IL BENE che
PERMANE Dialoghi di Famiglie per l’Accoglienza
Prefazione di Mauro-Giuseppe LEPORI
Ringraziamenti Alla dottoressa Lia Sanicola per l’incoraggiamento a far nascere questo libro. Ai figli, ai ragazzi accolti, alle famiglie per il contributo alla preparazione del seminario nazionale del 2019 e, quindi, a questo volume. A Vera Molino e Cristina Tamburini per il loro indispensabile lavoro per l’associazione. A tutti coloro che collaborano in vario modo alla produzione e redazione dei testi di Famiglie per l’Accoglienza, in particolare a Donata Carmo e Antonella Maraviglia.
Il bene che permane. Dialoghi di Famiglie per l’Accoglienza www.itacaedizioni.it/il-bene-che-permane Prima edizione: giugno 2020 © 2020 Itaca srl, Castel Bolognese Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-526-0636-6 Stampato nel mese di giugno 2020 da Modulgrafica Forlivese, Forlì (FC) Foto di copertina: Errico Fioretti Foto all’interno: Ivan Postai (p. 16), Massimo Di Paolo (p. 40), Giuseppe Lanzi (p. 44), Davide Boffi (p. 54), Nicola Rebaioli (p. 63), Stefano Sacchettoni (p. 72), Matteo Garbujo (p. 104), Caterina Bedeschi (p. 126), Errico Fioretti (p. 128)
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IL BENE CHE PERMANE Dialoghi di Famiglie per l’Accoglienza
A cura di Marco Mazzi Massimo Orselli Simona Sarti Prefazione di Mauro-Giuseppe Lepori
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Prefazione Mauro-Giuseppe Lepori 1
Ho avuto la grazia di leggere le testimonianze raccolte in questo volume mentre la liturgia del tempo pasquale mi faceva meditare sulla diffusione iniziale dell’avvenimento cristiano narrata dagli Atti degli Apostoli. Gesù risorto, dopo aver per quaranta giorni conversato e addirittura «mangiato e bevuto» (At 10,41) con i discepoli, ascende alla destra del Padre affinché venga un altro Consolatore, lo Spirito Santo, a guidare e animare la Chiesa, con una carità fraterna e una capacità di testimonianza che appaiono subito al mondo come un miracolo sorprendente. Non era possibile che tanta forza, tanta sapienza e tanta bellezza e pienezza di umanità venissero solo da quelle persone rozze, incolte e timorose. Cosa permetteva questo salto di qualità, di vitalità e di certezza? Proprio la contemporaneità fra la loro miseria e la loro potenza rivelava che il principio e la sostanza di quel salto impossibile erano Qualcosa d’altro che rimaneva presente, un Altro che agiva in loro, con loro, ogni momento, ad ogni passo, ad ogni parola, ad ogni sguardo e gesto. I discepoli manifestavano così che il centro sorgivo e irradiante di tutta la vita della comunità cristiana è Cristo risorto che soffia su di noi lo Spirito Santo, quel soffio vitale che aveva animato Adamo all’origine, ma che ora fa rinascere e risorgere costantemente
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Abate generale dell’Ordine Cistercense.
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l’umanità nuova dei discepoli e di tutti coloro che si lasciano coinvolgere dalla loro compagnia (cfr. Gen 2,7; Gv 20,22). Ma la lettura di tutte le testimonianze di questo libro, le testimonianze di chi accoglie e di chi è accolto, ha come messo una lente su questa dinamica pasquale della vita ecclesiale. Mi ha reso attento al fatto che, nel momento chiave in cui l’avvenimento di Cristo ha come forzato i limiti del giudaismo per iniziare a diffondersi all’umanità intera, questo passaggio si è verificato proprio come accoglienza. Fino al giorno in cui il centurione pagano Cornelio ebbe la visione di un angelo che gli chiedeva di mandare a chiamare san Pietro perché venisse nella sua casa ad annunciargli la salvezza in Cristo morto e risorto, i primi cristiani non avevano veramente capito che Gesù era il Salvatore di tutta l’umanità. Il salto si verificò quando Pietro, dopo aver anch’egli avuto una visione in cui Dio, mostrandogli una tovaglia piena di animali impuri, lo invitava a mangiarli, accolse i tre uomini mandati da Cornelio a cercarlo. «Pietro allora li fece entrare e li ospitò» (At 10,23): questa prima accoglienza di tre pagani in una casa di ebrei sembra riprodurre la scena della visita dei tre angeli al patriarca Abramo. Pietro accoglie questi pagani e, accompagnato da alcuni fratelli, si reca da Cornelio e si lascia accogliere da lui. La casa del pagano diventa Cenacolo, perché anche lì lo Spirito scende a fecondare l’annuncio di Cristo fatto da Pietro (At 10,44). È impressionante pensare che la diffusione del cristianesimo a tutto il mondo e a tutta la storia ha il suo momento sorgivo in un atto di accoglienza reciproca, in una casa che accoglie e in persone che si lasciano accogliere. Ma non è forse già questo l’istante assolutamente sorgivo del sì di Maria all’incarnazione del Verbo? Dio ha iniziato a conquistare il mondo con la presenza del suo Corpo quando una fanciulla lo ha accolto nel suo grembo. L’accoglienza è ciò che dilata il Regno di Dio, il dono e l’opera dello Spirito Santo. Lo dilata nel mondo, lo dilata fra di noi, nella comunità cristiana, lo dilata nella nostra vita, nel
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tempo che passa e nelle profondità misteriose del nostro cuore. L’accoglienza offerta e ricevuta, l’accoglienza che è sempre una reciprocità, è la forma di consentimento che permette allo Spirito di Gesù di trasformare noi e gli altri, di trasformare tutti e tutto. L’episodio di Pietro e Cornelio ci insegna, però, un’altra cosa fondamentale. Accogliersi, prima che una questione di spazi o azioni, è una questione di sguardo, di stima, di stupore di fronte al valore sacro che si riconosce nell’altro. Entrando in casa di Cornelio, Pietro dice subito: «Dio mi ha mostrato che non si deve chiamare profano o impuro nessun uomo» (At 10,28). Ogni uomo è sacro perché Cristo è morto per tutti e su tutti vuole far scendere lo Spirito della comunione eterna con il Padre. Lasciandosi accogliere da Cornelio, Pietro stesso si rende conto del valore infinito e universale che Cristo ha conquistato per ogni uomo. Ed è come se la Chiesa dovesse diffondere col proprio sguardo il valore che ha ogni uomo agli occhi di Dio. Sul filo di tutte le testimonianze di questo libro si percepiscono il dramma e la bellezza di questa diffusione del Regno, che non è magia immediata, ma miracolo che cammina pazientemente sui passi del tempo, delle storie di ognuno, delle ferite e guarigioni, delle paure e consolazioni, del perdersi e ritrovarsi del percorso di ogni vita. Ognuno di noi è sempre una pecorella smarrita che il Pastore buono va a cercare, per tutti gli anfratti della vita e del cuore, finché non arrivi ad offrirle, nell’accoglienza di un abbraccio, lo sguardo buono che la recupera al valore che ha agli occhi del Padre. Ma per capire questo, abbiamo veramente bisogno di queste testimonianze di accoglienza estrema, mai scontata, portata fin sull’orlo dell’abisso della speranza oltre ogni umana aspettativa. Mi colpisce molto quanto l’accoglienza raccontata in queste pagine domandi pazienza, domandi tempo. Non si dà spazio all’altro senza donargli la pazienza del tempo perduto. Guai alle strutture, anche sociali e caritative, anche ecclesiastiche, che offrono spazio senza offrire tempo, il tempo della relazio-
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ne, il tempo eterno che misteriosamente scorre fra le Persone della Trinità. La rivelazione dello sguardo buono che dà senso e bellezza ad ogni vita ha bisogno di tempo, di tempo con te, di tempo per te. Soprattutto chi esce dalla caverna buia ha bisogno di tempo per abituarsi a una luce che non ha mai visto. La fiamma dello sguardo buono deve rimanere accesa anche di fronte agli occhi chiusi dal timore di esserne feriti, per donare agli occhi dei “ciechi nati” il tempo di diventare sguardo. Allora anche a chi ha tenuto accesa la fiamma di uno sguardo di benevolenza appare una luce nuova che viene a illuminarlo e a liberarlo dalle cecità che magari credeva di non avere. Il tempo dell’accoglienza che accompagna è, in fondo, il tempo dell’Incarnazione, cioè il fatto che il tempo della nostra attesa, della nostra fatica e pazienza, il tempo pieno di cose che finiscono, che sembrano non raggiungere un compimento, proprio questo tempo, con l’incarnazione del Verbo, è diventato tempo di Dio. Tempo di Dio per noi, di Dio con noi. Tempo cioè in cui ci è dato di accogliere Cristo, di vivere con Lui, di fare esperienza della Sua accoglienza. Il Dio che si fa accogliere nel nostro tempo riempie il tempo di accoglienza Sua, di abbraccio Suo all’uomo, al piccolo che incontriamo, al piccolo che siamo dietro le nostre armature. Penso sempre al tempo che il Risorto ha dedicato ai due discepoli di Emmaus. Era appena risorto la mattina stessa, avrebbe avuto da andare a manifestarsi a tante persone, ed ecco che perde tutte quelle ore con quei due che non capivano nulla, con quei due che fuggivano, che avevano paura senza essere in pericolo, che non avevano creduto alle prime testimonianze della Risurrezione… Calzerebbe loro a pennello la definizione di sé, citata in queste pagine, di un ragazzo che scrive ai genitori adottivi dalla prigione: «sono un minchione – il vostro brutto anatroccolo». Cristo avrebbe potuto manifestarsi subito ai discepoli di Emmaus per quel che era, risorto e vincitore della morte e del peccato. No. Accompagna, fa un cammino con loro, prende il tempo della loro lentezza a capire, della loro “lentezza di cuore”
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(cfr. Lc 24,25). Prende il tempo della loro libertà che tarda a sciogliersi, a consentire, a riconoscere la verità, la realtà stessa. Non c’è educazione senza camminare al ritmo della lentezza di cuore dell’altro, cioè senza fermarsi sempre ad aspettare che il cuore dell’altro segua, che il cuore impari e decida di seguire il ritmo buono e fecondo della vita. Se corre tutto il resto, il corpo, l’intelligenza, magari anche l’onestà e la correttezza, ma non corre il cuore, vuol dire che si è fatto un buon addestramento, ma non un’educazione, meglio: una generazione dell’altro. Perché poi – e continuo solo ad ascoltare le testimonianze di questo libro –, quando viene il giorno, luminoso e pasquale, in cui chi si è pazientemente accompagnato diventa una compagnia autorevole anche per i suoi genitori, sarà proprio perché il suo cuore ha come raggiunto sé stesso, scoprendosi fatto per essere sorgente di un amore, di un dono della vita, che l’Ospite più intimo a noi che noi stessi fa scaturire nel profondo della creatura creata a Sua immagine. Anche i discepoli di Emmaus riconoscono con stupore l’intimo cambiamento della loro persona prodotto dal paziente accompagnamento del Risorto: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32). Ma già prima era affiorato da loro questo cambiamento, perché, camminando con Lui, erano diventati capaci di accogliere l’altro, anche se sconosciuto, anche se estraneo, per offrirgli una casa, una famiglia più forte del finire delle cose e della luce: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» (Lc 24,29). Lo dicono in coro, uniti da un desiderio di apertura all’altro che dal cuore conquistato da Cristo li unisce più di ogni amicizia o legame di parentela. Pochi mesi fa ho sognato mio padre, morto quarant’anni fa. Mi succede molto di rado. Ci troviamo all’inizio della Veglia Pasquale nel mio monastero. Ci dobbiamo congedare, non si capisce bene se devo partire io o deve partire lui. È felice, pieno di affetto, anche se lo vedo nella fragilità della sua
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ultima malattia. Mi dice, in dialetto ticinese: «Quéll ch’a t’ étt dii, al m’a fai bén al cör!» («Quello che hai detto mi ha fatto bene al cuore!»). Io con lui ho parlato poco, perché era un uomo silenzioso, e quando ci ha lasciati ero ancora studente in filosofia, applicato a campi di interesse che non corrispondevano alla semplicità e concretezza dei suoi. Gli ultimi mesi, con gratitudine a Dio, l’ho potuto assistere quotidianamente, infermo docile e riservato col quale condividevo le cure del corpo e lunghi silenzi. In molte testimonianze di questo libro si parla del ritorno, magari dopo anni di lontananza, di figli adottati ai loro genitori adottivi, un ritorno riconoscente perché finalmente cosciente di quello che hanno ricevuto. E i genitori vivono questo come un dono che li stupisce. Scoprono nei loro figli un’autorevolezza, una capacità di paternità o maternità che viene a coinvolgerli. Si sentono a loro volta rigenerati da coloro che hanno accolto e accompagnato. Molti genitori, questo ritorno, lo attendono a lungo e forse non lo vedranno in vita. Il sogno di mio padre mi ha ricordato che quello che lui ha generato in me va oltre la morte, e che quello che ho potuto dire ed essere per gli altri in questi quarant’anni, misteriosamente ha raggiunto e raggiunge anche lui, il suo cuore ormai accolto nel Cuore di Dio. Questa coscienza della profondità in Cristo di ogni legame sulla terra è un grande conforto che lo Spirito del Risorto soffia sulla storia, spesso faticosa e arida, di coloro che il Destino fa incontrare e camminare insieme verso una meta che (il Cielo ne sia lodato!) non è solo quaggiù.
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Introduzione Marco Mazzi 1
Questo libro raccoglie in modo puntuale gli interventi dei relatori, i contributi raccolti e le testimonianze dei partecipanti al seminario nazionale di Famiglie per l’Accoglienza del novembre 2019 a Peschiera. Fin da subito ci è sembrata una ricchezza da non lasciar cadere, da dover riprendere e far conoscere. Certo le parole dicono meno degli sguardi, dello stupore, del calore, del sorriso, del clima che abbiamo sperimentato in quei giorni, ma sono importanti comunque perché illuminano i passi di un cammino che continua. Il tema del raduno è stato il filo rosso2 che abbiamo proposto per questo anno: La carità non avrà mai fine, nell’accoglienza un bene che permane. Dopo tanti anni di associazione, dopo tanti gesti di accoglienza, dopo esperienze che hanno attraversato la vita, ci siamo chiesti se è vero che il bene permane, perché permane, come permane. Ci siamo aiutati a condividere che coscienza ne abbiamo, come siamo cambiati, che dono è stata questa storia, a volte segnata da ferite e apparenti insuccessi. Su questo abbiamo raccolto contributi e testimonianze sia di ragazzi accolti sia di genitori. Abbiamo ascoltato la lezione profonda di don Emmanuele 1 Già presidente di Famiglie per l’Accoglienza, è membro del Consiglio direttivo nazionale dell’associazione. 2 Si tratta di una traccia di lavoro condivisa dalle sedi di Famiglie per l’Accoglienza per tutto l’anno sociale.
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Silanos, vicario generale della Fraternità Sacerdotale San Carlo Borromeo. Abbiamo condiviso con Walter Sabattoli, presidente della Compagnia delle Opere Sociali, e con altri amici alcuni momenti della nostra presenza che genera pezzi di società rinnovata, anche in situazioni difficili, come avere un figlio portatore di handicap. Il dono di quei giorni, intenso, libero, sovrabbondante, è stato il passo di un cammino. Un cammino fatto di lavoro, di condivisione, di immedesimazione, di sincera adesione alla realtà; ci sono i nostri figli accolti, i nostri limiti, e un bene che, a volte, non si vede dove va a finire, ma in tutto questo ci siamo ritrovati più certi, più pieni di speranza. Come è vero che il bene permane! Quando lo abbiamo incontrato, don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, ci ha ricordato che partecipare a quest’opera è assecondare quello che un Altro fa, perché ciò che accade – ed è particolarmente evidente nelle nostre storie – non è frutto di una nostra capacità, ma lo fa accadere Lui. Quest’opera è assecondare quello che Lui fa. E poi ha aggiunto: «senza fretta». Assecondare quello che Lui fa in tempi e modi diversi da quelli che immaginiamo, così il Signore fa permanere il bene anche attraverso il nostro sì. Nelle parole conclusive del nostro raduno ci siamo detti che ci troviamo meno definiti dalle nostre misure e quindi anche più liberi. Sempre meno vince la riduzione del moralismo, cioè credere che dipenda da noi far riaccadere la novità incontrata e vissuta. Invece la strada è un continuo risorgere, essere rigenerati dal punto sorgivo, da quei volti, da quella compagnia. Ci siamo scoperti sempre meno segnati da una divisione, da quel dualismo che significa ripetere a parole la cosa giusta, ma poi affrontare la vita con un altro criterio. Mentre la vera sorpresa è accorgersi che la vita, i problemi, la crescita di un figlio, la domanda di una famiglia, il tentativo di essere presenti nella società, sono affrontati in un modo diverso; vedere che proprio il modo di affrontare questi problemi ha dentro
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uno stupore, una novità. È nel concreto che noi ci accorgiamo della differenza. E così anche i figli si accorgono di un bene che permane. È stato commovente sentire nelle testimonianze come i figli ritornano – non sempre, ma spesso succede. I nostri figli sanno di avere un luogo dove tornare, vivono la nostalgia di quello che hanno vissuto nelle nostre case: «Sapevo che c’era un posto che potevo chiamare casa. Dove c’era qualcuno che mi aspettava». E imparano a mettere in gioco la loro libertà, e molte volte desiderano restituire quello che hanno ricevuto. Questo seme piantato nell’accoglienza germina nel tempo. Noi non sappiamo quando può accadere. Come dice il Vangelo: «Sia che il seminatore dorma o che vegli: il seme si sviluppa lo stesso dentro la terra» (cfr. Mc 4,26-29). Siamo tornati dal seminario di Peschiera con gratitudine, con commozione, e con una sfida da persone adulte: come ci è chiesto di amare questa storia oggi? Come partecipare a questa amicizia operosa? Senza presunzione, senza critiche, senza sapere già, ma non senza fatica, non senza mendicanza, non senza paragoni. È lo stupore che genera la nostra opera, ed è la compagnia che la custodisce, ma c’è un sì che è affidato a ciascuno di noi: la nostra opera si sviluppa anche grazie a un lavoro. C’è una frase di don Luigi Giussani che riprende questo tema: «La collaborazione dell’uomo all’opera della comunità che comunica l’opera redentrice di Cristo nei sacramenti è il lavoro. Il lavoro, nel suo sforzo lento e faticoso, è prezzo che l’uomo paga alla sua redenzione, è collaborazione al dilatarsi dell’alba della resurrezione a tutti i rapporti creativi che l’uomo vive col tempo e con lo spazio. […] il lavoro riempie lo spazio tra la resurrezione di Cristo e la resurrezione finale»3.
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Luigi Giussani, Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2014, pp. 282-283.
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Parte quarta. Il bene per l’opera e per la realtà 125
Indice
Prefazione Mauro-Giuseppe Lepori
p. 5
Introduzione Marco Mazzi
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parte prima «la carità non avrà mai fine» Emmanuele Silanos
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parte seconda la famiglia accoglie e accompagna Storie di attesa e compimento, di ascolto e legami
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parte terza l’esperienza dei ragazzi accolti Il bene dà frutto nel tempo Con il contributo di Adele Tellarini Testimonianze di Sania, Giampaolo, Marco
» 71
parte quarta il bene per l’opera e per la realtà Walter Sabattoli, Sante Pagnin, Paolo Arosio, Tiziana Caggioni, Anna Sgrò
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Conclusione Luca Sommacal
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Quanti dei nostri ragazzi sono così! Quante persone sono così! Fragili a tal punto da pensare di non avere nemmeno il diritto di esistere. E con il loro comportamento – a volte violento contro gli altri, a volte violento contro sé stessi, a volte, ancora, apatico, abulico – ci vogliono chiedere se hanno o meno il diritto di esistere. Sono tutti modi con cui chiedono perdono di esistere. Dal contributo di Emmanuele Silanos
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