EZIO MERONI
IL PR E T E PA R TI G I A N O
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Ezio Meroni
Il prete partigiano Don Battista Testa
Nelle edizioni Itaca Maïti Girtanner con Guillaume Tabard Maïti. Resistenza e perdono Matteo Fanelli 13 aprile 1945 La lotta partigiana e il martirio di Rolando Rivi Bisagno. La Resistenza di Aldo Gastaldi a cura di Marco Gandolfo con dvd Testimoni della verità nell’Italia in guerra La Resistenza cancellata a cura di E. Bonicelli, A. Caspani, U. Finetti, M. Busani, L. Aldorisio
Ezio Meroni Il prete partigiano. Don Battista Testa www.itacaedizioni.it/il-prete-partigiano-don-battista-testa Prima edizione: marzo 2022 © 2021 Itaca srl, Castel Bolognese Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-526-0717-2 Stampato in Italia da Mediagraf, Noventa Padovana (PD)
Col nostro lavoro cerchiamo di rispettare l’ambiente in tutte le fasi di realizzazione, dalla produzione alla distribuzione. Questo libro è stato stampato su carta certificata FSC‰ per una gestione responsabile delle foreste. Stampiamo esclusivamente in Italia con fornitori di fiducia, riducendo così le distanze di trasporto.
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Pioveva a dirotto dalla mattina. Freddo, vento e acqua sembravano spalancare le porte dell’inverno, invece era appena passato l’anniversario della Liberazione. Anche con quel tempo da lupi la Sala dei Paesaggi in villa Ghirlanda andava riempiendosi: tra il pubblico riconoscevo almeno quattro generazioni attratte dalla storia di don Battista Testa. Seduti nelle prime file c’erano alcuni dei suoi ragazzi dell’oratorio, ormai ultraottantenni. Con gli occhi lucidi, orgogliosi di poter dire: «Io l’ho conosciuto». Insieme ai loro figli e nipoti, a cui avevano tramandato le gesta di quel sacerdote che consideravano un eroe moderno. E poi tanti giovani che ne avevano sentito parlare. Mancava solo Maddalena. Senza di lei non me la sentivo di cominciare. Per rispetto e per riconoscenza. Ci eravamo conosciuti cinque giorni prima ed era merito suo se avrei potuto proporre immagini e notizie inedite sul prete che chiamava con affetto: «Lo zio». Le avevo dato appuntamento al casello di Agrate Brianza alla ricerca di informazioni su questo sacerdote che sembrava essersi divertito a cancellare le tracce del proprio impegno nella Resistenza. Di lui mi avevano parlato diversi partigiani locali, me ne ero occupato in qualche ricerca, aveva trovato spazio in alcuni racconti e in un romanzo ambientati nella lotta di Liberazione a Cinisello Balsamo. Mai però era stato il protagonista di un’indagine storica. La proposta di preparare una relazione sul contributo dei cattolici nella Resistenza mi aveva riportato sulle sue tracce,
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ma non avevo fatto i conti con l’avarizia delle fonti. Alla fine mi ero deciso ad andare a Premezzo, dove era stato parroco, rimediando l’ennesima delusione. Prima di salutarmi il responsabile dell’archivio parrocchiale aveva provato a sollevarmi il morale: «A Treviglio vive sua nipote. Se vuole posso darle il numero di telefono». La conosceva, perché aveva vissuto con lo zio fino al momento di sposarsi: «Maddalena ha perso la vista quando era ancora una fanciulla. È una donna forte, molto legata a don Battista». L’avevo contattata quella stessa sera. Neanche lei aveva documenti e non poteva aiutarmi con i ricordi: «A quel tempo ero una bambina e lo zio ha sempre parlato poco della guerra» s’era scusata: «Mi è rimasto solo un album di fotografie». “Finalmente un raggio di luce” avevo pensato, fissando l’appuntamento. Ero arrivato in anticipo, per timore del traffico e per la smania di avere tra le mani quel cimelio. L’avevo osservata scendere dalla macchina e dare il braccio a Franco, il marito. Piccola, esile, energica. Siamo entrati in un bar poco affollato. Era felice di sapere che qualcuno si ricordasse ancora di don Battista: «Ho trascorso un periodo bellissimo a Cinisello. Ci sono arrivata all’inizio del 1947, quando avevo cinque anni. Ero orfana di padre e pochi mesi prima avevo avuto il morbillo. Poi è sopraggiunta una febbre altissima, che mi ha atrofizzato il nervo ottico. Ero diventata cieca e per i medici non c’erano speranze. Lo zio però non si è arreso. Mi ha accolta in casa sua e mi ha portato dai migliori specialisti di Milano. È servito a poco, ma mi ha regalato momenti sereni». Da una borsa aveva sfilato il prezioso ricordo con la copertina in pelle. Lo avevo sfogliato con avidità. La scelta delle foto, la loro disposizione e le didascalie erano opera dello zio: «Lo puoi tenere. Me lo restituirai quando ci vedremo per la serata su don Battista» mi aveva proposto. In sala il pubblico cominciava a mostrare segni di impazienza: «Ancora qualche minuto» suggerisco al moderatore che mi indica l’orologio. Mi stavo interrogando sulle possi-
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bili cause del suo ritardo, quando la vedo entrare, scortata da Franco e da Carmen, la sua più cara amica. Un responsabile dell’organizzazione li accompagna nei posti loro riservati. Scorgendola alcune signore non più giovanissime si consultano alla ricerca di conferme, poi vanno a salutarla prima dell’inizio della conferenza. Un’ora e mezza di narrazione storica, cominciata con la lettura di una delle sue rarissime dichiarazioni. Ai due giornalisti che nel 1975 gli avevano chiesto le motivazioni della sua partecipazione alla Resistenza, don Battista aveva risposto: «Perché il fascismo toglieva la libertà, che non ha colore, ma è il dono più grande che Dio ha fatto all’uomo; il valore dell’individuo sta nella libertà e se c’è uno che rispetta questa libertà è proprio il Padreterno, mentre la società la rispetta solo secondo il suo interesse. Come uomo e come cristiano, quindi, ho sentito il sacrosanto dovere di partecipare a questa lotta democratica per la libertà sociale e individuale»1. Un esordio avvincente, approfondito con l’ausilio di immagini, di documenti e di articoli di giornale: dall’inizio della guerra alla lotta politica per le elezioni del 1948, passando attraverso gli atti di coraggio, le polemiche e i misteri legati alla Resistenza. «Oggi mi hai svelato molti aspetti sconosciuti dello zio» mi confida Maddalena al termine della serata. È commossa. In molti si avvicinano per salutarla. Qualche signora rievoca episodi di un’infanzia lontana, ambientata in un dopoguerra ricco di speranze e di privazioni. Lei sorride, annuisce, chiede notizie di persone che ricorda con particolare affetto, aggiunge dettagli agli aneddoti rievocati. «Erano più di sessant’anni che aspettavo questo momento» interviene un signore dalla candida chioma. «Sono contento. E anche don Battista sarà soddisfatto. Adesso sappiamo tutto quello che ha fatto» conclude stringendole la mano. «O mi sbaglio?» mi interpella, alla ricerca di un consenso. «Negli archivi potrebbero esserci altri documenti. In fondo si è trattato di una conferenza…» rispondo.
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«Se è così, mi piacerebbe esaminarli insieme a te» si entusiasma Maddalena. «Non fraintendermi. Tu porti avanti le ricerche. A me basta seguirle passo dopo passo e conoscere in anteprima le novità sullo zio». «Impossibile rifiutare» incalza l’ottuagenario ragazzo dell’oratorio. «Per riconoscere i giusti meriti a don Battista. E anche per raccontare senza veli qualche pagina della Resistenza». Maddalena cerca il mio braccio: «Cosa ne pensi?». Ho sempre creduto che la Provvidenza manifesti i propri disegni con degli indizi da cogliere e interpretare: «Si potrebbe fare…» ammetto. «Non mi sembri convinto» commenta Maddalena, guidata dal suo raffinato intuito di non vedente. Aveva ragione. L’argomento mi affascinava, ma presentava molte zone d’ombra e parecchi aspetti intricati. Anche per questo non potevo tirarmi indietro: «D’accordo» le confermo. Ci sono voluti tre anni. Per la complessità delle ricerche e per la mia pigrizia. Aggravata dalla necessità di tempi lunghi per lasciar sedimentare un’idea, trovare la giusta ispirazione e scrivere un libro. Alla fine ho mantenuto la promessa. E già questo mi rende felice.
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A un tiro di schioppo dalla frazione di Castel Cerreto e a due miglia da Treviglio, la cascina Castellana presidiava quel lembo della pianura bergamasca dove faticavano i contadini che l’abitavano. Una struttura dalla simmetria semplice e funzionale: l’edificio per le case da un lato, con al piano terra le cucine e il porticato e a quello superiore le camere, con l’ampio loggiato; dall’altro le stalle e i fienili. Nel mezzo un vasto cortile con le latrine, la concimaia e i pollai. Dietro le case una piccola aia, lambita dalla Roggia di Sopra, che riceveva le proprie acque dal Brembo. Qui viveva una quindicina di famiglie. Un microcosmo di un centinaio di anime, dove tutti si conoscevano e l’esistenza scorreva secondo i ritmi dettati dalle stagioni, dalle esigenze della campagna e dalle tradizioni consolidate dal tempo. «Lüis, vì a ciamà la levatrice»2 aveva detto Rosa al marito, appena rientrato dalla stalla. Una richiesta attesa, desiderata e temuta. Da lui e da tutti, perché una gravidanza coinvolgeva ogni membro di quella piccola comunità. A quel punto si sarebbe messo in moto il meccanismo dell’assistenza al parto, riservato alle sole donne, maritate e con figli. Gli uomini potevano scegliere dove attendere la conclusione del travaglio: in casa, nella stalla o nei campi. Ai più piccini avrebbero badato i fratelli maggiori o qualche anziano. Luigi attacca il cavallo al carretto ed esce, lasciando alle comari la gestione della casa. Poche e scelte in base alla fiducia e alla confidenza. Prima di svoltare a sinistra per imboccare
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lo sterrato che portava a Treviglio, volge lo sguardo alla campagna. Quell’anno la primavera non si era fatta attendere e il verde aveva preso il sopravvento sui colori bigi dell’inverno. La natura tornava a vivere e lui sarebbe diventato padre un’altra volta. C’era di che essere contenti, eppure un’ombra gli velava il cuore: dalla parte opposta, oltre l’orizzonte, da dieci mesi infuriava la guerra e con la bella stagione i combattimenti sarebbero ripresi con maggiore intensità. Quel suo figliolo aveva scelto un brutto momento per venire al mondo. Sperava che fosse ’n masccì, un maschietto, per riequilibrare la famiglia: Margherita, la primogenita, aveva tredici anni; Natale frequentava la seconda elementare e Teresa era un anno più indietro; la più piccola, Antonietta, era nata nel 1914, quando la Grande Guerra era cominciata da pochi giorni. Il pensiero era scivolato anche sugli altri tre figlioli, morti ancora in fasce. «Staólta ’l sarèss mìa sücedìt»3, pensa imboccando via San Martino, dove si trovava l’abitazione della signora Tagli, la levatrice. Sapeva che per la sua Rosa i giorni del parto erano vicini, ma doveva correre dove la chiamavano. Se non l’avesse trovata? Se fosse andata ad assistere un’altra donna in una delle tante cascine di Treviglio? Le comari erano brave, ma con la levatrice lui si sentiva più tranquillo, anche perché sua moglie aveva superato da qualche anno la trentina. Gli tornano alla mente le altre volte che era venuto a chiamarla. Sette viaggi, tutti con il cuore in gola. E questo non era diverso, perché a certe emozioni non si fa mai l’abitudine. Quando i fanciulli della cascina Castellana lo vedono ritornare con al fianco la levatrice li accolgono schiamazzando. La donna abbozza un saluto, stringendo la grossa borsa nera che teneva sulle ginocchia. Per i più piccini era un oggetto misterioso: qualcuno sussurrava che nascondesse lì dentro il bambino che doveva nascere. I più grandicelli sorridevano maliziosi e tacevano, per non turbare la loro innocenza. La signora Tagli era sparita dietro l’uscio della stanza della puerpera. Luigi aveva legato il cavallo e si era rintanato nel-
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la stalla. Poteva solo aspettare e pregare perché tutto andasse bene. Grazie al cielo non c’era voluto molto: «Lüìs! Lüìs! L’è ’n bèl sccetì!» strilla dal loggiato una donna: «Restì zò, va ciàme mé quànda sarà ’l mumènt!»4. Non ce n’era bisogno, conosceva a memoria il cerimoniale. Sale dopo che le comari hanno lasciato la stanza. Era rimasta solo la levatrice, in piedi, con la borsa nera sotto il braccio. La sua Rosa riposava nel letto matrimoniale, con accanto il bambino. Li guarda e si commuove, ma non si avvicina. Per pudore e perché si era comportato così tutte le altre volte. La signora Tagli lo rassicura: il neonato era sano, bello e vispo. Lui ascolta in silenzio, con gli occhi bassi. Adesso sua moglie aveva bisogno di riposo e di cibo abbondante. Lui annuisce. Poi la levatrice conclude la filippica: «Luigi, per voi questa Quaresima termina alla fine di aprile. Mi avete capito?» domanda, lanciando a lui un’occhiataccia e alla puerpera un cenno di intesa che valeva più di un ordine: «È proprio un bel bambino. Vi darà tante soddisfazioni». «Lüìs vì a parlà col preòst per al Batés»5 si raccomanda sua moglie. «Come lo chiamerete?» chiede la levatrice sulla strada del ritorno. «Battista». «Un nome impegnativo. Battista Testa, di Luigi e di Resmini Rosa. Nato a Treviglio il 17 marzo 1916. Benvenuto in questo mondo Battista!» recita la donna, soddisfatta del proprio lavoro. Con il prevosto si accorda per la festa di San Giuseppe. Una cerimonia semplice, in linea con la povertà contadina. Lo battezza don Boldoni, uno dei coadiutori, alla presenza dei genitori e dei fratelli. Madrina è Maria Airoldi, la più giovane delle comari6. Nessun cenno al padrino, ma in tempo di guerra gli uomini scarseggiavano e quei pochi disponibili dovevano lavorare anche per chi combatteva al fronte. Se il prete non aveva avuto niente da ridire, significava che il Sacramento era valido.
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Battista cresce in cascina, accudito da mamma Rosa e da Margherita. Troppo piccolo per ricordarsi di Maria, la sorellina nata il 22 giugno 1918 e sepolta tre giorni dopo, quando la gente moriva come le mosche per l’epidemia di febbre spagnola7. E della grande gioia nella notte del 2 novembre, quando le campane a stormo avevano annunciato la vittoria nella Grande Guerra8. A tre anni frequenta l’asilo di Castel Cerreto dove, per volontà della contessa Emilia Woyna Piazzoni, i bambini ricevevano gratuitamente istruzione, pasti e vestiario. Una vera manna per le famiglie contadine che in certe annate faticavano a mettere nella scodella la polenta per il pranzo e per la cena. Impara da mamma Rosa e dalle suore di Maria Bambina le prime preghiere. A sei anni percorre ogni giorno la strada dalla cascina Castellana alle scuole elementari di Treviglio con gli zoccoli ai piedi e al collo la bisaccia con i quaderni e la merenda. Più di sei chilometri tra andata e ritorno, quasi tutti in mezzo ai campi. Apprende a leggere, a scrivere, a far di conto e a gettare lo sguardo oltre il mondo contadino. Frequenta volentieri anche la dottrina, dove don Francesco Maggioni, l’altro coadiutore, spiegava la vita e i miracoli di Gesù. Oltre a quelli compiuti dalla Madonna nella pianura bergamasca. Caravaggio distava una manciata di chilometri e tutti conoscevano la storia della sua apparizione a Giannetta il 26 maggio 1432, mentre falciava l’erba per le bestie al prato Mazzolengo. Ai suoi piccoli uditori don Francesco riproponeva con passione il dialogo tra la Vergine e la povera contadina. Era così bravo che a loro sembrava di vedere sgorgare la fonte miracolosa proprio dove la donna si era inginocchiata, di sentire l’appello della Vergine per la pace tra Milano e Venezia e la sua esortazione alla preghiera per non cadere nel peccato: «Un grande miracolo, avvenuto molti secoli prima di Lourdes e di Fatima» commentava il coadiutore. Ma la Madonna nel 1522 aveva protetto anche Treviglio e la sua gente, quando la Gera d’Adda era tornata a essere
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teatro di battaglie, di razzie e di saccheggi al tempo della prima guerra tra francesi e spagnoli. Il luogotenente imperiale Giovanni Landriano aveva attaccato la retroguardia francese in ritirata verso Cremona. Per rappresaglia il generale Odet de Foix, visconte di Lautrec, aveva ordinato di distruggere il borgo. Invano i consoli e il clero avevano tentato di dissuaderlo: «Volete sapere come lo descrivevano i suoi contemporanei?» domandava ai fanciulli don Francesco, sicuro della loro corale approvazione: «Più duro del diamante, più crudo della tigre, più saldo dello scoglio». Ai poveri trevigliesi non restava che affidarsi al Signore e alla Vergine Maria. Per tutta la notte avevano vegliato e pregato. Alle otto del mattino, quando era già cominciato l’attacco, ecco il miracolo: l’immagine della Madonna sulla parete esterna del campanile della chiesa di Sant’Agostino piange e suda. Eppure il cielo era sereno e il muro intorno perfettamente asciutto. Attirati dalle grida, i soldati francesi accorrono, vedono il prodigio e cadono in ginocchio. Arriva anche il generale Lautrec. Non convinto, prova ad asciugare le lacrime della Vergine, che sgorgano più copiose. Alla fine anche lui è costretto a genuflettersi davanti all’immagine della Madonna, assicurando al popolo trevigliese il suo perdono. A provarlo restavano l’elmo e la spada deposti ai piedi dell’affresco: «Ecco perché ogni anno l’ultimo giorno di febbraio alle otto del mattino le campane suonano a stormo e si fa festa» spiegava don Francesco. La devozione mariana di Battista è legata a questi due miracoli e alla recita quotidiana del rosario. Anche le serate trascorse nella stalla, dove in inverno le famiglie si riunivano per scaldarsi con il tepore delle bestie, costituiscono un momento importante per la sua formazione. Dopo l’ultima decina e le litanie gli uomini discutevano della semina, del raccolto, dei bachi da seta, delle bizzarrie del tempo o della guerra appena conclusa. Qualcuno per rallegrare l’ambiente cominciava a cuntà sö i pastòge9. A lui piaceva ascoltare i discorsi dei grandi. C’era stato un tempo, quando era in prima elementare, in cui parlavano spesso di monsignor Ambrogio Portaluppi. Si ricor-
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dava del prevosto, ma aveva imparato a conoscerlo attraverso i racconti nella stalla: «L’éra cume ’l Nòst Signùr, sèmper de la banda di poarècc»10. Per gli operai e i contadini aveva costituito la Cassa Rurale, l’Unione Rurale, l’Unione Operaia e la Coo perativa di Consumo, edificato le Case Operaie e fondato il giornale «Il Popolo Cattolico». Per loro aveva dato vita nel 1901 alla Società dei Probi Contadini di Castel Cerreto e di Battaglie, che aveva preso in affitto più di cinquemila pertiche di terreno dall’Orfanotrofio Maschile di Bergamo. Senza il fittabile, le spese per il canone si riducevano e nelle tasche dei coloni restava qualche soldo in più da spendere. Erano venuti da tutto il mondo a studiare l’opera di quel prete che la gente chiamava con famigliare rispetto ’l teòlegh11. Alla fine della guerra s’era messo in testa di trasformare una parte dei contadini in piccoli proprietari. Ne aveva discusso con i capifamiglia e aveva fondato la Società Cooperativa Agricola di Casale Battaglie e Cascine Annesse per acquistare i terreni: «L’à ürìt fa ’l pass püssé lungh de la gamba»12 sosteneva qualcuno. «L’è mìa ’ira. La Cuperatìa la ga stàa söl stòmech a i siùr»13 era la replica più frequente. Durante quelle discussioni Battista aveva sentito parlare a lungo dei fascisti. Non capiva perché ce l’avessero con il prevosto e andassero in giro a raccontare tante malignità contro di lui, ma intuiva di stare dalla sua parte. Alcuni però ci avevano creduto e nelle cascine aveva cominciato a serpeggiare la discordia: «Pròpe quànda i l’à ciamàt an Cüria a fà ’l Vicàre Generàl»14. Da Milano era più difficile contrastare le malelingue, così, quando s’era reso conto che il suo progetto stava prendendo una direzione non più condivisibile, nel maggio del 1923 monsignor Portaluppi si era fatto da parte15. Pochi mesi dopo era spirato all’età di sessant’anni: «L’è mórt col dispiesè ’n del cör per la so zét del Serìt e di Batàe»16 commentava più di una donna, facendosi il segno della croce e recitando un requiem per la sua anima. La cascina, la scuola e la chiesa sono i tre ambiti che plasmano la fanciullezza di Battista.
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I ricordi lo descrivono come un vissinèl, un ragazzo molto vivace, capace di combinare ogni genere di scherzo o di guaio, per poi arrampicarsi sugli alberi con l’agilità di uno scoiattolo nel tentativo di sfuggire all’ira di qualche donna o al castigo di mamma Rosa. Forse non era un capobanda, ma siccome era conosciuto da tutti come l’Ardito17, è lecito supporre che il coraggio e l’intraprendenza non gli facessero difetto nei giochi in cortile, sul fienile o nella Roggia di Sopra. Amava gli animali, in particolare ’l Gris, il cavallo da tiro di famiglia, che aveva preso quel nome dal colore del proprio mantello. Gli piaceva cavalcarlo, pavoneggiandosi nel cortile della cascina Castellana. Ma era anche educato e generoso, pronto a rimboccarsi le maniche per dare una mano nei campi e nella stalla. Le maestre dicevano che era intelligente, che si applicava e che non doveva fermarsi alla quinta elementare. Anche don Francesco era contento di quel ragazzino tanto scalmanato nei giochi, quanto devoto nella preghiera e attento durante le ore di religione a scuola e di dottrina in oratorio.
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Quando e in che modo si manifesta la vocazione di Battista? Come si svolge il cammino di discernimento che lo porterà in seminario? Per capirlo, occorre prendere le mosse dall’estate del 1928. Alla fine della quinta elementare i figli dei contadini dovevano scegliere tra il lavoro o un corso di avviamento professionale e, di solito, la decisione era imposta dalle condizioni economiche. Alla cascina Castellana la famiglia di Luigi Testa era tra le più povere. Per Battista esistevano poche alternative e tutte al di fuori della scuola: contadino, apprendista in filanda o garzone in una bottega artigiana. Invece il primo ottobre 1928 il ragazzo varca il cancello del collegio salesiano Sacra Famiglia di Treviglio. Non per imparare un mestiere, ma per frequentare la prima ginnasio, la scöla di siùr18. Qualche avvisaglia della chiamata al sacerdozio deve averla maturata alla conclusione della quarta elementare: la scoperta dell’intima gioia che gli dava la preghiera, il coinvolgimento durante la Messa, soprattutto quando faceva il chierichetto, l’interesse per le lezioni di don Francesco, la passione per Gesù, il Figlio di Dio fatto Uomo e morto sulla croce. Difficile pensare che abbia aperto il proprio cuore al prevosto, monsignor Egidio Bignamini. Il coadiutore incaricato della formazione religiosa dei ragazzi era don Francesco. È a lui che verosimilmente confida il proposito di farsi prete, con il fervore, i dubbi e i timori di chi, non ancora adolescente,
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avverte di trovarsi di fronte a una decisione importante e sente il bisogno di una guida spirituale. Alla sua età il rischio di un’infatuazione era concreto. Aggravato dall’insidia di voler emulare il cugino Roberto Ravasi, che abitava a Casale Battaglie, era maggiore di due anni e aveva deciso di entrare in seminario. Battista però meritava fiducia, così il coadiutore prende a seguirne il cammino vocazionale. Buon senso e rispetto della gerarchia gli imponevano di informare monsignor Bignamini, che consiglia pazienza, prudenza e preghiera. Il ragazzo aveva dieci anni: non sarebbe stato né il primo né l’ultimo a cambiare idea. E poi bisognava considerare le condizioni della famiglia: dove avrebbero trovato i soldi per pagare gli studi? Meglio affidarsi alla Provvidenza e nel frattempo sondare il terreno con mamma Rosa. Al momento opportuno avrebbe parlato lui al capofamiglia. Davanti alle parole del coadiutore la donna non s’era mostrata sorpresa. Una madre certe cose le intuisce prima ancora di saperle. Se Battista pensava al sacerdozio, lei era contenta e avrebbe chiesto al Signore di illuminargli il cuore e la mente. L’ultima parola spettava comunque a suo marito. Con Luigi Testa il prevosto non usa troppi giri di parole. Battista voleva entrare in seminario, ma era ancora troppo giovane. Bisognava dargli il tempo di verificare la sua vocazione e intanto consentirgli di proseguire gli studi. La soluzione migliore era iscriverlo in prima ginnasio dai Salesiani a Treviglio. L’uomo la prende meglio del previsto. Il futuro di quel figliolo gli stava a cuore. Avrebbe preferito vederlo lavorare e crearsi una famiglia, ma se sentiva la chiamata del Signore non aveva niente in contrario. Era pronto a fare un altro buco nella cinghia per pagargli gli studi, ma non poteva levare il pane da bocca agli altri quattro figli. Nelle sue condizioni non era facile pagare la retta e i libri, e trovare anche le palanche per i vestiti e le scarpe. Erano contadini, ma avevano una dignità. Battista non poteva entrare in classe con gli zoccoli ai piedi e le pezze sui pantaloni. E poi ce l’avrebbe fatta a studiare materie così difficili?
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Il prevosto lo ascolta in silenzio, esortandolo a confidare nel Signore, prima di spiegargli come intendeva agire. Avrebbe parlato al Rettore per ottenere uno sconto, o magari anche una gratuità intera. Battista era intelligente e poteva affrontare senza difficoltà il ginnasio, usando libri di seconda mano. Per il resto avrebbe pensato lui a scovare un sarto e un calzolaio di buon cuore: «Mettiamo tutto nelle mani della Provvidenza». Battista si dimostra uno studente attento, si applica con caparbietà, riesce bene soprattutto nelle materie scientifiche, mentre stenta in italiano. Abituato a parlare in dialetto, fatica a scrivere e a esprimersi con la purezza linguistica richiesta dai suoi professori. Studia in cucina, sotto lo sguardo amorevole di mamma Rosa. Continua ad aiutare papà Luigi e il fratello Natale, mentre la verifica spirituale sotto la guida di don Francesco conferma la sua vocazione. Superate le prime due classi, restava lo scoglio del terzo anno e degli esami. Poco dopo il carnevale, mamma Rosa aveva chiesto al dottor Vertova di visitare suo marito: era dimagrito, debole e accusava spesso dolori di pancia. Il medico era arrivato con il calesse, aveva fatto il proprio dovere, poi aveva parlato in cucina con lei e con Natale. A Battista era bastato osservare i loro volti per intuire la gravità della situazione. Don Francesco lo aveva esortato a pregare con maggior fede, sollevandolo da alcune incombenze in oratorio. Lui aveva chiesto alla Madonna la grazia della guarigione per suo padre, perché gli sarebbe piaciuto che fosse presente all’ordinazione in Duomo e alla prima Messa. Con tutti i sacrifici che aveva sostenuto, meritava questa soddisfazione. Con angoscia aveva ricordato anche le parole di Gesù nell’orto degli Ulivi: «Tuttavia non sia fatta la mia volontà, ma la tua». A fine giugno le sue condizioni si erano aggravate. Al capezzale si alternavano la mamma e Margherita. La campagna però non guarda in faccia nessuno: era tempo di mietitura e non si poteva lasciare il frumento maturo nei campi con il rischio di vederlo danneggiato da un temporale. In cascina le famiglie erano disponibili ad aiutarli, ma avevano tutte la
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stessa preoccupazione. Tra il lavoro e i libri Battista non ha un momento di riposo, ma riesce a regalare a suo padre un’ultima soddisfazione. Promosso, e anche con discreti voti: dieci in condotta e in religione, sette in geografia, sei in latino, matematica e francese. Un solo cinque in italiano, il suo punto debole19. Il 13 luglio 1931 Luigi Testa spira nella sua stanza alla cascina Castellana20, lasciando in eredità alla vedova e ai cinque orfani una sola certezza: la povertà. Dopo i funerali il prevosto e don Francesco tornano a occuparsi di Battista. Se intendeva seguire la propria vocazione non c’era tempo da perdere. Natale affronta la questione da capofamiglia: i sacrifici non lo spaventavano e suo fratello sarebbe entrato in seminario, perché lo desiderava lui e lo avrebbe voluto anche il povero Luigi. Il ragazzo conferma l’intenzione di consacrarsi al Signore, mentre il prevosto lo osserva pensieroso: già esile di costituzione, era diventato ancora più magro e pallido. Dopo i saluti, in disparte, suggerisce a mamma Rosa di preparagli ogni mattina ’na bèla rüssümada per tiràl an pó sö21. Era preoccupato, perché in seminario accettavano solo studenti in buona salute e di robusta costituzione. L’indomani le avrebbe mandato un cesto di uova, un pacco di zucchero e una bottiglia di marsala. La donna ringrazia, asciugandosi le lacrime prima di rientrare in casa. In pochi giorni gli incartamenti sono pronti: il documento di sana e robusta costituzione, i certificati di Battesimo, di Cresima, di nascita e di vaccinazione, insieme alla pagella di terza ginnasio22. Il 26 luglio di suo pugno Battista Testa, «residente a Castel Cerreto, parrochia (sic) di Treviglio» chiede al cardinale Ildefonso Schuster, a cui si rivolge con il titolo di «Eminentissimo Principe», di accettarlo «quale alunno del seminario del Duomo, dopo di essersi sottoposto all’esame di ammissione al 4° corso ginnasiale»23. Ai responsabili diocesani non deve essere sfuggito l’errore ortografico, a conferma dell’insufficienza in italiano. Don Francesco il giorno seguente allega al fascicolo una
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breve lettera di accompagnamento: «Il sottoscritto, a nome di Monsignor Prevosto assente, dichiara che il giovane Battista Testa appartiene a una famiglia poverissima, ha sempre tenuto ottima condotta e dà segni di buona vocazione. Vivamente lo raccomando, perché venga accettato»24. Non è difficile intuire quello che accade nelle settimane successive: dopo averlo visitato, la commissione medica deve aver manifestato più di una perplessità sull’ammissione della sua domanda. Solo così si spiega la decisione del prevosto di rivolgersi direttamente al Rettore Generale, monsignor Francesco Petazzi, suo carissimo amico: «Son qui a supplicarti per l’accettazione nel Seminarietto del Duomo del mio aspirante Testa Battista. Non deve impressionare la sua gracilità, dovuta al cattivo mantenimento in casa, poiché è di famiglia poverissima, allo studio e al lavoro della campagna. Vedrai che a Milano starà benissimo. E poi non è il Signore che largisce la risposta? Se, dunque, Egli chiama allo stato ecclesiastico questo figliolo che non ha mezzi, gli darà anche la risposta per rimanere in un luogo a studiare senza sforzi. Mi sento di assumere tutta la responsabilità della tua accettazione»25. Era insensato chiudere le porte del seminario a Battista solo per il parere contrario di qualche medico incapace di vedere al di là del proprio naso. Il ragazzo non era malato. Era solo deperito dopo un’infanzia di stenti e gli ultimi sei mesi di fatiche e di sofferenze. In seminario, con tre pasti al giorno, magari non raffinati ma abbondanti, si sarebbe rimesso in poche settimane. Monsignor Bignamini non aveva dubbi: solo il Signore conosceva nel profondo l’animo degli uomini, ma per quello che gli suggerivano il buon senso e l’esperienza, la vocazione di quel giovinetto meritava di essere sostenuta. La lettera ottiene l’effetto desiderato: dopo aver conseguito l’ammissione alla quarta ginnasio, Battista torna a casa per qualche giorno di vacanza. La foto di rito – su cui di suo pugno annoterà: «Treviglio – 4 settembre 1931 – Vestizione»26 – lo ritrae tra gli amici, coetanei e adulti, sotto lo sguardo compiaciuto di don Francesco: compìto nel suo primo abito
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talare, magro, con i capelli cortissimi e l’abbozzo di un sorriso furbo che esprime contentezza, commozione e riconoscenza. Era una giornata di duplice festa a Treviglio. Per il ritorno del novello seminarista e per la soluzione della crisi tra il Vaticano e il Governo. Sei mesi prima i giornali fascisti avevano accusato l’Azione Cattolica di interferire nell’attività dei sindacati e di progettare la costituzione di un partito cattolico. Calunnie, che però avevano provocato assalti alle sezioni e violenze nei confronti dei suoi dirigenti. Il Duce pretendeva il pieno controllo sulle attività educative, ricreative e sportive dei giovani e alla fine di maggio aveva decretato lo «scioglimento di tutte le organizzazioni giovanili che non facessero capo al Partito Nazionale Fascista o all’Opera Nazionale Balilla»27. L’Azione Cattolica rappresentava una fastidiosa anomalia e andava eliminata. Pio XI aveva replicato il 29 giugno 1931 con l’enciclica Non abbiamo bisogno per denunciare le violenze squadriste e ribadire che il giuramento di fedeltà al Duce era lecito per ogni cattolico, «fatte salve le leggi di Dio e della Chiesa»28. La gravità dello scontro si manifesta anche in occasione dell’inaugurazione della Stazione Centrale di Milano. Il cardinale Schuster annuncia la sua assenza in segno di protesta contro le aggressioni fasciste, delegando in sua vece monsignor Giacinto Tredici. L’imbarazzo a Corte e nel Governo è palese: dopo la rinuncia del Sovrano, anche Mussolini si vede costretto a farsi rappresentare dal Ministro delle Comunicazioni Costanzo Ciano. Il punto di mediazione viene trovato il 2 settembre 1931: con il ritiro del decreto di scioglimento l’Azione Cattolica s’impegnava a svolgere esclusivamente attività ricreative ed educative con finalità religiose. L’intesa aveva evitato danni maggiori, ma la durata e l’intensità della disputa avevano contribuito «a rafforzare i sentimenti antifascisti di una parte del clero», anche se pochi preti avrebbero osato «venire allo scoperto»29. Per la seconda volta Battista sperimenta il contrasto tra il
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fascismo e l’associazionismo cattolico. Don Francesco, amico e collaboratore di monsignor Portaluppi, di fronte a una richiesta di spiegazione delle parole del Pontefice non poteva che essere lapidario: nel dubbio bisognava ubbidire sempre alla legge di Dio.
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Indice generale
La promessa 7 L’infanzia 11 La vocazione 18 Il Seminario del Duomo 26 Prefetto al Collegio Rotondi 36 La navicella di Pietro 44 Totalitarismo e razzismo 54 La città delle fabbriche 65 Destinazione Cinisello 76 La grande illusione 90 La scelta 102 La radio di “Nemo” 113 Le stragi 123 La lotta armata 130 La Liberazione 140 Le ombre 149 «Testa di… Zucca» 162 L’oro dei misteri 179 Quasi sfinito 210 Abbreviazioni 233 Note 235 Bibliografia 253 Indice dei nomi 259 Indice dei toponimi 265
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Come un neonato, il «dopo» stava emettendo i primi vagiti, che rimarcavano le differenze tra le forze politiche. Fabio [Pietro Vergani] esprimeva idee condivisibili, ma il suo riferimento era il comunismo e la sua stella polare l’Unione Sovietica di Stalin. Un modello che don Battista non poteva accettare. Era risultato chiaro sin dal loro primo incontro. Avevano concezioni del mondo, della religione, dell’uomo, del lavoro, dello Stato e della società profondamente differenti e alternative. Eppure si rendeva conto che era necessario collaborare per svezzare il «dopo» e imparare a convivere nella diversità. Anche questo era un frutto della libertà.
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«Il valore dell’individuo sta nella libertà»: in questa frase di don Battista Testa è racchiusa la ragione del suo impegno di uomo e di sacerdote che lo portò a collaborare con i partigiani per contribuire alla liberazione del Paese e salvaguardare la vita delle persone. Fu quella stessa ragione che lo indusse a schierarsi contro le violenze che insanguinarono il dopoguerra e ad essere protagonista nella battaglia politica contro il pericolo bolscevico promossa dal cardinale Schuster – «O con Cristo o contro Cristo» – rispondendo per le rime, e anche con le sberle, alle calunnie degli avversari che ne chiesero il trasferimento. «Da lei abbiamo imparato questo: – Spaccarsi la spina dorsale, ma mai piegarsi, decisi e pronti a tutto per il trionfo dell'idea... Sono le idee che si combattono, ma all'uomo che nel bisogno stende la mano e ti chiede un aiuto, non puoi rifiutarlo, anche se ha un'idea contraria alla tua e fossi certo che domani sarebbe il primo a rinnegarti.»
I giovani di Cinisello Balsamo Ezio Meroni è autore di diversi volumi sul Movimento Cooperativo, sull’Antifascismo e sulla Resistenza. Insieme al figlio Alberto ha pubblicato Scoprirsi Down. La storia di Alberto, raccontata da lui stesso.
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