Delitto al Caffè Pedrocchi (Alberto Raffaelli)

Page 1


ALBERTO RAFFAELLI

DELITTO AL CAFFÈ PEDROCCHI

Le inchieste del viceispettore Zanca

Perché nessun uomo conosce l’uomo. Perché una vita d’uomo.

Una vita umana, come uomo, non basta a conoscere l’uomo. Tanto è grande. E tanto è piccolo. Tanto è alto. E tanto è basso.

Charles Péguy

Delitto al Caffè Pedrocchi

romanzo

I personaggi e le vicende di questo romanzo sono immaginari. Ogni riferimento a persone o fatti reali è da ritenersi del tutto casuale.

Scrivi all'autore

Email: alb.raffaelli@gmail.com

Blog: www.albertoraffaelli.it

Alberto Raffaelli

Delitto al Caffè Pedrocchi www.itacaedizioni.it/delitto-al-caffe-pedrocchi

Prima edizione: novembre 2020

Prima ristampa: novembre 2021

Seconda ristampa: luglio 2024

© 2020 Itaca srl, Castel Bolognese

Tutti i diritti riservati

ISBN 978-88-526-0663-2

In copertina

Padova 1998 - Vicolo Pedrocchi

© Foto Mauro Minotto

Stampato in Italia da Mediagraf, Noventa Padovana (PD)

Col nostro lavoro cerchiamo di rispettare l’ambiente in tutte le fasi di realizzazione, dalla produzione alla distribuzione. Questo libro è stato stampato su carta certificata FSC‰ per una gestione responsabile delle foreste. Stampiamo esclusivamente in Italia con fornitori di fiducia, riducendo così le distanze di trasporto.

Seguici su www.itacalibri.it

Mercoledì della prima settimana

Gli ultimi squarci di Venezia erano scivolati via, inghiottiti dal finestrino. Il groviglio di tralicci si era pian piano diradato e il treno, a fiacchi strattoni, aveva preso velocità.

Quella mattina di metà novembre Giovanni Zanca era arrivato appena in tempo alla stazione e si era infilato sul vagone in testa al binario proprio al fischio del capotreno. Attraversate alcune carrozze, aveva preso posto nell’angolo di uno scompartimento. Pochi sedili più in là alcune studentesse ridacchiavano fra loro, mentre più avanti un tipo in giacca e cravatta lavorava con il tablet.

L’acqua della laguna, increspata dalla brezza, brillava di infiniti schizzi di luce. All’orizzonte, sbiadito dal biancore della foschia, baluginava il profilo un po’ tozzo del campanile di Torcello; poco distante, l’ombra scura e frastagliata dell’isola di Burano.

Il viceispettore attese che il treno si lasciasse alle spalle il reticolo di binari della stazione di Mestre, quindi aprì la cartellina che teneva sulle ginocchia e ne estrasse il ritaglio di un quotidiano di Padova che riprendeva la notizia di una disgrazia avvenuta qualche giorno prima.

Un professore universitario, tale Eugenio Visonà, era stato ricoverato nel reparto di rianimazione in condizioni gravissime e versava tra la vita e la morte: nel suo organismo era stata riscontrata una quantità potenzialmente letale di sostanze tossiche. Si era trattato con ogni probabilità di un gesto estremo dovuto a una disastrata situazione finanziaria. L’articolo era corredato da una piccola foto che ritraeva un tipo non troppo alto, sulla sessantina, con dei baffi grigi, attorniato da alcuni studenti.

Zanca rimase a osservare la foto, poi richiuse la cartellina e tornò a guardare fuori dal finestrino. Ripensò alle parole del comandante, il giorno prima, al commissariato San Marco:

«Non so perché, ma il giudice del tribunale di Venezia ha chiesto espressamente di lei. Si tratta di una indagine informale che in questa fase deve rimanere del tutto riservata».

Il comandante aveva rigirato tra le mani l’ordine di servizio prima di consegnarglielo.

«Nell’informativa che mi ha fatto avere, il giudice precisa che la segnalazione gli è giunta dal primario del reparto di rianimazione dell’Ospedale Giustinianeo di Padova, il professor Nigro. Le consiglio di andare a trovarlo. Gli chieda quali sono i suoi sospetti e provi a farsi un’idea.»

Da quando si era conclusa l’ultima inchiesta che gli era stata affidata, relativa a una storia di corruzione nei palazzi del potere di Venezia, al viceispettore erano state assegnate solo mansioni di routine. Sentiva pesare attorno a sé un alone di diffidenza e aveva la netta sensazione che negli ambienti del commissariato i suoi colleghi lo evitassero. Qualcuno si lasciava andare di tanto in tanto a una pacca sulla spalla, come si fa con uno che sta passando un brutto momento. Lui ne soffriva, sapeva di essere finito in una fossa da cui sarebbe stato difficile uscire.

Forse quell’incarico inaspettato fuori Venezia era l’occasione per cambiare aria.

Una volta arrivato a Padova, percorse il lungo sottopassaggio, risalì all’aperto e diede un’occhiata all’orologio che si affacciava sul piazzale della stazione. Quella città la conosceva bene, ci aveva vissuto alcuni anni quando, da giovane, vi aveva frequentato l’università.

“C’è tempo” borbottò fra sé, e si avviò a piedi.

Venti minuti più tardi giungeva davanti all’imponente mole del Giustinianeo, l’edificio più antico dell’ospedale, e varcava l’arco di pietra che immetteva in un grande chiostro. Sotto il porticato che girava tutto attorno, alcuni anziani camminavano senza dirsi nulla. Un dottore dall’aria trasandata fumava appoggiato a una colonna.

«Il reparto di terapia intensiva è al primo piano» gli rispose l’infermiere a cui si era rivolto. «Prenda le scale là in fondo.»

Seguì la freccia che indicava l’ingresso del reparto finché si ritrovò di fronte a una porta di vetro oscurato con accanto al-

cune poltroncine attaccate al muro, ormai usurate dal tempo. Un cartello avvisava che le visite e i colloqui con i medici potevano avvenire solo dalle sei alle sette di sera.

Vi era un campanello con la scritta Solo per urgenze, provò a suonare. Di lì a poco la porta si socchiuse e si affacciò un’infermiera.

«Sono il viceispettore di polizia Zanca…»

«Venga, il professor Nigro la sta aspettando.»

Oltrepassata la soglia, si trovò in un ambiente dai rumori ovattati e saturo di odori di medicine. Dopo pochi minuti sopraggiunse un uomo tra i sessanta e i settant’anni, di bassa statura, capelli bianchissimi, baffi appena accennati e occhi vispi, luccicanti, del colore dell’acqua.

«Mi scusi se ho richiesto la sua presenza qui in fretta e furia. Sa, nel nostro ambiente a volte anche i minuti sono importanti. Andiamo di là, nel mio ufficio.» I gesti del professore erano cortesi ma sbrigativi e non lasciavano spazio alle formalità.

La stanza era piuttosto spoglia, arredata solo con un piccolo tavolo e una poltroncina in un angolo. Da dietro una porta giungeva il ticchettio delle macchine che tenevano in vita i pazienti.

«Si accomodi» disse il professore indicando una sedia. «Forse lei avrà letto qualcosa su Eugenio Visonà, la sua vicenda ha avuto un certo risalto sui quotidiani locali. Cinque giorni fa è arrivato qui in condizioni disperate. Era stato trovato agonizzante nei bagni del Caffè Pedrocchi. Quando lo abbiamo ricoverato era in preda a forti tremori che gli impedivano qualsiasi movimento. I primi esami hanno evidenziato un grave stato di avvelenamento. Ora è sedato, in coma farmacologico. Fin da subito è sembrato un tentativo di suicidio dovuto all’ingestione di cianuro di potassio: una fiala contenente residui di questa sostanza è stata trovata nella sua tasca.»

Il professor Nigro fissò il viceispettore e attese un istante prima di riprendere la parola. «Eppure ci sono degli aspetti di questo avvelenamento che mi lasciano parecchio perplesso. Vede, se un uomo ingerisse anche solo una piccola quantità di questa sostanza, morirebbe in breve tempo. Ma la fiala era quasi vuota: dov’è finito il resto del contenuto? Si potrebbe

ipotizzare che il professore abbia avuto un ripensamento mentre ingeriva la fiala, ma è un’ipotesi parecchio remota.

Poi ci sono altri due particolari che mi hanno insospettito. Il primo: sulle braccia e sul collo di quest’uomo abbiamo trovato delle ecchimosi, come se avesse avuto una colluttazione. Il secondo: in tasca teneva l’esito di un esame della vista effettuato quella mattina stessa. È davvero strano che una persona vada a fare il controllo della vista qualche ora prima di suicidarsi, non le sembra?»

Seguì ancora una breve pausa.

«Questi dubbi li ho condivisi con il giudice Bisanti, con cui collaboro spesso in qualità di perito del tribunale di Venezia. Con gli anni abbiamo stretto amicizia e ogni tanto ci troviamo a cena, insieme alle nostre consorti. Ci siamo visti proprio questo fine settimana e gli ho parlato del caso. È stato Bisanti a suggerirmi di rivolgermi a lei, mi ha detto che vi siete conosciuti diversi anni fa per una vicenda successa a Tarvisio.»

«Il nome Bisanti mi dice qualcosa…» Il viceispettore abbassò gli occhi per darsi il tempo di frugare nella memoria. «Sì,» disse alla fine, «adesso ricordo. È stato più di trent’anni fa. Il caso di Tarvisio… da allora non ci siamo più visti.»

«Il giudice Bisanti si è proposto di richiedere una indagine informale prima di mettere in campo la Procura o la Questura di Padova. Mi ha assicurato che lei è la persona giusta per questo tipo di faccende.»

«Le confesso che non so da dove derivi tutta questa fiducia. In ogni caso il comandante mi ha assegnato una decina di giorni per raccogliere elementi per una possibile apertura formale delle indagini. Intanto avrei bisogno di qualche informazione su questo professore.»

«Le posso dire quel poco che so. Eugenio Visonà insegna all’università, qui a Padova, occupa una cattedra della facoltà di fisica. Vive da solo, è separato e non ha figli. In tutti questi giorni a interessarsi delle sue condizioni è stata solo la sua ex moglie, una dottoressa che lavora qui in ospedale. Si è fatta viva un paio di volte e si tiene informata tramite un mio assistente. Per quanto mi riguarda, mi sento in obbligo di cercare

di capire cos’è successo a quest’uomo. Vede, quando sono di fronte a un paziente, mi chiedo sempre: “Se toccasse a me?”». Il professor Nigro si fermò come sovrappensiero.

«Lei crede che riuscirà a cavarsela?» chiese Zanca.

«Non lo so e, ammesso che riesca a sopravvivere, si tratterà di capire in quali condizioni. Il veleno ingerito potrebbe aver intaccato degli organi vitali compromettendo anche alcune funzioni cerebrali.»

Il primario indicò la sala che si intravedeva oltre una porta a vetri.

«Per adesso è di là, attaccato alle macchine. Vuole vederlo?»

Il viceispettore scosse la testa.

«Non credo sia necessario.»

«Bene, allora mi deve scusare, ma devo tornare dai miei pazienti. Mi tenga aggiornato, se può.»

I due si salutarono sulla porta d’ingresso del reparto.

«Le assicuro che lei è fortunato ad abitare a Venezia.»

Il volto del medico all’improvviso si distese in un sorriso bonario.

«La mia famiglia è del Lido. Ci ho trascorso l’infanzia e la giovinezza, fino a quando mi sono iscritto all’università. Lì ho ancora la casa di mia madre, ogni tanto ci vado a trascorrere qualche giornata…» Si scosse subito da quei pensieri. «A presto, conto su di lei.»

Mezz’ora dopo Giovanni Zanca varcava il portone del Palazzo del Bo, sede storica dell’Università di Padova, ed entrava nel chiostro tappezzato dagli antichi stemmi delle corporazioni degli studenti. Sotto quelle volte c’era transitato di frequente tra gli anni ’70 e ’80, prima come studente e poi come celerino, prima da una parte e poi dall’altra delle barricate dei moti studenteschi che erano seguiti al Sessantotto. Fece un rapido calcolo: erano trascorsi più di quarant’anni da allora, una vita.

D’un tratto fu investito da un piccolo corteo di ragazzi che urlavano a squarciagola un inno goliardico in onore di un neolaureato. Si appiattì al muro per lasciarli passare, quindi imboccò lo scalone che portava al rettorato.

Superata una porta a vetri gli venne incontro una signora in tailleur blu, dall’aria premurosa.

«Buongiorno, mi dica pure.»

«Sono il viceispettore Giovanni Zanca, vorrei parlare con il rettore.»

«Posso sapere il motivo?»

«Per la verità, è una questione piuttosto riservata.»

«Mi dica pure» insistette lei.

«Si tratta del professor Eugenio Visonà.»

«Visonà?»

Al viceispettore sembrò che la donna trattenesse a stento una reazione, tradita da un tremolio delle rughe agli angoli delle labbra. Lo pregò di attendere e raggiunse una collega seduta dietro una scrivania.

«Mi spiace» gli disse quando tornò verso di lui, «ma il rettore in questi giorni non è in sede, credo torni la prossima settimana. Se nel frattempo vuol riferire a me…»

«Avrei bisogno con una certa urgenza dei dati anagrafici del professore e di altre informazioni.»

«Mi dia solo un attimo.»

Il viceispettore si allontanò di qualche metro, vide la signora parlottare sottovoce al telefono con qualcuno. Alla fine gli fece cenno di avvicinarsi.

«Riguardo al professor Visonà, al momento tutto ciò che posso darle è il curriculum, che peraltro si trova anche sul sito dell’università. Per il resto, in sostituzione del rettore, domattina la può ricevere il prorettore, il professor Selmin. Per motivi di riservatezza preferisce incontrarla nella propria abitazione che si trova in centro storico, a qualche centinaio di metri da qui, ecco l’indirizzo. Per ogni evenienza, le lascio anche il recapito telefonico.»

Mentre raggiungeva l’uscita, il viceispettore ebbe la sensazione di avere gli occhi della donna puntati alle spalle. Una volta imboccato lo scalone, se la immaginò prendere subito in mano il telefono e riferire a chissà chi della sua visita.

Il campo di calcio del Pio Decimo stava proprio dietro la chiesa parrocchiale, a ridosso di via Anelli, dalla parte che guarda la Fiera. Attorno a quel campo Bruno ci aveva passato una vita, dapprima come custode, poi come allenatore della squadra dei giovanissimi. Di lavoro faceva il postino, cinquant’anni compiuti da poco, un matrimonio alle spalle. Non proprio una storia d’amore, una di quelle unioni che organizzano certe agenzie: viaggio in Sicilia, stretta di mano col papà della ragazza, benedizione di un prete e ritorno a Padova. Però Agata, così si chiamava la moglie, lì a Padova non si era mai ambientata ed era rimasta reclusa in casa per anni, senza riuscire a fare amicizia con nessuno. I padovani non sono gente facile per uno che viene da fuori, su questo lui un po’ le dava ragione.

Per qualche anno avevano cercato di avere figli ma, come diceva Bruno, se lei non ci metteva la voglia…

Agata non era brutta, ma a forza di trascurarsi, o forse per la malinconia, le erano cresciuti i baffi e una peluria sul viso che sembrava una barba. La volta che gliel’aveva fatto notare lei se l’era presa e si era chiusa a chiave nella camera che avrebbe dovuto essere dei figli, poco più di uno sgabuzzino, a piangere per due giorni di fila.

Finché un giorno, dopo una decina d’anni vissuti insieme, Agata aveva tirato in ballo la scusa che suo padre aveva bisogno di lei, giù in Sicilia, per la raccolta delle olive.

«Solo due settimane, tre al massimo» aveva detto.

Bruno l’aveva fissata senza dire nulla. Entrambi sapevano che quel viaggio avrebbe significato la fine della loro storia. Il giorno della partenza non aveva voluto neppure accompagnarla alla stazione: l’aveva guardata uscire di casa con le valigie, senza un saluto, senza muovere un dito per aiutarla.

E così si era ritrovato da solo. I primi tempi ne aveva sofferto più del previsto. Per quanto la presenza di Agata fosse stata silenziosa e sbiadita, non si aspettava che la casa, senza di lei, rimanesse così vuota. E così pure le sue giornate.

Ma poi il tempo si era portato via tutto e lui si era rifatto una vita con le passioni che gli erano rimaste: la politica e il calcio. In politica Bruno aveva sempre avuto le idee molto chiare: la fonte di tutti i problemi di Padova era la gente che veniva su dal meridione o, peggio, dall’Africa. La storia con Agata non aveva fatto altro che radicare in lui quell’idea. Dopo la sua partenza si era iscritto al partito e ogni anno rinnovava la tessera. Neanche quando avevano preso con le mani nel sacco i vertici nazionali, roba da vergognarsi, manco allora aveva perso la fede. Erano stati anni difficili, in cui nemmeno al bar si poteva più parlare di “Roma ladrona” o cose del genere. Ma ormai anche quella era acqua passata. E in tante tempeste Bruno era restato fedele alla causa: Paroni a casa nossa! sempre.

Infatti, una volta che il partito aveva ripreso quota, lui si era ritrovato in pole position e al primo giro buono era stato eletto in consiglio di quartiere. In quel ruolo si era messo in mostra con interventi crudi ma parecchio efficaci, come la sua mozione riguardante le badanti: «Le moldave e le russe entrano in casa dei nostri vecchi, qualcosa fanno vedere, qualcosa fanno toccare, e alla fine si portano via l’eredità».

La vicenda era finita sui giornali locali e lui aveva cominciato a farsi un nome in città.

Anche nel calcio, l’altra passione, le cose erano parecchio cambiate dopo che Agata se n’era tornata in Sicilia. L’allenatore della squadra dei giovanissimi aveva lasciato l’incarico a metà campionato, senza preavviso, e il presidente della società del Pio Decimo aveva chiesto a Bruno se accettava di prendere il suo posto.

«Non ho capito, mi chiedi di fare il mister?» aveva domandato Bruno, incredulo.

«Sì, magari ci provi. In tutti questi anni che hai fatto il custode ne hai visto di calcio e dovresti cavartela…»

Non che il presidente ne fosse del tutto convinto: la verità era che non aveva trovato nessun altro per quella sostituzione.

«Poi, col lavoro che fai alle Poste,» aveva aggiunto, «tempo ne hai, ogni giorno alle due sei a casa…»

Bruno non avrebbe mai immaginato una cosa del genere. Si

era comprato un paio di manuali del calcio e aveva cominciato a guardare più partite possibili alla tv.

In realtà si era presto reso conto che non era facile trasmettere gli schemi di gioco a una banda di ragazzini scalmanati. E difatti, a settembre, quando era ricominciato il campionato, prime partite, prime batoste.

«Com’è andata?» gli chiedeva al telefono il presidente al termine di ogni partita.

«Tanto a poco» rispondeva mogio Bruno, ma subito provava a difendersi: «Arbitro calabrese…».

La politica e il calcio, il partito e la squadra: le due cose non erano poi così distanti.

Tant’è vero che un giorno, alla fine di una riunione, il segretario della sezione del partito lo aveva fermato.

«Con tutti i ragazzi e i genitori che conosci, al prossimo giro ti mettiamo nella lista per il consiglio comunale e ti porti a casa una barca di voti!»

Bruno aveva scosso la testa, come a dire che non era all’altezza, ma poi quel pensiero si era fatto strada nella sua mente a tal punto che, quando in città arrivava un pezzo grosso da Milano o da Roma, lui correva a mettersi in prima fila.

Ma la realtà sopravanza qualsiasi strategia.

Dopo qualche mese, un pomeriggio di marzo, si era presentato all’allenamento della squadra dei giovanissimi un ragazzino senegalese, nero e lucido come la cera da scarpe. Al momento della partitella aveva chiesto di poter giocare e Bruno, avendo i ranghi ridotti, lo aveva lasciato fare.

Dopo pochi minuti di gioco, su quel campo era sceso un silenzio irreale, neanche fosse il venerdì santo: una cosa mai vista, come se, su quel prato malmesso, fosse sopraggiunto da chissà dove il figlio degli dèi del pallone.

Dribbling, tiro, finte e veroniche con la palla attaccata al piede. Pur correndo in modo un poco sbilenco, teneva sempre la testa alta per capire dove stavano i compagni e raggiungerli con lanci lunghi, calibrati al centimetro.

Bruno non ci poteva credere.

A fine partita, aveva fatto segno al ragazzino di fermarsi.

«Come ti chiami?» gli aveva chiesto, cercando di trattenere la smania.

«Thomas.»

«Sei già tesserato da qualche parte?»

Il ragazzino aveva scosso la testa.

«Hai voglia di giocare nella nostra squadra?»

Quello lo aveva guardato coi suoi occhioni scuri, poi gli aveva indicato col dito il ginocchio.

«Però questo ogni tanto mi fa male, non so se ce la faccio a giocare.»

«Fammi vedere. Cosa ti sei fatto?»

«Niente, mi si è ingrossato così.»

Il ragazzo aveva tirato su il pantalone: il ginocchio era davvero gonfio.

«Ti fa male?» aveva chiesto Bruno avvicinando la mano.

Thomas per la paura aveva tirato indietro la gamba con una smorfia di dolore.

«Sei andato da un medico?»

«No, mia zia non vuole. Ha detto che devo aspettare che torni mio papà.»

«Perché, adesso dov’è?»

«In Senegal.»

«E cosa è andato a fare in Senegal?»

«A vendere la sua macchina.»

«La macchina?! E perché?»

«La compra qui, la riempie di televisori, computer, vestiti e poi va giù. Un po’ di roba la vende in Marocco, il resto in Senegal, compresa la macchina.»

«E poi come torna?»

«In aereo.»

«E quanto ci impiega a fare tutto questo ambaradan?»

«Un mese, tre o quattro, dipende.»

«E riesce a guadagnarci?»

«Sì, ma a volte ci sono spese impreviste, il parcheggio e altre cose. Adesso è laggiù con una macchina grossa che fa fatica a vendere perché costa tanto. Ma quando torna, non so se viene a parlare con te.»

«E perché?»

Il ragazzino aveva chinato il capo senza rispondere.

Bruno si era rabbuiato di colpo.

«Ce l’ha il permesso di soggiorno?»

Ancora silenzio.

«E tua mamma?»

«Mia mamma non c’è, sto con mia zia, che non è proprio… è la compagna di mio papà, ma lei vuole che la chiamo così.»

«E lei ce l’ha il permesso di soggiorno?»

«Non so.»

Bruno aveva sentito un tonfo dentro di sé, come di un’impalcatura che viene giù con un fracasso assordante. Si era passato una mano tra i capelli e si era guardato intorno, spaurito. Se qualcuno avesse ascoltato quel dialogo, per lui sarebbe stata una rogna. Già se la vedeva la sputtanata sui giornali locali: Un figlio di clandestini nella squadra dell’allenatore anti-immigrati.

Appena si era ritrovato da solo aveva tirato giù una fila di imprecazioni e aveva sfasciato con un pugno lo stipite della porta dello spogliatoio.

Intanto, però, nel giro di qualche ora le voci sul ragazzino che faceva magie col pallone erano girate veloci nel quartiere e quella sera Bruno aveva ricevuto la telefonata del presidente del Pio Decimo Calcio.

«Ma cos’è successo? Mi hanno detto che hai scovato un ragazzo che fa miracoli.»

«Sì, presidente, dovresti vederlo.»

«Quanti anni ha?»

«Tredici, e non ha mai giocato in nessuna squadra.»

«Devi tesserarlo subito e bloccagli il cartellino prima che lo vedano altri.»

«Tranquillo, presidente, sei in una botte di ferro: mi sto già muovendo.»

Quella notte Bruno non era riuscito a dormire. Con gli occhi sbarrati nel buio, aveva rimuginato una montagna di pensieri. Ogni tanto a predominare era stata la sensazione di avere a portata di mano un sogno. Con Thomas la storia del campionato sarebbe stata del tutto diversa, e forse la sua stessa car-

riera di allenatore… Un simile fenomeno non si era mai visto in nessun’altra squadra di Padova e forse d’Italia. Ma poi subentrava all’improvviso l’immagine del ginocchio malmesso. Bisognava trovare a tutti i costi un medico disposto a curarlo, uno bravo e soprattutto fidato, che se ne fottesse delle scartoffie, dei permessi di soggiorno e di tutto il resto.

In quel guazzabuglio di pensieri l’unica idea che gli era venuta era di provare a parlare con un giovane che da anni frequentava la parrocchia e adesso studiava all’università. Bruno aveva sentito dire che si era fidanzato con una infermiera che lavorava proprio all’ospedale di Padova.

Così il giorno dopo si era fatto dare il numero dal parroco e aveva chiamato il ragazzo.

«Ciao, Francesco. Se passi dal campo sportivo avrei bisogno di parlarti.»

Il giovane si era presentato quella stessa sera e Bruno l’aveva preso in disparte.

«A te che sei dei nostri volevo chiedere una cosa un po’ riservata. In squadra ho un ragazzo che ha un ginocchio messo male, ma non posso rivolgermi al medico del quartiere e nemmeno andare al pronto soccorso, perché né lui, né suo padre hanno le carte a posto. Il permesso di soggiorno, intendo. Tu che fai l’università e che hai una fidanzata che…»

«Anna, sì. Ha cominciato a lavorare da qualche mese proprio alla clinica pediatrica.»

«Ecco, bravo, magari conosce qualcuno che può curare il ginocchio di questo ragazzo. Mi raccomando, deve essere una persona fidata. Nessuno deve sapere niente. Anche tu e la tua fidanzata dovete giurarmi…»

Francesco gli aveva strizzato l’occhio.

«Mi informo e ti dico.»

Tre giorni dopo il giovane era tornato da Bruno.

«Sei fortunato. Anna mi ha detto che ha già parlato con qualcuno del pronto soccorso: gli fanno tutti gli esami senza chiedergli nulla, né documenti, né soldi.»

Bruno gli aveva dato una manata sulla spalla, gli aveva offerto una Coca-Cola al bar del patronato e si erano messi d’accordo.

La settimana dopo, Francesco aveva portato Thomas in ospedale e i medici gli avevano fatto tutti gli esami possibili.

Quando era tornato da Bruno, Francesco aveva la faccia scura.

«Non ho buone notizie. La diagnosi è pesante.» Aveva tirato fuori una carta e gliel’aveva mostrata. «Si tratta di un sarcoma, qui c’è scritto tutto, non so se ci capisci qualcosa.»

Bruno era ammutolito.

«Cosa vuol dire?»

«Non so bene, neanch’io sono un medico, ma Anna mi ha fatto capire che è una brutta faccenda.»

«Si può fare qualcosa?»

«Ha detto che forse siamo ancora in tempo, ma bisogna portarlo ogni settimana in ospedale per le terapie. Se vuoi, mi prendo io la briga, così passo a trovare Anna.»

Bruno aveva tirato fuori dal portafoglio cento euro e glieli aveva allungati.

«Questi sono per te, fammi sapere cosa devo dare ai medici che lo curano.»

«Sei matto? Tutte le cure le fanno gratis. Tieniti i soldi.»

«Non li voglio indietro.»

Bruno aveva ficcato le banconote in tasca a Francesco.

«Se non li vuole nessuno, dalli a Thomas, senza dirgli che te li ho dati io. A te e Anna offrirò una pizza.»

Nelle settimane successive la terapia aveva dato i primi risultati. «I medici dicono che non bisogna mollare,» aveva raccomandato Francesco a Bruno, «altrimenti è difficile che Thomas possa guarire.»

Ma poi, da un giorno all’altro, senza dire niente a nessuno, il ragazzo era sparito. Per tutta l’estate non si era fatto vedere né al campo di calcio, né in ospedale. Un compagno di scuola era andato a riferire al mister che Thomas era tornato in Senegal, ma che forse sarebbe rientrato in Italia ai primi di settembre.

Bruno aveva trascorso l’estate pensando spesso a quel ragazzino: magari il male al ginocchio era scomparso, magari suo padre era riuscito a sistemare il permesso di soggiorno.

Ai primi di settembre gli allenamenti al Pio Decimo erano ripresi, ma di Thomas nessuna notizia.

Ogni volta che arrivava al campo sportivo per un allenamento o una partita, Bruno sperava che all’improvviso, da dietro l’angolo dello spogliatoio, spuntasse il profilo esile e scuro di quel ragazzino. E invece niente.

“Niente!” mugugnava tra sé. E in quel “niente” ci metteva dentro non solo la storia di quel negretto, ma tutta una vita.

Giunta l’ora di affrontare le prime partite di campionato, aveva rabberciato una formazione alla bell’e meglio. Ma senza Thomas le cose erano andate come dovevano andare: un disastro.

Alla fine, ancora una volta, si era dovuto rassegnare: quella del ragazzino spuntato dal nulla era stata solo una favola finita male, come di solito vanno a finire le favole dei grandi, dove tutto torna sempre normale.

Per fortuna c’era la politica a consolarlo. Le elezioni comunali si stavano avvicinando e l’uscita di scena di Thomas, almeno su quel fronte, risultava un vantaggio. Nessuno del partito gli avrebbe potuto imputare un qualsivoglia tradimento ideologico: clandestini a casa loro, senza se e senza ma.

Fino a quel mercoledì pomeriggio di metà novembre.

Quel giorno l’allenamento della squadra dei giovanissimi durò meno del solito. Bruno fece fare un po’ di corsa, dei palleggi, qualche tiro in porta, poi mandò tutti a cambiarsi nonostante i mugugni dei ragazzi.

«Fa freddo, andate a casa. Dalla prossima volta cominceremo a usare la palestra.»

Quando l’ultimo ragazzino, bofonchiando, se ne fu andato via tirandosi dietro un borsone più grande di lui, Bruno, in forza di chissà quale presentimento, uscì fin sul cancello a scrutare la strada dalla parte di via Anelli.

“Ma quello là…”

Aguzzò un poco lo sguardo. No, non poteva essere: la figura in fondo alla strada che saltellava su una stampella sembrava…

“Sì, è lui” biascicò sottovoce.

Il ragazzo si accorse di essere stato visto e si bloccò di colpo, indeciso se fermarsi o scappare.

Bruno, a passo svelto, lo raggiunse.

«Dove sei stato tutti questi mesi?»

«In Senegal con mio papà.»

«E il ginocchio?»

«Ha ricominciato a farmi abbastanza male.»

«Quando sei tornato in Italia?»

«Da un po’, è che non avevo il coraggio di farmi vedere.»

Bruno si passò la mano tra i capelli.

«Hai voglia di un’aranciata?»

Thomas fece segno di sì con la testa.

«Dai, vienimi dietro che proviamo a vedere se nel frigo dello spogliatoio è rimasto qualcosa.»

Indice

Mercoledì della prima settimana 5

Giovedì della prima settimana 31

Venerdì della prima settimana 61

Sabato della prima settimana 79

Lunedì della seconda settimana

Martedì della seconda settimana

Mercoledì della seconda settimana

Giovedì della seconda settimana

Venerdì della seconda settimana

Tutta la scienza, anche la scienza divina, è una sublime storia gialla. Solo che non è impostata per rilevare perché un uomo sia morto, ma il segreto più oscuro del perché egli viva.

G.K. Chesterton

Una sera di metà novembre il noto professor Visonà viene trovato morente nei bagni dello storico Caffè Pedrocchi di Padova. Mentre i giornali sostengono la tesi del suicidio, il viceispettore Zanca inizia a indagare tra le nobili sale del Caffè Pedrocchi, le aule dell’Università e la periferia della città. Si addentra così nelle stanze segrete del discusso docente, tra il mondo ignoto della fisica quantistica e le vicende dei numerosi personaggi che hanno incrociato il loro destino con quello di Visonà, in un susseguirsi di cadute e impreviste rinascite che rivelano come la vita venga prima di ogni opinione.

«In fondo», confessa una sera a sé stesso il viceispettore Zanca, «è ciò che ognuno, presto o tardi, è costretto a fare con la propria vita, quando una fatalità, o qualcos’altro, lo costringe ad andare a ritroso per cercare il segreto della sua esistenza, quell’unica cosa necessaria che aveva smarrito, dimenticato o di cui non si era mai interessato».

€ 16,00

Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.