Il Grande Pescatore. Il romanzo di Pietro (Lloyd Cassel Douglas)

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LLOYD C. DOUGLAS

Il Grande Pescatore Il romanzo di Pietro




babilmente resterà assionati. olò, socio in questo progetto, ado di realizzare questo mio sogno. lui per aver “sposato” o

tti gli intervistati esso di incontrare are Pietro Manganoni, Soldano, a fornito la maggior parte delle zione. e sostenuto soprattutto i sempre che ancora prima di aver vargli mente. Lloyd C. Douglas Il Grande Pescatore. Il romanzo di Pietro www.itacaedizioni.it/il-grande-pescatore Prima edizione: aprile 2022 Titolo originale: The Big Fisherman Traduzione: Glauco Cambon © 2022 Itaca srl, Castel Bolognese Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-526-0688-5 In copertina Masaccio, San Pietro, particolare del Tributo. Firenze, chiesa di Santa Maria del Carmine. Stampato in Italia da Modulgrafica Forlivese, Forlì (FC)

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Lloyd C. Douglas

Il Grande Pescatore Il romanzo di Pietro



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Brani scelti


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pp. 128-131

«Può darsi che l’abbiano rubato» suggerì Giovanni, venendo a mettersi al suo fianco. «Ma certo nessuno, fra tutta questa gente, ruberebbe!» disse Fara. «Figlia mia, non c’è posto in questo avido mondo dove gli uomini non rubino.» Ed ecco ancora quel “figlia mia”. Fara sperò di aver frainteso, la prima volta, ma adesso non c’era più dubbio. In un modo o nel­l’altro egli sapeva. Ma lei doveva pure ascoltarlo, perché parlava calmo, come con sé stesso. «Rubano. Rubano tutto, qualsiasi cosa, dappertutto, in qualun­que luogo; da un cavallo a una cavezza; da un volume nella Si­nagoga a un vaso nel cimitero. Rubano in fattoria, al mercato, sulla strada maestra, all’albergo, dall’orefice, dallo straccivendolo, nella bisca e nel Tempio. Non ci sono limiti. Rubano ai poppanti, rubano le monete dagli occhi dei morti. Rubano ai banchieri e ai mendicanti. Ma dove vivi, giovane donna, per non credere al furto?» «Sono dell’Arabia» disse Fara. Giovanni ridacchiò brevemente entro di sé, ma senza sorridere. «Devi aver fatto una vita comoda e protetta» disse asciutto. «Il tuo popolo non ha mai ricevuto premi d’onestà. Forse non conosci bene i tuoi compatrioti. Hai vissuto sempre in Arabia? Nella tua parlata sento un certo accento, benché debba riconoscere che il tuo aramaico è corretto. Come mai lo parli? E poi hai l’aspetto da ebrea, non meno che da araba. Dimmi, figliola, perché porti un burnus da uomo; e perché quei capelli tagliati?» Adesso a Fara cedevano le ginocchia e dovette mettersi a sedere. Il profeta sedette sopra un piccolo masso lì accanto. Voltando lentamente il viso verso di lui, essa incontrò uno sguardo che costringeva alla franchezza. «Signore, io ho una missione tale che una giovane donna


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non potrebbe compiere con sicurezza. Ti ho detto che sono araba per­ché preferisco pensarmi così, ma è vero soltanto a metà. Mia madre era araba, mio padre è ebreo.» «Tua madre è morta?» «Appena tre giorni fa.» Fara volse gli occhi verso la vallata. «Ed è per questo che ti sei accinta alla tua missione, credo; e la tua missione ti conduce in Giudea, e tuo padre è ebreo. Forse vai ad informarlo della morte di tua madre.» «Sss… sì» balbettò Fara, sperando che questa risposta potesse bastare. Ci fu un notevole silenzio prima che Giovanni parlasse. «E così si tratta di ben altro che di avvertire tuo padre. Lui non ha vissuto con tua madre in Arabia?» «Non per molti anni.» «Come mai si sposarono?» «È una storia molto lunga, signore. Io non voglio trattenerti.» Lo guardò ancora negli occhi indagatori. «Debbo dirtelo?» domandò, con voce un po’ spaventata. «Se non vuoi, non farlo» disse gentilmente Giovanni. «Ma forse potrebbe giovarti il confidarti con qualcuno che ti dia affi­damento.» «Sono in viaggio per trovare mio padre» disse Fara. «Abita in Galilea, nella città di Tiberiade.» «E allora deve essere al servizio del tetrarca» congetturò Gio­vanni. «A Tiberiade c’è ben poca cosa, all’infuori del grande sta­bile di Antipa.» Fara annuì e girò gli occhi dall’altra parte. Con voce riluttante e udibile a stento disse: «Antipa è mio padre.» Giovanni pareva una persona non avvezza a sorprendersi, ma ora si alzò di scatto ed esclamò: «Ma no!». La scrutò in volto e convincendosi della verità di quanto essa aveva detto riprese: «La conosco, la storia. La conoscono tutti. Tu non puoi certo essere orgogliosa di tuo padre.» «Lo so bene, signore» convenne Fara. «Ma – certamente – dopo il trattamento crudele e vergognoso che egli riserbò alla principessa araba, non andrai a Tiberiade a vivere con questo…»


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«Ho fatto voto di vendicare mia madre» interruppe Fara con voce rauca. «Vuoi dire… che uccideresti tuo padre?» «Se ci riesco.» «Ma non puoi!» esclamò Giovanni. «In primo luogo, è assolu­tamente impossibile. Il luogo è fortificato come una città assediata. Io sono nato in Galilea e i miei amici mi hanno detto che il tetrarca fa una vita da fuggiasco, protetto da un grosso corpo di guardia giorno e notte. Tu non faresti altro che perdere la vita senza scopo. E poi – anche ammettendo che ci riuscissi, cosa questa inconcepibile – il tuo delitto ti perseguiterebbe per il resto dei tuoi giorni. La vendetta non porta mai bene.» «Ti ho sentito dire ieri che deve venire Uno che vendicherà Iddio» disse Fara. «Da ciò non verrà alcun bene?» Giovanni non aveva una risposta pronta. Dopo qualche indugio però disse: «È una cosa molto diversa, figlia mia. La vendetta è consentita soltanto a Dio. Lui sì che ripagherà.» «Ma io non devo!» Il tono di Fara era satirico. «Iddio ha tutto il diritto di perseguire la vendetta, ma io no. Forse mi si attri­ buisce un carattere moralmente più elevato?» «Questa osservazione» rimbeccò Giovanni «ti fa ben poco cre­dito, figliola. È irriverente.» «Ma pratica» si difese Fara. «E scusabile, suppongo» rifletté Giovanni. «Probabilmente non hai avuto un’educazione religiosa, in Arabia.» «E perché no? Ebrei e arabi adorano lo stesso Dio, non è vero? Abramo è il nostro padre comune; non è così?» Siccome il continuare a discutere in questo campo era più foriero di accaloramento che di luce, Giovanni si limitò a fare un cenno di assentimento distratto. «Può darsi che ti riesca di vedere l’Unto di Dio in Galilea» dis­se. «Vorrei che tu potessi parlargli. Abita nella città di Nazareth. È un falegname.» «Travestito da falegname?» chiese Fara meravigliata. «Così come io mi travesto da ragazzo?» «No. Egli è veramente un falegname, e molto bravo, mentre


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tu non fai che fingere di essere un ragazzo.» «E non ci riesco molto bene» uscì a dire lei, con un sorriso pen­soso. «Comunque» soggiunse «tu sei il solo che mi abbia scoper­to, finora.» «Vuoi dire che sono il solo che te l’abbia detto.» Giovanni si mise a camminare su e giù, corrugando le sopracciglia pensierosamente. «Ma non è una cosa da nulla» proseguì. «Tu hai fatto un voto. Non sarò io a indurti ad infrangerlo. Un voto è un voto. Tu vuoi andare a Tiberiade. Benissimo. Va’ a Nazareth pri­ma: non è molto distante di lì. Racconta la tua storia al Falegna­ me… Gesù. Attieniti al suo consiglio.»


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pp. 149-151

«C’era molta gente da quelle parti? E dov’era?» «Sul colle, sulla strada di Cana.» La voce di Giovanni era piena di riserbo. Era chiaro che, se poteva farne a meno, non avrebbe certo spiegato la faccenda a tutta la compagnia. «C’erano forse più di cento persone.» Si era diffusa una gran quiete. Il lavoro si era fermato. Tutti stavano a sentire, senza ritegno. Simone se ne accorse e ghignò. «Puoi parlare ad alta voce, Giovanni. La cosa interessa tutti. Stiamo parlando del falegname, ragazzi. Giovannino è andato a vederlo ieri… Va’ avanti, Giovannino. Dicci tutto.» Gli uomini ebbero piacere di essere ammessi alla conversazione. Riposero in tasca le lesine. Alcuni appoggiarono i gomiti alle gi­nocchia e si presero il mento fra le mani. Persino lo stanco giova­netto vagabondo mostrò un improvviso interesse al sentir nominare un falegname le cui azioni avevano suscitato la pubblica curiosità. Giovanni esitava a cominciare; si studiava le dita esili e brune, come se le vedesse per la prima volta, e si umettò le labbra secche. Tanto per riempire quella pausa imbarazzante, Simone annun­ciò: «Ieri ho autorizzato Giovanni ad andare a vedere personal­ mente di che cosa si tratta. Hanno fatto tanto rumore attorno a questa storia, e ne hanno dette tante, che è tempo che qualcuno si faccia avanti a dire la verità.» Adesso a Giovanni non rimaneva altra via d’uscita che quella di raccontare tutto. Egli levò il capo e iniziò il suo strano racconto. «Venuto a sapere che aveva lasciato Cana e si dirigeva da que­sta parte, io uscii per andargli incontro. Sul colle incontrai una moltitudine di persone radunate attorno a lui. Molte di esse lo se­guivano da Cana e, a quanto pareva, gli altri si erano uniti alla folla lungo il percorso.» «Che aspetto aveva?» interloquì Giacomo.


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«Era pomeriggio inoltrato quando arrivai» continuò Giovanni, con un piccolo gesto che diceva al fratello di pazientare. «Tentai di rivolgere alcune domande a certe persone che si trovavano al margine della folla, ma non mi diedero retta. Erano tutti pigiati e gli si stringevano addosso al punto da togliergli lo spazio. Pensai che era una villania, benché ben presto mi trovassi desideroso di fare altrettanto.» Si fermò un momento, preso dal ricordo, scosse la testa e mormorò: «È stato così strano.» Simone gesticolò d’impazienza. «Avanti, Giovanni! Che cosa diceva quell’uomo?» «Non era quello che si direbbe un omone» proseguì Giovanni, guardando dalla parte di suo fratello. «Simone lo passerebbe di sei pollici buoni.» Il grande pescatore si raddrizzò nelle spalle e ascoltò con mag­gior compiacenza. «Con questo non voglio dire che fosse mingherlino» precisò Giovanni. «Aveva la pelle molto più bianca della nostra, benché non portasse copricapo e il sole fosse abbastanza caldo da scottarlo. Pareva che avesse molto caldo e molta stanchezza. I capelli bruni erano ricci e il sudore ne aveva incollato alla fronte qualche ciocca inanellata, addolcendogli il viso fino a farglielo sembrare fanciul­lesco, se non fosse stato per la barbetta. Ma anche con la barba pa­reva molto più giovane di quanto il suo modo di parlare non rive­lasse. Gli occhi…» Qui Giovanni si interruppe e giocherellò con la vecchia rete, mentre l’uditorio aspettava in silenzio. Ed ecco che trasse un lungo sospiro, scosse la testa e proseguì, affidandosi alla monotona ca­denza del ricordo. «Non parlava a voce alta, né da insegnante né da predicatore. Sapete che cosa voglio dire: la maniera in cui gli scribi parlano alla gente, come se stessero recitando qualcosa ai boschi o alla luna, ma non a qualcuno in particolare. Non pareva che il fale­gname parlasse alla folla in quanto folla, bensì a ciascuno dei suoi componenti, come essi, pur essendo assieme, fossero appartati l’uno dall’altro… E questa fu la cosa più bella che


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notai nel suo di­scorrere. Non potevo fare a meno di sentire che aveva prescelto me e stava parlando a me direttamente. Forse era per questo che vo­levo avvicinarmi di più. Immagino che gli altri gli si stringessero attorno per la stessa ragione: volevano avvicinarsi di più.»


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p. 223

Da circa un’ora la strada maestra si andava animando di traffico crescente: carri da mercato a ruota alta, pieni di gente di ogni età, coppie anziane in carretti tirati da somari, qua e là un biroccio occupato da una vecchia debole e smunta o da un ragazzo pallido e consunto, e chi spingeva era un giovane contadino dalla faccia seria. Ogni tanto si univa alla processione un lettuccio che portava il corpo disteso di una ragazza emaciata, difettosa di sviluppo, o un vecchio sciancato che aveva il dolore negli occhi. Gruppi di pedoni, a dozzine, a ventine, raggiungevano e sorpassavano i malati. Ogni sentiero, ogni porta aperta, ogni crocevia aumenta­vano l’afflusso. Poc’anzi Simone si era sorpreso ad augurarsi che il falegname fosse presto messo alla berlina come un comune mortale che si avvaleva semplicemente di una voce fascinosa, di un modo di fare che invitava alla confidenza e dell’abilità di farsi ascoltare e credere. Ma come vide quei mesti equipaggi di portalettighe pieni di speranza, cominciò a desiderare con tutto il cuore che si potesse davvero far qualcosa per loro. Se il falegname era una montatura, questo congresso di miserie era uno spettacolo vera­mente tragico. Forse il falegname non si rendeva conto della responsabilità che si era addossato. Ed era tempo che lo facesse. Era uno spettacolo pietoso. Ma perché questo nazareno non era rimasto nella sua bottega di falegname? A che pro suscitare speranze che potevano concludersi soltanto nella delusione più crudele? Questi sventurati avevano appreso a sopportare il loro amaro fardello. I più avevano già sfogato tutto il loro pianto e ormai la pena del giogo era alleviata dalle callosità che s’erano andate formando. E ora avrebbero deposto i loro fardelli ai piedi del falegname. Che mostruosa crudeltà se, dopo una speranza così grande, avessero dovuto ricaricarsi sulle spalle il loro grave bagaglio e tornarsene stanchi a casa loro, col cuore spezzato!


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pp. 233-234

Turbato, ancora mezzo accecato dalle lacrime, Simone si stava aprendo a viva forza la strada tra la folla – che adesso, colpita dal miracolo, tratteneva il fiato, in punta di piedi per poter vedere un altro prodigio, quando si sentì afferrare per la manica. Si voltò e scorse il volto serio e bianco del principe di Arimatea. «Dimmi, pescatore,» domandò roco il principe «quella bam­ bina era davvero cieca?» «Sissignore» disse Simone «e adesso ci vede.» Il principe si aggrappò alla manica del grande pescatore e nei suoi occhi spalancati dallo sgomento pullulavano altre do­ mande, ma Simone si liberò con uno strattone e si diresse all’aria libera. Girando attorno alla moltitudine incatenata, puntò alle sue spalle e poi sulla strada. Camminava come in sogno, come un uomo sbalzato di colpo in un altro mondo. Lo possedeva uno strano senso di sicurezza, e di pace, che sfuggiva alla sua com­prensione.


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pp. 254-255

Lo straniero agitò la mano levata in segno di saluto e Simone, dopo un attimo di indecisione, alzò la mano a sua volta e rispose al saluto. La nebbia stava sfumando. Lo straniero agitò di nuovo la mano e chiamò: «Simone!» Non ci si poteva sbagliare su quella voce perché non ce n’era un’altra simile al mondo, né ce n’era mai stata una. «Vengo» gridò Simone, roco per l’emozione. Aveva la gola secca e le manone gli tremavano quando scavalcò con un volteg­gio la murata e si calò in una chiatta dondolante alla risacca. Era un rematore provetto, ma a vedergli menare tutte quelle piattonate che sollevavano grossi spruzzi d’acqua non si sarebbe detto. Il tra­gitto gli parve lunghissimo, ma poi finalmente giunse a riva, col fiato grosso, e tirò la chiatta in secco. Paralizzato dall’emozione, il volto contratto da sussulti nervosi, si trovò a guardare attonito nei calmi occhi amichevoli di Gesù. Cadde in ginocchio. Si sentì sulle spalle le mani miracolose e provò la stessa sensazione che lo aveva fatto trasalire a Hammath al contatto del suo braccio nudo. Ora Gesù parlava, quieto ma insistente. «Simone, figlio di Giona, ho bisogno di te.» «Ma io sono un grande peccatore, Maestro» confessò Simone, con voce rotta dalla pena e dalla fatica. «Io sono venuto a salvare i peccatori, figlio mio» disse Gesù. «E come ti posso aiutare, Maestro? Io non sono che un pe­ scatore.» La voce di Simone ora si udiva a stento, perché la sua emozione repressa lo stava sopraffacendo. «Tu resterai sempre un pescatore, Simone» disse Gesù. «Ma, d’ora in poi, pescherai uomini.» In atto di umile penitente, Simone fece un profondo inchino, con gli occhi traboccanti di lacrime. Adesso le mani donatrici


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di forza gli si posavano dolcemente sulla testa ispida. Ne provò uno strano senso di esultanza. «Vieni» disse piano Gesù. «Alzati, Simone, e seguimi.» E Simone si alzò e seguì Gesù.


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pp. 331-332

«Mia moglie, Maestro» disse Giairo. «Adiele, questo è Gesù, di Nazareth.» Sharon, che stringeva fra le braccia una piccola arpa, fissò in volto lo straniero, mentre sua madre mormorava qualcosa per la circostanza. Gesù guardò sorridendo gli occhi meravigliati della bambina. «La nostra figliola, Sharon» disse Giairo. Posando lievemente la mano sulla testolina ricciuta, Gesù rilevò che quello era un nome appropriato. «Il nome di una rosa» disse. Sharon annuì seria seria e continuò a guardarlo in faccia meravigliata. «Vieni, cara» disse Adiele prendendola per mano. «Lasciala qui, Adiele» disse Gesù. «Le racconterò una storia.» Quel suo chiamarla per nome – familiarità non lecita a un estraneo – scaldò il cuore di Adiele. Per un momento essa ebbe la sensazione che fossero amici di vecchia data, poi invece sentì di essere stata trattata da bambina, benché non le sfuggisse il fatto che lui doveva effettivamente essere un po’ più anziano. Giairo, accorgendosi del senso di grata sorpresa che la pervadeva, ricordò la propria analoga reazione all’incontro con Gesù, poc’anzi, quand’egli lo aveva chiamato per nome. I falegnami di paese non solevano certo farlo. «Posso fermarmi anch’io?» domandò Adiele.


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pp. 351-353

«Dove va tutta questa gente?» chiese Voldi incuriosito. «Van­no tutti nella stessa direzione. Che cos’è, una fiera o qualche festa? Non direi certo un carnevale: non c’è nessuno che abbia l’aria mol­to gaia.» «Gli ebrei non sono mai allegri» osservò Fara eludendo la domanda. «Verissimo» convenne Voldi. «Sono tipi seri. Ma questa gente pare turbata e spaventata. Forse è successa qualche disgrazia. Vo­gliamo informarci?» Ella si volse a lui con un’espressione indecisa, non sapendo se spiegargli o no, ma non rispose, con conseguente perplessità di Voldi. «In questo Paese avete una quantità impressionante di scian­cati» osservò. «E guarda là quella donna che conduce per mano un cieco.» Si scostarono per lasciar passare un gruppo di quattro persone che portavano una ragazza adolescente in un lettuccio. «Ma di che cosa si tratta, Fara?» insistette Voldi. «Vanno nella campagna di Betsaida» disse Fara «dove c’è un falegname di paese che quasi ogni giorno parla a grandi folle. Ha messo la regione a rumore. Si crede anche che guarisca le malattie.» «Il falegname!» esclamò Voldi. «L’uomo di Nazareth.» «Allora ne hai già sentito parlare?» disse Fara guardandolo negli occhi. «Sicuro! Non si fa che parlare di lui, persino a Cesarea. Strano che tu non abbia cercato di vederlo, se non altro per l’interesse che destano in te i profeti religiosi.» Così dicendo la guardò con un sorriso canzonatorio: per essersi eccessivamente interessata a un pro­feta girovago, lei aveva finito col perdere un cavallo di valore. Fara accolse la canzonatura con un’ombra di sorriso, ma si fece seria quando disse di aver visto e ascoltato il falegname. A ciò Voldi rallentò il passo. Prendendola per il gomito, l’attirò vicino a sé.


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«Ma perché fai tanti misteri? Non c’è nulla di che vergognarsi. Forse volevi tenermi all’oscuro della faccenda?» «Esitavo a dirtelo, Voldi» confessò lei. «So bene che cosa pensi della magia, dei miracoli e della debolezza di mente dei superstiziosi che credono a queste cose… Non volevo che tu pen­sassi che io fossi diventata matta.» «Dalle tue parole mi par di capire che quell’individuo ti ha fatto impressione. Gli hai visto fare qualcosa di straordinario?» «Se vuoi, possiamo andare a vederlo» suggerì Fara. «Vedrai che Hannah vorrà venire con noi. Così avrai modo di farti un’opi­nione in merito.» «Allora non mi vuoi dire altro finché non l’ho visto coi miei occhi?» «Ti posso dire questo, Voldi» rispose lei, misurando delibera­ tamente le parole. «La sua voce è diversa da quella di chiunque altro e le cose che dice non sono mai state dette così, in quel modo. Non che rimproveri, condanni o minacci: non fa che pren­dere quietamente possesso della tua mente intera… Vedrai tu stesso… Quell’uomo non appartiene certo a questo mondo.» La voce di Fara divenne un puro sussurro quando soggiunse: «È di qualche altro mondo».


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p. 392

«Temo che tu non mi creda» disse con un sospiro. «Invece temo di sì, figliola» confessò David. «Tutta la mia mente si ribella alla credenza in cose di questo genere, ma qui le prove sono troppo forti. Qualunque cosa sia accaduta ad Hannah, è fin troppo chiaro che qualcosa è accaduto a te. Lo si vede dai tuoi occhi, dalla tua voce, dal tuo sorriso. Tu sei un’altra creatura. Sei trasformata.»


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pp. 438-439

Voltandosi verso di lui, gli dichiarò impetuosa: «Simone, il guaio è che sembra tutto così vano, così pietosamente vano. Sono così rozze, così meschine l’una con l’altra.» «Davvero,» convenne Simone «ma hanno anche qualche atte­nuante. Una donna che ha dovuto sopportare il dolore di un bimbo cieco o sciancato, e ora vede una possibilità di farlo guarire, è disperata. Sarà prontissima a mentire, a rubare e a fare a botte pur di essere al primo posto, per prendergli il cibo e ottenergli la guarigione. Il loro comportamento è deplorevole, ma è compren­sibile.» «Tu hai molta pazienza, Simone» mormorò Ester. «No, mia cara» confessò lui. «Se pare che io abbia pazienza, è solo per la compassione che il Maestro ha per loro. Da lui sto imparando a trattenermi dagli scatti verbali e a dominarmi. Non è facile.» «Forse anch’io potrei imparare ad essere più comprensiva, se sapessi che qualcosa almeno ne verrà!» «Egli guarisce i malati, Ester. Ed è certamente qualcosa.» «Lo so» riconobbe lei, stanca. «Egli apre ai loro bimbi i poveri occhietti ciechi, in modo che possano vederci; e che cosa vedono allora, se non ostilità e cupidigia?» Ora la rattenuta indignazione le traboccò tutta in una profluvie di parole appassionate, mentre Simone, sorpreso di quello sfogo, le guardava grosse lacrime sgor­gare e scendere lentamente per le guance infuocate. Tentò di inter­romperla con una amorevole protesta, ma lei proseguì con la voce roca rotta dall’emozione. «Eccolo là» diceva piangendo «giorno dopo giorno, e non fa altro che scongiurarli di essere buoni, e di volersi bene, e di vivere in pace…» «Ma io credo che qualcuno si sforzi di farlo» disse Simone. «Qualcuno sì, forse, ma non abbastanza» insistette Ester. «Il mio cuore sanguina per lui, Simone. Avrà una delusione


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spaven­tosa. Se non fosse che un uomo comune, illuso di poter salvare il mondo intero insegnando alla gente ad essere pietosa e generosa, non varrebbe la pena di badare ai suoi sogni da visionario, ma… Gesù ha i poteri d’un dio. L’ha dimostrato più d’una volta. Io credo davvero che, se volesse, potrebbe salvare il mondo, oppure distruggerlo, ma non in questo modo.» «E come allora?» chiese serio Simone.


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pp. 517-518

Nell’avvicinarsi al vivido fuoco Pietro rallentò il passo diffi­ den­te: si rendeva conto di aver commesso uno sbaglio entrando nel cortile. La mezza dozzina di alte guardie, sicure di sé nei loro lucenti elmetti e uniformi tinte di nero e scarlatto, lo attendevano con interesse imbarazzante. Eppure, quando si trovò in mezzo a loro, più alto e più massiccio qual era, ebbe il sollievo di scorgere sui loro volti una traccia di espressione amichevole. «È un mattino freddo» osservò il più anziano, scostandosi per far posto all’atletico straniero. Pietro convenne che faceva freddo, e si scaldò le mani. «Tra poco le ragazze di cucina ci porteranno del vino cotto» disse un altro. Ed eccole venire, le ragazze con cui aveva scherzato a Tiberiade quando consegnava loro il pesce al palazzo del tetrarca, in quei giorni quasi dimenticati, prima di lasciar tutto per seguire Gesù. Le riconobbe subito, con un peso al cuore: la romana piccola e soda, Claudia; Murza, la cinica arimatea; Anna e Lia, le due ebree. Mentre si trovavano ancora a una certa distanza, Claudia, che trotterellava con un vassoio carico, gridò alle altre: «Ma guardate un po’! Murza, Lia: vedete quello che vedo io? È il grande pescatore, proprio lui.» Deposero sul tavolo i fiaschi, i boccali e le focacce al miele e gli sciamarono attorno con gridolini eccitati. «Il grande pescatore!» Claudia tentò di cingergli con le mani il braccio muscoloso, come aveva fatto tante volte per l’addietro. Le guardie fecero crocchio, gustando la scena. «A quanto pare voi ragazze lo conoscete, questo Ercole» disse ironicamente il soldato dai capelli grigi. «Se lo conosciamo? Altro che» rispose Claudia. «E che cattivo esempio dava, si faceva beffe di tutti gli dèi.» «E come mai sei a Gerusalemme?» domandò Anna. «Giurerei che non è per festeggiare la Pasqua.»


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Pietro non aveva ancora avuto la possibilità di proferire una parola. Rimase lì con un sorriso idiota, a tormentarsi il labbro inferiore. «Forse è qui con quel falegname,» disse Lia per stuzzicarlo «con quell’uomo che crede di essere il Messia.» «È proprio così» strillò Claudia. «Il grande pescatore è diven­tato religioso.» Si misero tutti a ridere. «Sai benissimo che non è vero» bofonchiò Pietro. «Io non mi ci immischio in queste corbellerie.» «Be’, parlando seriamente,» disse Anna «che cosa ne pensi di questo Gesù?» «Non ho opinioni in proposito» rispose roco Pietro. «Non l’ho mai visto in vita mia.» «Lo stanno processando là dentro, per bestemmia e tradimento» disse Murza. «Davvero?» grugnì Pietro. «Be’, non è un amico mio.» Le guardie si stavano stancando di questo dialogo e si erano accostate al tavolo delle vivande; le ancelle le seguirono. Pietro fece per andarsene. «Aspetta» gridò Claudia. «Prendi un po’ di vino.» Ma il grande pescatore non aspettò e non rispose. Vacillando, perché si sentiva male e gli tremavano le gambe, si diresse alla porta. Quando fu fuori, si appoggiò al muro, ansando e inghiot­tendo amaro. Camminò a passi incerti, sostenendosi al muro con una mano, in direzione dell’ingresso dell’Ambasciata. Ora poteva udire il clamore delle voci irose. Si fermò. Il chiasso si placò. E si sentì lo schiocco delle sferzate. Stavano frustando il suo Maestro. Si voltò e proseguì barcollando, annaspando sempre con una mano sul muro. Gli mancavano le gambe e gli si piegavano le ginocchia a ogni passo. E ora si mise a piangere, col pianto gemebondo e singhiozzante di un ragazzetto dolorosamente colpito.


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p. 547

«Tu non sai la grande notizia!» gridò esultante. «Gesù è vivo!… è tornato in vita!» Giacomo strinse il braccio di Simone. «L’abbiamo visto noi, Pietro! È venuto da noi domenica sera, in casa di Ben-Josef!» Ora erano saliti tutti a bordo, tranne Bartolomeo che si stava inerpicando con l’aiuto di Taddeo. Simone se ne stava lì inebetito, con le labbra tremanti e le guance rigate di lacrime. «Ci ha detto di affrettarci a venire a casa» disse Filippo. «Era ansioso di fartelo sapere.» «Ecco che cosa ha detto» interloquì Giovannino. «Ha detto: Andate e ditelo a Pietro.»


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p. 577

«Non hai saputo più nulla, della sua morte?» le chiese dol­ cemente. «Perché? C’era altro da sapere?» Ed essa alzò gli occhi lacri­ mosi per guardarlo in faccia con aria interrogativa. «Oh sì, molto» disse Voldi. «Sembra incredibile, ma… i discepoli credono fermamente che Gesù abbia lasciato il suo sepolcro domenica mattina e sia ancora vivo.» Fara si rizzò di scatto nel busto e lo fissò seriamente negli occhi. Era possibile una cosa del genere? gli domandò. Ci credeva lui?… Lui non lo sapeva, non sapeva se fosse possibile o meno, non sa­peva neppure se ci credeva. «Comunque, era un uomo dotato di poteri singolari» ammise. «Gli ho visto richiamare in vita Hannah» rifletté Fara. «Che mancanza di fede da parte nostra pensare che il suo potere sia morto con lui… Voldi, io ci credo. Sono sicura che sia vivo.» «Se è vero» ragionò Voldi «non rimarrà a lungo un segreto locale. C’è moltissima gente a cui sta a cuore il problema della vita dopo la morte, e non soltanto i contadini e i pescatori di Ga­lilea. Non è cosa da poco che un morto, chiunque sia, ritorni in vita e cammini per le strade in pieno giorno, e sieda a cena con gli amici.» «Gesù ha fatto questo?» Gli occhi di Fara erano raggianti. «È appunto quello che dicono.» «Bisogna ch’io torni laggiù e lo trovi!» gridò lei appassiona­ tamente.


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pp. 600-601

«È una lunga storia, signore» disse Pietro, non sapendo bene da dove cominciare. «Indubbiamente tu hai sentito parlare di Gesù, il galileo, che girava per le province ebraiche a guarire i malati, a rianimare gli abbattuti; fu crocifisso da Ponzio Pilato e il terzo giorno lasciò la sua tomba e si fece vedere vivo da molti testimoni.» Cornelio annuì con indifferenza, quasi con impazienza. Ne aveva sentito parlare, ma erano storie difficili a credersi e, poi, chi erano questi testimoni? E che cos’era questo regno? Pietro accavallò le gambe e cominciò dall’inizio. Era stato te­ stimone anche lui. Dapprima non aveva voluto credere a quel falegname. Era stato un rozzo, irriverente, scettico pescatore spac­cone. Era andato in campagna per burlarsi di quel giovane profeta improvvisato e dimostrare agli illusi membri del suo equipaggio di pescatori che il taumaturgo era una montatura. Cornelio ascoltava con interesse crescente. Pietro gli parlò del giorno in cui era stato costretto a portare a Gesù un bimbo cieco e aveva visto aprirsi gli occhi stupiti, gli disse delle vaste folle che accorrevano, giorno per giorno, affa­ mate, coi piedi piagati, affascinate dalla novella di un regno a venire in cui tutti gli uomini sarebbero stati liberi dall’oppressione; gli parlò della guarigione degli storpi e dei lebbrosi. Il pomeriggio scorreva. Il racconto proseguiva. Le autorità avevano tentato di far tacere il falegname, ma teme­vano una rivolta popolare. Le folle di seguaci aumentavano. Le vie maestre erano gremite di gente frenetica di dolore che portava i propri parenti malati per ottenerne la guarigione. Calò il crepuscolo. Un servo entrò silenziosamente nella stanza e accese le lampade. Cornelio gli ordinò di servir cena lì sullo scrittoio. Il servo si ritirò e Pietro proseguì. Arrivati alla settimana di Pasqua a Gerusalemme, Gesù aveva stigmatizzato il Tempio quale luogo di commercio. Era stato arrestato, processato per bestemmia e tradimento, condanna­


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to, fustigato, insultato, crocifisso. E poi era risuscitato. «E tu asserisci di aver visto tutto ciò?» domandò Cornelio bruscamente. «Io l’ho visto, sissignore; tutto tranne…» A Pietro mancò la voce. Chinò il capo e si coprì il viso stravolto con le manone tre­manti. Cornelio aspettava in silenzio. Recuperando la voce con uno sforzo, Pietro riprese: «Io l’ho veduto dopo la sua resurrezione, signore; ma a mio disonore debbo confessare che non fui presente ai suoi processi e che non ero al suo fianco quando andò a mo­rire. Da ultimo, quando tutto sembrava perduto, io negai – in pre­senza di estranei – di averlo mai visto, e fuggii.» Ci fu un lungo silenzio. Finalmente il vecchio romano si schiarì la gola e disse dolcemente: «Tu sei un coraggioso, amico mio, e la tua testimonianza è credibile. La tua confessione dimostra la tua integrità. Non mi avresti detto ciò se non dicevi la verità. Io ti credo, Pietro. Credo a tutto quello che mi hai detto.»


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Indice

Parte prima I II III IV V VI VII VIII IX

6   18   28   34   37   43   49   55   59

X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII

69   74   79   86   89 101 107 117 127

IX  X  XI  XII  XIII  XIV XV

215 218 223 235 243 248 253

IV  V  VI

282 293 306

Parte seconda I  II  III  IV  V  VI  VII  VIII

134 144 159 167 180 189 196 208

Parte terza I  II  III

258 271 277


639

Parte quarta I II III IV V

316 337 343 358 361

VI  VII VIII IX  X

369 372 375 385 390

VII  VIII IX  X  XI

435 444 447 452 465

VII  VIII IX  X  XI  XII

517 519 529 533 541 545

VI  VII  VIII IX

598 605 623 634

Parte quinta I II III IV V VI

404 411 417 420 425 430

Parte sesta I II III IV V VI

476 480 483 493 501 511

Parte settima I II III IV V

556 570 575 583 590


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«Perché se questo falegname di paese può mutare le leggi di natura, nulla più sarà come prima, per nessuno di noi. Te ne rendi conto, Simone?»



«Simone, figlio di Giona, ho bisogno di te.» «Ma io sono un grande peccatore, Maestro.» «Io sono venuto a salvare i peccatori, figlio mio.» Fara, nata dall’infelice matrimonio tra Arnon, principessa araba, e Antipa, figlio di Erode, appena sedicenne parte per la Galilea per uccidere il padre che aveva abbandonato e tradito la madre. Nel suo viaggio si imbatte prima in Giovanni Battista, poi in Simone, proprietario di alcune barche da pesca, turbato e colpito dai racconti sul «figlio del falegname». «Il grande pescatore si era sdegnosamente avvicinato con intenzioni indagatrici al falegname di Nazareth, col solo risultato di farsi avvincere dall’irresistibile potere di quello strano uomo.»

Lloyd Cassel Douglas (1877-1951), pastore luterano statunitense, è autore di numerosi romanzi, tra cui La tunica, sulla figura di Cristo, le cui vicende si intrecciano a quelle de Il Grande Pescatore, sulla figura di Pietro.

€ 21,00 itacaedizioni.it


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