Fiorenza Farina
Inverno di guerra sul monte Baldo Prefazione di Andrea Caspani
Prefazione La storia dello zio Nello è un piccolo libro ma con un grande cuore, perché permette di centrare l’attenzione su quella realtà che è stata decisiva sul piano popolare nel periodo della seconda guerra mondiale, il senso dell’umanità e dei valori familiari e sociali tradizionali, e che purtroppo è quasi misconosciuta da tutti quelli che si accostano al periodo in questione con occhi “ideologici” o semplicemente politici. Il breve ma denso racconto che costituisce il focus del testo presenta infatti un episodio minore (e piuttosto comune) della seconda guerra mondiale, le peripezie di un giovane di paese dell’alto veronese per sfuggire ad un rastrellamento tedesco nel 1944 e di conseguenza le avventure che lo accompagnano per tutto il periodo rimanente della guerra, in cui è costretto a restare alla macchia, in un contesto di contiguità (ma non di coinvolgimento attivo) con i partigiani del luogo. La bellezza del racconto non si limita alla scrittura, essenziale e sintetica nella sua capacità di manifestare le reazioni dell’animo del protagonista senza mai cadere nella retorica, di Fiorenza Farina,
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“nipote” a tutti gli effetti dell’umanità di Nello (è da notare che “la storia della guerra” dello zio Nello è stata rielaborata da Fiorenza ma lo “zio” ha fatto in tempo a leggerla e a dire: «Sì, mi ritrovo»), né alla vivacità dei vari episodi di cui è intessuta la vicenda, quanto soprattutto alla capacità che ha di mostrare cosa significa attraversare un periodo tragico della storia d’Italia con un profondo senso di fiducia nella vita. Il racconto presenta come una comunità popolare di paese affronta il periodo più drammatico della nostra ultima guerra, quello tra il 1943 e il 1945, e documenta come una volta che l’intera nazione si è disfatta dell’ubriacatura ideologica del fascismo in seguito all’esito fallimentare della guerra la “gente di campagna” sapeva che poteva fare affidamento solo sul “prepolitico”, sulla visione religiosa tradizionale della vita e sulla trama di rapporti parentali e vicinali intessuti di “buon senso” e di valori di solidarietà e amicizia. Così all’inizio, siamo nel settembre 1944, Nello appare come un giovane che non ne vuole sapere più della guerra e sogna una vita normale, sperando che il fronte cada presto e che gli Alleati liberino l’Italia settentrionale, ma che è ben consapevole della precarietà della situazione (così come della tracotanza dei tedeschi): è la conferma che la “sottile linea grigia” di coloro che in Italia semplicemente “attendevano” la fine della guerra dall’esito del conflitto militare degli eserciti organizzati non era costituita da gente “senza valori” (Nello è al
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paese in quanto “renitente” all’arruolamento nella Repubblica Sociale Italiana), ma da coloro che antepongono i valori della vita alle scelte politiche. Quando poi la realtà “costringe” a scegliere sia Nello sia i paesani sanno bene da che parte stare: dalla parte dell’umano, per cui si assiste ad episodi di furbizia (il cugino Edoardo), di sacrificio (la rinuncia alla fedina matrimoniale per salvare il figlio) e solidarietà (le spontanee forme di aiuto e indicazione che il fuggitivo riceve) che mostrano come si aiutino tutti coloro che della comunità sono “oppressi” dalla logica della violenza e della prepotenza politica. (Mirabile è l’episodio, documentato da una testimonianza di un partigiano cristiano, in cui si riporta che don Roncari «aveva nascosto sopra la sacrestia una famiglia di ebrei, papà, mamma, e una bambina che veniva allattata da una balia che veniva di nascosto dal prato, una certa Lina Merzi. Don Roncari aveva dato rifugio anche a un federale scappato da Modena, lo ospitava in una stanzetta di fronte alla sua, in canonica. Dunque si giocava a carte: da una parte io contro il fascista, dall’altra il prete contro l’ebreo. Incredibile, era l’umanità che vinceva»). Così si intessono i rapporti tra la comunità contadina e il mondo partigiano, sono rapporti di contiguità ma non di perfetta sovrapposizione (i contadini sono “naturaliter” dalla parte di chi sta per la libertà contro i fascisti e i tedeschi, e il testo fa cogliere bene come il movimento partigiano non sarebbe sopravvissuto senza la costante e consape-
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vole “copertura” informativa e logistica dei contadini) perché quella del partigianato è vista come una scelta possibile, ma non necessaria (è il caso ad esempio di Nello) e i partigiani sono “misurati” dai contadini proprio nella loro capacità di rispettare le diverse scelte di libertà e “rimproverati” per le scelte che potrebbero mettere in pericolo vite innocenti o per le azioni “inutili” (vedi l’episodio della morte di Cornelio alla fine della guerra). Naturalmente la vita di questa comunità non è tutta caratterizzata da atteggiamenti positivi, non si tacciono quindi gli episodi sgradevoli, come le leggerezze verso il “nemico” che costano caro agli abitanti di Pian della Festa, ma permane un clima di valorizzazione dell’umano più che di “odio” al punto che anche alcuni tedeschi sono ricordati per i loro gesti di umanità (come il capitano che ferma all’ultimo momento un’esecuzione). Cosa sosteneva questa gente, in particolare Nello? Certamente la trama degli affetti più prossimi (madre, famiglia, ragazza, ecc.), ma la forza interiore che la comunità continua a manifestare anche nei momenti più drammatici è ben sintetizzata dall’atteggiamento di Nello dopo che ha appena appreso che un amico non è riuscito a scappare dai tedeschi come lui: «Quasi senza saperlo si ritrovò a pregare per l’amico raccomandandolo alla Madonna. Solo così infatti egli aveva qualche possibilità di ritrovare la forza di vivere, nella preghiera detta da lui per qualcun altro. Sentendosi misteriosamente accolto e amato, poteva di nuovo amare la
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vita e desiderare di affrontarne i prossimi tremendi momenti». È il vissuto religioso che anima la piccola comunità e le dà la forza di riprendere il cammino dopo ogni prova e insieme fornisce il criterio di giudizio con cui guardare al dipanarsi degli avvenimenti e di attraversare i condizionamenti ideologici di ogni fase (è questo quel che permette al partigiano cristiano che aveva fatto parte di una Divisione Garibaldi di accettare anche i limiti dei suoi capi partigiani – erano tutti comunisti – e di concludere che il partigianato è stato per lui fondamentalmente “un’esperienza positiva di fratellanza”) e questo, ben più dei riferimenti al contesto internazionale e alle schermaglie dei diversi progetti politici, spiega come nel dopoguerra, il mondo contadino finirà per orientarsi prevalentemente verso una prospettiva politica democratica connessa ad un partito di ispirazione cristiana. Abbiamo bisogno di libri come questo per riscoprire, attraverso il “bagno” dell’incontro con i fatti del nostro passato, le nostre autentiche radici, come è stato per l’autrice, alla quale i fatti raccontati dallo zio Nello si sono rivelati «sorprendenti e drammatici, le persone che conoscevo rivelavano aspetti sconosciuti, scoprivo inaspettate qualità: i pregiudizi erano costretti a cedere di fronte alla realtà dei fatti». Andrea Caspani Storico dell’età contemporanea, direttore della rivista «Linea Tempo – Itinerari di ricerca storica e letteraria»
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Introduzione Perché scrivere dello zio Nello? Quando d’estate, bambina, negli anni ’50 si andava al “paesello”, la prima cosa che io e mia sorella facevamo, mentre ancora i genitori scaricavano i bagagli, era scendere dalle Portole in “centro” a salutare la zia Ernesta che abitava lì e che non vedevamo dall’anno precedente. Si saliva di corsa i tre gradini spalancando l’uscio che aveva la chiave nella toppa, si entrava in casa gridando: «Ciao zia, siamo arrivate!» «Ma chi siete, chi siete?», diceva lei tastandoci il viso giacché era diventata cieca. «Ma siamo noi!» «“Noi” chi?» «Le figlie di Mario», rispondevamo, meravigliate che non ci riconoscesse. «Ah!», esclamava contenta, «Mario!». Era il nipote più amato perché amico del suo unico figlio che un po’ gli assomigliava. Ed era un grande e affettuoso abbraccio. Ernesta morì ma noi, un po’ più grandi, andavamo, sempre appena arrivate, a vedere nella stessa
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casa se suo figlio, con la sua famiglia, vi era giunto per le vacanze estive. Era divertente Nello (anche lui chiamavamo “zio”) e stavamo volentieri in sua compagnia. Che delusione scoprire che non c’era ancora! E che eccitazione se invece ci aveva preceduto! Lo zio raccontava storie incredibili, di tutti i generi. Un giorno passammo da casa sua e trovammo un biglietto sulla porta chiusa: «Sono nelle mie piantagioni». La sera chiedemmo spiegazioni. Lo zio sosteneva di possedere in località Moie, tra boschi di conifere, una piantagione di banani. Non solo, ma sosteneva che dei negri lavoravano per lui raccogliendo e poi raddrizzando le banane con un martello speciale. Questo tipo di lavorazione le rendeva uniche al mondo per cui il guadagno era notevole. Era logico che dovesse controllare spesso la situazione! Noi eravamo stupite e ammaliate. Non ricordo quando mi venne il primo sospetto che fossero storie inventate ma non fu proprio presto. Lo zio era convincente e di lui ci fidavamo. Anche i miei figli, da bambini, ebbero la fortuna di godere della sua amicizia e anch’essi credevano alle storie che raccontava. In località Moie c’erano ancora le piantagioni. Angela desiderava visitarle, Pietro voleva vedere i negri seminudi che lavoravano.
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«Ma come fanno a essere seminudi se qui fa freddo?», chiedeva perplesso. Giuseppe era sicuro che le mucche nere, qualora fossero munte, dessero il caffè, quelle bianche il latte e quelle marroni il caffelatte. Niente di strano se lo diceva lo zio Nello. Ormai ero madre da qualche anno quando lo zio cominciò a parlare di quella storia della guerra. I fatti erano sorprendenti e drammatici, le persone che conoscevo rivelavano aspetti sconosciuti, scoprivo insospettate qualità: i pregiudizi erano costretti a cedere di fronte alla realtà dei fatti. Fui “presa” dal racconto e decisi di scriverlo perché non andasse perduto. Lui ne lesse una buona parte e ne fu colpito commentando: «Sì, mi ritrovo». Solo ora l’ho terminato e nel frattempo lo zio è nato al Cielo, ma sono convinta che se lo leggesse per intero direbbe: «Sì, mi ritrovo».
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