Non vi è popolo europeo che sia stato tanto maltrattato quanto gli Etruschi; non un popolo, la cui eredità sia stata cosÏ sistematicamente distrutta. Werner Keller
Gianfranco Bracci, Marco Parlanti I leoni d’Etruria www.itacaedizioni.it/leoni-etruria Prima edizione: maggio 2018 © 2018 Itaca srl, Castel Bolognese Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-526-0558-1 Itaca srl via dell’Industria, 249 48014 Castel Bolognese (RA) - Italy tel. +39 0546 656188 fax +39 0546 652098 e-mail: itaca@itacalibri.it on line: www.itacalibri.it in libreria: www.itacaedizioni.it/librerie Grafica di copertina: Andrea Cimatti Cura editoriale: Cristina Zoli Stampato nel mese di maggio 2018 da Ge.graf, Bertinoro (FC) In copertina Elaborazione grafica della Chimera di Arezzo (V-IV secolo a.C), statua in bronzo conservata presso il Museo Archeologico di Firenze.
Gianfranco Bracci - Marco Parlanti
I leoni d’Etruria kirennas ∙ orgoglio lauxmna-x ∙ regalità farthan ∙ forza truna ∙ potere
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Ex unge leonem Dall’unghia puoi riconoscere il leone
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Le prime luci dell’alba si annunciarono con una vera e propria sinfonia di colori: prima il rosso carminio, poi il rosa e l’arancio acceso tingevano, fondendosi, alcune alte nubi conferendo al ricorrente momento della nascita del sole qualcosa di maestoso, magico ed eternamente diverso. Il drappello di uomini procedeva, i loro sguardi incantati dallo spettacolo naturale ma anche inusuale. Vhel, il giovane principe, alzò la mano imponendo l’alt e tutti fecero silenzio in attesa di un suo cenno. Proprio il loro capo sembrava il più affascinato dai colori dell’alba, così rimasero in contemplazione, ognuno con i suoi pensieri o i desideri più nascosti, ognuno con l’emozione nel cuore. I cinque giovani guerrieri indossavano la tipica attrezzatura da caccia grossa: arco, faretra con frecce ben calibrate, un’ascia bipenne e una spada affilata dalla lama ricurva, appesa al cinturone. Uno di loro affiancava sempre il proprio signore con un fascio di lunghe picche dalla punta affilatissima, da passargli prontamente. I quattro fidati facevano parte della guardia personale del principe e fin da bambini erano stati istruiti alla caccia e all’arte delle armi dai migliori maestri del regno di Lidia. Erano anche amici devoti del principe essendo cresciuti con lui e sarebbero stati pronti a dare la loro vita per salvare la sua, perché appartenevano alla casta scelta dei servi guerrieri e ne andavano fieri. Fra di loro il principe Vhel si contraddistingueva per altezza, portamento, regalità e lignaggio; giovane ma cosciente di non poter fallire se voleva guidare il suo popolo quando sarebbe succeduto al re suo padre. Quel giorno, che si annunciava eccezionale fin dall’inizio, Vhel avrebbe dovuto abbattere un leone maschio usando solo le sue armi e questo non sarebbe stato così scontato pur se nelle sue vene scorreva il sangue degli Ataie, cacciatori e guerrieri di antico valore. «Che gli dèi siano lodati! Guerrieri, ammirate questo spettacolo di luce divina e pregate che sia foriero di grandi avve-
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nimenti per la nostra caccia a Lao, re degli animali. Solo se riusciremo ad abbattere il suo possente corpo, trafiggendogli il cuore, gli dèi daranno al nostro popolo e a chi lo guiderà lo scettro del comando su questo territorio che i nostri padri ebbero dalla notte dei tempi». «Che veglino su di noi!» risposero all’unisono i quattro guerrieri. Ripreso il cammino giunsero al limitare fra la macchia e le praterie sassose, ascoltando, odorando e osservando attenti ciò che li circondava. I primi due guerrieri erano in avanscoperta; i due restanti invece ai fianchi del principe. Una coppia di feroci e giganteschi mastini, alti quasi come asinelli selvatici e acquistati dai carovanieri provenienti da Oriente, ansimava sbavando. Neri come la pece, avevano una grossa testa ornata da una folta criniera che conferiva loro un aspetto diabolico, simile a quello dei mostri che vivevano nell’Ade. Il corpo massiccio finiva con una coda arricciata a trombetta. Abbaiavano con un suono baritonale, quasi un ruggito proveniente da un antro profondo. Pochi mesi prima, durante i giochi per onorare la morte di sua nonna, la regina madre Vhelia, i due mastini avevano combattuto contro una leonessa e ne avevano avuto ragione, dimostrando il loro valore. Erano cani addestrati per difendere le mandrie di buoi dal pelo lungo dagli attacchi dei leopardi delle nevi e dei lupi fra le montagne d’Oriente, quelle che tutti chiamavano Tebet. Chi li possedeva ne andava molto fiero. «Fermi!» sussurrò «… Guardate come si sono impietriti i due mastini! Lao non è lontano». Grazie alla posizione sottovento, il drappello di uomini e cani era riuscito ad arrivare molto vicino alla preda. Anche il vento, che aveva preso a soffiare con forza da nord-est, era favorevole, riuscendo a coprire i loro rumori. Sebbene il grande leone giacesse sulla leonessa, alternando il ripetuto e brevissimo accoppiamento a larghi sbadigli e riposi, l’istinto gli face drizzare le orecchie mettendolo in allarme. C’era qualcosa intorno che non aveva riconosciuto ma che percepiva. Gli uomini invece, in posizione più elevata, si go-
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devano lo spettacolo, considerandolo un segno divino e propiziatorio. Vhel avrebbe potuto benissimo uccidere entrambi i leoni, ma non se l’era sentita di farlo in quel particolare momento, ritenuto sacro anche per gli animali. Escogitò così uno stratagemma, mandando uno dei guerrieri con i cani ad accerchiare la coppia di felini; sarebbero arrivati da sopravvento in modo che le fiere potessero avvertire la loro presenza e interrompere l’accoppiamento. Una volta divise le due belve sarebbe stato più facile cacciarle e lui avrebbe potuto procurarne la morte con la lotta. Così avvenne: lo stratagemma funzionò alla perfezione e appena il grande maschio si alzò sulle zampe possenti lanciando un ruggito di sfida, Vhel scagliò il primo giavellotto. Colpì con estrema precisione il collo dell’animale, facendolo accasciare. Nello stesso istante un paio di dardi scagliati dagli arcieri trapassarono il cuore del leone, che stramazzò al suolo. La leonessa intanto aveva ingaggiato una tremenda lotta con i mastini che cercavano di sfuggire ai suoi artigli. Uno dei cani era riuscito ad azzannare una zampa posteriore della belva, ma non poté schivare una micidiale zampata che gli inflisse una profonda ferita sul dorso. Un secondo giavellotto sibilò nell’aria trafiggendo la leonessa prima che potesse azzannare l’altro cane. Nel giro di pochi violenti istanti i due leoni erano stati abbattuti. Vhel e i suoi cacciatori avevano vinto la sfida… o almeno così credevano. Ansanti per l’adrenalina che scorreva nel loro sangue, si guardarono a lungo negli occhi l’un l’altro, lusingati dal sorriso compiaciuto del principe. Fu allora che, inaspettato, un terzo felino maschio balzò fuori dalla macchia, travolgendo e azzannando il più vicino dei guerrieri. In un istante gli spezzò il collo, accanendosi poi sul corpo ormai inerte. Dopo la sorpresa e l’orrore, Vhel e gli altri tre guerrieri riuscirono a trafiggere la belva con dardi e una lunga picca. Furente di rabbia, Vhel estrasse la sua affilata ascia bipenne e la calò, micidiale, sulla testa del terzo leone, accasciato al suolo.
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«Tu sia maledetto! Maledetto! Maledetto!» urlò per l’ira e il dolore di aver visto morire uno dei suoi amici, continuando a colpire l’animale ormai morto. Un braccio forte interruppe quella sua furia inutile. Il guerriero lo guardò implorante, poi si piegò sul ginocchio e chinò la testa in attesa della punizione per quel gesto. Vhel invece riprese fiato, osservando il corpo del felino intriso di sangue. Pose una mano sulla spalla del servitore stringendola con forza e ordinandogli di alzarsi. Calò un silenzio tremendo, ammantato di lutto. Ben tre leoni erano rimasti sul terreno, ma anche un guerriero aveva pagato con la vita il prezzo di quel successo. Questo era troppo per ogni cacciatore abituato a calcolare i rischi terribili della caccia al leone. «Grande Signore, hai ucciso ben tre leoni in una sola volta, in barba al Lao!» gridò un altro dei suoi cacciatori. Vhel sembrò risvegliarsi da un sogno terribile e sanguinoso. Alzò lo sguardo sui tre guerrieri ancora incolumi, ma stavolta il sorriso non era sul suo volto. «È vero e ringrazio gli dèi… maledicendo il demone Lao che ha preso uno dei miei validi guerrieri. Un’impresa grande, ma un altrettanto grande tributo di sangue». I quattro uomini si prepararono a trasportare il corpo del compagno caduto e quelli dei felini su slitte di legno costruite in modo rudimentale con rami d’albero. Le slitte sarebbero poi state trascinate con l’aiuto degli altri uomini e i loro cavalli rimasti al campo, situato nelle vicinanze. Ma non era finita: i profondi latrati dei due mastini annunciarono che la tenzone non era chiusa. Un quarto felino apparve a circa uno stadio da loro. Si eresse su una roccia liscia e piatta, il corpo possente ben visibile e fiero e lanciò un terribile ruggito, come ad annunciare di essere ancora lui il vero signore di quel mondo. Mentre i guerrieri preparavano le armi, iniziò a caricare provocando un vero e proprio terremoto, tanto era pesante il suo passo. La bravura e la precisione dei tre arcieri, unita al lancio deciso della picca che Vhel aveva velocemente impugnato, riusci-
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rono a bloccare la grossa fiera, trafiggendola. I due mastini si lanciarono al collo del leone e lo finirono. Madidi di sudore, i sopravvissuti iniziarono a guardarsi intorno in cerca di altri eventuali belve in agguato. «Che giornata, Signore!» sibilò uno dei guerrieri, tremando come una foglia al vento. «La giornata dei quattro leoni» annuì emozionato il principe, anche lui tremante. Il sudore aveva inzuppato i corti chitoni che portavano e bagnato copiosamente anche le agili corazze di cuoio e bronzo usate durante la caccia. Vhel e i suoi si sedettero esausti su alcuni massi. In cuor loro avrebbero voluto urlare e piangere l’amico con cui erano cresciuti; per loro era più che un fratello, era sangue del loro sangue. Avevano combattuto fianco a fianco contro i potenti popoli di Hatti, la cui capitale Hattusa era famosa per avere una porta ornata da due colossali leoni in pietra. Adesso il loro compagno giaceva devastato dalla furia del grande felino. Vhel stesso aveva le lacrime agli occhi ma, a maggior ragione, seppe trattenersi. Sarebbe toccato alle donne piangere il loro amico, e l’avrebbero fatto con tutti gli onori possibili. I quattro giovani si tenevano la testa fra le mani pensando a come fosse labile il confine fra la vita e la morte: una linea sottile che aveva diviso la forza e l’intelligenza del loro amico dal nulla che lo aveva inghiottito. Solo gli dèi conoscevano il perché di tale orribile fato: agli umani non era dato saperlo. «Larth…» ordinò il principe «… taglia le code ai quattro leo ni e corri incontro agli uomini dell’accampamento. Rifocillati e poi parti con un cavallo veloce verso la città; là annuncerai il grande evento». «Sì, mio principe!» rispose il guerriero e prontamente eseguì il macabro rito; poi si incamminò insieme a uno dei cani verso le tende del campo. In breve le due figure furono solo sagome lontane nella luce del giorno fatto. Preis, il secondo guerriero, si mise pazientemente a ricucire la larga ferita che l’altro mastino tibetano presentava sulla groppa. Abituato a sopportare il dolore, il cane si limitò ad ac-
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cucciarsi e lanciare sommessi guaiti, mentre l’uomo chiudeva la ferita con un crine di cavallo. A Vhel e Orden non restò che prestare l’ultimo atto di pietà per il loro amico: ricomporne in qualche modo il corpo e coprirlo con un mantello. A tutto il resto, compreso il trasporto delle belve, avrebbero pensato gli altri servi e guerrieri. Prima che i cacciatori giungessero in città, la notizia della strage li aveva preceduti, correndo di bocca in bocca. Questo aveva permesso di organizzare un trionfo per i sopravvissuti alla caccia al leone, ma anche un’accoglienza d’onore per il caduto. Una volta finiti i festeggiamenti, il principe Vhel riuscì a fare un bagno caldo e godere dei massaggi rilassanti che la sua schiava preferita sapeva fare. A ciò era seguita una cena leggera e dopo questa non gli era rimasto che sdraiarsi sul fresco talamo. Le scene di lotta con i leoni, l’accoppiamento delle fiere e l’adrenalina che ancora scorreva nel suo sangue gli fecero desiderare il dolce senso della pelle giovane di qualche ancella e fu sempre la stessa schiava a soddisfarlo. Il principe però, dopo che la ragazza si fu allontanata credendolo esausto e dormiente, si scoprì ancora insoddisfatto. Gli istanti di piacere estremo che la giovane schiava gli aveva donato erano stati sublimi per il suo corpo, ma non avevano appagato la sua anima: si sentiva incompleto nonostante la formidabile impresa del giorno trascorso. Il dolore per la perdita del servo guerriero e amico ancora lo turbava e sentiva la necessità di avere conforto nella parola di qualcuno che comprendesse e condividesse la sua pena e la soddisfazione guerriera per le gesta compiute. Sua madre era mancata quando lui era ancora ragazzo e suo padre, il re di quelle terre, era ormai vecchio e affranto; severo nel suo ruolo, seppur comprensivo e generoso con il figlio, mai si era confidato con lui o aveva ascoltato i suoi crucci o i dubbi giovanili. Re Hetnen era stato parco perfino nei complimenti al figlio tornato trionfante alla reggia, ma con un’ombra nello sguar-
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do. Stringendolo a sé e poi tenendolo per le spalle, lo aveva mostrato ai sudditi riunitisi numerosi davanti al palazzo reale. Era la seconda volta che il re presentava al popolo suo figlio; la prima in occasione della nascita, quando gli era stato consegnato dalle ancelle addette al parto della regina. Allora Hetnen aveva osservato con occhi scrutatori il piccolo lavato e profumato, avvolto in un panno di lino candido. Lo aveva baciato sulla fronte e senza il minimo accenno di un sorriso lo aveva tenuto fra le braccia per poi sollevarlo alla vista del popolo riunito sotto il grande terrazzo del palazzo reale. Alla nascita il rito significava che il re aveva un erede; quello stesso gesto a ventun anni di distanza voleva sancire che l’erede del re era degno del suo ruolo e di ciò che avrebbe ereditato: ricchezze, terre, un palazzo e soprattutto un popolo da guidare. Vhel era rimasto solo nella stanza, disteso sul letto, occhi socchiusi in attesa di un sonno che però tardava a venire, anche se era sopraffatto dalla stanchezza. Nella sua mente passavano ancora le scene cruente e sanguinose della caccia di quella mattina, fortunata e funesta al contempo. Infine il sonno lo vinse, disturbato nei primi istanti dagli ultimi ricordi dell’accaduto: lo sguardo feroce del primo leone non riusciva ad abbandonarlo… quasi fosse ancora lì a fissarlo. L’urlo straziante del povero amico gli risuonò ancora nella mente; poi finalmente l’oblio. Fu intorno al primo mattino che fece un sogno, particolare e vivido come la realtà. Vide suo nonno Areo, al quale aveva voluto un bene profondo, rialzarsi dalla pietra del suo letto di morte e sorridergli. In piedi, con il bianco sudario di lino a terra, si era mostrato a lui sorprendentemente giovane e lo aveva chiamato a sé con la mano. Sognando di esser tornato bambino, Vhel aveva fatto alcuni passi verso il nonno, fermandosi a guardarlo dal basso verso l’alto. «Amato nipote…» aveva mormorato con voce pacata il nonno «… non dovrai avere paura dei quattro leoni. Tu ne sarai il padrone ed essi, insieme alla loro vita, ti porteranno in dono
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l’Orgoglio, la Regalità, il Potere e la Forza. Sarai il prediletto della nostra stirpe. Siano per tutto questo lodati gli dèi!». Un grande clamore, cori e grida di giubilo avevano riportato il principe dal sogno alla realtà. In un attimo aveva ricordato gli avvenimenti del giorno avanti. Indossato un chitone, si era avvicinato alla finestra e aveva scostato la tenda. Nella mattina ormai iniziata il boato della folla accalcatasi nella vasta piazza lo aveva salutato, onda improvvisa di suoni e invocazioni. Un largo sorriso era apparso sul suo volto illuminandone i fieri lineamenti mentre alzava la mano per salutare il suo popolo.
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Holais Xalsas se ne stava impettito e orgoglioso a osservare il popolo di Visenthia accalcarsi al centro della città, all’incrocio fra cardo e decumano, il punto d’incontro stabilito centinaia di anni prima dalle intersezioni degli archi solari del giorno più lungo e di quello più corto dell’anno. Di fronte al popolo erano riuniti il lucumone Vhel Pethna e i suoi consiglieri, le famiglie più importanti della grande città e i sacerdoti dei suoi templi. Alcuni dei presenti erano in armi essendo anche i comandanti che l’avrebbero difesa in battaglia. Non pochi erano inoltre gli ospiti venuti da città e villaggi vicini, invitati da parenti o dal lucumone stesso per assistere alla cerimonia. Holais Xalsas era all’ala dello schieramento dei notabili e riceveva da questi sia sorrisi che occhiate di curiosità per la sua presenza. Il lucumone aveva indossato le vesti più ricche e portava al collo un prezioso collare di lamine d’oro a forma di foglie d’ulivo finemente incise. Al centro una foglia più grande, simile a un pampino d’uva con inciso un simbolo solare. Il lungo chitone rosso scuro lo faceva spiccare in mezzo ai nobili raccolti e fra i sacerdoti dalle vesti bianche. Il popolo raccolto in massa attorno a loro dimostrava altrettanto gusto e amore per l’armonia e la bellezza: pur non disponendo delle ricchezze del lucumone e degli altri nobili, molti indossavano vesti ordinate, sobrie e intonate nei colori. Le donne erano sorridenti e portavano fiori sui lunghi capelli scuri, gonfi e profumati per l’occasione; solo alcune facevano sfoggio di spille e fibule di bronzo. Anche gli uomini erano vestiti sobriamente, ma con dettagli che si notavano: cinture di cuoio lucido, borchie di bronzo oppure doni avuti dai lori comandanti per valore dimostrato sul campo. Alcuni, autorizzati a vestire la tenuta da battaglia, non si erano schierati in parata ma mischiati agli altri, con mogli e figli accanto. I capelli di tutti erano ordinati e corti, a scoprire i volti rasati o con la barba curata. Canti e musiche si alternavano fra la popolazione, una sor-
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ta di gara all’esecuzione migliore, a far sì che il clima gioioso crescesse; così appena terminato un canto, se ne alzava un altro da un punto diverso. I bambini ridevano e cercavano di scappare dalle mani dei genitori, mentre i giovani uomini si mettevano in mostra cercando di farsi notare dalle loro coetanee vestite a festa. La vita della città in quel giorno di gioia mostrava il meglio di sé, oltre il rango e la ricchezza dei singoli, dimostrando quanto il senso di pace e bellezza fossero importanti per quella gente che veniva chiamata con il nome di Etruschi. Holais Xalsas godeva nel suo intimo per tutto questo, dolendosi di non essere un bravo disegnatore perché avrebbe voluto riprodurre la scena, certo che per i suoi concittadini quel giorno di festa sarebbe stato ricordato per sempre, come lui stesso avrebbe fatto con la soddisfazione di esserne uno dei diretti artefici. Holais era un artista scalpellino ed era lui il realizzatore dell’opera che il lucumone in persona aveva voluto: una scultura posta di fronte al tempio di Uni, la signora del cielo e protettrice della città, come di molte altre sul territorio dei Rasna o Tirreni, come venivano chiamati oltre il mare a levante, oppure Tusci a mezzogiorno, nella città dei Ruma-kh. La giornata era serena e il caldo sole di fine estate era mitigato dalla brezza leggera che dalla pianura saliva ai fianchi della montagna retrostante, muovendo le foglie degli alberi e portando i canti in alto verso le necropoli come a unire quelle vite festose al ricordo di quelle trascorse lì prima di loro e passate nell’Hintiu, il mondo delle ombre. I Monti Azzurri variavano i loro colori in base alla distanza: da verdi di vegetazione a chiari di stoppie e pietre quelli vicini; i più lontani velati leggermente e con il verde che sfumava nel colore brumoso dal quale veniva il loro nome. Il tutto a formare una cornice naturale alla piana fertile di coltivazioni, attraversata da corsi d’acqua che andavano a gettarsi nel sacro Arna, oltre le colline a sud. Tutto perfetto e ordinato secondo il volere del Cielo e secondo l’opera degli Uomini, seguendo la Disciplina che lucumoni e sacerdoti difendevano e diffondevano fra la loro gente. Vhel Pethna, il lucumone, fece un cenno ai musici e que-
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sti iniziarono a suonare un’armonia di morbide note di flauti, tintinnare di campanelli di bronzo e vibrare di corde di nervi animali tese sopra carapaci vuoti. I canti si spensero lasciando spazio alle note e al silenzio degli astanti. Alle spalle dello schieramento dei notabili apparve il corteo solenne del cepen netsvis, il sacerdote più anziano, accompagnato dal camthi cilth, il sacerdote del tempio che ospitava la cerimonia. Erano entrambi uomini maturi dai volti compassati e ieratici. Si conoscevano fin da bambini, nati e cresciuti in quella città da due famiglie vicine. Dietro di loro gli iniziati formavano un’unica fila di tuniche chiare. Alcuni portavano spighe di grano e un ramo di alloro, altri rametti di olivo e di vite; tutti silenziosi e compresi nel ruolo. Il corteo raggiunse il grande spazio formato dall’incrocio delle due vie principali; qui i giovani iniziati si unirono al popolo, mentre i due sacerdoti si inchinarono davanti al lucumone che fece altrettanto. La musica cessò e il cepen netsvis e il camthi cilth salmodiarono una preghiera propiziatoria che si diffuse nel silenzio e fu udita da molti, con la speranza che le formule benauguranti spandessero i loro effetti su tutti i presenti. Al termine i due sacerdoti e il lucumone si portarono di fronte al tempio della dea. A capo chino mormorarono preghiere e ringraziamenti, imitati dal popolo che col pensiero esprimeva desideri. Un gran silenzio regnò quando le preghiere terminarono. Non un grido gioioso di bimbo, non una parola sussurrata, non un canto di uccello, neppure un alito di vento interruppero quegli istanti. I due sacerdoti e il lucumone si posero su tre dei quattro lati di una sorta di baldacchino, più basso di una persona e formato da un telo candido istoriato da strisce orizzontali nei colori sacri: il blu e il rosso. La stoffa nascondeva qualcosa di appuntito, ma altro non si poteva capire. Chi era passato da lì il giorno prima ricordava di aver visto uomini lavorare furtivamente dietro una cortina di legni e teli. Lo stesso lucumone Pethna si era recato molte volte a seguire quel lavoro e nella notte l’oggetto misterioso era stato posto davanti al tempio sotto la sorveglianza di armati e sacerdoti.
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Il lucumone dette un’occhiata circolare alle file dei suoi concittadini lì riuniti, poi guardò i sacerdoti e li vide fremere nell’attesa. Prese un lungo respiro, sorrise lievemente e fece un passo avanti per tirare a sé la stoffa e svelare l’opera. Un mormorio corse fra la folla. Il lucumone aveva scoperto un cippo di nenfro rosso, squadrato, levigato e scolpito. Sul corpo quattro leoni rampanti, a bocca aperta e con le teste rivolte verso l’osservatore, sembravano aggrapparsi a ognuno degli angoli del cippo. La parte sommitale era perfetta e riproduceva una pigna, simbolo di abbondanza e dell’eterno ciclo della vita; inoltre recava scolpite nel bordo che la separava dal corpo quattro parole per ognuna delle teste feline. Il cepen netsvis lesse la parola incisa dal suo lato: Kirennas, Orgoglio. Sul lato del lucumone, lesse Truna, Potere. Volse poi gli occhi verso il lato di fronte alla popolazione e vide la parola Lauxmna-x, Regalità. Rimaneva insoddisfatta la curiosità di leggere la quarta parola, semplice per lui da intuire: era maestro nella Disciplina ed era certo che fosse Farthan, Forza, l’energia vitale del mondo. Sorrise compiaciuto e osservò Vhel Pethna che aveva gli occhi brillanti e la bocca in una piega di evidente piacere. Il lucumone guardava lentamente la folla e percepiva le descrizioni date da coloro che potevano vedere il cippo ai meno fortunati dietro di loro, che invece avrebbero potuto osservarlo solo a cerimonia conclusa. Alzò le mani per invitare i concittadini a far silenzio e si apprestò a tenere il suo discorso. «Popolo di Visenthia! Donne e uomini miei concittadini, oggi celebriamo il compimento di un secolo dalla rifondazione di questa città, erede della grande Klevsin Camars. Snuiaph avil-xva! Cento anni! Sì, questo il tempo trascorso da quando i nostri antenati ricostruirono la città che al tempo della famiglia Purthnas era la più potente fra tutte, vanto del popolo rasna per la bellezza delle sue case, la grandezza delle strade, il rigoglio dei giardini; per la fertile terra che ancora noi coltiviamo e per le acque chiare dei fiumi che qui confluiscono in uno, unendo le loro vite come noi Rasna uniamo le nostre nel tempo». Acclamazioni entusiastiche salutarono la pausa e il saggio
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lucumone sorrise apertamente prima di fare nuovi cenni per richiamare l’attenzione. «Noi siamo i discendenti di quella gente e oggi ringraziamo il Cielo e le Divinità tutte, per prima la nostra grande madre Uni, Ati-aisna, Colei che porta la luce dell’aurora; la protettrice delle nostre terre e del grembo delle nostre donne; Colei che protegge ogni città nuova e ha protetto la nostra nella sua rinascita!». Si voltò verso il tempio alle sue spalle e si inchinò, imitato dai due sacerdoti e dal popolo. Pochi ma lunghi istanti di silenzio, poi il lucumone riprese a parlare. «Questa pietra, scolpita con maestria da Holais Xalsas…» dicendolo indicò l’emozionato scultore «… raffigura quattro leoni e riporta per ognuno una parola. Mio padre mi narrava la storia di un lontano principe che per essere degno del ruolo di re si sottopose a una prova di coraggio e forza: la caccia al leone. Nella storia, che viene tramandata e che mio figlio conosce e che suo figlio conoscerà grazie a lui, il principe uccise ben quattro leoni nello stesso giorno. Nella notte, in sogno, il padre di suo padre gli confidò il significato di quelle fiere…» fece una pausa e vide tutti attenti. «Questa storia è giunta nelle nostre terre forse grazie al nostro antenato Tirreno o fu portata da Enea in fuga da Wilusya: quello che ci regala nel tempo è l’invito a vivere secondo l’orgoglio per il proprio passato, con la forza che ci dona il Cielo e che ci porta avanti nella vita; con la nobiltà di re che ogni donna e ogni uomo deve avere anche se di stirpe umile perché si è re o regina nel proprio cuore; rispettando il potere che la giustizia della vita e l’osservanza degli insegnamenti divini donano a tutti noi. E che gli anni di vita di questo cippo siano tanti quante sono le stelle nel cielo!». La folla fu percorsa da un mormorio di assensi, ma molti rimasero in silenzio in segno di rispetto, in un momento di riflessione sulla propria vita, sommando speranze e delusioni, realizzazioni e desideri ancora insoddisfatti. Poi, quando il lucumone Pethna alzò le braccia al cielo e gridò il suo ringraziamento agli dèi, anche i presenti fecero lo stesso e l’aria si riempì delle loro voci unite in quelle poche parole come in una nuova preghiera.
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Molti secoli dopo
Arnold T. Weyburn si voltò verso il suo assistente che lo aveva distratto nell’osservazione della mappa del sito archeologico, solo una bozza da aggiornare a ogni nuova scoperta: al momento recava pochi segni colorati oltre quelli grigi che contrassegnavano i risultati degli unici scavi di molti anni prima. Chip Sanders, il suo collaboratore, era un giovane professore allampanato che sfiorava i due metri ed era a un passo da lui, con un’espressione ansiosa. «Cosa succede, Chip?». «Capo, abbiamo trovato una cosa molto interessante, vieni a vedere!». L’archeologo americano del National Geographic di Washington lasciò l’ombra del telo scuro che lo riparava dal sole di quell’inizio di giugno toscano e lo seguì. Allungò lo sguardo verso il gruppo di colleghi della filiale londinese del National, intenti a scrutare qualcosa in uno scavo superficiale. I due alti statunitensi, anche Weyburn superava il metro e novanta, raggiunsero una fossa dove un paio di operatori erano chini su un oggetto che emergeva dal terreno. «Cos’è?» chiese l’archeologo sbirciando da dietro i suoi uomini. Uno si alzò e si fece da parte con occhi accesi senza dire nulla. Weyburn si inginocchiò accanto all’altro, che continuava a togliere la terra attorno al grosso reperto. Davanti agli occhi dell’americano c’era un pezzo di pietra che a prima vista sembrava informe ma a uno studio più attento risultava essere sagomato ad arte: le apparenti escrescenze altro non erano che figure in rilievo ottenute scalpellando la pietra. Il collaboratore prese una spazzola e dette un’energica strigliata. «La testa di un leone?» fu la domanda dell’archeologo, fatta più a sé stesso che agli aiutanti; quello con la spazzola fece una smorfia e confermò. «Gli inglesi non ne sanno ancora nulla, vero?» fu la doman-
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da di Weyburn, ma una voce dal bordo dello scavo gli tolse sicurezza. «Non sappiano nulla circa cosa?» pronunciò l’uomo con la digitale a tracolla, scandendo le parole con un forte accento londinese. «Ah, Jerome, è lei…» brontolò l’americano, fissando il collega incaricato di fare da reporter e registrare lo svolgimento degli scavi che il team anglo-statunitense aveva avuto il permesso di effettuare. L’inglese non ribatté e si piegò sulle ginocchia osservando dal bordo dello scavo l’oggetto parzialmente scoperto. «Interessante, direi. Non è una testa di leone quella, vecchio mio?». Weyburn commentò solo con un “così sembra”, che rivelò il suo disappunto per l’intrusione del collega, poi domandò se loro avessero trovato nulla di interessante, domanda che sembrava più un bel “perché non vi fate gli affari vostri invece di venire qui a curiosare” diplomaticamente travestito. «Certo: oggetti e oggettini, qualche traccia di una strada selciata. Perché non vieni a vedere, Arnold?» fu la risposta cortese e flemmatica dell’archeologo relegato al ruolo di giornalista, tra l’altro molto apprezzato per le sue foto e i suoi articoli sia dalla redazione britannica che da quella americana del celebre mensile con il rettangolo giallo. «Bene, continuate con lo scavo e vediamo com’è questa pietra scolpita. Fate attenzione e chiamate aiuto se necessario» fu la raccomandazione di Weyburn ai colleghi, poi salì i gradini di una scaletta di alluminio e uscì dallo scavo. Seguì Jerome fino al gruppetto di archeologi inglesi, capeggiati dal professor Costonroy del British Museum, collaboratore londinese del National e capo della componente britannica del team. Una lunga conoscenza lo legava sia a Weyburn che allo stesso Jerome. «Procede bene?» chiese l’americano sforzandosi in un sorriso; l’altro ringraziò e disse che la cosa prometteva molto bene. «Siamo qui appena da una settimana e sono già uscite molte tracce di case, di strade e di oggetti da portare allo scoperto e
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i leoni d’etruria
recuperare. Fantastico, direi, tu che ne pensi Arnold?» commentò Costonroy. «Direi di sì, Wilson. Maledettamente fantastico. Questi italiani hanno ancora dei tesori incredibili e li seppelliscono sotto cemento e asfalto» fu il commento di Weyburn con espressione dubbiosa e un po’ schifata; poi si inserì il giornalista archeologo. «I nostri colleghi…» Jerome calcò appena sulla parola «… hanno appena trovato qualcosa di molto interessante e Arnold stava proprio venendo a dircelo, vero, vecchio mio?». Probabilmente l’americano lo avrebbe maledetto nel suo intimo se non fosse stato ben cosciente della professionalità dimostrata da Jerome per decenni, sia come archeologo che come giornalista, tanto da averlo definito “archeologo divulgatore” per la competenza e passione che metteva nei suoi articoli e nelle sue foto, così come nelle conferenze, creando sempre grande interesse. Era stato proprio Weyburn ad averlo voluto nel team internazionale come osservatore e cronista. Magari lo maledisse lo stesso, però sorrise e descrisse a grandi linee il reperto appena mostratogli dai collaboratori a un centinaio di metri da lì. «Molto bene, ma lasciamoli lavorare» fu il commento di Costonroy. *** Le operazioni di scavo e pulitura durarono per tutto il pomeriggio e alla sera lo scavo fu coperto da teli e tavole fino al mattino successivo quando, di buon’ora, gli archeologi americani ripresero le operazioni. Solo in tarda mattinata la pietra scolpita fu liberata e issata con un paranco fuori dello scavo, adagiata su un robusto pallet e pulita a dovere. Attorno al manufatto ritrovato si riunirono i diversi archeologi americani e inglesi per valutarne l’importanza. «Bello» disse semplicemente Jerome tra una foto e l’altra. Weyburn e Sanders rimasero in silenzio, gustandosi i commenti. Costonroy mormorò qualcosa in risposta a un suo collaboratore, poi guardò Jerome e si avvicinò al manufatto. Indicò
Molti secoli dopo 23
il corpo spezzato dei quattro leoni che stavano sui lati di quella sorta di colonna quadrata, ma non disse niente: era evidente che si trattava della parte superiore di qualcosa di più grande. Passò le dita sulla parte sommitale dalla quale mancavano dei frammenti superficiali e sfiorò le incisioni in corrispondenza delle teste dei leoni. «Etrusco indubbiamente» disse studiando le incisioni e tentandone anche una lettura sul momento, che risultò difficoltosa anche a causa di particelle di terreno ancora da rimuovere. Fece un passo indietro e osservò l’oggetto nel suo insieme. «Uhm, che il diavolo mi porti se non somiglia al cippo di Settimello!» concluse infine e cercò appoggio nel collega americano. Il mutismo di Weyburn non chiarì nulla. «Non lo avete presente? Nessuno di voi l’ha visto?» chiese quindi Costonroy, quasi sorpreso dalla loro reazione di incertezza. «Non molto lontano da qui fu ritrovato quello che viene identificato come “cippo di Settimello” per il luogo del ritrovamento. Si tratta di una scultura molto simile a questa, con i corpi di quattro leoni rampanti con le teste sotto la parte sommitale della scultura, che però è liscia, senza scolpiture…» indicò la pigna sovrastante il manufatto «… qui ci sono anche delle iscrizioni che mancano nel cippo di Settimello, ritrovato intero, direi di misure analoghe a questo, che è evidentemente spezzato. Il resto del corpo del cippo, dei leoni e la base devono essere qui attorno, magari vicino a dove era questa parte…». «Abbiamo fatto dei sondaggi: non c’è niente del genere» interloquì Sanders. «… d’accordo, nulla vieta di pensare che le due parti siano distanti fra loro per una causa misteriosa. Sarebbe bello conoscere le motivazioni di queste iscrizioni» ribadì il professore inglese e aggiunse che anche saperne il significato sarebbe stato interessante. «Qualcuno ha fatto studi sulla lingua etrusca?» chiese Weyburn, ma le poche risposte furono negative. «Ok, ci sarà pure qualcuno in un’università della zona che potrà darci una mano, no?» considerò infine.