fa male…». Era ormai arrivata alla porta della scuola e in testa aveva solo le parole della zia, che le battevano sulle tempie come tamburelli. Stava per girarsi e scappare via senza bussare, quando invece qualcuno aprì la porta e la fece gentilmente entrare fino a un palco illuminato. Zefira non vedeva più nulla, non capiva più nulla… le sembrava che ci fossero delle persone sedute davanti al palco, pronte ad ascoltarla, ma lei non ricordava più le parole da cantare, aveva la testa piena solo delle parole sbagliate della zia e non sapeva come metterle insieme. Poi le venne in mente il telaio, e i fili che la mamma e la nonna intrecciavano con gesti sicuri, così prese coraggio e fece anche lei la stessa cosa: semplicemente, intrecciò le parole che aveva in testa. E cantò… «Canto di vento che in alto sale soffia contento tra canne e cicale. Pesce che vola filo di sogno sa le parole di cui ha bisogno. Canto di fiume sogno pulcino metti le piume e comincia il cammino…». A dire il vero nessuno, tra il pubblico, prestò molta attenzione alle parole intrecciate nella canzone. Tutti rimasero inchiodati alle poltrone dalla bellezza della voce di Zefira e nella sala scese un silenzio ammirato, proprio come quello della notte in cui era nata. Fu così che Zefira dalla voce di flauto riuscì a entrare alla Scuola di Canto, dove rimase a studiare per molti mesi. E prima o poi usò anche il biglietto di ritorno al suo paese, per fare visita alla mamma e alla nonna e portare uno scendiletto alla vecchia zia. Così, quando imparò a cantare come un angelo del fiume, qualcuno disse dalle sue parti: «Se un seme di sogno riceve una goccia, la pianta cresce e il fiore sboccia». Chiara Carminati, Io vorrei… Sogni e desideri di bambini raccontati dai grandi, Condé Nast


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Vassilissa la bella C’era una volta un mercante. In dodici anni di matrimonio aveva avuto solo una figlia, Vassilissa, che era bellissima. Sua moglie morì quando la piccola aveva otto anni. Sentendo la fine avvicinarsi, la madre chiamò a sé la bambina, e da sotto le coperte tirò fuori una bambolina che come Vassilissa indossava stivaletti rossi, grembiulino bianco, gonna nera e corsetto ricamato e le disse: «Ascolta le mie ultime parole, e ubbidisci alle mie ultime volontà. Prendi questa bambola, è il mio dono per te con la mia benedizione materna; conservala con cura, non mostrarla a nessuno, e nutrila quando ha fame. Se ti troverai in difficoltà, chiedile aiuto, essa ti dirà che cosa fare». La donna strinse forte a sé la figlia e morì. La bambina e suo padre a lungo piansero e si disperarono. Il vedovo era un bell’uomo, che piaceva a molte donne, ma quando decise di risposarsi, egli si scelse in moglie una donna molto più giovane di lui, che era anch’essa vedova con due figlie della stessa età della sua bambina. La sua nuova moglie era una donna di classe, dai modi educati, insomma, appariva come un’ottima padrona di casa, eppure scelse la matrigna sbagliata per Vassilissa, poiché non era buona e affettuosa nei confronti della bambina. La matrigna e le sorellastre erano invidiose della bellezza di Vassilissa. La tormentavano di continuo impartendo ordini su ordini, e la caricavano di lavoro per farsi servire da lei tutto il tempo, e la mandavano anche a tagliare la legna, per far sì che il vento e il sole le rovinassero la pelle, e che il lavoro duro la facesse deperire. Ma Vassilissa sopportava tutto senza mai lagnarsi né commiserarsi, e diventava ogni giorno più bella, aveva sempre un aspetto più candido e grazioso, mentre la matrigna e le sue figlie, le quali non uscivano mai e non muovevano mai un dito, al contrario diventavano sempre più brutte e si logoravano sempre più dall’invidia. Esse non sapevano che Vassilissa aveva la bambolina che l’aiutava nelle incombenze, infatti, senza di essa la bambina non avrebbe mai potuto fare tutto da sola. La sera, quando tutti dormivano, la giovinetta si chiudeva nel suo angolino, a dar da mangiare alla fedele bambola e, infelice si sfogava con lei delle sue disgrazie: «Bambolina mia, mangia ed ascolta le mie pene! Triste è la casa di mio padre, la matrigna cattiva vuole la mia morte. Dimmi, cos’è che devo fare?». La bambola mangiò, poi consolò Vassilissa, la consigliò e al mattino faceva tutto il lavoro al suo posto. Vassilissa si riposò all’aria fresca, colse dei

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fiori, si occupò dell’orto, pulì e preparò le verdure e le mise sul fuoco che aveva acceso. La bambola le indicò inoltre una preziosa erba contro gli arrossamenti della pelle. Vassilissa crebbe e divenne una donna in età da marito. Tutti i ragazzi domandavano la sua mano, e nessuno sembrava interessato invece alle sue sorellastre. Allora la matrigna si mise a maltrattare ancora di più la figliastra e rispondeva ai pretendenti: «Non farò mai sposare la mia figlia minore prima delle mie primogenite!» e quando i giovani uomini se ne andarono, ella picchiò la figliastra per vendicarsi. Un giorno il mercante dovette partire per un lungo viaggio, e la matrigna se ne andò ad abitare in una casa ai margini della foresta in cui viveva BabaJaga, la vecchia strega. Questa non lasciava nessuno avvicinarsi alla sua casa e aveva fama di essere mangiatrice di uomini. Sperando prima o poi di sbarazzarsi di Vassilissa, la matrigna la mandava tutto il tempo nella foresta, in cerca di questo o quello, o a far legna, confidando che qualcosa di male potesse accaderle. Ma la ragazza tornava invece a casa ogni volta, grazie alla guida della bambola, che la teneva lontana dalla casa della strega. Venne l’autunno. Le ragazze trascorrevano le lunghe serate l’una lavorando al merletto, l’altra a fare la maglia, e Vassilissa a filare il lino. La matrigna dava loro dei compiti per la notte e poi se ne andava a letto, lasciando solo una candela accesa a loro che lavoravano. Poi una delle sue figlie spense la candela con una pinza come la madre le aveva ordinato. «Che disgrazia! Non abbiamo ancora finito il lavoro e non c’è più fuoco in casa e ora siamo al buio. Bisogna andare a chiederlo a Baba-Jaga! Chi ci va?». «Io no» disse quella che stava lavorando al merletto «per me non ce n’è bisogno, coi miei spilli ci vedo bene!». «Nemmeno io,» disse l’altra «i miei aghi luccicano, quindi ci vedo bene lo stesso». E tutte e due si rivolsero a Vassilissa: «Tu hai più bisogno di noi di luce, quindi tocca a te andare a cercare il fuoco da Baba-Jaga!» E così dicendo la spinsero via dalla stanza. Vassilissa corse nel suo angolino per dare da mangiare alla bambola, e le disse in lacrime: «Bambolina mia, mangia e ascolta la mia pena! Vogliono che vada da Baba-Jaga. Mi divorerà!». «Non piangere» le rispose la bambola. «Prendimi con te e portami


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tranquillamente là dove devi andare. Mentre io sono con te non può succederti niente». Vassilissa si mise in tasca la bambola e si rassegnò ad addentrarsi nella foresta oscura. Nel bosco l’oscurità si faceva sempre più fitta, e i ramoscelli che le scricchiolavano sotto i piedi la riempivano di paura. Infilò la mano nella tasca del grembiule, dove nascondeva la bambola che la mamma le aveva dato, e subito si sentì meglio. E a ogni biforcazione Vassilissa infilava la mano nella tasca e consultava la bambola, e la bambola le indicava da che parte andare. Improvvisamente un uomo vestito di bianco su un cavallo bianco passò al galoppo, e il cielo si fece più chiaro. Poi proseguì il cammino e vide un altro cavaliere: questo era tutto rosso, vestito di rosso su un cavallo rosso. E allora si alzò il sole. Solo verso sera Vassilissa giunse alla capanna di BabaJaga. La casa era fatta di ossa, di teschi e di occhi, ed era sorretta da colonne fatte di gambe umane. Le maniglie delle porte e delle finestre erano fatte con dita di mani e piedi umani, e il chiavistello era un grugno di denti appuntiti. La povera ragazza tremò come una foglia vedendo tutto questo orrore, e in quel mentre giunse un terzo cavaliere tutto nero a bordo di un cavallo nero. A quel punto era notte e gli occhi dei teschi si accesero, cosicché tutto intorno era luce come se fosse giorno. Vassilissa avrebbe voluto scappare e salvarsi, ma per la paura non riuscì a muovere un passo. Di colpo si fece buio pesto nella foresta, mentre le foglie degli alberi frusciavano in modo sinistro, la spaventosa strega apparve. Veramente orrenda, viaggiava su un mortaio che si spostava da solo. Guidava questo veicolo con un remo a forma di pestello e intanto cancellava le tracce alle sue spalle con una scopa fatta con i capelli di persone morte da gran tempo. E il mortaio volava nel cielo con i capelli grassi di Baba-Jaga che svolazzavano dietro. Il lungo mento era ricurvo verso l’alto e il lungo naso verso il basso, così si incontravano al centro. Aveva una barbetta a punta tutta bianca e verruche sulla pelle. Le unghie nere erano spesse e ricurve e tanto lunghe che non poteva chiudere la mano a pugno. Gridò a Vassilissa: «Sento odor di carne umana. Chi c’è qui?!». Tutta tremante di paura, la povera ragazza s’avvicinò timidamente: «Sono io, signora nonna, sono venuta perché le mie sorellastre mi hanno mandata a cercare legna per riaccendere il fuoco». «Sì, va bene, le conosco,» rispose Baba-Jaga «resterai qui per servirmi. Se

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farai un buon lavoro ti darò quel che cerchi, altrimenti ti mangerò! Servimi a tavola tutto quello che c’è nel forno, e sbrigati, perché ho fame!». Nel forno c’era cibo per dieci persone e Baba-Jaga lo mangiò tutto, lasciando una piccola crosta e un cucchiaio di minestra per Vassilissa. «Lavami i vestiti, scopa il cortile e la casa e separa il grano buono da quello cattivo e vedi che tutto sia in ordine. Se quando torno non avrai finito sarai tu il mio banchetto». E Baba-Jaga volò via sul suo mortaio. E cadde di nuovo la notte. «Domani, dopo che sarò andata via, spazzerai per bene in casa, pulirai dappertutto, mi preparerai la cena e farai il bucato. Poi macinerai il frumento. E bada bene che tutto sia ben fatto, altrimenti ti mangerò!». Quindi andò a letto e russò fragorosamente. Vassilissa nutrì la bambola con i pochi resti della cena della strega e le disse piangendo: «Piccola bambola, mangia bene e ascolta le mie pene! Se non faccio tutti questi lavori, BabaJaga mi mangia!». «Non piangere, bambina,» le rispose la bambola. «Dormi tranquilla, che il mattino ha l’oro in bocca!».


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Vassilissa si alzò prima dell’alba, ma la strega se ne era già andata. Presto gli occhi dei teschi si spensero e venne il cavaliere bianco e si fece giorno, e poi arrivò anche il cavaliere rosso. Rimasta sola, fece il giro della casa, aspettando di trovare una mole di lavoro da fare e chiedendosi da dove avrebbe cominciato, quando vide che tutto era già stato messo a posto e tutto era fatto, mentre la bambola stava finendo di macinare gli ultimi chicchi di grano. Allora Vassilissa la baciò: «Come posso ringraziarti, mia adorata bambola! Tu mi hai salvato la vita!». La bambola si arrampicò sulla tasca e disse: «Tu devi solo preparare il pranzo, poi potrai riposarti». La sera la tavola era pronta, presto il cavaliere nero venne e fu notte. Gli occhi dei teschi si erano nuovamente illuminati, le foglie sibilavano sinistramente, ed ecco che Baba-Jaga tornò. Vassilissa le corse incontro. La strega le domandò se avesse fatto tutto. «Vedi tu stessa, signora» rispose la giovane. La strega ispezionò la casa, guardò dappertutto e non trovò niente da ridire, e grugnì: «Va bene, può andare…». Chiamò poi i suoi fedeli servitori perché macinassero il frumento e tre paia di mani comparvero a mezz’aria e cominciarono a raschiare e a pestare il frumento. La pula volava per la casa come una neve dorata. Quando fu tutto finito Baba-Jaga si sedette a mangiare. Mangiò per ore e ordinò a Vassilissa di pulire di nuovo tutta la casa, di scopare il cortile e lavarle i vestiti. «Domani, oltre a quello che hai fatto oggi, dovrai setacciare, in quel mucchio di sporcizia, molti semi di papavero. Voglio una pila di semi di papavero e una pila di sporcizia, ben separati, altrimenti ti mangio!». Si mise a letto e russò subito. Vassilissa mise da mangiare alla bambola e questa le disse come la sera prima: «Vai pure a dormire tranquilla, tutto sarà fatto per quando tornerà domani sera, Vassilissa cara. Abbi fede, che il mattino ha l’oro in bocca!». L’indomani, la strega partì, e Vassilissa e la bambola si diedero da fare in casa. Al suo ritorno, la strega esaminò il lavoro, guardando minuziosamente in tutti gli angoli della casa, e non trovò niente da dire, e chiamò i fedeli servitori come la sera prima affinché spremessero per bene i semi di papavero, e tre paia di braccia apparvero per obbedire alla strega. Quindi si mise a tavola, Vassilissa la servì in silenzio e la strega borbottò: «Perché te ne stai senza proferir parola, tutta muta?». «È che non oso, signora! Ma se me lo permetti, vorrei domandarti una cosa».

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«Domanda pure, ma ricordati che troppo saprai, presto invecchierai». Vassilissa chiese dell’uomo bianco sul cavallo bianco. «Quello è il mio giorno» rispose la strega. «E quell’altro tutto vestito di rosso, chi è?». «Quello è il mio sole ardente» rispose ancora. «E poi ho visto anche un cavaliere nero» aggiunse Vassilissa. «Quello è la mia notte fonda» rispose Baba-Jaga. «Sono tutti e tre miei servitori fedeli!». Vassilissa pensò ora agli altri tre, e tacque. Baba-Jaga disse: «Beh? Non mi fai più domande?». «No nonna. Come tu stessa hai detto, troppo saprai, presto invecchierai. Ora io so abbastanza». «E brava» disse approvando la strega «hai voluto sapere di ciò che hai visto fuori, non su quel che succede dentro. Io sono abituata a lavarmi i panni in casa, quindi quelli che sono troppo curiosi io me li mangio! E adesso è il mio turno di farti una domanda: come fai a fare tutti i lavori che ti assegno?». «Con la benedizione della mia mamma che mi viene sempre in aiuto, signora». «Ah, è così, allora? Ebbene, ragazza benedetta, vattene, vattene subito di qui! Non ne voglio, di benedetti, in casa mia!». E Baba-Jaga cacciò via Vassilissa, ma prima di chiudere la porta prese un teschio con gli occhi ardenti, e li mise su un bastone che mise in mano a Vassilissa. «Ecco il fuoco per le figlie della tua matrigna, prendilo! Dopo tutto, è per questo motivo che ti hanno mandata qui». Vassilissa se ne andò correndo nella foresta. Gli occhi del cranio le rischiaravano il cammino e si spensero solo all’alba. Camminò tutta la giornata, e verso sera, come giunse a casa, si disse: «Forse dopo tutto questo tempo si saranno procurate sicuramente altro modo di accendere il fuoco». E pensò di gettare via il teschio, ma una voce le disse: «Non buttarmi via, portami dalla tua matrigna!». Vassilissa obbedì. Quando arrivò, si sorprese non poco di trovare la casa al buio, e più ancora il suo sbigottimento crebbe nel vedere la matrigna e le sorellastre accoglierla a braccia aperte. Da quando era andata nella foresta, le dissero, non avevano più avuto modo di accendere il fuoco. «Forse il tuo durerà di più» disse la matrigna. Vassilissa portò dentro il cranio, e gli occhi ardenti si fissarono sulla matrigna e sulle sue figlie, seguendole dappertutto. Invano esse tentarono di fuggire o di nascondersi, gli occhi le


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perseguitarono ovunque e prima dell’alba di loro rimasero solo le ceneri. Solo a Vassilissa non avevano fatto alcun male. Al mattino Vassilissa sotterrò il cranio, sbarrò la porta e se ne andò in città, dove una vecchia signora l’ospitò nell’attesa che ritornasse il padre. Un giorno, Vassilissa domandò all’anziana signora: «Mi annoio a non far niente tutto il giorno, signora nonna! Se mi comprate del lino, io lo filo tutto!». La vecchia le portò il lino e la ragazza si mise al lavoro, e il filo scorreva veloce tra le sue dita. Finito che ebbe di filarlo, volle mettersi a tesserlo, ma c’era ancora la sua bambola che l’aiutava e le creò un bel lavoro. Vassilissa si rimise all’opera e alla fine dell’inverno la tela era tessuta, così graziosa e sottile che avrebbe potuto farla passare per la cruna di un ago! A primavera fece sbiancare la tela, e Vassilissa disse alla vecchia signora: «Va’ al mercato, nonna, vendi questa tela e tieniti i soldi che ne ricaverai». Ma la vecchia esclamò: «Ma tu scherzi, mia cara! Un tessuto di tale pregio, merita di essere portato allo Zar». Ella si piazzò davanti al palazzo, e cominciò a passeggiare davanti alle finestre. Lo Zar la notò e la chiamò: «Che fai lì, buona signora? Che cosa

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vuoi?». «Ti porto una merce rara, come Vostra Maestà può vedere». Lo Zar fece entrare la vecchia e si meravigliò della tela: «Quanto chiedi per questo tessuto, buona signora?». «Una così preziosa stola non ha prezzo! Nessuno ha abbastanza denaro per comprarla, e solo lo Zar può averla. Te la regalo!». Lo Zar ringraziò la vecchia che se ne andò carica di doni. Lo Zar donò la stola ai suoi sarti, affinché ne facessero delle camicie. Essi fecero i modelli, ma riguardo al cucito, non ci fu nulla da fare! Nessun sarto osò toccare una tela di tal pregio. Lo Zar, impaziente, andò a cercare la vecchia e le disse: «Poiché tu hai tessuto la tela, tu sarai in grado di cucirmi le camicie!». «Questa tela non è frutto delle mie mani, la mia figliola adottiva l’ha filata e tessuta». «Sta bene, sarà lei a cucire le mie camicie!». Quando la vecchia raccontò la faccenda, Vassilissa sorrise: «Lo sapevo che questo mio lavoro non poteva passare inosservato!» e si mise a cucire. La dozzina di camicie fu pronta in un battibaleno. La vecchia le portò allo Zar, e Vassilissa ebbe un’idea: si lavò, si pettinò, si vestì elegantemente e si piazzò davanti alla finestra. Poco dopo vide arrivare un messo dello Zar che disse alla vecchia: «Dov’è quest’abile tessitrice? Sua Maestà lo Zar vuole ricompensarla di persona!». Vassilissa si recò al palazzo e quando entrò lo Zar vedendola se ne innamorò a prima vista: «Non ti lascerò più partire mia dolce creatura! Diventa mia moglie!». Lo Zar prese per mano Vassilissa la bella, la fece sedere al suo fianco e celebrarono subito le nozze. Ben presto il padre di Vassilissa tornò dal suo viaggio e fu molto felice della fortuna capitata a sua figlia ed andò a vivere con lei assieme alla vecchia signora. E per tutta la vita Vassilissa portò con sé, nella sua tasca, la sua fedele bambola. (Fiaba russa)


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Leggiamo le fiabe di Hans Christian Andersen La teiera C’era una teiera orgogliosa, orgogliosa della sua porcellana, del suo lungo beccuccio, del suo largo manico. Aveva qualcosa davanti e qualcosa dietro, il beccuccio davanti e il manico dietro, e parlava sempre di quelli, ma non parlava mai del coperchio che era scheggiato; quello era una mancanza, e delle proprie mancanze non si parla volentieri non lo fanno nemmeno gli altri. Le tazze, la zuccheriera e il bricco del latte, tutto il servizio da tè avrebbe certamente ricordato il coperchio rotto più che non quel manico e quello splendido beccuccio; la teiera lo sapeva bene….

L’acciarino Un-due, un-due! Un soldato veniva avanti marciando per la strada principale. Con lo zaino sulle spalle e la sciabola al fianco, perché era stato alla guerra, e adesso tornava a casa. Sulla strada s’imbatté in una vecchia strega: era davvero orribile, col labbro che le scendeva fino al petto! «Buonasera, bel soldatino!» disse, «che bella sciabola che hai, che grande zaino! Sei davvero un bel soldatino! Ora sì che potrai avere tutti i soldi che vuoi». «Grazie tante, vecchia strega!» rispose il soldato…

Il vecchio lampione Hai mai sentito la storia del vecchio lampione? Non è mica tanto diversa, ma per una volta si può anche ascoltare. C’era un buon vecchio lampione che era in servizio da molti anni, ma adesso doveva essere licenziato. Era l’ultima sera che stava sul palo a illuminare la strada e provava un po’ la sensazione di essere una vecchia comparsa di balletto che danza l’ultima sera e sa che domani dovrà restare in soffitta. Il lampione aveva un gran timore del domani…

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Leggiamo le fiabe dei fratelli Grimm Sei servi C’era una volta una vecchia regina, che era una maga; e sua figlia era la più bella fanciulla del mondo. Ma la vecchia ad altro non pensava che ad attirare gli uomini per rovinarli; e se arrivava un pretendente, diceva che chi voleva sua figlia doveva prima eseguire un compito o morire. Molti rischiavano, abbagliati dalla bellezza della fanciulla, ma non potevano compiere quel che la vecchia imponeva; e allora non c’era remissione: dovevano inginocchiarsi, e gli mozzavano la testa. Un principe, che aveva anche lui sentito parlare della grande bellezza della fanciulla, disse a suo padre...

L’acqua della vita C’era una volta un re che era ammalato, e più nessuno ormai credeva che potesse vivere ancora. I suoi tre figli, che erano molto addolorati, scesero a piangere nel giardino del castello. Là incontrarono un vecchio che domandò loro il perché di tanto dolore. Gli raccontarono che il padre era così ammalato che presto sarebbe morto, poiché, nulla poteva giovargli. Il vecchio disse: «Io conosco un rimedio: l’acqua della vita; se la beve, guarirà. Ma è difficile da trovare»...

Il principe ranocchio o Enrico di ferro Nei tempi antichi, quando desiderare serviva ancora a qualcosa, c’era un re, le cui figlie eran tutte belle, ma la più giovane era così bella che persino il sole, che pur aveva visto tante cose, sempre si meravigliava, quando le brillava in volto. Vicino al castello del re c’era un gran bosco tenebroso e nel bosco, sotto un vecchio tiglio, c’era una fontana...

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METTIAMOCI ALL’OPERA IL BURATTINO Nel mondo delle fiabe s’incontrano personaggi che raccontano di desideri, pericoli, bontà, cattiveria, aiuto gratuito… un po’ come capita nella vita reale. L’epilogo è sempre positivo: «… e vissero per sempre felici e contenti!». Leggere le fiabe è una soddisfazione che fa immedesimare. Puoi recitare una fiaba conosciuta o inventata da te, magari con l’aiuto di un burattino. Per la testa, prendi una cartolina e forma un cilindro in modo tale che ci si possa infilare il tuo dito anulare. Fissalo con lo scotch di carta. Questo è il collo del burattino. Con della carta da giornale fai una palla di carta ben pressata e fissala al collo, sempre con scotch di carta. Ora puoi modellare la testa del personaggio che hai scelto usando della carta pesta: occhi, bocca e orecchie devono essere ben evidenti e adatte a trasmettere le caratteristiche particolari del burattino: bellezza, cattiveria, buona vista, delicatezza… Per il vestito: prepara un cartamodello piegando un foglio di giornale a metà; disegna il contorno e ritaglia. Appoggia poi sul tessuto che hai scelto il cartamodello, piegando entrambi a metà perché il vestito risulti simmetrico. Ritaglia la stoffa e cuci il contorno del vestito dal rovescio. Si devono lasciare aperti il collo, le maniche e la base del vestito per poter inserire la mano nel burattino. Ora si assemblano le parti: i capelli sulla testa, il collo, le mani e gli accessori vanno fissati con colla a caldo. Se prepari diversi burattini insieme agli amici, la fiaba avrà tutti i personaggi per essere raccontata in un teatrino.


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NARRATIVA

NARRATIVA Suggerimenti per l'insegnante Pinocchio di Carlo Collodi Il testo di Pinocchio racchiude un forte valore culturale e un alto valore contenutistico e ciò ne determina la scelta di leggerlo in versione integrale alla classe. La nota vicenda del burattino Pinocchio è il racconto di una crescita e di una maturazione di sé. Nella narrazione di Collodi dal burattino impertinente, bugiardo e sfaticato, ne esce un bambino che, attraverso svariati incontri e avventure, acquista coscienza di sé e diventa capace di volere e decidere per il bene. La vicenda di Pinocchio mette in campo anche e soprattutto il tema della vita con le sue contraddizioni, con il male e il limite degli uomini, ma con una prospettiva finale di positività. Ciò è ben reso dal burattino che, uscito dalle mani del fantasioso Geppetto, rappresenta il bisogno dell’uomo di tornare a Dio, cioè da chi lo ha creato, come suggerisce la riflessione acuta di monsignor G. Biffi: «Quella di Pinocchio è la sintesi dell’avventura umana. Comincia con un artigiano che costruisce un burattino di legno chiamandolo subito, sorprendentemente, figlio. E finisce con il burattino che figlio lo diventa per davvero».

La pecora arrabbiata di Giampiero Pizzol Fra le nuove nate del gregge ecco che troviamo la pecora nera, non solo ha il pelo scuro ma anche l’umore ombroso. Riuscirà Fortunata, la protagonista, a trovare tra tante pecore qualche amica che l’aiuti a scoprire la bontà e la bellezza di quello che c’è? Il racconto è ricco di simpatiche situazioni ed è scritto con un delicato stile umoristico.

NARRATIVA

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Il nipote del mago di Clive Staples Lewis Della saga “Le Cronoche di Narnia”, narra delle avventure di due bambini, Digory e Polly, nella terra di Narnia. Grazie all’aiuto reciproco riescono a portare a termine la missione affidata loro dal leone, Aslan, e a scoprire l’importanza dell’amicizia e della generosità. Il rapporto tra i due protagonisti cresce nel corso della storia ed è fondamentale per il buon esito della loro “missione”, un esempio positivo dell’amicizia tra persone con caratteristiche diverse. È un libro di genere fantastico in grado di mostrare ai bambini come la realtà sia piena di ostacoli e difficoltà, ma che essi si possono superare soprattutto grazie all’aiuto di persone che si incontrano lungo un cammino condiviso.

Lotta Combinaguai di Astrid Lindgren La storia di Lotta,una bambina di soli quattro anni, e dei suoi fratelli maggiori è fatta di giornate allegre, di vicende quotidiane ricche di amicizia e di affetto in una casa che, per tutto quello che succede, dovrebbe trovarsi in “via Combinaguai”.

La piccola pestifera pirata di Richard Hamilton In un avventuroso viaggio in mare alla ricerca di preziosi tesori sei pirati trovano una bambina sperduta. Dopo molte indecisioni per il gran cuore del capitano la bambina entra a far parte della terribile famiglia, diventando una piccola pestifera pirata.

L’estate di Nico di Luigi Ballerini È la semplice storia di una amicizia estiva che rinnova le giornate e rende i due amici Andrea e Nico (Nicoletta) protagonisti di giri a zonzo, di scoperte e di incontri. La compagnia diventa speciale e unica nella condivisione di una missione segreta.


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NARRATIVA

NARRATIVA

GRAMMATICA

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252 punteggiatura

TABELLE DEI VERBI – MODO INDICATIVO IL VERBO ESSERE Presente

Passato prossimo

io

sono

io

sono stato

tu

sei

tu

sei stato

egli

è

egli

è stato

noi

siamo

noi

siamo stati

voi

siete

voi

siete stati

essi

sono

essi

sono stati

Imperfetto

Trapassato prossimo

io

ero

io

ero stato

tu

eri

tu

eri stato

egli

era

egli

era stato

noi

eravamo

noi

eravamo stati

voi

eravate

voi

eravate stati

essi

erano

essi

erano stati

Passato remoto

Trapassato remoto

io

fui

io

fui stato

tu

fosti

tu

fosti stato

egli

fu

egli

fu stato

noi

fummo

noi

fummo stati

voi

foste

voi

foste stati

essi

furono

essi

furono stati

Futuro semplice

Futuro anteriore

io

sarò

io

sarò stato

tu

sarai

tu

sarai stato

egli

sarà

egli

sarà stato

noi

saremo

noi

saremo stati

voi

sarete

voi

sarete stati

essi

saranno

essi

saranno stati

punteggiatura

253

IL VERBO AVERE Presente

Passato prossimo

io

ho

io

ho avuto

tu

hai

tu

hai avuto

egli

ha

egli

ha avuto

noi

abbiamo

noi

abbiamo avuto

voi

avete

voi

avete avuto

essi

hanno

essi

hanno avuto

Imperfetto

Trapassato prossimo

io

avevo

io

avevo avuto

tu

avevi

tu

avevi avuto

egli

aveva

egli

aveva avuto

noi

avevamo

noi

avevamo avuto

voi

avevate

voi

avevate avuto

essi

avevano

essi

avevano avuto

Passato remoto

Trapassato remoto

io

ebbi

io

ebbi avuto

tu

avesti

tu

avesti avuto

egli

ebbe

egli

ebbe avuto

noi

avemmo

noi

avemmo avuto

voi

aveste

voi

aveste avuto

essi

ebbero

essi

ebbero avuto

Futuro semplice

Futuro anteriore

io

avrò

io

avrò avuto

tu

avrai

tu

avrai avuto

egli

avrà

egli

avrà avuto

noi

avremo

noi

avremo avuto

voi

avrete

voi

avrete avuto

essi

avranno

essi

avranno avuto


254 punteggiatura

punteggiatura

IL VERBO AMARE

IL VERBO TEMERE

255

Presente

Passato prossimo

Presente

Passato prossimo

io

amo

io

ho amato

io

temo

io

ho temuto

tu

ami

tu

hai amato

tu

temi

tu

hai temuto

egli

ama

egli

ha amato

egli

teme

egli

ha temuto

noi

amiamo

noi

abbiamo amato

noi

temiamo

noi

abbiamo temuto

voi

amate

voi

avete amato

voi

temete

voi

avete temuto

essi

amano

essi

hanno amato

essi

temono

essi

hanno temuto

Imperfetto

Trapassato prossimo

Imperfetto

Trapassato prossimo

io

amavo

io

avevo amato

io

temevo

io

avevo temuto

tu

amavi

tu

avevi amato

tu

temevi

tu

avevi temuto

egli

amava

egli

aveva amato

egli

temeva

egli

aveva temuto

noi

amavamo

noi

avevamo amato

noi

temevamo

noi

avevamo temuto

voi

amavate

voi

avevate amato

voi

temevate

voi

avevate temuto

essi

amavano

essi

avevano amato

essi

temevano

essi

avevano temuto

Passato remoto

Trapassato remoto

Passato remoto

Trapassato remoto

io

amai

io

ebbi amato

io

temetti/ei

io

ebbi temuto

tu

amasti

tu

avesti amato

tu

temesti

tu

avesti temuto

egli

amò

egli

ebbe amato

egli

temette/é

egli

ebbe temuto

noi

amammo

noi

avemmo amato

noi

tememmo

noi

avemmo temuto

voi

amaste

voi

aveste amato

voi

temeste

voi

aveste temuto

essi

amarono

essi

ebbero amato

essi

temettero/erono

essi

ebbero temuto

Futuro semplice

Futuro anteriore

Futuro semplice

Futuro anteriore

io

amerò

io

avrò amato

io

temerò

io

avrò temuto

tu

amerai

tu

avrai amato

tu

temerai

tu

avrai temuto

egli

amerà

egli

avrà amato

egli

temerà

egli

avrà temuto

noi

ameremo

noi

avremo amato

noi

temeremo

noi

avremo temuto

voi

amerete

voi

avrete amato

voi

temerete

voi

avrete temuto

essi

ameranno

essi

avranno amato

essi

temeranno

essi

avranno temuto


256 punteggiatura

IL VERBO PARTIRE Presente

Passato prossimo

io

parto

io

sono partito

tu

parti

tu

sei partito

egli

parte

egli

è partito

noi

partiamo

noi

siamo partiti

voi

partite

voi

siete partiti

essi

partono

essi

sono partiti

Imperfetto

Trapassato prossimo

io

partivo

io

ero partito

tu

partivi

tu

eri partito

egli

partiva

egli

era partito

noi

partivamo

noi

eravamo partiti

voi

partivate

voi

eravate partiti

essi

partivano

essi

erano partiti

Passato remoto

Trapassato remoto

io

partii

io

fui partito

tu

partisti

tu

fosti partito

egli

partì

egli

fu partito

noi

partimmo

noi

fummo partiti

voi

partiste

voi

foste partiti

essi

partirono

essi

furono partiti

Futuro semplice

Futuro anteriore

io

partirò

io

sarò partito

tu

partirai

tu

sarai partito

egli

partirà

egli

sarà partito

noi

partiremo

noi

saremo partiti

voi

partirete

voi

sarete partiti

essi

partiranno

essi

saranno partiti


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