Narrare la storia. L'età moderna (A. Grittini, L. Franceschini, R. Ronza)

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l’età moderna narrare la storia

Ogni capitolo è aperto da un’immagine a tutta pagina e da un’introduzione, destinata soprattutto ai docenti, nella quale si mettono a fuoco i temi principali contenuti nel testo che segue.

Al termine del testo narrativo vi è un ampio apparato di schede di approfondimento di diversa difficoltà. I gradi di difficoltà sono indicati con dei simboli (da uno a tre) nell’indice generale in fondo al libro.

Il testo narrativo si suddivide in paragrafi brevi e ben titolati, accompagnati da glossari sui termini rari o difficili presenti e da immagini di grandi dimensioni che supportano la narrazione.

Le carte geografiche, arricchite nella nuova edizione, si presentano chiare e di facile lettura.

Al termine di ogni capitolo si trovano due pagine di esercizi di verifica dell’apprendimento. Esercizi che facilitano la comprensione si trovano anche a fianco del testo.

Al termine di ogni capitolo vi è un riassunto dei punti salienti del racconto, scritti con carattere TestMe per facilitare la lettura ad alunni con DSA.

LEGENDA DELLE ICONE

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• grado di difficoltà delle schede di approfondimento indicato nell’indice finale:

1 simbolo = basso

2 simboli = medio

3 simboli = alto

Schede di approfondimento:

• mettiamo a fuoco

• visitiamo i luoghi della storia

• il percorso delle parole

• il cammino della tecnica e della scienza

• non tutti sanno che

• partiamo dalle fonti

• protagonisti

• leggiamo l’arte

• spunti per l’educazione civica

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Alessandro Grittini · Luca Franceschini · Robi Ronza Narrare la storia

Il Medioevo

L’età moderna

L’età contemporanea

I tre manuali sono corredati dai fascicoli

Percorsi personalizzati per una didattica inclusiva a cura di Alessandro Grittini

realizzati con il carattere TestMe per facilitare la lettura ad alunni con DSA

Alessandro Grittini ha scritto per intero il primo volume e i capitoli 1, 2, 4, 5, 9, 12, 13 del secondo volume, nonché varie schede di approfondimento di tutti e tre i volumi.

Luca Franceschini ha scritto i capitoli 3, 6, 7, 8, 10, 11, 14, 15, 16 del secondo volume e per intero il terzo volume, nonché alcune schede di approfondimento del secondo e del terzo volume.

Robi Ronza ha coordinato e supervisionato l’intero progetto, contribuendo con note, aggiunte e schede integrative, soprattutto quelle relative al progresso tecnologico e scientifico. Ha anche scritto le conclusioni.

I riassunti al termine di ogni capitolo sono scritti con il carattere TestMe per facilitare la lettura ad alunni con DSA.

Grazie alla collaborazione con Seleggo, la versione digitale ottimizzata di questo libro per studenti dislessici può essere ottenuta in download gratuito registrandosi al sito www.seleggo.org

Alessandro Grittini, Luca Franceschini, Robi Ronza

Narrare la storia

Volume 2: L’età moderna www.itacaedizioni.it/narrare-la-storia-2

Prima edizione: giugno 2023

Prima ristampa: giugno 2024

© 2023 Itaca srl, Castel Bolognese

Tutti i diritti riservati

ISBN 978-88-526-0748-6

Progetto grafico: Andrea Cimatti

Ricerca iconografica e cartine: Stefano Bombelli

Illustrazioni e cartine pp. 57, 63, 219, 303, 361: Daniela Blandino

Cura editoriale: Cristina Zoli

Stampato in Italia da Modulgrafica Forlivese, Forlì (FC)

Col nostro lavoro cerchiamo di rispettare l’ambiente in tutte le fasi di realizzazione, dalla produzione alla distribuzione. Utilizziamo inchiostri vegetali senza componenti derivati dal petrolio e stampiamo esclusivamente in Italia con fornitori di fiducia, riducendo così le distanze di trasporto.

narrare la storia

l’età moderna

consulenza didattica

Maria Silvia Riccardi

Federico da Montefeltro
Olio su tavola di Piero della Francesca (1465-72 circa), Galleria degli Uffizi, Firenze

Capitolo 1

La civiltà del Rinascimento

Una nuova sensibilità e una nuova immagine dell’uomo

C’è un dipinto che esprime in maniera molto efficace la nuova sensibilità diffusa nelle corti italiane tra la fine del XV e la prima metà del XVI secolo. È il ritratto di Federico da Montefeltro, duca di Urbino, realizzato attorno al 1465 da Piero della Francesca. In esso si raffigura di profilo questo principe che appare come un uomo sicuro, calmo, riflessivo, sereno, imperturbabile. Tiene lo sguardo rivolto davanti a sé, come se stesse pensando a cosa fare l’indomani. La sua figura è massiccia e imponente, occupa quasi tutto il quadro; sullo sfondo si intravede un paesaggio dolce e gradevole: probabilmente è il territorio su cui lui esercita il suo dominio e di cui

è il centro. Anche il suo abito e il suo copricapo indicano questo: sono infatti di color porpora, tinta che tradizionalmente simboleggiava la gloria e il potere. Tutto fa pensare quindi a un uomo di successo, potente, fiero e consapevole del suo valore, un “divo”, diremmo oggi, che sembra ergersi con i suoi mezzi (l’intelligenza e la volontà) al di sopra della realtà e dominarla. Nulla, nel dipinto, suggerisce l’idea della debolezza o evoca l’immagine della morte, della paura, dell’aldilà. Quanta diversità rispetto alle danze macabre del secolo precedente! Una rinnovata fiducia nell’uomo e nelle sue capacità, un entusiasmo per quello che con la sua intelligenza e la sua creatività egli riesce a realizzare nella vita: queste sono le caratteristiche della nuova epoca che si va aprendo, soprattutto in Italia, alle soglie del XV secolo, epoca a cui verrà dato successivamente il nome di Rinascimento.

AL TERMINE DEL CAPITOLO

Schede di approfondimento

• La stampa a caratteri mobili: un’invenzione che ha cambiato la storia

• C’è modo e modo di leggere i libri antichi: la nascita della filologia

• Nel Rinascimento ricompare il pensiero magico

• Studiare il corpo umano: con Andrea Vesalio nasce l’anatomia

• Due testimonianze della nuova cultura umanistico-rinascimentale

• È fondata la critica al Medioevo?

Raccontiamo in breve

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per non perdere il filo

1 · Le corti: nuovi luoghi in cui si produce cultura

Mecenatismo

Politica attuata da principi e sovrani che favorivano e proteggevano artisti, studiosi e letterati, promuovendo così, spesso con intenti propagandistici, lo sviluppo dell’arte e della cultura nelle loro corti. Il termine deriva da Gaio C. Mecenate, amico e consigliere di Ottaviano Augusto, che per primo adottò questa politica nell’antica Roma.

Perché le corti diventarono i nuovi centri di elaborazione culturale?

Classici

Termine con cui si definivano i testi antichi, prodotti nell’ambito della cultura greca e latina e contenenti elementi ritenuti di valore e di interesse universale, tali da poter essere utilizzati come modelli e fonti di ispirazione.

Perché furono importanti i collegi?

La centralità delle corti e la crisi delle università

Abbiamo già accennato nell’ultimo capitolo del precedente volume all’importanza che ebbero le corti in questo periodo, oltre che sul piano politico, anche nel promuovere la cultura. Al loro interno si praticò un diffuso mecenatismo , che le portò ben presto a sostituire le università come punti di riferimento per letterati, artisti e studiosi di ogni tipo. Queste ultime, infatti, apparivano sempre più chiuse nella trasmissione di un sapere ancora legato al Medioevo e ritenuto da molti rigido e superato. Nelle corti, al contrario, sembrava si respirasse un’aria di maggiore libertà e gli intellettuali potevano discutere e confrontarsi sui temi più svariati, almeno fino a quando lo permetteva il signore o il principe. Le corti dettavano il gusto, le regole del comportamento, l’ideale a cui gli uomini dell’alta società di allora miravano. Alcuni testi scritti in questo periodo, quali Il Cortegiano di Baldassarre Castiglione, del 1513, e Il galateo di Monsignor Della Casa, di alcuni decenni più tardi, e che esaltavano le regole del ben vivere a corte, ebbero un grandissimo successo: divennero una specie di catechismo del perfetto cortigiano.

Accademie e collegi

All’interno delle corti in particolare sorsero le accademie (la più importante fu quella di Firenze, chiamata Platonica). Si trattava di ritrovi stabili tra uomini di cultura che insieme discutevano, liberamente e senza alcuno scopo di tipo pratico, dei più svariati argomenti, mettendo a confronto le loro opinioni. In queste accademie si fece strada una nuova cultura più legata alla filosofia platonica, mentre nelle università prevaleva ancora una cultura, detta anche Scolastica, legata al pensiero dell’altro grande filosofo antico Aristotele, ripreso nel Medioevo da san Tommaso d’Aquino. Molto importanti furono anche i collegi, luoghi in cui i giovani vivevano in comunità tra di loro e con i loro insegnanti, studiando i testi classici e ricevendo un’educazione di alto livello, che puntava alla formazione dell’uomo colto, senza avere di mira, come era per le università, il raggiungimento di un titolo di studio per avviarsi a una professione.

L’interesse per la cultura classica…

Tra gli studiosi e gli intellettuali che animavano la vita delle corti e delle accademie si sviluppò un interesse sempre più vivo per la cultura classica. Nelle grandi opere degli antichi autori latini e, come vedremo, in un secondo momento greci, essi ritrovavano i segni di una civiltà che, più di ogni altra, a loro dire, celebrava in modo appassionato l’uomo, valorizzandone ed esaltandone pienamente tutte le capacità e le qualità.

… e il distacco da quella medievale

Viceversa si sentivano lontani dalla cultura medievale, elaborata per lo più nei monasteri, che ritenevano troppo incentrata su una visione ascetica della vita che, secondo loro, impediva all’uomo la piena realizzazione di sé e quindi la felicità. Alla cultura classica, quindi, rivolgevano la loro attenzione; da essa volevano imparare e ad essa intendevano ispirarsi. Per queste ragioni molti di loro, tra i più importanti Francesco Petrarca, Poggio Bracciolini, Lorenzo Valla, Pico della Mirandola, facevano a gara a recuperare i testi antichi dimenticati, magari rintracciandoli nelle biblioteche dei monasteri. Una volta recuperati questi testi, li studiavano criticamente, ne correggevano eventuali errori di trascrizione, li facevano conoscere agli altri studiosi.

Ludovico III Gonzaga, marchese di Mantova, con la sua corte Affresco di Andrea Mantegna (1471-1474), Camera degli sposi, Palazzo Ducale, Mantova

Ascetismo

Concezione della vita come ricerca della perfezione spirituale, rinunciando ai piaceri del corpo e della carne.

Perché gli umanisti si sentivano lontani dalla cultura medievale?

Scuola di Atene

Affresco di Raffaello (1509-10 circa),

Stanza della Segnatura, Città del Vaticano

In questa straordinaria opera sono raffigurati i più grandi filosofi e scienziati dell’antichità.

Perché si chiamavano umanisti

Dall’interesse per l’antica civiltà greca e latina trae origine il termine umanisti che venne attribuito a questi studiosi. Esso derivava dall’espressione humanae litterae che veniva usata per indicare la letteratura e più in generale la cultura classica, in contrapposizione alle “lettere divine” che consistevano nello studio della Bibbia e della teologia, importantissime negli studi monastici e medievali.

Il ritorno del latino classico…

Anche sul piano della lingua gli umanisti assunsero una posizione critica verso la cultura medievale: rifiutarono in gran parte il volgare (ricordiamo che il capolavoro di Dante Alighieri, La Divina Commedia era stato scritto proprio in questa lingua), ma anche il latino medievale, ritenuto troppo rozzo e imbarbarito. Pur continuando talvolta a fare uso dell’italiano, privilegiarono nei loro scritti più importanti il latino classico, quello usato dai grandi autori dell’età

romana quali Cicerone e Virgilio. Soprattutto in questa lingua comunicavano tra loro, si scambiavano conoscenze, si trasmettevano lettere: il latino divenne una sorta di lingua internazionale degli intellettuali e dei letterati del tempo.

… e la scoperta del greco

A partire dal 1453 inoltre, in seguito alla caduta di Costantinopoli, si cominciò anche in Occidente e nel nostro paese a conoscere la lingua greca, da molti secoli quasi del tutto sconosciuta. Ciò fu dovuto al fatto che molti letterati e intellettuali bizantini, che parlavano greco, per sfuggire ai turchi erano riparati in Italia dove avevano trovato ospitalità nelle varie corti. Qui poterono incontrare i letterati italiani e far conoscere la loro lingua e i loro testi. In tal modo i testi greci poterono finalmente essere letti nella loro lingua originale e non più attraverso traduzioni, magari di provenienza araba. Perché anche in Italia a partire dal 1453 fu conosciuta la lingua greca?

Perché fu importante l’invenzione della stampa a caratteri mobili?

L’invenzione della stampa a caratteri mobili

La divulgazione delle opere e delle ricerche degli umanisti fu favorita in modo decisivo da un’importantissima invenzione: la stampa a caratteri mobili creata in Germania, attorno alla metà del secolo, da Johannes Gutenberg.

Questa invenzione permise di produrre libri con maggior facilità e quindi di diffondere più velocemente e ampiamente, rispetto a prima, le conoscenze e la cultura. Nel giro di pochi decenni, sul finire del XV secolo, furono centinaia le tipografie che sorsero in tutta Europa e anche l’Italia raggiunse in questo campo straordinari livelli soprattutto grazie all’opera dello stampatore veneziano Aldo Manuzio.

2 · L’Umanesimo

Una nuova mentalità:

l’uomo è il capolavoro della creazione…

Perché nelle opere degli umanisti emerge una nuova concezione dell’uomo?

Nelle opere prodotte dagli umanisti gli studiosi posteriori hanno rintracciato i segni di una nuova sensibilità e di una nuova cultura che hanno indicato col termine Umanesimo. Da tali opere infatti emerge un rinnovato entusiasmo nei confronti dell’uomo, una grande fiducia nelle sue capacità e nelle sue possibilità. Certamente anche nel Medioevo, ad esempio nell'età comunale, si era manifestata una visione positiva dell'uomo ma, soprattutto nel XIV secolo, con l'imperversare drammatico di guerre, pestilenze e carestie, la situazione era cambiata, erano prevalse la paura e l'ossessione per la morte. Ora, passati quei tragici momenti, gli artisti e i letterati affascinati dalla riscoperta della cultura classica, ritornarono a guardare alla vita con ottimismo, come a un grande campo di espressione della genialità, della creatività e dell’attivismo dell’uomo. Questi occupava, nella loro visione, un posto sempre più centrale nel creato; era celebrato come il capolavoro di Dio a cui assomigliava grazie all’intelligenza e alla volontà, che Dio stesso gli aveva donato creandolo.

… e l’artefice del proprio destino

Apparentemente si trattava di idee che non si discostavano dalla tradizione: nella cultura cristiana più autentica che si esprimeva nei testi della Chiesa, nei capolavori artistici e nei trattati filosofici e teologici medievali, la grandezza dell’uomo era sempre stata riconosciuta e a lui si riservava un posto importante nella creazione. Tuttavia negli scritti degli umanisti, in una parte di loro almeno, si notava un accento nuovo, si usavano espressioni e immagini nuove che facevano percepire qualcosa di diverso. Si sosteneva che l'uomo, oltre ad essere il centro del creato, ne fosse in qualche modo

anche il dominatore, che lui avesse un potere sul mondo molto più grande di quello che si pensava nel passato, quasi fosse simile a Dio (Francesco Bacone, un filosofo inglese vissuto a cavallo tra XVI e XVII secolo, parlerà di un regnum hominis, un “regno dell’uomo” sulla natura). Talvolta l'uomo era definito “padrone” e “creatore” per la sua capacità di controllare e manipolare, con la scienza e con la tecnica, la realtà, la natura. Gli si riconosceva inoltre una libertà quasi senza limiti e il potere di costruire da sé e senza l’aiuto di alcuno, nemmeno di Dio, la propria vita, secondo l’espressione faber fortunae suae, cioè “artefice del proprio destino”. Erano espressioni che certo non indicavano un rifiuto esplicito di Dio, ma che, in qualche modo, lo facevano sentire sempre più lontano dalla vita umana.

“Del cielo è degno l’uomo che fa grandi cose sulla terra”

Gli umanisti pensavano inoltre che l’uomo dovesse impegnarsi con tutte le forze per mettere a frutto nella vita le proprie capacità, le proprie qualità, realizzandosi, così, pienamente nelle varie attività che svolgeva. Qui stava la virtù dell’uomo, non certo in una vita fatta di penitenze e rinunce. In molti loro testi gli umanisti, in parte

Antica stamperia con il metodo Gutenberg

Johann Gutenberg ha introdotto due grandi innovazioni nell'arte della stampa: i caratteri mobili e il torchio a stampa che si vede qui in primo piano.

Epicureismo

Corrente di pensiero risalente al filosofo greco epicuro (342-270 a.C.) che indicava come scopo supremo della vita il godimento dei piaceri terreni.

influenzati dall’epicureismo antico che alcuni di essi stavano riscoprendo, criticavano, come detto, l’idea ascetica della vita sviluppata in ambiente monastico. Era sbagliato, secondo loro, rinunciare a godere dei piaceri e della bellezza che la vita offre, in attesa di una qualche ricompensa dopo la morte. Come scrive Lorenzo il Magnifico in un celebre ritornello di una sua poesia dai toni scherzosi, ma dal significato profondo, occorre cercare in ogni istante il godimento perché «di doman non c’è certezza».

Perché cambia la concezione del paradiso?

In realtà questi scrittori non negavano l’importanza del paradiso e la ricerca della felicità eterna, ma ritenevano che questi non fossero il premio che ricompensava una vita fatta di sacrifici e rinunce, bensì l’approdo, il punto di arrivo di un’esistenza vissuta con intensità, alla ricerca di imprese grandi e memorabili. Come scrisse sinteticamente l’umanista fiorentino Coluccio Salutati: «Del cielo è degno l’uomo che fa grandi cose sulla terra».

L’importanza di raggiungere la fama

Riflesso di questo modo di concepire la vita era l’importanza data alla ricerca della fama, di una gloria imperitura presso i posteri. L’uomo realizzato conquistava, con le sue grandi imprese, una fama che, ad esempio, si manifestava attraverso dei ritratti che lo immortalavano o attraverso le imponenti statue equestri e i grandi mausolei funebri che ne prolungavano nel tempo il ricordo.

Una visione sicuramente minoritaria…

Élite

Termine di origine francese indicante una cerchia ristretta di persone considerate superiori, per qualità o posizione sociale, rispetto al resto del popolo.

Perché si dice che quella degli umanisti fu una visione minoritaria?

Queste erano idee condivise da una ristretta élite di intellettuali, che vivevano nelle corti, soprattutto italiane, e non raggiunsero mai il popolo, anche perché i testi in cui erano espresse erano per lo più scritti in latino, lingua sconosciuta alla gente comune in gran parte analfabeta. D’altro canto un tipo di vita come questo, tutto volto al compimento di grandi imprese, era consentito solo a coloro che erano ricchi, ai principi, ai signori delle corti, ai comandanti militari, non certo ai poveri contadini.

… ma che nei secoli successivi avrà grande sviluppo

Nei secoli successivi però queste idee si affermeranno in tutta la cultura europea e si diffonderanno anche presso il popolo, fino a diventare un modo comune di vedere la vita. Si può quindi dire a ragione che nell’Umanesimo si evidenziano i primi segni della cultura e della mentalità moderna.

Padova Mantova

Pavia

Venezia

Ferrara

Urbino Firenze

Mar Mediterraneo

3 · Che cosa si intende per Rinascimento

Perché si parla di Rinascimento

Alle soglie del Cinquecento le corti italiane conobbero uno straordinario fervore creativo, grazie soprattutto all’attività di grandi artisti, che affiancavano l’opera di studio dei classici portata avanti dagli umanisti. Nacque così quel periodo artistico che, a partire dal XIX secolo, verrà chiamato Rinascimento. Questo termine, nell'intenzione di chi l'ha ideato, sta a significare che, dopo il Medioevo visto come un'epoca oscura e decadente, l'arte e la cultura ora sarebbero “rinate” in maniera splendida. Questo giudizio non è del tutto vero. Non è vero che nel Medioevo non si fossero prodotte opere d'arte di grande valore e bellezza (si pensi ad esempio a Giotto o alle grandi cattedrali romaniche e gotiche). È vero però che gli artisti del Cinquecento non erano affascinati dell'arte medievale e la sentivano estranea ai loro gusti. Preferivano perciò l'arte classica. Tra l'altro è proprio in ambiente umanistico che, a partire dalla seconda metà del XV secolo, fece la sua comparsa il termine Medioevo, media aetas, a significare quella che veniva vista come un'età di mezzo tra la grande epoca del mondo antico e la nuova grande epoca che si stava delineando.

La civiltà del Rinascimento in Italia

Corti rinascimentali

Città

Principali università

Centri di produzione libraria Accademie

Roma
Milano
Napoli
Catania
Salerno

Perché papa Pio II fece edificare Pienza?

Si cerca di realizzare la “città ideale”

Una delle arti che meglio espresse questa “rinascita” fu l’architettura. In questo campo furono ripresi i modelli classici e si realizzarono opere di grande valore e bellezza, frutto di attenti studi matematici e di un accurato lavoro di progettazione complessiva. Secondo gli architetti rinascimentali, infatti, la città, con i suoi edifici, piazze, vie, quartieri, doveva essere progettata in modo compiuto e secondo forme geometricamente perfette, che trasmettessero l’idea di una bellezza per così dire “ideale” e non, come avveniva in precedenza, senza alcun progetto complessivo ma solo per rispondere di volta in volta alle esigenze di vita e di lavoro dei suoi abitanti.

Due città a confronto: Siena e Pienza

Due città toscane, l’una molto vicina all’altra, si possono prendere come realizzazioni esemplari di questi due modi di pensare: la medievale Siena e la rinascimentale Pienza. La prima fu edificata in vari secoli ed è caratterizzata da vie strette e tortuose, convergenti a raggiera verso la grande piazza centrale, la Piazza del Campo, dove anticamente si svolgevano i mercati e, con lavori successivi, fu poi realizzato il palazzo del governo cittadino. La seconda invece fu fatta erigere quasi dal nulla in pochi anni da papa Pio II, il nobile e umanista Enea Silvio Piccolomini, con l’intento di realizzare il suo modello di città perfetta, una città che si snodava armoniosamente con edifici e vie assolutamente regolari, attorno ad una piazza centrale di grande suggestione.

La ricerca della monumentalità

Altra caratteristica delle realizzazioni architettoniche del tempo fu la monumentalità: gli edifici dovevano esprimere con la loro imponenza la grandezza dei signori che vi abitavano, mentre dopo la morte grandi mausolei e monumenti funebri dovevano ospitarli e consacrare davanti a tutti la loro gloria eterna.

In pittura si sviluppa l’arte del ritratto e l’uomo è posto al centro della realtà

Perché il ritratto e l’uso della prospettiva esprimono bene la nuova mentalità umanisticorinascimentale?

In pittura continuò e si perfezionò la tendenza, già iniziata con Giotto, a rappresentare l’essere umano inserito nell’ambiente quotidiano e con tratti realistici che ne mettessero in luce le caratteristiche fisiche e morali. Questo tipo di raffigurazione assunse la forma del ritratto con cui si rappresentavano e si celebravano non più solo soggetti religiosi (santi o personaggi biblici), ma anche signori, nobili e principi, le nuove figure dominanti della società. Inoltre venne perfezionata la tecnica della prospettiva. Si cercò cioè di rappresentare esattamente i corpi e le figure nello spazio, e quindi nelle dimensioni e nelle proporzioni che essi hanno rispetto all’occhio che li guarda. In tal modo si rappresentava anche la profondità e si

dava importanza alla dimensione orizzontale, e quindi terrena, della vita: l’uomo, così, veniva visto mentre agisce sulla terra dove è il protagonista.

La politica come “scienza del potere”

Anche la politica fu influenzata da questa nuova visione dell’uomo. Il fiorentino Niccolò Machiavelli ne fece una scienza, fondata sullo studio attento dei fatti, da cui il principe potesse trarre insegnamenti utili per raggiungere e consolidare il proprio potere. Questo obiettivo doveva stare al di sopra di tutto e, per raggiungerlo, il principe poteva fare ricorso a tutti i mezzi, anche alla violenza e all’inganno (doveva essere – questa era l’espressione da lui usata –sia leone che volpe), e non doveva fermarsi di fronte a nulla, neanche alle leggi della morale e della religione. La politica cioè doveva essere autonoma da tutto. Queste idee furono a quel tempo contestate e rifiutate, ma lasceranno un segno profondo nel pensiero politico europeo dei secoli successivi.

Perché per Machiavelli la politica doveva essere una scienza autonoma da morale e religione? Pianta di Palmanova, città-fortezza edificata in Friuli dai veneziani nel 1593 Incisione del XVII secolo

La pianta mette in evidenza la grande perizia geometrica con cui è stata progettata la città.

Il disegno originale

della balestra gigante progettata da Leonardo da Vinci

Codice Atlantico, foglio 149 recto, circa 1485-1492. Veneranda

Biblioteca Ambrosiana, Milano

Questo strumento di guerra, mai realizzato, doveva servire a scagliare grandi dardi creando panico e spavento fra i nemici.

La genialità che si esprime nella tecnologia: Leonardo da Vinci

In campo scientifico, il pensiero rinascimentale non produsse grandi risultati. Ci fu un certo interesse per lo studio della natura, attraverso una disciplina, l’alchimia, che si andò diffondendo in questo periodo, ma che non aveva solide basi scientifiche ed era più assimilabile a forme di pensiero magico. Interesse ci fu anche per lo studio dell’anatomia, grazie all’opera del fiammingo Andrea Vesalio e del nostro Leonardo da Vinci. Quest’ultimo fu uno dei personaggi più rappresentativi della cultura rinascimentale. Genio dai molteplici interessi, seppe raggiungere vertici straordinari in tutte le attività a cui si dedicò. Fu grande pittore, scultore, architetto, regista di feste e parate scenografiche. Si occupò di studi matematici, anatomia, idraulica, geometria, meccanica, ottica, geologia. Di tutto questo ci lasciò migliaia di pagine in decine di codici, vergati a specchio (cioè scritti da destra a sinistra poiché era mancino), e corredati da straordinari disegni. L’aspetto più interessante è la sua grande inventiva nella progettazione: dai disegni si ricavano progetti di macchine allora del tutto avveniristiche, ma realizzate poi nei secoli successivi come apparecchi volanti, sottomarini, leve e ingranaggi per la trasmissione delle forze, mitragliatrici e carri armati, ponti girevoli, chiuse e sistemi di irrigazione e altro ancora.

Il tema della fortuna: l’ottimismo rinascimentale si incrina Nelle opere di significativi autori degli inizi del Cinquecento cominciò a farsi strada un tema importante e nuovo, quello della fortuna. Sia Machiavelli che Ludovico Ariosto, grande poeta vissuto alla corte di Ferrara e autore dello straordinario Orlando furioso, si resero conto che l'uomo non è sempre padrone del suo destino e che il risultato delle sue azioni è spesso determinato da altro, da ciò che essi definirono la fortuna. Ariosto in particolare non mancò di rilevare come il destino dell’uomo sia totalmente in balia del caso. L’ottimismo e la fiducia nell’uomo presenti nel pensiero rinascimentale cominciarono così, nell’opera di questi e di altri autori, ad incrinarsi. È il segno di un clima che rapidamente, verso la metà del XVI secolo, stava cambiando.

Nuovi avvenimenti irrompono sulla scena culturale europea Ci furono dei grandi avvenimenti, spesso tragici, che probabilmente favorirono la fine di questo ottimismo. Sono avvenimenti di cui parleremo ampiamente nei prossimi capitoli e che qui ci limitiamo ad accennare. Innanzitutto la scoperta dell'America nel 1492, che cambiò l'economia europea portando all'impoverimento l'Italia, e mise gli europei in contatto con nuove popolazioni che vivevano in modi completamente diversi dal nostro. Poi l'elaborazione della teoria eliocentrica dell'astronomo polacco Nicolò Copernico che, mettendo il sole e non più la terra al centro del sistema dei pianeti, sembrava andare contro la concezione degli umanisti che l'uomo fosse al centro dell'universo. In campo religioso vi fu in Germania la ribellione contro il papa di Martin Lutero, ribellione che portò alla rottura dell'unità religiosa dell'Europa occidentale e a feroci e lunghe guerre di religione. Infine vi furono guerre che sconvolsero l'Italia e indebolirono o misero fine alle corti signorili. In una di queste vi fu, nel 1527, il terribile saccheggio di Roma da parte dei feroci mercenari tedeschi al servizio dell'imperatore Carlo V che portarono morte e devastazione nella città più splendida del Rinascimento.

4 · La diffusione della cultura umanistico-rinascimentale

Il ruolo di Roma e dei papi nel promuovere l’arte e la cultura

Nel primo volume abbiamo già ricordato quali furono le corti italiane che si fecero promotrici del grande sviluppo artistico e culturale di questo periodo. Qui vogliamo sottolineare l’importanza e il ruolo che anche Roma e i papi ebbero in tale processo. Tra la seconda metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento si ebbero pontefici, spesso moralmente corrotti e lontani dalla purezza

Perché nelle opere di Machiavelli e Ariosto l’ottimismo rinascimentale comincia a incrinarsi?

Salone Sistino, Città del Vaticano

Antica sede, realizzata da papa Sisto V, della Biblioteca Apostolica Vaticana istituita da Nicolò V.

evangelica, che però, comportandosi da veri e propri sovrani, praticarono il mecenatismo, abbellirono la città di splendidi palazzi, piazze e viali, incrementandone lo splendore e lo sfarzo, istituirono biblioteche e accademie. Tra gli altri ricordiamo Paolo II che fece aprire la prima tipografia a Roma; Sisto IV che sviluppò la Biblioteca Vaticana, sistemò con l’aiuto del grande architetto Leon Battista Alberti la struttura della città, eresse la cappella che ancor oggi porta il suo nome e nella quale vengono eletti i papi; Giulio II che affidò al Bramante la costruzione dell’attuale basilica di San Pietro, a Michelangelo la decorazione della Cappella Sistina, a Raffaello quella delle Stanze Vaticane. Lavorarono inoltre presso i vari papi altri grandi artisti; tra questi Verrocchio, il Perugino, Botticelli, il Pinturicchio, il Ghirlandaio, Luca Signorelli, il Pollaiolo, Filippo Lippi, Sansovino e per un breve periodo anche Leonardo da Vinci. Il mecenatismo dei papi e lo splendore di Roma s’interruppero, come detto, nel 1527 a causa della devastazione e del saccheggio della città ad opera delle truppe imperiali.

Dall’Italia all’Europa

La civiltà umanistico-rinascimentale, nata in Italia, rimase per un certo periodo un fenomeno prevalentemente italiano. Solo in un secondo tempo si diffuse anche oltre le Alpi, in particolare in

Francia e Inghilterra, ma non toccò profondamente l’Europa settentrionale. Il mondo tedesco, dove pure è fiorita una cultura umanistica di alto livello, rimase piuttosto estraneo allo splendore del Rinascimento. Abituati ad una concezione austera e rigorosa della vita, i tedeschi faticavano ad accettare lo splendore e lo sfarzo delle corti italiane. In particolare provavano una certa insofferenza e ostilità nei confronti della sede papale: la corte del papa a Roma era giudicata da loro troppo mondana e corrotta e questa avversione, come vedremo, contribuirà non poco all’esplosione e alla diffusione della riforma protestante.

Un fenomeno comunque elitario

Anche il Rinascimento fu, come l’Umanesimo, un fenomeno elitario, limitato alle corti e a coloro, prevalentemente nobili, che le frequentavano. La cultura e la mentalità che ne derivarono, come già detto, rimasero estranee al popolo, che continuava a vivere secondo la tradizione e la mentalità medievale. Anche la ricchezza e lo sfarzo attraverso cui il Rinascimento si esprimeva rimasero prerogativa di pochi, nobili e ricche famiglie borghesi. A riprova di ciò è il fatto che, come alcuni studiosi hanno appurato, nelle città il 50% della ricchezza disponibile era nelle mani di solo il 10% della popolazione. Perché il Rinascimento rimase un fenomeno elitario?

METTIAMO A FUOCO

La stampa a caratteri mobili: un’invenzione che ha cambiato la storia

Più persone possono avere accesso alla cultura

Il grande sviluppo della cultura nel Rinascimento è legato alla diffusione di una nuova tecnica di stampa, detta a caratteri mobili, che si sviluppò a partire dalla seconda metà del XV secolo. Prima di questa invenzione la cultura era riservata a un gruppo ristretto di persone, quelle poche che potevano avere a disposizione i libri, molto rari e costosi, frutto del lungo e paziente, ma anche lento, lavoro degli amanuensi. Ora invece, con questa nuova tecnica, la produzione di libri divenne più veloce, i testi in circolazione aumentavano e anche il loro costo diminuiva. Da questo momento in poi più persone poterono permetterseli e quindi avere accesso alla cultura scritta. Si può perciò con ragione affermare che la stampa sia una delle invenzioni che hanno cambiato il corso della storia; possiamo paragonarla, forse, a quella dell’informatica avvenuta negli ultimi decenni.

Un’invenzione che viene da lontano

Per la verità la stampa non nacque in europa. era già nota e utilizzata in Cina fin dal VI secolo d. C. Qui si usava la tecnica della xilografia (dal greco xìlos, “legno”, e grafìa, “scrittura”) che si realizzava incidendo in rilievo delle tavolette di legno (matrici) con i segni che si volevano stampare; poi si inchiostravano queste tavolette e si premevano su fogli di carta o di seta su cui i segni rimanevano impressi. Col tempo questa tecnica giunse in Occidente dove, sul finire del Trecento, cominciò ad essere usata soprattutto per riprodurre immagini religiose, scene della Bibbia (si diffusero in particolare le “bibbie dei poveri” fatte di raccolte di disegni di episodi della storia sacra), calendari, manifesti. era però una tecnica molto dispendiosa. Occorreva infatti molto tempo per preparare le matrici che non potevano essere riutilizzate per altre stampe differenti e non potevano nemmeno essere corrette o modificate.

La geniale invenzione di Gutenberg

Fu a questo punto che intervenne Johannes Gutenberg, un geniale artigiano-inventore nato a Magonza in Germania sul finire del Trecento. Gutenberg cercò di ovviare a questo problema incidendo i singoli segni su piccoli parallelepipedi di piombo (il legno venne sostituito perché più fragile e soggetto a deformarsi). Questi bastoncini venivano accostati per formare parole, frasi, pagine, contenute entro cornici rettangolari. Queste “pagine” di metallo venivano inchiostrate e premute sul foglio mediante un torchio. In caso di errori, si poteva intervenire subito per apportare correzioni e poi si procedeva alla stampa in serie del numero di copie richieste della stessa pagina. Al termine la pagina veniva “smontata” e i caratteri riutilizzati per comporre altre pagine. Non si trattava naturalmente di una tecnica semplice. Occorrevano artigiani capaci di fondere il piombo, altri capaci di comporre i testi, e quindi dotati di un certo grado di istruzione: secondo gli statuti del tempo era per loro obbligatorio conoscere il latino, in cui erano scritti molti testi che dovevano stampare. Occorreva infine disporre del torchio. Nel complesso quindi si trattava di un’organizzazione quasi industriale, che richiedeva disponibilità di denaro da investire, anche se poi i risultati (e i profitti) potevano essere enormi. Lo stesso Gutenberg dovette entrare in società con un ricco imprenditore del tempo, Johannes Fust, per poter aprire una tipografia. Attorno alla metà del Quattrocento egli cominciò a stampare le prime opere (la prima fu una Bibbia) mentre questa nuova tecnica cominciava a diffondersi. I testi allora prodotti (detti incunaboli) sono ancora oggi molto rari e preziosi. In Italia la tipografia ebbe un notevole sviluppo: a Roma in dieci anni attorno al 1470 furono stampati ben 160.000 volumi. Il maggiore dei nostri stampatori fu però il veneziano Aldo Manuzio, che nel 1489 fondò nella sua città una tipografia che produsse opere di grande pregio, anche artistico. Per molti aspetti Manuzio può essere considerato il primo editore moderno.

METTIAMO A FUOCO

C’è modo e modo di leggere i libri antichi: la nascita

della filologia

Lo studio scientifico dei testi antichi

L’interesse per il mondo classico portò, come abbiamo visto, i letterati umanisti a riscoprire e leggere con interesse i testi antichi. Molti di loro andavano nelle vecchie biblioteche e nei monasteri a caccia di libri dimenticati che spesso, una volta scoperti, si rivelavano dei veri e propri tesori. Celebre fu il caso di Francesco Petrarca che scoprì importanti opere di Cicerone che si ritenevano ormai perse per sempre. Non si limitavano però solo a questo: il loro spirito, il loro atteggiamento li conduceva a compiere su tali libri un lavoro di analisi che potremmo definire “scientifica”, a sviluppare un metodo di approccio nuovo rispetto a prima. Anche nel Medioevo infatti l’antichità classica era conosciuta e i libri antichi erano letti. Tuttavia si prendeva per vero, in modo spesso acritico, tutto ciò che su tali libri e documenti era scritto. Gli umanisti invece, una volta ripresi in mano questi vecchi codici, li analizzavano attentamente, cercando di verificarne l’autenticità, di stabilirne la data di stesura, di ricostruirne il testo esatto correggendone gli eventuali errori. Poteva infatti accadere che si trattasse di testi falsi, o che contenessero errori di ricopiatura involontari (era facile che un amanuense, stanco, sbagliasse nel ricopiare!) o anche intenzionali, oppure che mancassero pagine o che i fogli fossero rovinati dall’usura del tempo.

Comprendere i testi nel loro contesto

Soprattutto però cercavano di comprendere i testi nel loro contesto, di stabilire il significato esatto delle parole e dei concetti contenuti, facendo uno sforzo per calarsi nel contesto culturale in cui questi testi erano stati elaborati. Questo era infatti l’altro errore che i medievali avevano rischiato di commettere: far esprimere a un testo del passato idee e concetti che non potevano appartenere al tempo in cui era stato redatto. Ad esempio nel Medioevo cristiano si pensava, interpretando erroneamente un passo di un’opera del grande poeta latino Virgilio, che questi avesse preannunciato, anni prima, la venuta di Cristo. In real-

tà questo non poteva accadere in quanto Virgilio non poteva sapere nulla di Cristo (e infatti il passo in questione, hanno poi appurato gli studiosi, si riferiva a Ottaviano Augusto e non al Messia cristiano). Gli umanisti cercarono di evitare errori di questo tipo.

La disciplina che si occupa di tutto questo, cioè di riportare un testo antico alla sua forma originaria e di leggerlo e interpretarlo nel suo contesto, si chiama filologia (dal termine greco che significa “amore per il discorso”) e possiamo proprio dire che gli umanisti ne furono gli inventori.

Valla e la scoperta della falsità

della Donazione di Costantino

Rimane da dire di quella che fu la più celebre scoperta del massimo filologo umanista, Lorenzo Valla. Questi, usando tutte le tecniche allora consentite dalla ricerca filologica e portando a compimento studi a lui precedenti, dimostrò la falsità della Donazione di Costantino, il documento col quale il grande imperatore romano avrebbe donato al papa Roma e l’Occidente, e sul quale si era poi giustificato per secoli il potere temporale della Chiesa. egli dimostrò in modo inoppugnabile che il latino usato e le espressioni giuridiche contenute in tale documento erano molto posteriori rispetto all’età in cui visse Costantino e che quindi non poteva essere opera sua.

NON TUTTI SANNO CHE

Nel Rinascimento ricompare il pensiero magico

La magia era stata ridimensionata nel Medioevo

La magia era stata una pratica molto diffusa nell’antichità. Propiziarsi il futuro, modificare la natura, combattere le forze ostili all’uomo ed entrare in contatto con le divinità o col mondo ultraterreno attraverso rituali misteriosi, formule magiche, pratiche strane e per nulla scientifiche era una caratteristica di quasi tutti i popoli antichi. Nel corso del Medioevo la Chiesa aveva combattuto contro l’uso di queste pratiche pagane, considerate superstiziose, riuscendo, se non a debellarle, almeno a restringerne la diffusione. A questo aveva dato il suo contributo anche lo studio, nelle università medievali, del pensiero del filosofo greco Aristotele. Secondo questo pensiero la natura è costituita da materia soggetta a forze di carattere fisico, e non magico, e che quindi si possono comprendere e analizzare esclusivamente con la ragione.

La natura: qualcosa di vivo e animato

Nel XIV e nel XV secolo invece la magia ricompare anche se con modalità e caratteristiche del tutto nuove, legate allo sviluppo del pensiero filosofico e in particolare di quello di Platone. Secondo questo pensatore antico, la natura non è materia inerte, ma realtà viva, dotata di una specie di anima, in cui sono presenti forze oscure di carattere spirituale (perciò si parla di panpsichismo, a significare che tutto nella natura è animato). Queste forze non sono diverse da quelle presenti nell’uomo, si attraggono o si respingono, indirizzano un elemento in una direzione piuttosto che nell’altra. L’uomo, conoscendole ed entrando in contatto con esse, può dominarle e così piegare la natura alla sua volontà, modificarne gli elementi, creare nuove sostanze o trasformare quelle esistenti. Il sogno di tutti coloro che avevano queste convinzioni era di trovare il modo, attraverso una sostanza misteriosa detta “pietra filosofale”, di trasformare metalli vili in argento e, soprattutto, oro oppure di ricreare la vita o di cercare l’elisir dell’eterna giovinezza. In tal modo l’uomo poteva realizzare il suo dominio sulla natura (il regnum hominis, come dirà il filosofo inglese Francesco Bacone), sostituendosi a Dio.

L’alchimia, antenata della chimica

La disciplina che si dedicava a questo tipo di ricerche fu detta alchimia (parola di origine araba che, secondo i più, voleva dire appunto “pietra filosofale”). L’alchimia fu una disciplina di carattere magico e non può essere considerata in alcun modo una scienza di tipo moderno, in quanto non si basava sull’osservazione sperimentale dei fatti. Le formule con cui essa tentava di manipolare la natura non provenivano da esperimenti, ma erano di origine oscura: antiche formule magiche attribuite a divinità misteriose (ad esempio a un dio di provenienza egizia, chiamato ermete Trismegisto), tramandate segretamente a pochi e ristretti discepoli. Tuttavia a quel tempo questa disciplina era considerata al pari di una scienza e celebri alchimisti, il più importante dei quali fu il medico svizzero Paracelso, insegnavano nelle università ed erano stimati da tutti. Gli studiosi di oggi ritengono che comunque l’alchimia possa venire considerata, se non per il suo metodo quantomeno per il suo campo di indagine, l’antenata della chimica che nacque qualche secolo dopo.

Nel tempo, quando si affermò, a partire da Galileo, il metodo scientifico-sperimentale, l’alchimia perse i suoi connotati di scienza, fu espulsa dall’università e dai circoli scientifici, e divenne patrimonio di oscure sette esoteriche che circolarono e circolano tuttora a livello sotterraneo nella cultura europea (si pensi alle leggende che vanno di moda ancora oggi su sette misteriose come ad esempio i Rosa Croce oppure sugli antichi Cava lieri Templari, che avrebbero posseduto chissà quali profondi segreti con cui dominare la realtà).

Francesco Bacone

PROTAGONISTI

Studiare il corpo umano: con Andrea Vesalio nasce l’anatomia

Il metodo sperimentale

Andrea Vesalio può essere considerato il padre della moderna anatomia ossia della scienza che studia la forma e la struttura del corpo umano. Nacque a Bruxelles nel 1514 da una famiglia di medici e farmacisti che gli trasmise la passione per la medicina e, fin da giovane, si dedicò con grande interesse allo studio del corpo umano, arrivando anche a trafugare il cadavere di un impiccato per sezionarlo e analizzarlo. Dopo aver studiato medicina a Lovanio (città dell’attuale Belgio, tuttora sede di un’importante università) e a Parigi, ottenne giovanissimo, nel 1537, la cattedra di chirurgia e anatomia a Padova. Qui, anche grazie al clima aperto e tollerante creato dal governo della Repubblica di Venezia, poté dedicarsi tranquillamente alle sue ricerche che si basavano sulla sperimentazione. Si trattava di un metodo per quei tempi rivoluzionario in quanto partiva dall’esame attento delle varie parti del corpo e non da teorie ricavate da autori antichi, considerati importanti, ma mai sottoposte a verifica. Si tratta dello stesso metodo sperimentale che alcuni decenni dopo Galileo Galilei porrà alla base di tutta la scienza moderna.

La dissezione dei cadaveri

Per condurre queste osservazioni egli praticava anche la dissezione dei cadaveri e richiamava con queste sue lezioni particolari moltissimi studenti da ogni parte d’europa. Con la collaborazione di un artista del tempo, il Calcar, pubblicò testi ricchi di tavole anatomiche, cioè di disegni che rappresentavano le varie parti del corpo umano in maniera perfetta. La sua opera più importante, il De humani corporis fabrica (potremmo tradurlo con “la costruzione – o anche la struttura – del corpo umano”) suscitò grande interesse e dibattiti fra i più importanti medici del tempo, sollevando anche, come era prevedibile, dure opposizioni da parte dei medici tradizionalisti che non accettavano di mettere in discussione le vecchie teorie consolidate. Particolarmente importanti furono i suoi studi sullo scheletro, l’apparato muscolare, il

fegato. Oltre all’anatomia, Vesalio si dedicò anche alla chirurgia, che stava allora muovendo i primi passi. Anche in questo campo divenne un’autorità al punto che fu assunto a servizio dell’imperatore Carlo V, che seguì nelle sue campagne militari, e poi di suo figlio, il re di Spagna Filippo II. Morì nel 1564, di ritorno da un pellegrinaggio che aveva intrapreso in Terra Santa. La sua opera, tra le polemiche e i dibattiti, lasciò un segno indelebile: diede origine all’anatomia sperimentale e contribuì al deciso passo della medicina verso la scienza.

Frontespizio del trattato De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio pubblicato a Basilea nel 1543

PARTIAMO

DALLE FONTI

Due testimonianze della nuova cultura umanistico-rinascimentale

Proponiamo alla tua lettura due brani che documentano la nuova cultura umanistico-rinascimentale. Il primo è tratto da un testo latino di grande importanza, la Theologia platonica, del filosofo Marsilio Ficino, che lo pubblicò nel 1482. In esso

Baldassare Castiglione

Olio su tela di Raffaello (1514-1515), Musée du Louvre, Parigi

si descrive, e si esalta, la grandezza dell’uomo all’interno della creazione secondo la nuova visione che gli umanisti stavano elaborando. Più volte, in questa celebrazione, l’uomo viene paragonato a Dio in quanto capace di dominare il creato e di

piegare tutti gli elementi alla sua volontà (si noti a questo proposito anche l’accenno alla magia). Per comprendere pienamente la portata di queste espressioni e l’accento di novità che esse contengono rispetto al passato, può esserti utile un confronto con una delle più alte espressioni della cultura medievale, il Cantico di frate sole (comunemente conosciuto come Cantico delle creature), scritto da san Francesco d’Assisi intorno al 1224 e riportato in tutte le antologie scolastiche. ecco il testo di Marsilio.

«L’uomo usa tutte le materie del mondo come se fosse il padrone di tutto. Adopera tutte gli elementi, le pietre, i metalli, le piante e gli animali e li trasforma in numerose forme; cosa, questa, che gli animali non riescono a fare. e non è contento di un solo elemento o di alcuni pochi, ma li adopera invece tutti, quasi sia il Dio di tutte le cose. Percorre la terra, solca l’acqua, si alza nell’aria con torri altissime, per non parlare delle ali di Dedalo e di Icaro. Accende il fuoco e lo usa come vuole, unico tra tutti gli esseri creati. Quanto è meravigliosa in tutti i luoghi la coltivazione della terra! Quanto stupenda la costruzione degli edifici e delle città! Quanto è ingegnosa la distribuzione delle acque! Fa come Dio, in quanto egli abita in tutti gli elementi e tutti li usa. Si serve anche di tutti gli animali che vivono nei vari elementi: di quelli della terra, quelli dell’acqua e i volatili, per cibarsene, per la sua comodità e il suo piacere; si serve anche degli esseri soprannaturali e celesti, per la magia e i prodigi che essa opera. Il provvedere a tutto l’universo è attributo fondamentale di Dio, che è il creatore di tutto l’universo. Perciò l’uomo che provvede universalmente a tutte le cose, agli esseri viventi e ai non viventi, è anch’egli, in un certo senso, un Dio».

Adatt.

Il secondo brano è invece di Baldassare Castiglione, illustre letterato e politico che lavorò al servizio di vari principi, conoscendo da vicino l’ambiente delle più importanti corti, non solo italiane. Nel trattato considerato il suo capolavoro, Il Cortegiano, scritto in lingua volgare e pubblicato nel 1528, descrisse la figura ideale del perfetto cortigiano, uomo raffinato, elegante, conoscitore delle buone maniere, abile nel combattimento e nel parlare, ma anche colto e istruito, come bene emerge dal passo che riportiamo adattato all’italiano di oggi.

«Ritengo che questo nostro cortigiano debba essere nato nobile e di generosa famiglia, che la sua principale e vera professione sia quella delle armi, che egli abbia un buon fisico e ben proporzionato, mostri forza, leggerezza e disinvoltura, e sappia compiere tutti gli esercizi che si richiedono a un uomo d’armi. Che egli sia, come si dice, uomo onesto e integro; perché in questo si comprende la prudenza, bontà, fortezza e temperanza d’animo, e tutte le altre condizioni che convengono a una persona d’onore. Che nelle lettere sia piuttosto istruito e non solamente nella lingua latina, ma abbia conoscenza anche della greca, sia buon conoscitore dei poeti, ma anche degli oratori e degli storici, e anche esercitato nello scrivere versi e prosa, soprattutto in questa nostra lingua volgare. Questo non basta ancora in quanto il cortigiano deve conoscere la musica, saper disegnare e possedere l’arte propria del dipingere». Adatt.

1. Quale deve essere la principale professione del cortigiano?

2. Quali qualità morali deve possedere?

3. Quali materie e discipline deve conoscere e praticare?

METTIAMO

A FUOCO È fondata la critica al Medioevo?

Il concetto di Medioevo nasce quando il Medioevo è finito L’idea che il lungo periodo che va dalla caduta dell’Impero Romano al XV secolo sia un’età di mezzo, di passaggio, e quindi di scarso rilievo, rispetto a un’epoca splendida che l’ha preceduta e ad una altrettanto splendida che la segue, è un’idea nata nel XVI secolo. Lo stesso termine Medioevo (in latino media tempestas, media aetas, medium aevum), compare per la prima volta in uno scritto del 1469 e si ritrova poi con frequenza a partire dal 1500. Gli umanisti e gli uomini di quello che verrà chiamato Rinascimento, convinti di riprendere nella loro epoca lo splendore dell’età classica, contribuirono ad estendere sul periodo da loro definito “di mezzo” un giudizio sostanzialmente negativo che poi è perdurato a lungo nel tempo sia negli studi storici che anche nella mentalità comune.

Gli storici di oggi danno del Medioevo un giudizio molto diverso Ci possiamo però chiedere, se questa interpretazione sia fondata e corrisponda alla verità. Si tratta di un’interessante questione, oggetto di grande dibattito fra gli studiosi, e che contiene per noi molti insegnamenti anche riguardo al metodo con cui accostarsi alla storia. Per introdurre tale questione possiamo cominciare col dire che gli storici più recenti danno un giudizio molto diverso rispetto a quelli del passato: secondo loro il Medioevo fu un’epoca lunghissima e complessa, quindi non facilmente schematizzabile, ricca di luci e di ombre, di momenti di grande creatività e fiducia nelle risorse umane, ma anche di crisi, di pessimismo e disperazione. Basti, a questo proposito, mettere a confronto il XII e il XIII secolo (l’età dalla fioritura comunale in Italia) con il XIV (l’età delle guerre, della peste e della carestia). I primi furono i secoli dello sviluppo mercantile, delle università, di san Francesco che amava tutto il creato, di Giotto e di Dante Alighieri, delle grandi cattedrali; il secondo fu il secolo delle danze macabre, delle penitenze dei flagellanti, del terrore diffuso della morte. Qualche storico, proprio tenendo conto di queste differenze, ha ritrovato tracce della sensibilità rinascimentale già nel XII secolo. Altri hanno

sottolineato una continuità tra Medioevo e Rinascimento. Il giudizio negativo pertanto non può essere indirizzato al Medioevo nella sua complessità e si deve distinguere tra i vari momenti che hanno costituito questa lunga epoca.

Una questione di metodo: mai generalizzare

Quel è allora l’errore compiuto nell’interpretare negativamente il Medioevo? È stato soprattutto quello di generalizzare, di semplificare in un solo schema interpretativo un’epoca estremamente lunga e complessa. Quello della schematizzazione è un errore che gli storici non devono commettere. essi devono, al contrario, essere molto attenti a cogliere le differenze, le particolarità e ricostruire i fatti, i periodi, le situazioni, nella loro complessità e differenze. Lo sforzo di fare delle sintesi, pur necessario, non può andare a scapito dell’analisi minuziosa e dettagliata dei particolari.

Rimane una questione di fondo: qual è il significato della fede nella vita umana?

Rimane una questione di fondo che attiene all’esperienza umana e religiosa di ogni persona. La critica degli uomini del Quattrocento si basava in fondo sull’idea che cercare la salvezza eterna comportasse lo svalutare, il non dare rilievo alla vita su questa terra. È giusta questa interpretazione? evidentemente non tocca allo storico in quanto tale dare una risposta, che invece compete ad ogni uomo, credente o meno. A scuola potrebbe anche essere il frutto di un dialogo con l’insegnante di religione. Quello però che lo storico può fare è mostrare come vi siano stati molteplici esempi di persone di profonda fede che hanno vissuto anche una intensa vita terrena, impegnandosi con energia in molti campi e valorizzando tutto ciò che l’uomo può fare. Tre nomi su tutti ci vengono proprio dal Medioevo: san Benedetto col suo ora et labora, san Francesco col suo amore a tutto il creato e Dante Alighieri con la sua idea eroica e battagliera della vita.

RACCONTIAMO IN BREVE

1. A partire dalla seconda metà del XIV secolo si diffuse tra i letterati e gli uomini di cultura una nuova mentalità, una nuova concezione dell’uomo e della vita, che ritenevano diversa da quella dei secoli precedenti. Attraverso la riscoperta e la rilettura dei testi classici, latini e greci, operata dagli umanisti, l’uomo, con le sue qualità e le sue potenzialità, viene sempre più esaltato e considerato il centro del creato. Questa nuova sensibilità si traduce anche in una visione più attiva e creativa dell’esistenza. L’uomo, impegnato su questa terra, cerca di realizzare al meglio le proprie capacità conquistandosi la fama e la gloria imperitura presso i posteri. Questa nuova cultura prese il nome di Umanesimo. Ad essa seguì un periodo di grande fervore creativo, soprattutto in campo artistico, a cui poi verrà dato il nome di Rinascimento.

2. La nuova cultura umanistico-rinascimentale e la conseguente grande produzione artistica e letteraria furono un fenomeno legato soprattutto alle corti italiane del tempo, nelle quali, anche con intenti propagandistici, si praticava il mecenatismo. Qui si svilupparono le accademie che diedero un grande impulso al rinnovamento della cultura rispetto alle università che allora tendevano a trasmettere un sapere ripetitivo e poco creativo. La stessa corte papale a Roma non fu estranea a questo fenomeno. Tra i maggiori protettori di artisti e letterati vi furono infatti molti papi del tempo. La diffusione di queste nuove idee fu favorita anche dall’invenzione della stampa a caratteri mobili ad opera del tedesco Johannes Gutenberg.

3. Nel campo dell’architettura, dell’urbanistica e della pittura si manifestarono molti cambiamenti: al centro venne posto l’uomo, si cercò di realizzare delle costruzioni perfette, delle città ideali, di cui la mente umana fosse la misura. In campo tecnologico la forza creativa dell’ingegno umano emerge soprattutto nella straordinaria opera di Leonardo da Vinci. Anche il pensiero politico fu influenzato, soprattutto con l’opera di Niccolò Machiavelli, da questa nuova visione dell’uomo. La politica assunse le caratteristiche di una scienza pienamente umana.

4. Umanesimo e Rinascimento rimasero comunque fenomeni elitari, legati alle corti e ai ceti nobiliari. Anche a causa dell’uso quasi esclusivo, almeno in un primo tempo, della lingua latina, il popolo, i contadini rimasero sostanzialmente estranei a queste nuove idee come rimasero estranei allo sfarzo e al lusso delle corti. Riguardo poi alla diffusione del fenomeno a nord delle Alpi va detto che esso trovò scarsa rispondenza soprattutto nel mondo tedesco.

ATTIVITÀ

E VERIFICHE

Esercizio 1 · Rispondi, anche oralmente, alle seguenti domande.

1. Chi furono Baldassarre Castiglione e il Monsignor Della Casa?

2. Che cos’erano le accademie?

3. Quale fu il rapporto tra Umanesimo e Rinascimento?

4. Che cosa significa l’espressione latina faber fortunae suae riferita all’uomo?

5. Qual è l’atteggiamento degli umanisti nei confronti di Dio e dell’aldilà?

6. Che cosa significa l’espressione humanae litterae?

7. Chi fu Aldo Manuzio?

8. Quali furono gli artisti che operarono a Roma durante il periodo rinascimentale?

9. Che cos’è la prospettiva?

10. Che idea aveva Machiavelli della politica?

11. In quali campi si sviluppò l’attività di Leonardo da Vinci?

12. In quali luoghi e paesi si diffuse la civiltà umanistico-rinascimentale?

Esercizio 2 · Indica se l’affermazione riportata è vera o falsa.

Nelle corti fiorì la cultura umanistico-rinascimentale.

Per gli umanisti al centro della vita umana deve esserci Dio.

Gli umanisti ammirarono molto il Medioevo.

F

Durante il periodo rinascimentale anche i papi promossero l’arte e la cultura. V F

I pittori del Rinascimento dipingevano esclusivamente soggetti sacri. V F

Il Rinascimento rimase un fenomeno ristretto a poche élite ricche e potenti.

Esercizio 3 · Per completare la frase iniziale scegli fra le tre alternative proposte quella che ti sembra, oltre che esatta, anche precisa e formulata con il linguaggio più appropriato.

Gli umanisti studiarono i classici perché

a. volevano imparare a usare correttamente la lingua latina.

b. li ritenevano fonti di ispirazione per i loro nuovi ideali di vita.

c. ne apprezzavano i contenuti cristiani e volevano prenderli come modelli cui ispirarsi.

L’invenzione della stampa

a. favorì il mecenatismo.

b. contribuì alla diffusione della cultura e del sapere.

c. favorì lo sviluppo dell’arte.

Secondo la nuova mentalità umanistica l’uomo

a. è costruttore e padrone del proprio destino.

b. è soggetto a forze oscure e misteriose che lo dominano.

c. deve sottomettersi alla volontà di Dio.

F

Per gli umanisti il Medioevo

a. fu un’epoca di grande splendore per l’arte e la cultura.

b. fu un’epoca interessante, ma i suoi valori erano ormai superati.

c. fu un’epoca nella quale l’uomo non fu adeguatamente esaltato e valorizzato.

Per gli architetti rinascimentali la città ideale doveva essere

a. grande, sicura e protetta dagli attacchi nemici.

b. costruita intorno alla chiesa e alla piazza del mercato.

c. realizzata secondo forme geometricamente perfette e armoniche.

Per Machiavelli e Ariosto il successo delle azioni umane

a. dipende da una certa dose di fortuna e quindi dal caso.

b. dipende dalla volontà di Dio.

c. dipende solo dall’abilità e dalla bravura dell’uomo.

Esercizio 4 · Fai una ricerca su uno dei grandi artisti del Rinascimento italiano di cui si parla nel testo, cerca informazioni sulla sua vita, sulle corti nelle quali ha operato, sulle principali opere da lui realizzate. Puoi naturalmente chiedere aiuto e suggerimenti al tuo insegnante di Educazione Artistica.

Esercizio 5 · Fai una ricerca, anche tramite Internet, sui progetti di macchine realizzati da Leonardo da Vinci. Riproducile e indica quali di questi progetti hanno avuto poi nel tempo una realizzazione concreta. Puoi naturalmente chiedere aiuto e suggerimenti al tuo insegnante di Educazione Tecnica.

La battaglia di Marignano, 13 settembre 1515

Miniatura su pergamena attribuita ad artista anonimo chiamato

Maestro dalla Trappola per sorci (XVI secolo), Musée Condé, Parigi

Questa sanguinosa battaglia, detta anche “la battaglia dei giganti”, si concluse con la vittoria delle truppe francesi sugli svizzeri che allora combattevano per il Ducato di Milano.

Capitolo 2

Finisce l’indipendenza italiana mentre si rafforzano gli stati nazionali

L’Italia e i maggiori stati europei: un cammino in direzioni opposte

La situazione di tregua e di equilibrio tra gli stati italiani inaugurata con la Pace di Lodi si interruppe alla morte di Lorenzo il Magnifico.

A partire dalla fine del XV secolo vecchie e nuove rivalità tra i vari principati, alimentate da ambizioni personali e dal nepotismo di alcuni papi, fecero riesplodere scontri e conflitti devastanti.

L’Italia, sempre più frammentata e indebolita da queste lotte intestine, divenne facile terra di conquista di sovrani europei potenti e ambiziosi, in particolare i re di Francia e Spagna, che fecero del nostro paese uno dei terreni di scontro nella loro lotta per la supremazia europea.

Mentre l’Italia conosceva questa grave crisi che le avrebbe impedito a lungo di assumere una qualche forma di identità politica unitaria, alcuni tra i maggiori stati europei, Francia, Spagna e Inghilterra, andarono invece rinforzandosi e acquisirono quelle caratteristiche che denotano lo stato moderno, in opposizione all’ordinamento degli stati feudali: un forte potere centrale che esercita una giurisdizione chiara su tutto il territorio, un’efficiente burocrazia, un forte esercito nazionale.

AL TERMINE DEL CAPITOLO

Schede di approfondimento

• Che cosa fu veramente l’inquisizione

• La condizione degli ebrei in Spagna

• I monti di pietà: un modo creativo di fare la carità

• La Svizzera: uno stato molto particolare

Raccontiamo in breve

Attività e verifiche

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Perché Carlo VIII

vantava diritti sul Regno di Napoli?

Perché Ludovico

il Moro sollecitò la discesa di Carlo VIII?

Perché i fiorentini scacciarono i Medici e proclamarono la repubblica?

1 · Gli stati italiani perdono la loro indipendenza

Le mire francesi sull’Italia: la discesa di Carlo VIII

La prematura scomparsa di Lorenzo il Magnifico segnò la fine dell’equilibrio politico in Italia, di cui egli era stato il principale fautore, e della pace che ne era derivata. Tra i vari stati si riaccesero ben presto lotte e rivalità che li indebolirono e li resero facile preda delle mire straniere, in particolare francesi.

Il re di Francia Carlo VIII fu il primo a scendere con le sue truppe in Italia. Egli mirava a conquistare il Regno di Napoli, sul quale, come discendente degli Angioini, vantava dei diritti.

Qui vi era una situazione alquanto turbolenta. I grandi baroni feudali mal gradivano la politica di accentramento degli Aragonesi e ora guardavano con favore all’arrivo francese. Inoltre, Carlo VIII poteva contare anche sull’appoggio di Ludovico Sforza detto il Moro, che in quel periodo reggeva il Ducato di Milano, a causa della minore età del nipote Gian Galeazzo.

Ludovico il Moro intendeva sottrarre al nipote il Ducato e contava per questo sull’aiuto di Carlo VIII che aveva addirittura sollecitato a scendere in Italia. Così, nel 1494, Carlo arrivò con un imponente esercito senza incontrare nessuna resistenza durante la sua discesa: anche Firenze si consegnò a lui. Qui a capo della città vi era l’inetto e debole figlio di Lorenzo, Piero de’ Medici, che gli offrì sottomissione e amicizia, suscitando così le ire del popolo, infiammato dalla predicazione di fra Girolamo Savonarola. I fiorentini rovesciarono il loro signore e proclamarono una repubblica che però finì anch’essa per cedere all’invasore. Così Carlo VIII poté giungere fino a Napoli senza combattere.

Anche il nuovo re di Napoli, Ferrandino (Ferdinando II) era fuggito senza opporre resistenza. Si disse allora che il re francese aveva combattuto una guerra col gesso anziché con le armi (il gesso veniva usato per segnare le case in cui le truppe avrebbero trovato alloggio).

La reazione antifrancese

Solo a questo punto si diffuse la preoccupazione per la troppo facile avanzata del re di Francia. Venezia, in particolare, costituì una lega antifrancese che ottenne anche l’adesione della Spagna, dell’imperatore e del papa, nonché di Ludovico il Moro che, divenuto ormai padrone di Milano in seguito alla morte del nipote, non aveva più ragione di stare con i francesi. Carlo VIII, temendo di essere isolato, ordinò al suo esercito una rapida ritirata verso nord e dopo una durissima battaglia a Fornovo, nei pressi di Parma (luglio 1495), riuscì ad evitare l’accerchiamento e ad aprirsi un varco per tornare in Francia. Il suo tentativo era fallito; sconfitto e umiliato, morì poco dopo essere rientrato in patria. La facilità della sua di­

Ducato di Savoia

Marchesato di Saluzzo

Marchesato del Monferrato

Ducato di Milano

Milano

Torino

Ducato di Mantova

Genova

Repubblica di Genova

Repubblica di Lucca

Principato di Piombino

Repubblica di Venezia

Venezia

Ferrara

Domini degli Estensi

Modena

Repubblica di Firenze

Firenze

Siena

Repubblica di Siena

Corsica (Repubblica di Genova)

Mar Mediterraneo

Stato della Chiesa

Roma

Palermo

Mar Adriatico

Regno di Napoli

Mar Ionio

scesa e la fragilità degli stati italiani emersa in questa vicenda dimostrò però quanto l’Italia potesse essere agevole preda di future spedizioni, come infatti accadrà.

La Repubblica fiorentina

e la controversa vicenda del Savonarola

Frattanto a Firenze la repubblica, sorta dopo la cacciata dei Medici, finì sotto il controllo del Savonarola che con le sue veementi prediche tuonava, oltre che contro i precedenti signori, contro la corruzione dei fiorentini, il lassismo dei costumi, l’eccessivo cedimento all’arte mondana, la sfrenata ricerca della ricchezza. Arrivò, a questo proposito, anche a far bruciare oggetti artistici e di lusso. Inizialmente egli prese provvedimenti favorevoli al popolo. Vietò l’usura, ridusse le tasse, moralizzò i costumi, volendo fare della città la nuova Gerusalemme da cui partire per rinnovare poi tutto il mondo cristiano. Ottenne così un certo successo che però durò ben poco, per due ragioni: da un lato i suoi eccessi lo portarono fino a voler controllare ogni aspetto, anche privato, della vita dei cittadini (pretendeva infatti di sorvegliare le azioni delle persone fin dentro le loro case); dall’altro, attaccando continuamente la corruzione della Chiesa, aveva finito mettersi contro il papa Alessandro VI che lo scomunicò.

L'Italia dopo la Pace di Lodi (1454)

Perché si formò la lega antifrancese?

Napoli

Il supplizio di Girolamo Savonarola in piazza della Signoria a Firenze (23 maggio 1498)

Tavola di anonimo fiorentino (XV secolo), Museo di San Marco, Firenze

Perché Savonarola fu ben presto abbandonato dal popolo fiorentino?

Firenze si divise allora in fazioni che si scontravano anche in modo molto duro: i seguaci del frate, detti “piagnoni” perché erano soliti lamentarsi dei mali del mondo e della corruzione dei loro concittadini, i “palleschi” (seguaci dei Medici, che avevano nel loro stemma di famiglia cinque palle), gli “arrabbiati”, sostenitori di un governo oligarchico, e i “compagnacci”, giovani che mal tolleravano l’austerità imposta dal Savonarola.

Quando il frate fu scomunicato dal papa i fiorentini lo abbandonarono in massa, anche coloro che prima lo avevano appoggiato e addirittura venerato. Temevano infatti che la scomunica producesse danni a tutta la città. Savonarola fu allora imprigionato, condannato per eresia, impiccato e poi bruciato in Piazza della Signoria il 23 maggio 1498.

La nuova discesa francese: Luigi XII

Luigi XII (che governò dal 1498 al 1515) fu il successore di Carlo VIII e ne seguì la politica di espansione. Anch’egli organizzò una discesa in Italia allo scopo di impadronirsi non più solo del Regno di Napoli, ma anche del Ducato di Milano: vantava infatti una parentela con i Visconti, e giudicava gli Sforza degli usurpatori. Prima dell’impresa però cercò di guadagnarsi l’appoggio sia di Venezia che del papa Alessandro VI. Fatto questo, attaccò il Ducato di Milano con un esercito appoggiato da reparti svizzeri, lo conquistò (1500) e fece portare come prigioniero Ludovico il Moro in Francia, dove morì (1508). I cantoni svizzeri, che avevano aiutato Luigi XII a conquistare Milano, ne ebbero in cambio alcune valli settentrionali del territorio visconteo, che più tardi, all’inizio del secolo XIX, costituiranno il Canton Ticino.

Dopo la conquista di Milano si dirige a Napoli

Dopo Milano, Luigi si diresse verso sud. Aveva raggiunto a tale proposito un accordo con il re di Spagna Ferdinando d’Aragona per spartirsi il Regno di Napoli a danno del sovrano allora in carica, Federico, che pure apparteneva alla casata aragonese. Quando però la città venne presa e Federico spodestato, non avvenne la spartizione prevista. Il re di Spagna e Luigi XII guerreggiarono per alcuni anni fino a che gli spagnoli ebbero la meglio e, nel 1504, fu Ferdinando a fregiarsi del titolo di Re di Napoli e di Sicilia.

Il nepotismo dei papi

Nei conflitti che investirono l’Italia a cavallo tra XV e XVI secolo la politica dei pontefici giocò un ruolo importante. La curia papale durante il Rinascimento, come già visto, si era trasformata in una corte principesca che rivaleggiava con le altre in quanto a splendore e ricchezza. Anche sul piano politico i papi non si differenziavano dagli altri sovrani italiani: miravano, come dei principi, a consolidare il proprio potere, ad ampliare i confini dello stato, a sottomettere città e popolazioni ribelli. In particolare, alcuni di loro cercarono di favorire, con assegnazioni di titoli e territori, propri parenti, nipoti (da qui il termine nepotismo) o addirittura figli. Già Callisto III e Sisto IV si erano comportati in questo modo, ma fu soprattutto Alessandro VI, della famiglia spagnola dei Borgia, a distinguersi in tale politica.

La parabola di Cesare Borgia

Divenuto papa nel 1492, Alessandro VI cercò in tutti i modi di favorire il figlio Cesare (detto il Valentino per via del feudo di Valentinois donatogli dal re di Francia Luigi XII alla vigilia della sua spedizione in Italia). Questi, con l’appoggio del padre, riuscì a sottomettere una serie di piccole signorie vassalle del papato in territorio pontificio, tra cui quella dei Malatesta a Rimini, dei Montefeltro a Urbino,

Perché Luigi XII scese in Italia?

Perché Cesare Borgia fu considerato da Machiavelli un perfetto esempio di politico?

dei Baglioni a Perugia, realizzando una specie di signoria personale. Per raggiungere questo obiettivo, usò la forza e l’inganno, agendo spesso senza scrupoli e meritando, grazie soprattutto all’esaltazione che ne fece Niccolò Machiavelli nella sua celebre opera Il Principe, di essere additato come il perfetto esempio di politico capace di qualunque astuzia pur di arrivare al potere. Il sogno di consolidare il proprio principato personale svanì però quando il padre morì e gli successe Giulio II Della Rovere, un papa ostile ai Borgia.

Il bellicoso Giulio II

Perché Giulio II promosse la Lega di Cambrai?

Il nuovo papa era un uomo dal carattere forte, più portato all’azione che alla preghiera, e deciso a far valere la potenza del suo stato con ogni mezzo, anche con la guerra. Con lui la signoria del Valentino cadde e Venezia ne approfittò per impossessarsi di molti dei suoi territori (Faenza, Forlì, Rimini e Cesena). Subito però Giulio II promosse una alleanza antiveneziana, la Lega di Cambrai (1508), cui aderirono Francia, Spagna, Impero, Ferrara, Mantova. Venezia fu sconfitta nella battaglia di Agnadello (1509), località presso il fiume Adda, tra Lodi e Bergamo, e le forze imperiali invasero il territorio della Serenissima, incontrando però una forte resistenza da parte della popolazione soprattutto della terraferma. A questo punto però Giulio II, soddisfatto dell’umiliazione inflitta a Venezia e recuperati i suoi territori romagnoli, si rese conto che la minaccia successiva sarebbe potuta venire proprio dalla Francia che già aveva in mano Milano.

La Lega Santa: “fuori i barbari”

Perché fu costituita la Lega Santa?

Cambiò quindi il suo obiettivo e promosse nel 1511 una nuova lega antifrancese, che chiamò Lega Santa e che si mosse al grido di “fuori i barbari”. A questa nuova alleanza aderirono anche Venezia, il re di Spagna Ferdinando, gli svizzeri e perfino il nuovo re d’Inghilterra Enrico VIII Tudor. I francesi vennero sconfitti e costretti a lasciare Milano, che venne assegnata a Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico il Moro. Venezia ottenne la restituzione di quasi tutti suoi domini sulla terraferma; a Firenze fu abbattuta la repubblica, che era rimasta fedele alla Francia, e gli spagnoli riportarono al governo della città i Medici, loro alleati, con Giuliano, nipote del Magnifico. Morto Giulio II nel 1513, i Medici riuscirono ad ottenere l’elezione a papa di un loro esponente, Giovanni, col nome di Leone X (15131521): la grande famiglia dei signori fiorentini, passati i momenti difficili della repubblica, si apprestava così a raggiungere i vertici del potere e della gloria.

Il ritorno della Francia fino alla Pace di Noyon

Ma i francesi non si arresero. Morto Luigi XII, nel 1513 gli successe suo cugino, Francesco I di Valois (regnerà dal 1515 al 1547). Questi, ricostituita l’alleanza con Venezia, scese di nuovo in Italia e riconquistò il Ducato di Milano, allora difeso da truppe svizzere che vennero sconfitte nella battaglia di Marignano, l’attuale Melegnano (13 settembre 1515). Sorse quindi ancora una volta una lega antifrancese, ma l’anno dopo fu stipulata una tregua con la Pace di Noyon (1516), che sembrava porre fine ai conflitti e dare all’Italia un assetto definitivo: con essa la Francia riconosceva alla Spagna il

Francesco I di Francia Olio su tavola di Jean Clouet (1530 circa), Musée du Louvre, Parigi

Perché diciamo che tra il XV e il XVI secolo nacquero gli stati moderni?

Regno di Napoli, con la Sicilia e la Sardegna, mentre la Spagna riconosceva alla Francia il Ducato di Milano. Il conflitto fra Francia e Spagna, ormai sempre più impegnate in una lotta per l’egemonia in Europa, riesploderà però di lì a poco con ancora maggior forza.

2 · In Europa si affermano gli stati nazionali

Gli stati moderni: un potere fortemente centralizzato

A cavallo tra XV e XVI secolo molte monarchie europee, soprattutto nell’Europa occidentale, consolidarono il loro potere fino a costituire degli stati con quelle caratteristiche che noi oggi identifichiamo come moderne. Utilizzando una robusta organizzazione burocratica, esse riuscirono a governare tutta la società e ad esercitare un deciso controllo sui nobili e sulle città, realizzando un forte potere centralizzato. I re gestirono direttamente la politica estera, l’amministrazione della giustizia penale, la riscossione dei tributi e l’esercito (per costituire il quale non dovevano più fare ricorso all’aiuto dei vassalli). Mirarono inoltre a influire sempre di più sulla vita economica della società nonché su quella religiosa, cercando di sottoporre le chiese al loro controllo con, ad esempio, la nomina dei vescovi. Spesso a queste operazioni di centralizzazione del potere si saldava il tentativo di celebrare e quasi sacralizzare la figura del sovrano; a tale scopo fu utilizzato anche, come già visto, il mecenatismo.

Non fu un processo facile e rapido

Perché la formazione dello stato moderno non fu un processo rapido e facile?

Naturalmente non si trattò di un processo facile e nemmeno rapido. La nobiltà, in particolare, oppose una notevole resistenza. I nobili tentarono spesso di difendere i propri privilegi e la posizione di potere che avevano ereditato dal feudalesimo. Tuttavia questo processo, seppur lentamente, si compì e portò alla definitiva dissoluzione della società medievale: oramai ai vari poteri, spesso in lotta fra loro, che caratterizzavano quel tipo di società si andava sostituendo l’unico potere dello stato che coincideva con quello del re, considerato al di sopra di tutto e non più sottoposto all’autorità del papa né a quella dell’imperatore.

I fattori che determinarono tale processo

L'aumento di potere dei re fu determinato da varie cause. Innanzitutto essi avevano una maggiore disponibilità di denaro, grazie all'aumento delle tasse imposte ai sudditi e ad un più efficace sistema di riscossione. Con questo denaro potevano pagare i molti funzionari che lavoravano al loro servizio e gli eserciti mercenari che combattevano per loro (prima dovevano invece chiedere aiuto, per

questo, ai vassalli). Sempre con questo denaro potevano dotare i loro eserciti di armi da fuoco più potenti, soprattutto artiglierie, che erano molto costose e solo loro potevano permettersi. Grazie ad esse potevano facilmente sbaragliare i nobili che si opponevano a loro, distruggendone la cavalleria e abbattendo le mura dei loro castelli.

L’indebolimento dei poteri universali e l’ascesa della borghesia

Un altro fattore determinante fu il declino del potere e dell’influenza politica della Chiesa e dell’Impero, iniziato già a partire dal XIII secolo. Questi due grandi poteri che nel Medioevo avevano retto l’Europa, anche se spesso in lotta tra loro, cominciarono a perdere sempre più importanza. La loro influenza continuò a restare rilevante solo in Italia e in Germania, due paesi che non a caso furono unificati nella forma dello stato nazionale soltanto alcuni secoli dopo.

Perché le nuove armi da fuoco indebolirono la nobiltà?

Scena di mercato

Olio su legno di quercia di Pieter Aertsen (1560-65), Kunsthistorisches Museum, Vienna

Perché fu importante l’ascesa della borghesia per l'affermazione del potere dei sovrani?

Sul piano sociale ebbe un ruolo importante anche l’affermazione della borghesia. Essa, che si sviluppò grazie alla grande crescita dei commerci, divenne il terzo incomodo nello scontro tra re e nobili: spesso fu proprio alleandosi con la borghesia che i re riuscirono a limitare il potere dei nobili all’interno dei vari stati.

La nobiltà mantiene comunque poteri e privilegi

In questo processo comunque la nobiltà non scomparve e riuscì ancora a lungo a mantenere in molti stati un ruolo e una posizione di privilegio. Come il clero essa, quasi ovunque, non pagava le tasse; forniva una buona parte dei consiglieri e collaboratori più stretti del re nonché gli ufficiali e gli alti comandi degli eserciti. Nonostante questi privilegi, comunque, sarà sempre meno in grado di determinare o condizionare il potere e le scelte dei sovrani.

3 · Le vicende dei principali stati europei

Luigi XI rafforza la monarchia francese

Come abbiamo già visto, la monarchia francese uscì rafforzata dalla Guerra dei Cent’Anni. Sotto il regno di Luigi XI, il predecessore di Carlo VIII, tale processo di rafforzamento raggiunse l’apice. Questo sovrano, che regnò dal 1461 al 1483, costituì un forte esercito (lo stesso che i suoi successori come abbiamo già visto usarono per invadere l’Italia), applicò un sistema di imposte sempre più generalizzato e indebolì gli Stati Generali. Questo era il nome dato a un’assemblea di rappresentanti del clero, della nobiltà e della borghesia che tradizionalmente il re di Francia consultava quando doveva prendere decisioni importanti, soprattutto riguardo alle tasse. Luigi XI utilizzò sempre meno questo organismo che di fatto poteva costituire un limite al suo potere.

La

Guerra delle Due Rose in Inghilterra

L’Inghilterra, uscita sconfitta dalla guerra con la Francia, si trovò devastata al suo interno da un ulteriore scontro, la lotta tra la casata degli York e quella dei Lancaster per la successione al trono. La guerra, detta “delle Due Rose”, poiché entrambi i contendenti avevano come simbolo una rosa (bianca per gli York e rossa per i Lancaster) durò attraverso varie fasi dal 1455 al 1485. Alla fine riuscì a imporsi un esponente dei Lancaster, Enrico VII, della famiglia dei Tudor, che, approfittando anche del fatto che i nobili erano stati in gran parte decimati durante la guerra, poté consolidare il suo potere, lasciando al successore, Enrico VIII, un regno solido, pacificato e prospero.

La Spagna porta a termine la riconquista

Studiando le vicende italiane abbiamo già visto apparire sulla scena politica europea la Spagna. Ciò divenne possibile grazie al fatto che finalmente, nel 1492, era giunto a compimento il processo di reconquista avviato ormai da molti secoli. Quest’ultima fase del processo di liberazione dalla dominazione araba aveva avuto inizio nel 1469 quando Isabella la Cattolica, erede al trono di Castiglia, aveva sposato Ferdinando, erede al trono di Aragona. I due sovrani all’inizio mantennero formalmente distinti i due regni e ognuno governò sul proprio, ma le loro volontà si unirono in un unico pro­

Guerra delle Due Rose, la battaglia di Barnet (14 aprile 1471) Miniatura inglese del XV secolo, Bibliotheek van de rijksuniversiteit, gand, Belgio

Ritratto di Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia realizzato nel 1469 per il loro matrimonio, è conservato nel

Convento de las Agustinas, Madrigal de las Altas Torres, Spagna

Perché il matrimonio di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia diede un impulso decisivo alla reconquista?

getto politico. In tal modo posero fine alle rivalità che fino ad allora avevano impedito di unire le forze per scacciare gli arabi ed, in pochi anni, rilanciata la guerra, portarono a termine la riunificazione dell’intera Penisola Iberica, ad eccezione del Portogallo, rimasto regno indipendente. Il 2 gennaio 1492 cadde Granada, ultimo baluardo islamico in Spagna: fu un enorme trionfo per i due sovrani che potevano ormai considerarsi tra i più potenti d’Europa.

Isabella e Ferdinando: sovrani abili e lungimiranti…

A favorire lo sviluppo della Spagna e la sua progressiva affermazione in Europa contribuì anche la scoperta dell’America ad opera di Cristoforo Colombo, che tra l’altro aveva ottenuto sostegno e incoraggiamento per il suo tentativo, nell’incredulità generale, proprio da parte di Isabella. Ma non ci fu solo questo: i due sovrani seppero governare il paese con molta abilità. Ne migliorarono le condizioni economiche, col potenziamento della flotta commerciale; favorirono l’accentramento amministrativo, nel rispetto però delle autonomie locali; organizzarono un efficiente sistema di polizia; diedero un forte impulso allo sviluppo culturale, riformando la scuola e le università.

… ma con un’ombra: la politica antiebraica

Un aspetto che può gettare un’ombra sull’operato dei due sovrani e di Isabella in particolare riguarda la loro politica in campo religioso. Su questo piano essi mirarono a rafforzare l’identità cattolica della Spagna, appena uscita da una secolare dominazione musulmana, e per questo combatterono contro le minoranze religiose ancora presenti nel paese, soprattutto contro gli ebrei, che vennero

espulsi nel 1492. Altro bersaglio particolare poi furono i marrani , cioè quegli ebrei che in passato si erano convertiti al Cristianesimo, ma lo avevano fatto magari per convenienza, continuando in realtà di nascosto a praticare la loro religione. Questi convertiti erano sospettati dalla gente comune di complottare per trasforme la Spagna in un paese ebraico e, per questo, di mirare a conquistare ruoli di comando nella società. Questi sospetti avevano già provocato molte violenze antiebraiche in varie città e convinsero i sovrani a istituire, nel 1480, il tribunale dell’inquisizione per dare loro la caccia e smascherarli.

L’Impero frammentato e indebolito

La corona imperiale era detenuta dalla casata degli Asburgo d’Austria, ma vi era una situazione alquanto complessa. Agli inizi del Cinquecento l’imperatore controllava direttamente solo i territori asburgici dell’Austria e il Ducato di Borgogna (che comprendeva in particolare i ricchi Paesi Bassi e le Fiandre). I territori tedeschi invece erano divisi in tanti principati, ognuno sotto il governo di un principe laico o di un vescovo, e in città libere come quelle di Lubecca, Amburgo, Brema, che costituivano la Lega Anseatica. Di fatto quindi il territorio imperiale non aveva nessuna coesione.

L’Europa settentrionale e orientale

A differenza della grandi monarchie occidentali, i regni del nord e dell’est europeo non avevano ancora un forte potere centrale. In qualche caso, come nel Regno di Ungheria e in quello di Polonia, si trattava di monarchie elettive in cui il ruolo preponderante era della nobiltà che eleggeva i sovrani. In Scandinavia vi era il potente Regno di Danimarca che comprendeva anche i territori delle attuali Islanda, Svezia e Norvegia (nel 1523 però gli svedesi, sotto la guida del re Gustavo Vasa ottennero l’indipendenza costituendo il Regno di Svezia). Ad est, oltre ai già citati Regni di Ungheria e di Polonia, vi erano il Granducato di Lituania e soprattutto il Granducato di Mosca. Tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo questo stato si rafforzò notevolmente espandendosi sia verso sud che ad est grazie a Ivan III che volle fare di Mosca la “terza Roma”. In generale questi regni esercitarono una scarsa influenza e un ruolo marginale nelle vicende dell’Europa centro occidentale. Furono però importanti perché seppero difendere la parte orientale del continente dagli attacchi turchi salvando così anche l'identità cristiana dell' intera Europa.

Marrano Secondo l’interpretazione più probabile, questo termine significherebbe “maiale”; così si chiamavano in tono dispregiativo gli ebrei convertiti che, come peraltro anche i musulmani osservanti, rifiutavano di nutrirsi di carne di maiale.

Perché gli ebrei, e in particolare quelli convertiti al Cristianesimo, furono perseguitati nel Regno di Spagna?

Perché l’Impero era frammentato e indebolito?

Perché i regni dell’Europa orientale ebbero un ruolo importante nella storia europea?

METTIAMO A FUOCO

Che cosa fu veramente l’inquisizione

Vari tipi di inquisizione

La storia europea ha conosciuto tre tipi di inquisizione, quella medievale, quella spagnola e quella “romana”. rimandando a più avanti la presentazione di quest’ultima, che fu legata alla lotta contro l’eresia luterana, ci soffermiamo brevemente sulle prime due.

L’inquisizione medievale

L’inquisizione medievale fu creata dalla Chiesa a partire dal XII secolo per fronteggiare la minaccia costituita dalle eresie, in particolare quella càtara. Fino ad allora, nell’antichità, ma anche nei primi secoli del Medioevo, le eresie erano sempre state combattute sul piano dottrinale e attraverso la predicazione, non con strumenti repressivi. nel caso invece delle nuove eresie, che comparvero appunto sulla scena europea nel secolo XII, la risposta fu non soltanto culturale, ma anche duramente repressiva, e vide impegnate fianco a fianco sia le autorità religiose sia quelle politiche. La ragio-

ne di questo diverso comportamento va ricercata nel fatto che si trattava di veri e propri movimenti eversivi di massa che mettevano in discussione non solo l’ortodossia cristiana, ma anche la stessa struttura della società. I tribunali dell’inquisizione avevano lo scopo di indagare (inquisitio in latino significa “ricerca”, “indagine”) sui presunti eretici per sottoporli a giudizio. A capo di questi tribunali sedeva un inquisitore, generalmente un frate francescano o domenicano, che istruiva e conduceva i processi. nel caso l’inquisito fosse giudicato colpevole (e allora tra i metodi di “indagine” si faceva ricorso, in questo come nei tribunali civili, anche alla tortura) gli veniva comminata una pena che poteva andare da forme di penitenza, digiuni, pellegrinaggi, al carcere o, nei casi più gravi, alla condanna a morte eseguita dalle autorità pubbliche (il cosiddetto “braccio secolare”).

Consulto di inquisitori

L’inquisizione spagnola

L’inquisizione medievale, che si esaurì quasi completamente quando l’eresia càtara venne eliminata, non va confusa con quella spagnola, che fu istituita dai re Ferdinando e Isabella nel 1480, su autorizzazione di papa Sisto IV. Si trattava, in questo caso, di un organismo completamente dipendente dalla corona di Spagna e che aveva lo scopo di colpire su tutti i territori del regno gli eretici, ma soprattutto i marranos e i moriscos (i primi ebrei e i secondi musulmani, convertiti al Cristianesimo). Questi erano sospettati di essersi convertiti solo esteriormente, ma di continuare a praticare di nascosto la loro religione, e inoltre erano invisi alla popolazione perché sospettati di voler complottare contro l’integrità dello stato, di volerne assumere il controllo infiltrandosi ai suoi vertici come pure ai vertici della Chiesa. Il primo grande inquisitore fu il domenicano Tomas de Torquemada, confessore di Isabella, uomo di costumi integerrimi, ma anche animato da uno zelo fanatico che lo rese nei secoli quasi il simbolo dell’inquisitore crudele e spietato.

Oltre la “leggenda nera”

Sull’inquisizione, soprattutto su quella spagnola, è fiorita nel tempo una sorta di “leggenda nera” che parla di milioni di vittime, di frati inquisitori assetati di sangue, di procedure disumane che non avevano il minimo rispetto delle persone accusate e dei loro diritti. Molti romanzi e anche film hanno alimentato e alimentano tuttora questa “leggenda”. In realtà rigorosi e approfonditi studi di eminenti storici consentono di mettere in una luce più veritiera questo fenomeno. Innanzitutto si è appurato che il numero delle vittime va decisamente ridimensionato. Pochi infatti erano i processi che si concludevano con la pena capitale. Ad esempio analizzando un campione di 40.000 casi di processi tenuti tra il 1540 e il 1700 in europa si è scoperto che solo l’1% di essi si concluse con la condanna a morte, tra l’altro comminata talvolta perché l’imputato si era macchiato anche di reati comuni. riguardo poi alla Spagna uno storico ha calcolato che tra il 1550 e il 1800 furono emesse complessivamente 3.000 sentenze di morte, una cifra indubbiamente significativa, ma di molto inferiore a quanto comunemente si crede. La pena più usuale era invece il carcere temporaneo, a volte anche gli arresti domiciliari,

ma molte erano anche le assoluzioni. Va inoltre ricordato che l’inquisizione fu una pratica non usuale e costante nei secoli, ma limitata ad alcuni periodi e situazioni particolari e drammatiche, anche sul piano sociale e civile.

Una procedura processuale per quei tempi avanzata gli inquisitori poi non erano feroci aguzzini, ma spesso persone colte e istruite che seguivano regole ben precise e vagliavano attentamente le testimonianze e le prove, prima di emettere sentenze. Ad esempio non si accettavano accuse anonime e si consentiva all’inquisito di portare prove e testimonianze in sua difesa o di ricusare i testimoni se riusciva a dimostrare che gli erano nemici. I falsi testimoni inoltre erano duramente puniti e perché un’accusa fosse valida occorrevano ben tre testimonianze concordanti. nel complesso molti storici sono concordi nel sostenere che, rispetto al modo usuale in cui allora si conducevano i processi, quelli dell’inquisizione erano più all’avanguardia e fornivano maggiori garanzie di rispetto dei diritti degli imputati. Si trattava di «una giustizia che esamina attentamente le testimonianze, che le sottopone a uno scrupoloso controllo, che accetta liberamente la ricusazione da parte degli accusati dei testimoni sospetti […] una giustizia che tortura raramente e che rispetta le norme legali, contrariamente ad alcune giurisdizioni civili», come ha scritto lo storico francese Bartolomé Bennassar (L’inquisizione spagnola, Parigi, 1979).

Tutto questo non vuole naturalmente giustificare l’orribile delitto di uccidere o di condannare qualcuno per le sue idee, anche perché non compete allo storico condannare o assolvere. Il suo compito è un altro: ricostruire con rigore e con la maggior esattezza possibile i fatti, colti all’interno del contesto politico, economico, sociale e culturale che li ha generati. e questo va fatto anche nei confronti di un fenomeno drammatico come quello dell’inquisizione.

METTIAMO A FUOCO

La condizione degli ebrei in Spagna

Non fu la Spagna il primo paese a colpire gli ebrei

non fu la Spagna il primo paese europeo ad espellere gli ebrei. nel 1290 essi erano già stati cacciati dall’Inghilterra e nel 1306 dalla Francia (tra l’altro molti di questi avevano trovato rifugio proprio in Spagna). Qui però la situazione era resa ancor più complicata dalla presenza di numerosi ebrei convertiti al Cristianesimo che, tra l’altro, occupavano anche posti di rilievo nella società (lo stesso Torquemada come pure un ministro di Isabella e vari ecclesiastici erano di origine ebraica). gli spagnoli, appena liberatisi da otto secoli di dominazione musulmana, avvertivano con forza il sentimento di identità nazionale che si coagulava intorno alla religione cristiana; per questo erano molto sensibili a tutto ciò che, a torto o a ragione, si poteva presumere che la mettesse in pericolo e non vedevano di buon occhio le minoranze non cristiane, in particolare gli ebrei.

Perché gli ebrei erano accusati di essere usurai

già da tempo questi erano malvisti dalla popolazione che li accusava di praticare l’usura e di essere strozzini. Il motivo di questa accusa va rintracciato nella particolare situazione in cui si trovava da tempo la società spagnola e nella diffusa povertà che vi regnava.

Per far fronte alla povertà parecchie persone ricorrevano a prestiti a interesse e si rivolgevano per questo agli ebrei che impiegavano in tal modo il loro denaro, non potendolo utilizzare per l’acquisto di immobili e terreni, o per avviare attività produttive in quanto ciò era vietato loro dalle leggi del tempo. Tra l’altro il prestito di denaro a interesse era stato proibito per lungo tempo ai cristiani, ma era consentito agli ebrei. Siccome poi gran parte di questi debitori non erano in grado di restituire quanto ricevuto perché speso per consumi e non per investimenti in attività redditizie, era facile per loro accusare di usura e strozzinaggio coloro dai quali avevano ricevuto il prestito, anche perché a quel tempo non erano ancora stati definiti i criteri per distinguere un interesse equo dalla vera e propria usura. L’ac-

cusa ingiusta e infamante rivolta ai prestatori di denaro ebrei finiva poi per essere estesa a tutti i loro correligionari.

Le accuse contro i conversos

A questo sentimento di odio radicato si aggiunse il sospetto che molti ebrei convertiti al Cristianesimo (i conversos o marrani) in realtà si fossero fatti cristiani per convenienza e non sinceramente, e che di nascosto continuassero a praticare la loro religione. Parecchi di loro inoltre erano giunti a occupare, come visto, posti di rilievo nella società, suscitando invidie e gelosie e alimentando timori che volessero conquistare il potere per poi imporre a tutti gli spagnoli la religione ebraica. erano accusati di ordire a tale scopo complotti di vario genere, di tenere atteggiamenti arroganti nei confronti dei cristiani, di compiere atti sacrileghi; e questi sospetti avevano già portato a violenze e aggressioni contro di loro in varie città.

Le conseguenze dell’espulsione degli ebrei

Pressati dalle richieste popolari, ma anche delle Cortes, il parlamento della nobiltà, e temendo che le violenze potessero aumentare minando la pace e l’unità del paese, i sovrani si convinsero ad adottare i provvedimenti repressivi di cui abbiamo parlato. In particolare l’espulsione, decretata nel 1492 portò all’allontanamento dalla Spagna di circa 100.000 ebrei (altrettanti si convertirono al Cristianesimo). A quelli che lasciarono il paese fu concesso di portare con sé i beni mobili (abiti, oggetti preziosi e, tramite le banche, anche il denaro), mentre fu dato loro un rimborso solo parziale per i beni immobili (case, terreni). La maggior parte degli espulsi, detti sefarditi (dall’ebraico Sepharad che significa Spagna), trovò rifugio in Italia, nello Stato Pontificio e più tardi a Livorno, e in Olanda. gli altri, chiamati ashkenaziti (dall’ebraico medievale Ashkenaz, nome con cui era chiamata la germania), trovarono rifugio nell’europa orientale soprattutto in Polonia, in russia, e in Ungheria, dove diedero vita a comunità molto unite, caratterizzate da una ricca vita culturale e dall’uso di una lingua comune, l’yiddish, un misto di ebraico e di alto tedesco, che è giunta fino ai nostri giorni.

NON TUTTI SANNO CHE

I monti di pietà: un modo creativo di fare la carità

Le “banche dei poveri”

I monti di pietà sono delle istituzioni sorte in Italia verso la fine del XV secolo (il primo sembra sia nato a Perugia nel 1462) su iniziativa dei frati francescani, con lo scopo di fornire prestiti a persone indigenti in cambio del deposito di un pegno. Coloro che avevano bisogno di piccole somme di denaro potevano rivolgersi a questi istituti e ottenevano un prestito lasciando come garanzia un oggetto di valore, che veniva loro restituito nel momento in cui saldavano il debito. Si trattava di vere e proprie “banche dei poveri” in quanto non avevano scopo di lucro e praticavano un interesse piuttosto basso, riconosciuto lecito anche dalla Chiesa (intorno al 6-10%, inferiore a quanto praticato dagli usurai del tempo). In precedenza, in società nelle quali il prestito era quasi soltanto destinato all’acquisto di beni di consumo e non a investimenti, e per questo era molto difficilmente restituibile, la Chiesa lo aveva vietato. A lungo andare, però, tale divieto aveva finito per lasciare campo aperto agli usurai. Di qui la decisione di consentirlo in modo garantito e controllato tramite appunto i monti di pietà.

Bernardino da Feltre, il “martello degli usurai”

Tra i promotori instancabili di queste istituzioni vi fu fra Bernardino da Feltre (perciò definito il “martello degli usurai”), che si adoperò con un’intensa predicazione allo scopo di incitare i fedeli ad offrire, come gesto di carità, il denaro che avrebbe costituito il “monte” a cui poi attingere per erogare i prestiti. egli predicava che occorreva, da parte dei cristiani, costituire un “monte di pietà” per i poveri, sull’esempio della pietà di Cristo morto sul monte Calvario per salvare il genere umano. Da qui l’origine del nome di questa istituzione come pure del suo stemma iniziale: un monte roccioso, ricoperto di monete, sul quale era infisso uno stendardo con la figura di Cristo. Le regole per l’attività di questi istituti furono fissate, nel 1515, da una bolla di papa Leone X che, tra l’altro, stabiliva che queste somme di denaro dovevano essere utilizzate solo per fini moralmente leciti tra cui anche l’acquisto di doti grazie alle quali fanciulle povere potessero sposarsi. I

monti di pietà furono inoltre una forma di “microcredito” cioè un modo per finanziare persone prive di mezzi che intendevano avviare un’attività economica e che, per questo, avevano bisogno di denaro. Per tale ragione ebbero un ruolo importante nello sviluppo dell’economia del tempo.

Bernardino da Feltre con un donatore. Nella mano sinistra tiene lo stemma dei monti di pietà Tempera su tavola di anonimo umbro (XV-XVI secolo), Pinacoteca Comunale, Terni

METTIAMO A FUOCO

La Svizzera: uno stato molto particolare

La Svizzera costituisce uno stato molto particolare in quanto in essa convivono popolazioni di lingua e cultura diverse. Vi sono abitanti di lingua tedesca (la maggioranza), francese, italiana e retoromancia, quest’ultima una lingua neolatina non lontana dall’italiano, parlata in alcune vallate meridionali del paese. Per questo motivo si parla di “lingue nazionali” al plurale e non di un’unica lingua nazionale. Anche la confessione religiosa praticata è differente: vi sono infatti aree a maggioranza protestante e aree a maggioranza cattolica. esiste una nazione svizzera, ma questa – unica in tale senso in europa – si fonda sull’appartenenza a un territorio e su una storia comune, e non invece su una comune lingua o cultura. A cementare il senso di unità della nazione, infatti, stanno soprattutto dei fattori di carattere storico-geografico. Innanzitutto il territorio: vallate alpine un tempo impervie e isolate, strette tra stati importanti quali la Francia e l’Impero. In secondo luogo una storia condivisa, fatta di lotte per l’indipendenza, di difesa della propria libertà, di utilizzo di forme di governo di democrazia diretta e di neutralità sul piano internazionale. Questi valori di carattere politico costituiscono il cemento unificante di popolazioni altrimenti differenti e sono alla base anche della struttura federale dello stato.

La storia antica

Abitato fin dall’antichità preromana dalla popolazione degli elvezi, il territorio della Svizzera subì nel I secolo a.C. la conquista e la colonizzazione romana. Fu invaso poi, al tempo delle incursioni barbariche, dagli Alamanni e dai Burgundi che vennero inglobati, alla metà del VI secolo, nel regno Franco. Fu in questo periodo che si ebbe la cristianizzazione di queste popolazioni ad opera dei monaci che edificarono fiorenti centri religiosi (ricordiamo in particolare l’abbazia di San gallo).

Con la caduta del Sacro romano Impero il territorio subì le incursioni dei Saraceni e degli Ungari fino a ritornare parte dell’Impero con Corrado II.

La lotta per l’indipendenza e il mito di Guglielmo Tell

La storia della Svizzera inizia nel 1291 quando Uri, Svitto e Untervaldo (Uri, Schwyz, Unterwalden), tre comunità rurali o cantoni del versante nord delle Alpi centrali, decisero di lottare insieme per liberarsi dalla dipendenza feudale dagli Asburgo, stringendo perciò un apposito patto. nei secoli successivi fiorì, riguardo agli inizi della rivolta, la leggenda di guglielmo Tell, un balestriere che, sfidando il rappresentante imperiale gessler, avrebbe superato la prova che gli era stata imposta di colpire con una freccia una mela posta sulla testa del figlio. La leggenda, che trae origine da saghe nordiche (non vi è di essa alcun fondamento storico), aggiunge che successivamente guglielmo uccise il gessler, dando inizio alla ribellione.

Una Confederazione di cantoni sovrani nei secoli successivi altre città e territori si unirono ai primi e gli svizzeri ottennero parecchi successi militari contro le truppe imperiali di volta in volta mandate contro di loro. Ciò creò la fama di invincibilità delle fanterie elvetiche, che, come abbiamo visto, vennero ingaggiate per tutto il Quattrocento e il Cinquecento da vari principi e sovrani europei. Agli inizi del Cinquecento, come già si è ricordato, vennero ceduti ad alcuni cantoni svizzeri dei territori alpestri del Ducato di Milano, comprese le città di Locarno, Bellinzona, Lugano e il borgo di Mendrisio, che poi agli inizi del secolo XIX vennero riuniti a formare il nuovo Canton Ticino. Insieme a quattro valli del Canton grigioni, il Ticino costituisce la Svizzera Italiana. già indipendente di fatto alla fine del Quattrocento, la Confederazione elvetica, che continua a chiamarsi così pur essendo divenuta da tempo una federazione, venne riconosciuta ufficialmente come stato sovrano dalle potenze europee nel 1648 con la Pace di Westfalia.

1. La morte di Lorenzo il Magnifico segnò la fine del breve periodo di pace e di equilibrio stabilitosi in Italia con la Pace di Lodi. Tra i vari stati si riaccesero lotte e rivalità che coinvolsero anche le monarchie straniere. Prima i francesi, con Carlo VIII e Luigi XII, poi gli spagnoli scesero in Italia per impossessarsi dei vari territori, combattendo tra loro e approfittando delle rivalità e della debolezza degli stati italiani. A Firenze si ebbe, per un breve periodo, dopo la cacciata dei Medici, un governo repubblicano sotto la guida di fra Girolamo Savonarola.

2. A contribuire a questa conflittualità furono le ambizioni di principi italiani, come Ludovico il Moro, ma anche la politica nepotistica di papi come Alessandro VI, che cercavano di favorire con assegnazione di territori i propri parenti. Altri invece, come Giulio II, si batterono per rafforzare e ampliare i confini dello Stato della Chiesa, ponendosi a capo di leghe che venivano formate di volta in volta contro i nemici del momento. Questa lunga fase di conflitti e di invasioni si concluse provvisoriamente con la Pace di Noyon (1516) che assegnò alla Francia il Ducato di Milano e alla Spagna il Regno di Napoli con la Sicilia e la Sardegna.

3. In questo periodo i maggiori stati nazionali europei assunsero caratteristiche che potremmo considerare moderne: realizzarono un forte accentramento amministrativo, un controllo capillare della società, una riduzione del ruolo della nobiltà e degli spazi della Chiesa. A favorire questi cambiamenti furono la crescita della ricchezza dei sovrani, l’indebolimento dei poteri universali di Impero e papato e l’ascesa della borghesia. Anche le nuove armi contribuirono a rafforzare il potere della monarchie rispetto alla nobiltà.

4. Gli stati che si avviarono in tale direzione furono in particolare Francia e Inghilterra, la prima uscita vittoriosa dalla Guerra dei Cent’Anni, la seconda con l’affermazione della dinastia dei Tudor dopo la Guerra delle Due Rose. La Spagna nella seconda metà del XV secolo portò a termine il processo di unificazione e di liberazione dalla dominazione araba (reconquista) grazie ai grandi sovrani Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia. Ben presto diventerà, anche a seguito della scoperta dell’America, uno dei più potenti stati sulla scena europea.

5. L’Impero, retto dalla dinastia degli Asburgo, si presentava debole e frammentato. I principi e le città dei territori tedeschi esercitavano un’autonomia quasi totale.

6. Poco influenti sulla scena politica dell’Europa occidentale furono le monarchie degli stati orientali (Regno di Ungheria e di Polonia, Granducato di Lituania, Granducato di Mosca), che ebbero però il merito di opporre una forte resistenza all’avanzata turca.

RACCONTIAMO IN BREVE

ATTIVITÀ E VERIFICHE

Esercizio 1 · Rispondi, anche oralmente, alle seguenti domande.

1. Da chi fu favorita la discesa in Italia di Carlo VIII?

2. Chi aderì alla lega antifrancese che combatté contro Carlo VIII?

3. Che obiettivi si proponeva Savonarola? Contro chi si scagliò con veemenza? Come si chiamavano i suoi seguaci?

4. Che cos’è il nepotismo?

5. Chi aderì alla Lega Santa contro la Francia?

6. Che cosa stabilì la Pace di noyon?

7. Quali sono le caratteristiche che costituiscono lo stato moderno?

8. Quali privilegi conservò la nobiltà?

9. Che cos’erano gli Stati generali della Francia?

10. Chi erano i marrani?

Esercizio 2 · Completa la linea del tempo: scrivi il numero del fatto storico sulla data corretta.

1. Luigi XII conquista il Ducato di Milano

2. Battaglia di Marignano

3. Pace di noyon

4. Si conclude la reconquista con la presa di granada

5. Morte di fra girolamo Savonarola

6. Battaglia dell’Agnadello

Esercizio 3 · Indica se l’affermazione riportata è vera o falsa.

Ludovico il Moro cercò l’alleanza di Carlo VIII per diventare duca di Milano. V F girolamo Savonarola sostenne e incoraggiò lo sviluppo dell’arte. V F

I papi rinascimentali praticarono il nepotismo. V F

Tasse ed esercito furono fattori che favorirono l’affermarsi del potere dei sovrani moderni. V F

Il potere imperiale degli Asburgo fu piuttosto debole. V F nell’europa orientale, ad eccezione del granducato di Mosca, si affermarono forti monarchie nazionali. V F

Esercizio 4 · Per completare la frase iniziale scegli fra le tre alternative proposte quella che ti sembra oltre che esatta anche precisa e formulata con il linguaggio più appropriato.

Si dice che Carlo VIII in Italia combatté con il gesso anziché con le armi perché

a. fu un abile stratega.

b. conquistò molti territori grazie all’arrendevolezza dei principi italiani.

c. si servì di soldati mercenari.

La politica di papa Giulio II

a. mirò a difendere e consolidare i domini territoriali del papato.

b. mirò a realizzare solide alleanze internazionali.

c. realizzò un forte nepotismo.

La Pace di Noyon stabilì che

a. il regno di napoli sarebbe andato alla Spagna e il Ducato di Milano alla Francia.

b. il Ducato di Milano sarebbe andato alla Spagna e il regno di napoli alla Francia.

c. Venezia avrebbe perso i suoi territori a vantaggio di Milano.

Nei primi stati nazionali moderni che si andavano formando il potere del sovrano fu favorito

a. dal sostegno dei nobili.

b. dal legame con la Chiesa e il papa.

c. dalla possibilità di disporre di ingenti quantità di denaro grazie a un più efficiente sistema fiscale.

Il potere imperiale degli Asburgo era indebolito perché

a. il territorio era frammentato e diviso.

b. i nobili si ribellavano con frequenza.

c. vi era la minaccia turca.

Esercizio 5 · Completa la seguente mappa concettuale inserendo al posto giusto i concetti suggeriti: Migliora il sistema di riscossione delle tasse – Si costituisce un corpo di funzionari fidati che svolgono funzioni amministrative – I sovrani possono dotarsi di nuove e potenti armi da fuoco –Indebolimento della nobiltà.

I sovrani incamerano grandi quantità di denaro

I sovrani possono creare eserciti consistenti al loro servizio

Crisi della cavalleria

Prima mappa stampata dell’Oceano Pacifico con la raffigurazione dell’America Centrale Dal Theatrum Orbis Terrarum di Abramo Ortelio, cartografo fiammingo vissuto nel XVI secolo

In basso è raffigurata la nave di Magellano, il primo ad attraversare l'Oceano Pacifico, con una iscrizione latina celebrativa. L’opera, stampata per la prima volta nel 1570, è considerata il primo atlante moderno e rappresenta con una certa precisione le terre scoperte ed esplorate da Colombo e dai navigatori che lo seguirono.

Capitolo 3

Le scoperte geografiche: i confini del mondo si allargano

L’inizio di un nuovo mondo

L’approdo di Cristoforo Colombo sull’arcipelago delle Bahamas, il 12 ottobre 1492, non fu solo la scoperta, per lui inconsapevole, di una nuova terra, un “nuovo mondo”: rappresentò anche una svolta epocale per l’Europa, un nuovo inizio nella vita del vecchio continente.

Insieme alla circumnavigazione dell’Africa condotta dal Portogallo, la scoperta dell’America cambiò gli equilibri europei. La “Via della seta”, l’antico itinerario commerciale via terra tra Europa e Asia, passò in secondo piano e così pure il Mediterraneo, che ne era il punto di arrivo. Al loro posto si sostituirono le rotte transoceaniche.

L’orizzonte dell’Europa si allargò. Gli stati affacciati sull’oceano acquisirono rilievo politico, ricchezza e potenza mentre i paesi mediterranei, tra cui l’Italia, si avviarono a un lento declino, finendo quasi ai margini della storia.

Anche sul piano culturale e religioso la scoperta dell’America fu determinante. Gli europei si dovettero interrogare sulla loro idea di uomo, su quali fossero i suoi diritti fondamentali e sui valori su cui avevano costruito le loro società. I cristiani si interrogarono su come trasmettere il Vangelo, conciliando questo con la libertà dell’uomo.

Furono acquisizioni sostanzialmente positive anche se a quel tempo si accompagnarono nella pratica a vicende drammatiche quali la violenza sugli indigeni, lo sfruttamento delle risorse, lo schiavismo, il colonialismo. Queste realtà purtroppo accompagneranno l’Europa a lungo, fin dentro al XX secolo.

AL TERMINE DEL CAPITOLO

Schede di approfondimento

• Migliorano le tecniche e gli strumenti di navigazione

• Chi ha inventato il nome America?

• Magellano, l’esploratore dell’ignoto

• La pratica dei sacrifici umani presso gli Aztechi

• Bartolomeo de Las Casas e non solo

• I diritti dell’uomo secondo de Vitoria

Raccontiamo in breve

Attività e verifiche

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per non perdere il filo

Perché gli europei non si avventuravano oltre le Colonne d’Ercole?

1 · Le prime esplorazioni ad opera dei portoghesi

Un mondo ancora poco conosciuto

Nel XV secolo scienziati e geografi affermavano ormai con una certa sicurezza che la terra fosse sferica. Tale ipotesi non era di certo un’assoluta novità: già in epoca classica il matematico greco Eratostene non solo aveva affermato che la terra era rotonda, ma ne aveva anche calcolato le dimensioni, indicando una misura che oggi sappiamo essere abbastanza precisa. E durante tutto il Medioevo l’ipotesi di Eratostene aveva sempre trovato molti sostenitori.

Ciò che continuava però a essere insufficiente era la conoscenza diretta dei territori al di fuori dell’Europa: si sapeva che esistevano imperi e regni nell’Estremo Oriente, in Cina, Giappone e India, ma tali nozioni erano piuttosto vaghe, poiché provenivano da testimonianze raccolte dagli europei presso i mercanti arabi con i quali commerciavano. Ad ovest, lo stretto di Gibilterra segnava ancora l’estremo limite del mondo conosciuto: si credeva che chiunque si fosse avventurato oltre quel punto (che gli antichi conoscevano con il nome di “Colonne d’Ercole”) sarebbe precipitato nell’abisso. Lo stesso Dante Alighieri aveva ripreso queste convinzioni nella Divina Commedia, quando aveva raccontato il “folle volo” di Ulisse.

La conquista turca di Costantinopoli apre la strada a nuove esplorazioni

Via della Seta

Vasto complesso di strade (circa 8.000 chilometri) che collegavano il Mediterraneo alla Cina, passando attraverso il Medio Oriente e l’Asia centrale. sin dai tempi dell’Impero romano era utilizzata dalle carovane per trasportare merci in entrambe le direzioni. È chiamata in questo modo perché la seta era uno dei prodotti principali a compiere quel percorso.

Nel 1453 accadde però un fatto cruciale: i turchi conquistarono Costantinopoli ponendo così fine all’Impero Bizantino. Anche se ormai da almeno un secolo questo impero era ridotto a Costantinopoli e a pochi territori limitrofi, la sua caduta ebbe grande eco in tutta Europa. In seguito a questo fatto i rapporti con l’Asia attraverso il Vicino Oriente divennero molto più difficili e soprattutto la minaccia di un’invasione turca cominciò a incombere sull’Europa. Nel tentativo di scongiurarla si pensò anche di cercare l’alleanza con popoli dell’Estremo Oriente di cui si sapeva che non erano musulmani (si parlava tra l’altro di un certo Prete Gianni, una figura mitica, che si credeva fosse a capo di un misterioso stato cristiano situato in quelle terre). Lo stesso papa inviò per questo in Asia dei suoi delegati con l’incarico di prendere contatto con l’imperatore mongolo. Inoltre, con la Via della Seta ormai sotto il controllo dei turchi, si avvertiva la necessità di trovare nuove vie di commercio verso oriente e i portoghesi si convinsero di poter raggiungere le Indie circumnavigando l'Africa.

Un rinnovato spirito di avventura, figlio della nuova mentalità umanistica

A tutto questo va aggiunto un rinnovato spirito di avventura che portò molti europei a voler sfidare i pericoli di lunghi e incerti viaggi per soddisfare la propria curiosità, il desiderio di esplorare l’ignoto, di arricchire le proprie conoscenze, di diventare protagonisti di imprese straordinarie, raggiungendo così la fama e il successo. Si tratta della nuova mentalità umanistica, di cui abbiamo già parlato e che si andava diffondendo per l’Europa. Questa mentalità non fu estranea alle motivazioni che guidarono le avventure di molti esploratori.

Rappresentazione quattrocentesca della descrizione dell’Ecumene fatta da Tolomeo Incisione di Johannes schnitzer (1482)

si tratta di una pietra miliare nella storia della cartografia che raffigura la visione del mondo all'alba delle scoperte geografiche. La mappa mostra per la prima volta la scandinavia e la groenlandia.

Claudio Tolomeo, vissuto ad Alessandria d’egitto nel II secolo dopo Cristo, fu considerato uno dei più grandi e autorevoli astronomi e geografi dell’antichità.

Caravella

Tipo di nave realizzata dai portoghesi nella seconda metà del XV secolo. Di dimensione più piccola rispetto al galeone, era più agile e resistente, adatta dunque alle lunghe navigazioni nelle acque oceaniche.

Enrico il Navigatore, principe portoghese, apre la strada alle scoperte geografiche

Fu il Portogallo a inaugurare la grande stagione delle scoperte: questo piccolo lembo di terra confinante con la Spagna (e per lungo tempo dominato dalla monarchia iberica) era in una posizione periferica rispetto al continente europeo, ma aveva dinnanzi a sé la vastità dell’Oceano Atlantico.

Grazie all’invenzione della caravella e al perfezionamento della bussola (che permetteva di navigare anche quando il cielo era coperto dalle nuvole) i navigatori portoghesi avevano fatto importanti scoperte già nel XIV secolo, raggiungendo gli arcipelaghi di Madera, Canarie e Azzorre.

Nel secolo successivo, il principe Enrico, figlio del re Giovanni I, diede un grande impulso alle esplorazioni geografiche, finanziando e organizzando numerosi viaggi di scoperta. Pur non avendo mai messo piede su una nave, la sua passione per il mare fu così grande che venne soprannominato “il Navigatore”. Grazie a lui, nel 1434 venne raggiunto Capo Bojador, in Africa, punto di partenza per le future spedizioni.

Perché i portoghesi intrapresero nuove rotte di navigazione?

Lo stretto di Gibilterra era stato superato e tutti avevano potuto verificare che il mondo non finiva lì, ma che c’erano molte altre terre da esplorare.

Il Portogallo apre la stagione delle grandi scoperte

Dopo la morte di Enrico il Navigatore le esplorazioni proseguirono con nuovo vigore: nel 1475 venne raggiunto e superato l’Equatore, un fatto importante, poiché prima di allora si credeva che in quel punto il calore del sole fosse talmente forte da far bollire l’acqua del mare e rendere impossibile la navigazione! Nel 1486 poi, Bartolomeo Dias doppiò il Capo di Buona Speranza, all’estremo sud del continente africano, fornendo un’ulteriore prova che il mondo era molto più vasto di quanto si credeva.

Mentre anche la Spagna cominciava a intravedere possibilità di guadagno cercando nuove rotte, i portoghesi portarono a compimento il loro progetto di raggiungere le Indie circumnavigando l'Africa: tra il 1497 e il 1499 Vasco da Gama riuscì, finalmente, a raggiungere Calicut, una città sul versante occidentale dell'attuale India e qui vi soggiornò per sei mesi. Vennero poi aperte basi commerciali da un lato a Zanzibar in Africa orientale e dall’altro a Ceylon (l’odierno Sri Lanka) e nelle Molucche (un arcipelago che oggi è parte dell’Indonesia). Il Portogallo era così riuscito a trovare il modo per commerciare con l’Estremo Oriente aggirando la Via della Seta.

Oceano

Atlantico

Oceano Indiano

Le rotte dei portoghesi spedizione di Bartolomeo Dias (1487-1488) spedizione di Vasco da gama

2 · L’impresa di Colombo: buscar el Levante

por el Ponente

L’intuizione di Toscanelli

L’astronomo fiorentino Paolo Dal Pozzo Toscanelli, che aveva studiato la circonferenza terrestre stimandola però più piccola di quanto fosse in realtà, aveva elaborato un progetto rivoluzionario: a suo parere sarebbe stato possibile raggiungere le Indie navigando verso occidente. Le sue carte vennero successivamente consultate da Cristoforo Colombo, un marinaio genovese che aveva maturato una grande esperienza di navigazione, percorrendo le rotte che portavano da Lisbona alla Gran Bretagna, e arrivando fino alla lontana Islanda.

Animato da una grande ambizione e dal desiderio di spingersi dove nessuno aveva mai osato, egli studiò per anni le carte di Toscanelli e le relazioni di famosi geografi, arrivando a convincersi che tale impresa fosse possibile.

Il progetto di Cristoforo Colombo

Sottopose perciò il suo progetto al re del Portogallo che tuttavia lo bocciò, reputandolo troppo avventato e rischioso. Colombo si rivolse così alla Spagna, dove regnavano Isabella di Castiglia e Fer-

Calicut
Capo di Buona Speranza
Ascensione
Isole del Capo Verde
Capo Verde
Mar Mediterraneo Nilo Tigri

Perché i sovrani spagnoli si lasciarono convincere dalla proposta di Colombo?

dinando d’Aragona, i “re cattolici” che avevano da poco portato a termine la Reconquista, liberando Granada, l'ultimo avamposto musulmano nella penisola iberica. Fu in questa atmosfera festosa che Colombo incontrò i sovrani e sottopose loro il progetto di buscar el Levante por el Ponente (letteralmente “cercare l’Oriente dall’Occidente”), aggiungendo che grazie al guadagno che le sarebbe derivato dal commercio diretto con le Indie (Colombo pensava soprattutto al Catai descritto da Marco Polo) la Spagna sarebbe stata in grado di intraprendere una nuova crociata per liberare il Santo Sepolcro.

Fu soprattutto la regina Isabella a rimanere colpita dai discorsi di Colombo: la Reconquista aveva prosciugato le casse del regno, e il raggiungimento di nuove ricchezze avrebbe permesso di rimpinguarle a dovere.

La grande impresa

Fu così che Colombo ricevette l’autorizzazione a partire, forte anche di un decreto con cui i sovrani gli concedevano una quota consistente delle entrate delle nuove terre che avesse eventualmente scoperto e guadagnato alla Spagna.

Perché il viaggio di Colombo fu più lungo del previsto?

Perché Colombo fu particolarmente fortunato?

Indigeno Letteralmente significa “nativo”, “originario del luogo”, ed è un termine di valore universale, valido per le popolazioni di tutti i continenti. Più ristretto è il significato della parola spagnola indio, che designa gli abitanti dell’America meridionale prima dell’avvento degli spagnoli. I nativi del nord America invece sono detti indiani. Ciò, come sappiamo, è dovuto al fatto che Colombo ritenne di aver raggiunto le Indie e non un nuovo continente. nel tempo si è diffusa anche l’espressione più precisa di Amerindi.

Il 3 agosto 1492 egli partì da Palos, un porto dell’Andalusia, con tre caravelle, chiamate Niña, Pinta e Santa Maria (la nave ammiraglia, su cui egli stesso prese posto). Dopo una breve sosta alle Canarie per rifornirsi di acqua e cibo, salpò in direzione dell’occidente. Il viaggio non fu particolarmente difficile perché sostenuto dal favore dei venti alisei, ma straordinariamente lungo rispetto alle previsioni basate sui calcoli errati di Toscanelli.

Le tre navi arrivarono a toccare terra solamente il 12 ottobre, quando l’equipaggio era ormai sul punto di ribellarsi a causa del troppo tempo trascorso in mare e dell’incertezza riguardo all’esito della missione.

In effetti Colombo fu fortunato: se non ci fosse stata l’enorme massa del continente americano a sbarrargli la strada, egli, proprio a causa dei calcoli errati, non sarebbe mai riuscito a raggiungere l’Asia in quanto la distanza da coprire sarebbe stata troppo grande: tutto sarebbe finito in modo tragico per la mancanza di viveri.

L’errata convinzione di essere giunto nelle Indie Colombo approdò su un’isola dell’attuale arcipelago delle Bahamas, che egli battezzò San Salvador.

Era però convinto di essere giunto in Asia e, nonostante la conformazione del luogo e l’aspetto degli indigeni non corrispondessero per nulla alle descrizioni di cui era in possesso, non capì mai di avere scoperto un continente sconosciuto.

Gli spagnoli rimasero qualche settimana su quelle isole, intrattenendo rapporti cordiali con i nativi (appartenenti alla tribù dei

vele quadrate

albero maestro albero di mezzana

bompresso

albero di trinchetto

castello di prua

stiva

Tainos, oggi estinta) e scambiando manufatti di poco valore con le modeste quantità d’oro presenti nel luogo.

Il ritorno in patria fu però difficile: la Pinta era andata distrutta in una tempesta e i membri del suo equipaggio si erano stipati sulle navi rimanenti. Alla fine, giunto in Spagna, l’ammiraglio venne ricevuto con tutti gli onori da Ferdinando e Isabella, che ammirarono stupiti i pappagalli esotici e gli indigeni che egli aveva portato con sé a scopo dimostrativo.

I viaggi successivi

Convinto di aver raggiunto quello che oggi noi chiamiamo Sudest Asiatico, Colombo si mise allora alla ricerca dell’Asia continentale; per questo negli anni successivi si impegnò in tre nuovi viaggi di esplorazione arrivando a scoprire altre isole dei Caraibi, tra cui quelle che oggi sono note col nome di Cuba e di Hispaniola (Haiti e Santo Domingo), e spingendosi fino alla foce del fiume Orinoco. Il tempo e le risorse che impegnava in queste esplorazioni, trascurando i suoi compiti di governatore delle terre già scoperte e conquistate, suscitarono però il malcontento dei coloni giunti nel frattem-

vela triangolare

timone

cassero
Illustrazione di una caravella

Perché Colombo

venne fatto rientrare in Spagna in stato di arresto?

po dalla Spagna, i quali erano ben poco interessati alla soluzione del problema geografico che appassionava Colombo. Perciò lo denunciarono ai reali spagnoli accusandolo di governare in modo dispotico, di maltrattare gli indigeni e di monopolizzare il commercio a suo vantaggio. Una commissione d’inchiesta venuta dalla madrepatria diede ragione ai suoi accusatori e ordinò il ritorno di Colombo in Spagna in stato di arresto. Giuntovi, venne però scagionato e messo in libertà. Dovette tuttavia rinunciare al titolo e all’incarico di signore di tutte le nuove terre conquistate, che i reali spagnoli gli avevano attribuito alla vigilia del suo primo viaggio. In cambio ricevette in dono un castello e delle terre dove, fino a quando morì nel 1506, visse come in esilio dal momento che non gli venne più consentito di rimettersi in mare e riattraversare l’Atlantico per continuare nella sua ricerca dell’Asia.

La scoperta di Amerigo Vespucci

Negli anni successivi un altro navigatore italiano al servizio della Spagna, il fiorentino Amerigo Vespucci, riprese la perlustrazione verso sud delle terre nuovamente scoperte fino a giungere alla conclusione che non era stata raggiunta l’Asia bensì un nuovo continente, che in seguito prese in suo onore il nome di “America”.

Si completa l’esplorazione dell’America

L’eccitazione per la scoperta di un continente totalmente inesplorato e la brama di scoprire eventuali ricchezze portarono all’organizzazione di nuovi viaggi. Il portoghese Pedro Cabral scoprì il Brasile nel 1500, mentre lo spagnolo Nunez de Balboa nel 1513 approdò sull’istmo di Panama, scorgendo l’enorme distesa dell’Oceano Pacifico, oltre il quale calcolò che si sarebbe dovuta trovare l’Asia. Le coste della parte settentrionale del continente vennero invece perlustrate dall’italiano Giovanni Caboto che alla fine del XV secolo compì alcuni viaggi per conto del re Enrico VII d’Inghilterra.

Spagna e Portogallo si spartiscono l’America del Sud

Perché si arrivò al Trattato di Tordesillas?

Con il rapido sviluppo della navigazione oceanica e con le grandi conquiste e ricchezze che ne derivavano si delineò il rischio di uno scontro rovinoso tra Spagna e Portogallo, scontro che il papa si preoccupò di prevenire. Si giunse così a un trattato, sottoscritto nel 1494 nella città castigliana di Tordesillas, con cui l’intero orbe terraqueo venne idealmente diviso in due parti lungo una linea immaginaria che passava a 350 leghe (circa 1.770 chilometri) a ovest delle isole del Capo Verde; tutto ciò che si trovava ad est di questa linea era da considerarsi aperto alla conquista del Portogallo, mentre ciò che si trovava ad ovest era aperto alla conquista della Spagna.

Fu proprio grazie a questi accordi che i portoghesi poterono rivendicare per sé il possesso del Brasile, sei anni più tardi.

San Salvador

Cuba

Equatore

Oceano Pacifico

di Magellano

Londra

Lisbona Cadice

Isole Canarie

Isole di Capo Verde

Golfo di Guinea

Oceano Indiano

di Buona Speranza

Principali viaggi ed esplorazioni

tra il XV e il XVI secolo

Cristoforo Colombo 1492 primo viaggio

La circumnavigazione del globo da parte di Magellano

giovanni Caboto 1497

Amerigo Vespucci 1499-1500

Tutti questi progressi erano stati importanti e avevano completamente rivoluzionato le conoscenze geografiche tradizionali. Tuttavia, rimaneva ancora da risolvere l’enigma principale, quello per cui tutta l’avventura aveva preso il via: come fare per raggiungere da ovest il continente asiatico via mare?

Abbiamo già visto come Balboa fosse riuscito a scoprire che esso era situato molto più distante, in un altro oceano al di là dell’istmo di Panama. La rotta per arrivarci era però ancora sconosciuta, ammesso che vi fosse. C’era infatti il dubbio che il continente americano si estendesse per l’intera longitudine terrestre, e che quindi non ci fosse il modo di aggirarlo percorrendo mari navigabili, e non stabilmente bloccati dai ghiacci.

Il mistero venne risolto da Ferdinando Magellano, un portoghese al servizio della Spagna, che nel 1519 salpò con cinque navi a capo di una spedizione che aveva come obiettivo quello di tentare il giro completo del mondo. Magellano discese lungo le coste del Sudamerica fino a trovare, all’altezza di quella che egli stesso battezzò “Terra del fuoco”, un passaggio, che poi da lui prese il nome. Attraverso questo passaggio raggiunse l’Oceano Pacifico, aprendo una rotta che però non venne poi mai molto sfruttata essendo troppo lunga e anche pericolosa (a causa appunto dello stretto di Magellano, molto

Oceano Pacifico

Amerigo Vespucci 1501-1502

Ferdinando Magellano 1519-1522

Capo
Stretto
Trattato di Tordesillas (1494)
Azzorre

tortuoso e battuto da frequenti tempeste). Il grande navigatore non poté tuttavia completare la sua impresa. Morì infatti nelle odierne Filippine in un scontro con abitanti del luogo, e fu dunque il suo vicecomandante, l’italiano Antonio Pigafetta, che portò a termine il viaggio, ritornando in Spagna nel 1522. A Magellano rimase comunque l’onore di aver avviato una delle esplorazioni più coraggiose della storia dell’umanità. Il suo passaggio dello stretto, che poi da lui prese il nome, è una delle più grandi imprese della storia della marineria di tutti i tempi.

3

· Le civiltà

precolombiane

La civiltà Maya

Nel momento in cui presero il via le prime scoperte geografiche, il continente americano era abitato da circa 80 milioni di persone. I primi uomini l’avevano raggiunto già in epoca preistorica, attraversando a piedi lo stretto di Bering, che all’epoca era ghiacciato. Nel XV secolo la maggior parte di queste popolazioni viveva allo stato primitivo.

In alcune aree dell’America, però, erano fiorite civiltà di livello molto più avanzato: si trattava dei Maya, degli Aztechi e degli Incas. I primi si svilupparono tra il III e il X secolo nella penisola dello Yucatan (Messico) e nell’attuale Guatemala. La loro agricoltura era ferma al livello del Neolitico, ma possedevano grandi conoscenze astronomiche. A partire dal XV secolo furono assoggettati dagli Aztechi, una nuova popolazione proveniente dal nord, che si era dimostrata molto più bellicosa ed esperta nella costruzione di armi di metallo.

Gli Aztechi

In breve gli Aztechi sottomisero tutte le tribù vicine e fondarono un vasto impero, che si estendeva in gran parte dell’odierno Messico. La capitale Tenochtitlan (“Città della pietra di luna”) era situata nel luogo dove ora sorge Città del Messico ed era un centro molto fiorente e animato. La civiltà azteca era anch’essa basata sull’agricoltura e la religione vi svolgeva un ruolo di primo piano: per adorare i loro dèi essi avevano costruito immense piramidi di pietra a gradoni (simili alle ziqqurat della Mesopotamia). Alla loro sommità i sacerdoti compivano cerimonie caratterizzate da un gran numero di sacrifici umani. I nemici catturati in battaglia, e così pure persone razziate tra i popoli soggetti, venivano infatti uccisi e il loro cuore offerto alle divinità, per procurarsi il loro favore.

Oceano Atlantico

L'impero degli Incas

Nell’America meridionale, in corrispondenza dell’attuale Perù, nella zona delle Ande, si era invece formato il potente Impero degli Incas. Le caratteristiche di questa civiltà erano simili a quelle degli Aztechi: praticavano un’agricoltura rudimentale, erano grandi costruttori di edifici di pietra, ma non conoscevano l’uso del ferro e neppure quello della ruota. In entrambe le civiltà il concetto di proprietà privata non esisteva: tutte le terre erano di proprietà dell’imperatore, che esercitava un controllo pressoché totale di ogni momento della vita dei sudditi.

I conquistadores e la fine degli Imperi Azteco e Inca

Tra il 1518 e il 1532 l’Impero Azteco e quello Inca vennero distrutti dai conquistadores spagnoli. Costoro erano soldati di professione, che avevano ottenuto dalla Corona l’autorizzazione a recarsi nel Nuovo Mondo a esplorare quegli spazi sconfinati con due obiettivi: cercare nuove ricchezze e diffondere la fede cattolica. Si tratta di obiettivi che, alla mentalità moderna, che distingue la dimensione religiosa da quella politica o economica, paiono inconciliabili, ma che allora, nella cultura e nella mentalità degli spagnoli, erano perfettamente integrati tra loro. Il più celebre tra i conquistatori fu senza dubbio Hernán Cortés. Questi, nato nel 1485 da una famiglia

Cuzco
Oceano Pacifico
Mar dei Caraibi
Rio delle Amazzoni
Le civiltà precolombiane Incas
Maya Aztechi

L’incontro tra Cortés e Montezuma II nel 1519 in Messico

Incisione colorata di g gallina (XIX secolo), stapleton historical Collection, Londra

della piccola nobiltà e uomo di buona cultura, partì nel 1518 alla volta del Messico, per conto del proprio sovrano Carlo I (il futuro imperatore Carlo V). Giunto a conoscenza dell’esistenza dell’Impero Azteco, pur avendo con sé soltanto 1.600 uomini, decise di muovere guerra per conquistarlo. Dopo una prima fase in cui si guadagnò la fiducia dell’imperatore Montezuma e si fece consegnare le grandi quantità d’oro di cui la regione era ricca, Cortés imprigionò il sovrano (che trovò poi la morte in circostanze mai ben chiarite) e con

l’aiuto delle popolazioni confinanti, ostili alla dominazione azteca, conquistò e rase al suolo Tenochtitlan nel 1521.

Ancora più sorprendente fu la conquista dell’Impero Inca operata da Francisco Pizarro: giunto in America nel 1532 con soli duecento uomini, si inserì nelle lotte di successione che travagliavano l’Impero e, dopo aver ucciso l’imperatore Atahualpa, si impadronì della capitale Cusco.

Le cause del successo dei conquistadores

Varie furono le cause che favorirono le rapide vittorie dei conquistadores. Pur notevolmente inferiori di numero (di fronte ai pochi soldati di Cortés ad esempio vi era un esercito azteco di parecchie migliaia di uomini), gli spagnoli godevano di una netta superiorità militare. Conoscevano e usavano infatti le armi da fuoco come pure i cavalli, sconosciuti agli indigeni. Inoltre seppero sfruttare abilmente l'ostilità di molte popolazioni sottomesse ad Aztechi e Incas facendosele alleate nella lotta contro i popoli dominatori. Infine, per quanto riguarda gli Aztechi sembra si fosse diffusa presso di loro la leggenda che Cortés fosse la reincarnazione di una divinità tornata per dominarli, per cui si sottomisero facilmente a lui senza opporre particolare resistenza.

Portoghesi e spagnoli si spartiscono il mondo conosciuto

Con le imprese dei conquistadores, l’esplorazione del mondo poteva dirsi completata. All’appello mancavano solo le lontanissime Australia e Nuova Zelanda, che sarebbero state raggiunte solamente un secolo dopo. Si attuava così una vera e propria divisione del mondo tra spagnoli e portoghesi. Questi ultimi possedevano il vasto territorio del Brasile, ma per il momento concentrarono i loro sforzi soprattutto in Africa e Asia, dove impiantarono numerose basi per il commercio delle spezie.

Gli spagnoli, come abbiamo visto, presero invece possesso della quasi totalità dell’America meridionale. La grande ricchezza di queste zone era costituita dalle numerose miniere d’oro e d’argento. Portati in Europa in grandi quantità, questi metalli preziosi garantirono alla Spagna un secolo di grande splendore (il famoso Siglo de oro), in cui la nazione iberica dominava nei commerci e conobbe anche una spettacolare fioritura artistica e letteraria.

L’organizzazione dei possedimenti spagnoli: vicereame ed encomienda

Le colonie americane della Spagna vennero divise in poche grandi unità territoriali chiamate “vicereami”, amministrate ciascuna da un “viceré” nominato direttamente dal re.

L’organizzazione della terra si basò invece sul sistema dell’encomienda: si trattava di un vasto appezzamento concesso a un colono,

Perché i conquistadores riuscirono facilmente a sconfiggere gli indios?

Perché le encomiende non favorirono lo sviluppo delle terre dell’America del Sud?

il quale si impegnava a coltivarlo e a gestirlo servendosi di manodopera indigena. L’encomendero (così era chiamato chi gestiva la terra) non era proprietario dell’appezzamento, e non poteva dunque trasmetterlo in eredità; col tempo però, queste norme furono disattese e i coloni presero a considerare la terra di loro esclusiva proprietà. Si trattava di un sistema molto simile a quello feudale, e come tale non favorì lo sviluppo economico di queste regioni: ben presto dilagarono immobilismo e corruzione e i coloni non fecero nulla per migliorare le tecniche agricole e accrescere la produzione. Inoltre il clima torrido non favoriva gli insediamenti umani e i privilegi della Corona sulle terre erano molto alti, così che furono relativamente pochi coloro che scelsero di trasferirsi nel Nuovo Mondo per fare fortuna, diversamente da come sarebbe accaduto per l’America del Nord.

La dura condizione degli indios

Un altro grave problema fu rappresentato dalle dure condizioni di vita alle quali vennero sottoposte le popolazioni indigene. A causa delle enormi differenze fisiche, culturali e linguistiche che li separavano dagli europei, i primi colonizzatori non esitarono a trattare i nativi prima con divertita curiosità, poi con disprezzo. Già Colombo si era comportato con brutalità con le popolazioni con cui venne a contatto; peggio fecero i soldati al seguito dei conquistadores: le cronache delle imprese di Cortés e Pizarro ci parlano, nella fase della conquista, di numerosi episodi di violenza efferata e gratuita, in cui uomini e donne venivano uccisi quasi per gioco dai soldati spagnoli e portoghesi.

Successivamente, i superstiti vennero fatti lavorare nelle encomiendas e nelle miniere in condizioni di schiavitù o di semi-schiavitù che determinarono tra loro un’elevata mortalità.

Il collasso demografico dovuto alle malattie

Ecatombe strage, sacrificio di parecchie vittime. Il termine deriva dal greco e significa letteralmente “cento buoi”, gli animali sacrificati alle divinità.

Tuttavia gli eccidi dei conquistadores e le dure condizioni di lavoro nelle encomiendas non bastano a spiegare il crollo demografico delle popolazioni indigene nei decenni seguiti alla conquista. Si calcola infatti che, in poco più di cento anni trascorsi dall’arrivo di Colombo, la popolazione autoctona sia scesa da circa 80 milioni a soli 10 milioni: un’ecatombe non certo immaginabile tenendo conto delle armi e degli strumenti di uccisione allora disponibili e considerando il fatto che non era nell’interesse dei colonizzatori privarsi della mano d’opera indigena. Tale crollo fu dovuto, quindi, a un altro fattore del tutto imprevisto: la diffusione presso gli indios di malattie devastanti, portate in America dai coloni europei e che causarono la morte di milioni di persone. Si trattava di malattie da tempo note in Europa, alcune anche dagli effetti non particolarmente gravi, come il vaiolo, il morbillo, o anche semplici influenze; esse però

risultarono particolarmente letali tra gli indigeni che, a causa del secolare isolamento, non avevano sviluppato nei loro organismi gli anticorpi adeguati a contrastarle

La difesa dei diritti delle popolazioni indigene

I nativi erano trattati male anche perché tra i coloni era diffusa l’idea che non fossero dei veri e propri esseri umani. In effetti, la scoperta dell’esistenza di uomini così diversi, fisicamente e culturalmente, dai modelli a cui gli europei erano abituati, pose una serie di problemi che non erano mai emersi prima d’allora. Non mancarono studiosi che negavano che gli indigeni possedessero un’anima e, sulla base di questo assunto, giudicavano che fosse giusto ridurli in schiavitù.

Dall’altra parte, però, ci fu subito chi si mobilitò perché i loro diritti venissero rispettati, prima tra tutti la regina Isabella di Castiglia, che indirizzò numerose lettere ed esortazioni a Colombo, raccomandandosi che gli abitanti delle terre da lui scoperte fossero trattati con dignità e che fosse loro annunciato e non imposto il Vangelo. Successivamente, nel 1512, re Ferdinando, con le Leggi di Burgos, avviò un primo tentativo di riconoscimento dei diritti delle popolazioni indigene. Nello stesso modo si comportò l’imperatore

Indigeni vittime del vaiolo

Illustrazione di artista azteco dal Codice Fiorentino di frate Bernardino di sahagún (XVI secolo), Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze

I coloni portarono con sé malattie verso cui gli indigeni non avevano immunità, come morbillo, vaiolo, tubercolosi e influenza, che provocarono migliaia di morti.

Perché malattie anche lievi causarono la morte di molti indios?

Perché alcuni ritenevano che gli indigeni non possedessero un’anima?

Famiglia meticcia

José de Ibarra (attr.), 1725 circa, Museo de América, Madrid

Carlo V, che condannò duramente Cortés per la crudeltà con cui aveva trattato gli Aztechi e, in un secondo momento, cercò di limitare con apposite leggi gli abusi degli encomenderos.

L’impegno della Chiesa: Bartolomeo de Las Casas e gli altri missionari

Nel 1537, papa Paolo III emanò un documento ufficiale, la bolla Sublimis Deus, in cui si dichiarava che gli indios erano uomini come tutti gli altri, e che quindi non potevano essere ridotti in schiavitù e bisognava anzi fare in modo di annunciare loro il Vangelo, a cui dovevano poter aderire liberamente. Va detto, però, che tutti questi interventi non sortirono immediatamente effetti pratici sulle con-

dizioni in cui vivevano gli indios; ciò a causa di ostacoli frapposti dai nobili e dai coloni spagnoli che cercarono di boicottarli, ma anche della difficoltà di informazione e di controllo dovuta alle distanze che separavano la madrepatria e le terre coloniali dell’America Latina. Più efficace fu l’opera diretta, “sul campo” possiamo dire, svolta da missionari giunti dalla Spagna per evangelizzare le nuove terre. Tra i più strenui difensori dei diritti dei nativi americani ricordiamo Bartolomeo de Las Casas, un frate domenicano che dedicò gran parte della sua vita alla difesa di queste popolazioni dai soprusi dei colonizzatori. Oggi gli storici sono concordi nel sostenere che molti dei suoi racconti e della sue denunce fossero alquanto esagerati, tuttavia è innegabile che allora egli svolse un ruolo fondamentale nel sensibilizzare l’opinione pubblica e lo stesso imperatore su questa drammatica situazione. Alla sua opera va aggiunta quella di decine di altri missionari, tra cui i gesuiti che, nei territori dove arrivarono, difesero gli indios creando il sistema delle reducciones, dei villaggi protetti all’interno dei quali i nativi lavoravano in condizioni umane e venivano educati dai missionari.

Quale il bilancio della colonizzazione europea?

È indubbio che la conquista spagnola e portoghese dell’America Latina portò con sé numerose ingiustizie, violenze e prevaricazioni. Occorre però dire che vi furono anche conseguenze positive: con il messaggio cristiano cominciò infatti a farsi strada in tutto il continente, pur tra molte contraddizioni, l’idea del rispetto dei diritti dell’uomo e la coscienza della sua dignità; e d’altra parte le conquiste spagnole portarono alla fine di imperi dispotici e violenti come quello azteco e quello inca, che opprimevano non meno duramente le popolazioni conquistate, anche con l’imposizione dell’obbligo di consegna, ogni anno, di un gran numero di giovani destinati a essere vittime dei sacrifici umani di massa, da essi praticati in modo sistematico.

La decimazione della popolazione nativa, fatto di estrema gravità e drammaticità, fu dovuta in buona parte, come abbiamo visto, alle malattie, che si sommarono alle dure condizioni imposte dai dominatori europei. Tuttavia va detto che non vi fu mai l’obiettivo di annientare completamente gli indigeni, con i quali, al contrario, spagnoli e portoghesi finirono in gran parte per fondersi (questo è testimoniato, ancor oggi, dal fatto che la maggior parte degli abitanti dell’America Latina è costituita da meticci ). Inoltre essi fondarono in queste colonie ospedali, scuole e università, e le arricchirono di splendide chiese, città monumentali e opere d’arte. Ben diverso, come vedremo, sarà il comportamento dei colonizzatori anglosassoni in America del Nord e in Australia dove non verrà mai tentata alcuna fusione con le popolazioni autoctone che verranno sterminate o ridotte a una sparuta minoranza posta in condizioni di inferiorità e segregazione.

Gesuiti

erano detti così i membri della Compagnia di gesù, una congregazione religiosa fondata nel 1540 dallo spagnolo Ignazio di Loyola e dedita in modo particolare alla missione e all’insegnamento.

Meticcio

Persona di sangue misto, nata cioè da genitori appartenenti a popoli diversi.

IL CAMMINO DELLA TECNICA E DELLA SCIENZA

Migliorano le tecniche e gli strumenti di navigazione

Le caravelle: navi leggere e maneggevoli

Le grandi scoperte geografiche avvenute a partire dalla fine del XV secolo furono rese possibili da migliorie e innovazioni introdotte nel campo della navigazione. Per quanto riguarda le navi innanzitutto, alle tradizionali galee, usate nel Mediterraneo, si affiancarono le caravelle di invenzione portoghese. Mentre le prime erano di grandi dimensioni, con uno o due ordini di remi che consentivano di navigare anche in assenza di vento grazie al lavoro dei rematori (generalmente galeotti, da qui deriva il nome di galea), le caravelle erano più piccole e perciò più leggere e manovrabili. erano prive di remi, ma dotate sia di vele quadrate che triangolari (vele “latine”), più facilmente orientabili, che permettevano l’andatura cosiddetta di “bolina”: erano cioè in grado di seguire la rotta anche quando il vento soffiava sulla vela con un angolo minore di 90°, cosa quasi impossibile a navi equipaggiate di sole vele quadre. Altre caratteristiche erano il timone assiale e i ponti pendenti verso l’esterno per permettere alle acque imbarcate di defluire facilmente in mare.

I galeoni per i trasporti oceanici grazie alle loro piccole dimensioni le caravelle erano in grado di navigare anche lungo le coste ricche di scogli e soprattutto di addentrarsi nel-

le foci dei fiumi per risalirli. Quando però si ebbe la necessità di navi più grandi e ben armate per trasportare sull’oceano immensi carichi, vennero costruiti i galeoni che avevano tre o quattro alberi e molte vele di varia grandezza. I galeoni venivano dotati di cannoni leggeri (generalmente colubrine) per consentirne la difesa dagli attacchi di navi nemiche, di pirati o corsari, che miravano a impossessarsi del ricco carico. non di rado questi galeoni viaggiavano in lunghi convogli per aumentarne la capacità di difesa dagli attacchi.

Una nuova strumentazione

Anche nuovi strumenti consentirono di facilitare la navigazione oceanica. Da un lato si diffuse l’uso della bussola, di invenzione cinese, ma introdotta in europa dai marinai amalfitani, che venne perfezionata con l’introduzione della “rosa dei venti”, la rappresentazione schematica dei venti e della loro provenienza. Dall’altro venne diffuso l’uso dell’astrolabio, uno strumento che consentiva di calcolare l’altezza degli astri sull’orizzonte e quindi orientare la navigazione.

Astrolabio

Uno dei quattro astrolabi di ottone esistenti costruiti dalla bottega di Georg Hartmann a Norimberga nel 1537 Collezione Yale Peabody Museum of Natural History, New Haven, Stati Uniti

NON TUTTI SANNO CHE

Chi ha inventato il nome America?

Mappa di Waldseemüller

Library of Congress, Washington, DC

Il nome America, o anche Americi terra (“terra di Amerigo”), per indicare il nuovo continente scoperto inconsapevolmente da Cristoforo Colombo fece la sua comparsa per la prima volta nel 1507, in una mappa del mondo realizzata dal cartografo e umanista tedesco Martin Waldseemüller. Questi, nel realizzarla, tenne conto del resoconto che, dei suoi viaggi verso il “nuovo mondo”, aveva fatto il navigatore fiorentino Amerigo Vespucci. In particolare, in un viaggio compiuto tra il 1501 e il 1502, Vespucci aveva costeggiato la terra ferma fino a oltre il 50° latitudine sud, giungendo molto vicino a quello che poi sarà lo stretto di Magellano, senza incontrare nessuno di quegli indizi che avrebbero dovuto far pensare all’Asia: di qui l’idea di essere di fronte a un nuovo continente. In una lettera a lui attribuita, scrisse infatti: «Arrivai alla terra degli Antipodi, e riconobbi di essere al cospetto della quarta parte della Terra. scoprii il continente abitato da una moltitudine di popoli e animali, più della nostra europa, dell’Asia o della stessa Africa».

La mappa di Waldseemüller, che accompagnava la pubblicazione del racconto dei viaggi di Vespucci,

è di discrete dimensioni (34x18 cm, suddivisa in 12 riquadri rettangolari), e rappresenta l’emisfero occidentale con l’Oceano Pacifico e l’America come continente separato. Andata in un primo tempo perduta, è stata riscoperta nel 1901 e attualmente è conservata presso la Biblioteca del Congresso degli stati Uniti d’America a Washington.

Cristoforo Colombo

Olio su tavola attribuito a Ridolfo del Ghirlandaio (1520 circa), Museo Navale di Pegli, Genova

PROTAGONISTI

Magellano, l’esploratore dell’ignoto

nato in Portogallo attorno al 1480, Ferdinando Magalhães (questo il suo cognome nella versione originale portoghese) si imbarcò nel 1505 come soldato nella flotta dell’ammiraglio Francisco D’Almeida. Combatté dunque nelle guerre che i portoghesi condussero contro gli indiani per la conquista di basi commerciali in America. ebbe così modo di distinguersi per il suo coraggio e il valore in battaglia (le cronache ci dicono che salvò la vita a un suo superiore grazie alla prontezza di riflessi) e si innamorò perdutamente della vita di mare. nel 1515 la sua vita prese una piega inattesa: fu accusato di furto (non si sa se a ragione) e, nonostante le sue proteste di innocenza, venne congedato con disonore dal servizio in armi alla corona portoghese. Decise perciò di lasciare il Portogallo e di passare al servizio della spagna, dove regnava allora Carlo I d’Asburgo (futuro imperatore col nome di Carlo V). Qui cominciò a concepire l’idea di una circumnavigazione del globo: l’America era infatti da tempo un continente conosciuto e in larga parte esplorato, ma nessuno era ancora riuscito a trovare il passaggio tra l’Oceano Atlantico e il Pacifico, e a dimostrare così con i fatti, e non solo con la teoria, che la terra fosse rotonda.

Il progetto di circumnavigare il globo re Carlo si dimostrò interessato e affascinato dal progetto (che avrebbe potuto anche rappresentare un’occasione di guadagno per la corona) e gli concesse i finanziamenti necessari.

La flotta di Magellano, composta da cinque navi e da circa 250 uomini, salpò così il 20 settembre 1519. Dopo quattro mesi di navigazione raggiunse le coste del Brasile, dove rimase due settimane per approvvigionarsi di cibo e acqua. In seguito ripartì, facendo rotta verso il sud del continente: era infatti in possesso di una mappa, secondo la quale il famoso varco tra i due oceani si sarebbe dovuto trovare tra gli odierni Argentina e Uruguay. Arrivato di fronte a quello che in realtà era l’estuario del grande fiume oggi chiamato rio De La Plata, vi entrò senza esitazione: il punto corrispondeva a quello segnato sulla mappa e la larghezza del passaggio faceva pensare che si trattasse di un braccio di mare, non di un fiume (in realtà egli ra-

gionava avendo in mente i fiumi europei, ma quelli sudamericani sono molto più grandi, tanto che i loro estuari assomigliano a dei golfi marini). Dopo parecchi giorni di navigazione, lo spazio aperto non si vedeva, anzi, la distanza tra le due rive diminuiva sempre di più. A quel punto, riconoscendo che la mappa di cui era in possesso era sbagliata, diede ordine di tornare indietro.

L’insubordinazione dei suoi ufficiali

Ciò provocò la rabbia e lo sconforto del suo equipaggio, che ormai da mesi navigava seguendo una rotta sconosciuta, senza sapere se sarebbe mai riuscito a tornare a casa. I tre capitani di Magellano decisero così di effettuare un colpo di mano, arrestarlo, impadronirsi delle navi e tornare in spagna. essi agirono nella notte, ma l’ammiraglio, che era stato attento e che aveva una grande esperienza militare, riuscì a sventarne i piani. non potendo punire con la morte tutte le persone implicate (perché altrimenti non avrebbe più potuto proseguire) decise di abbandonare i due maggiori responsabili sulle coste desolate della Patagonia, con un po’ di cibo e dell’acqua, in modo tale che

fosse il destino a disporre di loro. Dei due non fu più trovata alcuna traccia.

La “Terra del fuoco”

La navigazione continuò, lungo terre sempre più fredde e desolate (si era ormai in prossimità del Polo sud e in quella parte del mondo era già inverno); i marinai videro con frequenza dei bagliori di falò nella notte, probabilmente accesi dalle tribù indigene della zona. Per questa ragione, Magellano battezzò “Terra del fuoco” l’attuale estremo meridionale dell’Argentina. Infine, giunse al passaggio tanto a lungo cercato; si trattava di una via tortuosa e ricca di insidie, che egli superò con grande abilità, opponendosi alle proteste dei suoi marinai, sempre più spaventati dalla navigazione in quelle terre sperdute. La traversata durò un mese e si concluse senza incidenti: Magellano fu il primo e per molto tempo anche l’unico uomo a percorrere con successo lo stretto che ora porta il suo nome. Più di un secolo dopo, fu la volta di sir Francis Drake, un altro dei più grandi navigatori della storia.

Antica e singolare mappa (il sud è in alto) che illustra le avventure dell'esploratore olandese Joris van Spilbergen nello Stretto di Magellano nel 1615

La tragica morte nelle Filippine

Arrivato finalmente a solcare l’Oceano Pacifico (che Magellano battezzò in questo modo a causa della calma delle acque), le navi si spinsero avanti ancora per quattro mesi prima di trovare terra. Quando ormai i viveri erano terminati e le malattie e la spossatezza regnavano a bordo, sbarcarono sulla costa delle isole oggi chiamate Filippine, terre che erano allora sconosciute agli europei. Qui l’ammiraglio e il suo equipaggio poterono rifocillarsi e intrattennero buone relazioni con uno dei re locali, che decise di farsi battezzare, assieme a tutti i suoi sudditi. successivamente, quando il sovrano di un’isola si ribellò all’autorità del nuovo alleato degli spagnoli, Magellano organizzò in suo aiuto una spedizione contro il ribelle. Quella che egli aveva pensato potesse essere una facile vittoria si tramutò invece in una tragedia. Il sovrano ribelle respinse gli invasori e lo stesso Magellano perse la vita nello scontro. era il 26 aprile 1521. Il suo corpo, fatto a pezzi dai vincitori, non trovò mai degna sepoltura. Morto Magellano, il comando della spedizione, ormai ridotta a una sola nave, venne assunto dal suo vice, l’italiano Antonio Pigafetta, originario di Vicenza, cui dobbiamo il resoconto completo della spedizione.

PARTIAMO DALLE FONTI

La pratica dei sacrifici umani presso gli Aztechi

nel suo volume La conquista del Messico hernán Cortés narra gli eventi che lo portarono a conquistare l’Impero Azteco e descrive le caratteristiche, gli usi e i costumi di questa popolazione. Uomo di buona cultura e di costumi abbastanza raffinati (era infatti di origine nobile) egli rimase particolarmente impressionato da una delle pratiche più feroci connesse alla religione azteca, quella dei sacrifici umani, e di questo dà un adeguato resoconto. È facile immaginare come, di fronte a questa descrizione, gli spagnoli provassero un orrore particolare e si sentissero maggiormente spronati nella loro opera di conquista, motivata anche dalla volontà di porre fine a simili usanze.

«gli Aztechi possiedono chiese e cappelle dove conservano gli idoli che adorano, alcuni di pietra, altri di legno. e queste chiese, dove li tengono, sono le più grandi e le meglio costruite del villag-

gio, e le decorano con piume e panni assai lavorati e con ogni specie di ornamento. e tutti i giorni, prima che inizino il lavoro, vi bruciano incensi e a volte sacrificano le loro stesse persone, tagliandosi o la lingua o l’orecchio o altro ancora, dandosi colpi di coltello nel corpo, e offrono a quegli idoli tutto il sangue che sgorga dalle loro ferite. e fanno un’altra pratica orribile e ripugnante e degna di punizione, che fino ad oggi non si è vista in nessuna altra parte: ogni volta che vogliono chiedere ai loro idoli qualcosa, affinché la loro richiesta venga meglio accolta, prendono molte bambine e bambini e anche uomini e donne adulti, e in presenza di quegli idoli aprono ad essi, vivi, il petto e ne estraggono il cuore e le viscere, e li bruciano davanti agli idoli offrendo quel fumo in sacrificio».

hernán Cortés La conquista del Messico, adatt.

Sacrificio di due vittime al tempio mediante l’estrazione del cuore

Codice Magliabechiano (XVI secolo), Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze

PROTAGONISTI

Bartolomeo de Las Casas e non solo

Con la sua azione il frate domenicano Bartolomeo de Las Casas contribuì in maniera decisiva a far conoscere in spagna le dure condizioni in cui le popolazioni indigene d’America vivevano sotto lo sfruttamento dei coloni. Le sue denunce appassionate, anche se a volte esagerate, confluite nel testo Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie scritto nel 1542, seppero conquistare alla causa degli indios molti spagnoli e influirono in maniera determinate su alcuni provvedimenti che i governanti adottarono proprio per tutelare e difendere queste popolazioni. nato a siviglia, in spagna, nel 1484, partì all’età di diciotto anni alla volta dei Caraibi per prendere possesso delle piantagioni lasciategli dal padre, un ex compagno di viaggio di Colombo. Qui però maturò la sua vocazione religiosa, si fece sacerdote nel 1510, entrando successivamente nell’ordine dei frati domenicani. Poté assistere in quegli anni alla prima fase della conquista spagnola, maturando ben presto una totale contrarietà verso i metodi violenti e disumani adottati dai conquistadores. Iniziò così la sua opera di denuncia, con scritti, lettere, predicazioni e molti viaggi che lo portarono più volte a riattraversare l’oceano per portare le sue critiche in madrepatria. esito di questo suo impegno, osteggiato naturalmente da molti coloni, fu l’ottenimento di leggi a favore degli indigeni e che stabilirono la fine del sistema delle encomiende, a suo avviso tra i maggiori responsabili degli abusi dei coloni. Difese ovunque la piena dignità e umanità degli indios, che andavano rispettati nei loro diritti, primo fra tutti quello della libertà e di non subire con la forza l’imposizione del Cristianesimo, richieste queste accolte poi da papa Paolo III nella bolla Sublimis Deus. La sua battaglia gli procurò molti nemici e nel 1547, dopo essere diventato vescovo, dovette lasciare definitivamente il sud America per tornare in spagna, dove morì.

Molti altri uomini di Chiesa difesero gli indios Bartolomeo de Las Casas non fu l’unico religioso a battersi per il rispetto e la difesa degli indios. Ve ne furono anche altri, molto noti ancor oggi in America Latina. Tra questi, fra Toribio de Benavente (detto “Motolinìa” parola che nella lingua india significa “povero”), fra Antonio de Montesinos (colui che convertì Bartolomeo alla causa degli indios), fra Juan de Zumarraga (primo vescovo di Città del Messico), Josè de Anchieta, Toribio de Mogrovejo (vescovo di Lima), Pietro Claver (gesuita, che nel seicento si adoperò per assistere ed evangelizzare gli sventurati schiavi neri che giungevano in America dall’Africa e che fu definito “schiavo degli schiavi negri”). L’opera di tutti questi missionari si connotò per il grande rispetto per gli indios, di cui appresero e valorizzarono lingua, cultura e tradizioni. Molti di loro infatti predicarono e scrissero addirittura testi nelle lingue locali, il guaranì e il quechua. Al culmine di questo lavoro missionario a favore degli indios giunse l’opera di un grande filosofo e teologo spagnolo, Francisco de Vitoria, docente all’università di salamanca, che nel 1539 elaborò il primo testo contenente una accurata dichiarazione sulla tutela dei diritti umani, valida anche per le popolazioni indigene.

Bartolomeo de Las Casas

Tempera su tavola di scuola spagnola (XVI secolo),

Biblioteca Capitular y Colombina, Siviglia, Spagna

SPUNTI DI RIFLESSIONE (PER L’EDUCAZIONE CIVICA)

I diritti dell’uomo secondo de Vitoria

L’esistenza in America di popolazioni indigene dagli usi e costumi molto differenti dai nostri stimolò negli studiosi europei, soprattutto spagnoli e portoghesi, dibattiti e riflessioni sull’uomo. Vedere gli indigeni che ignoravano il Cristianesimo, vivevano nudi nelle foreste, praticavano la poligamia e spesso i sacrifici umani, avevano abitudini alimentari e comportamentali diverse, spinse in un primo momento alcuni di loro a pensare di essere di fronte ad animali più che a uomini. Ben presto però prevalse l’opinione contraria che, sancita anche nella bolla papale Sublimis Deus, affermava la piena umanità degli indios e quindi la necessità che fossero trattati con il rispetto dovuto a tutti gli esseri umani e innanzitutto difesi nella loro libertà. nel 1539 un grande filosofo spagnolo, Francisco de Vitoria, redasse, a questo proposito, una “carta dei diritti” da riconoscere per ogni uomo e quindi anche per gli indios. secondo de Vitoria tutti gli esseri umani, che si caratterizzano per la loro razionalità, sono simili in quanto immagine di Dio e quindi, in virtù della loro umanità, godono di diritti da considerarsi “naturali” perché derivano direttamente dalla natura dell’uomo. Questo testo ebbe grande rilievo nel dibattito teorico del tempo; purtroppo però, come sappiamo, nella realtà di tutti i giorni in America Latina i suoi princìpi stentarono a lungo ad essere rispettati. Questi diritti saranno poi ripresi, ribaditi o riformulati in termini diversi in contesti successivi (ad esempio nell’Inghilterra del seicento o nella rivoluzione francese). nel XX secolo verranno sanciti in una dichiarazione ufficiale sottoscritta da tutti gli stati del mondo appartenenti alle nazioni Unite. sarà utile e interessante a suo tempo riflettere e mettere a confronto queste varie formulazioni non sempre concordanti. ecco una sintesi di questo testo.

«Il diritto che l’uomo ha sulle cose deriva dal fatto che egli è immagine di Dio.

Ogni uomo ha diritto alla verità, all’educazione e a tutto ciò che si riferisce alla sua formazione e promozione culturale e spirituale.

Per diritto naturale, ogni uomo ha diritto alla vita e all’integrità fisica e psichica.

Per diritto naturale tutti gli uomini sono liberi e nell’uso di questa libertà fondamentale gli indios si costituiscono liberamente in comunità e liberamente scelgono i propri governanti.

Ogni uomo ha diritto alla fama, all’onore e alla dignità personale.

gli indios hanno diritto a non essere battezzati o costretti a convertirsi al Cristianesimo contro la propria volontà.

Per solidarietà naturale e per diritto delle genti, tutti gli uomini, indios o spagnoli, godono dello stesso diritto alla comunicazione e all’interscambio di persone, beni o servizi, senza altri limiti che il rispetto della giustizia e dei diritti degli abitanti del luogo.

nessuno può essere condannato senza prima essere stato ascoltato e sempre dall’autorità pubblica e competente, e in conformità con le leggi. non è sufficiente che il re di spagna promulghi leggi giuste e adeguate alle capacità e allo sviluppo degli Indios è altresì obbligato a inviare governanti competenti e disposti ad applicarle». Francisco de Vitoria Corpus Hispanorum de Pace, adatt.

1. Da che cosa derivano i diritti dell’uomo?

2. Quali sono i diritti fondamentali, secondo de Vitoria? Riesci a formularne un elenco?

3. Ti sembrano formulazioni valide anche per gli uomini di oggi?

4. Stando a quanto si capisce dal testo, ci sono dei diritti validi solo per gli spagnoli e non per gli indios?

5. È lecito, secondo de Vitoria, imporre agli indios con la forza il Cristianesimo?

6. Che cosa si dice riguardo ai processi?

7. Secondo de Vitoria, è sufficiente promulgare leggi giuste o questo non basta?

8. Che cosa bisogna fare oltre a questo?

9. Perché, secondo te, lo studioso spagnolo sente la necessità di aggiungere la frase riportata al termine del testo?

RACCONTIAMO IN BREVE

1. La grande epopea delle esplorazioni intercontinentali iniziò sul finire del XV secolo. Coraggiosi navigatori si spinsero oltre le “Colonne d’Ercole” per spirito di avventura, ma anche per trovare nuove rotte commerciali per le Indie dopo la presa di Costantinopoli da parte dei turchi e la conseguente impraticabilità delle vie prima usate. I portoghesi cercarono di circumnavigare l’Africa, arrivando con Vasco da Gama fino alle coste dell’India; gli spagnoli, con Cristoforo Colombo, puntarono all’attraversamento dell’Oceano, andando verso occidente per raggiungere le Indie. Il viaggio di Colombo ebbe un esito imprevisto: la scoperta di quello che, in seguito a viaggi di altri esploratori tra cui Amerigo Vespucci, verrà riconosciuto essere un nuovo continente, l’America.

2. La circumnavigazione del globo verrà portata a termine dalla spedizione del portoghese Ferdinando Magellano: con lui, probabilmente il più grande navigatore di tutti i tempi, quasi tutto il pianeta, con l’eccezione dell’Oceania, potrà dirsi conosciuto.

3. A seguito di queste esplorazioni iniziò il processo di colonizzazione del nuovo continente. Spagna e Portogallo si spartirono le nuove terre e ne iniziarono lo sfruttamento. A conquistare i nuovi territori per conto della Spagna provvidero i conquistadores, bellicosi avventurieri che, pur inferiori di numero, riuscirono facilmente a sottomettere le popolazioni indigene tecnologicamente più arretrate. Le più importanti tra queste popolazioni “precolombiane”, erano i Maya, gli Aztechi e gli Incas. Esse praticavano un’agricoltura decisamente povera, ignoravano la ruota e le armi da fuoco. In qualche caso praticavano su larga scala sacrifici umani.

4. Per gestire i nuovi territori gli spagnoli crearono il sistema delle encomiende: la concessione di terreni a coloni che ne avrebbero sfruttato le risorse utilizzando gli indios come mano d’opera. Purtroppo il comportamento dei coloni fu molto brutale. Gli indios, ritenuti privi di umanità, vennero sfruttati e ridotti in schiavitù. Molti morirono in seguito alla violenza dei colonizzatori spagnoli, alle dure condizioni di vita e di sfruttamento a cui vennero sottoposti e alle malattie che giunsero in America dall’Europa.

5. Ben presto si levarono voci, soprattutto di missionari, che condannavano questi abusi. Ciò spinse i sovrani di Spagna e lo stesso papa a intervenire e a prendere provvedimenti per tutelare e difendere gli indios. Purtroppo questi provvedimenti inizialmente ebbero scarsa efficacia. Nel tempo però posero le basi per una migliore convivenza e integrazione che si svilupperanno nei secoli successivi.

ATTIVITÀ E VERIFICHE

Esercizio 1 · Rispondi, anche oralmente, alle seguenti domande.

1. Che cosa aveva scoperto eratostene?

2. Quali invenzioni in campo marinaro favorirono i viaggi oceanici dei portoghesi?

3. Quali località raggiunsero Bartolomeo Dias e Vasco da gama?

4. Qual era l’ipotesi formulata da Toscanelli?

5. Quale fu l’erronea convinzione di Colombo, una volta raggiunta la terraferma al termine del suo viaggio?

6. A quale conclusione giunse Amerigo Vespucci dopo le sue esplorazioni?

7. Che cosa scoprì Cabral?

8. Quale impresa compì Ferdinando Magellano?

9. Chi erano i conquistadores?

10. Quali cause portarono alla decimazione degli indios?

11. Che cosa stabiliva la bolla papale Sublimis Deus?

12. Chi era Bartolomeo de Las Casas?

Esercizio 2 · Completa la linea del tempo: scrivi il numero del fatto storico sulla data corretta.

1. Bartolomeo Dias raggiunge il Capo di Buona speranza

2. Trattato di Tordesillas

3. Bolla Sublimis Deus di papa Paolo III

4. I turchi conquistano Costantinopoli

5. Viaggio di Magellano

6. Viaggio di Vasco da gama

7. Cristoforo Colombo scopre l’America

Esercizio 3 · Indica se l’affermazione riportata è vera o falsa.

Il primo paese ad avviare le esplorazioni via mare fu il Portogallo. V F Cristoforo Colombo intendeva raggiungere il Ponente andando verso il Levante. V F nunez de Balboa attraversò l’istmo di Panama raggiungendo l’Oceano Pacifico. V F Amerigo Vespucci completò la circumnavigazione del globo. V F La conquista dell’America del sud fu condotta pacificamente dai conquistadores. V F gli Aztechi praticavano i sacrifici umani. V F spagnoli e portoghesi si fecero guerra per la spartizione dell’America Latina. V F 1453 1486 1492 1494 1497-1499 1537 1519-1522

Esercizio 4 · Per completare la frase iniziale scegli fra le tre alternative proposte quella che ti sembra oltre che esatta anche precisa e formulata con il linguaggio più appropriato.

Le nuove esplorazioni via mare furono determinate

a. dalla caduta di Costantinopoli in mano ai turchi, che rese impossibili i collegamenti diretti con l’Asia.

b. dalla rivalità tra spagna e Portogallo che miravano a costruire grandi imperi coloniali.

c. dagli studi di geografi e cartografi.

Il Trattato di Tordesillas stabiliva che

a. gli indigeni non potevano essere sottoposti a schiavitù.

b. i nuovi possedimenti dovevano essere colonizzati assieme da spagna e Portogallo.

c. una linea immaginaria avrebbe diviso tra spagna e Portogallo le nuove terre scoperte.

Le popolazioni precolombiane

a. avevano uno sviluppo economico e tecnologico avanzato.

b. praticavano un’agricoltura primitiva, non possedevano una tecnologia avanzata e in qualche caso praticavano sacrifici umani.

c. erano popoli pacifici e civilizzati.

Le encomiendas erano

a. territori conquistati dai coloni spagnoli.

b. appezzamenti di terreno concessi in gestione ai coloni spagnoli che si servivano di manodopera indigena.

c. accordi tra coloni spagnoli e portoghesi per lo sfruttamento commerciale dei territori scoperti.

La maggior parte degli indigeni morì

a. per le dure condizioni di vita e di lavoro imposte dai coloni spagnoli e per il dilagare delle malattie.

b. per le violenze subite durante la conquista degli spagnoli.

c. per la fame e la denutrizione dovute alla perdita dei terreni coltivabili di cui si erano impossessati gli spagnoli.

Esercizio 5 · Completa la seguente mappa concettuale inserendo al posto giusto i concetti suggeriti.

Presa di Costantinopoli ad opera dei turchi

Il Portogallo sceglie di circumnavigare l’Africa

scoperta dell’America

La spagna trae i maggiori vantaggi economici dalle nuove scoperte

necessità di aprire nuove rotte commerciali verso l’Oriente

La spagna segue la rotta atlantica

Presa di Costantinopoli ad opera dei turchi

Sermone nel tempio protestante di Lione detto del Paradiso Tavola attribuita a Jean Perrissin (1564), Musée international de la Réforme, Ginevra

Si noti che al centro della chiesa è collocato il pulpito dal quale il pastore pronuncia il suo sermone e che i fedeli guardano con attenzione verso di lui. Nelle chiese protestanti al centro della celebrazione non sta l’eucaristia, ma la predicazione della parola di Dio.

La rivoluzione protestante

Una nuova concezione del Cristianesimo

Quella che Lutero promosse nei primi decenni del XVI secolo fu ben più di una riforma della Chiesa.

Egli, infatti, non si limitò a criticare gli abusi degli ecclesiastici e a chiedere il ritorno alla purezza di vita evangelica. Dopo quindici secoli di storia, propose un modo del tutto nuovo di interpretare l’esperienza religiosa e di concepire e vivere il Cristianesimo.

Il suo era un Cristianesimo del tutto interiore, soggettivo, che si fondava sull’idea che la salvezza viene solo dalla fede, vista come esperienza personale e intima, non legata alle opere che l’uomo può compiere. Egli negava che dalla tradizione della Chiesa potesse venire l’autentica interpretazione della Scrittura e che essa potesse fare da intermediaria tra l’uomo e Dio. Negava, di conseguenza, i sacramenti, l’autorità del papa e dei vescovi, l’ordine sacro e affermava il principio della libera interpretazione della Bibbia da parte di ogni fedele.

Questa visione radicalmente nuova attecchì, soprattutto nel mondo tedesco, per una serie di ragioni anche politiche.

L’esito, dopo un periodo drammatico di cruenti conflitti, fu la definitiva rottura dell’unità religiosa che, sotto la guida della Chiesa Cattolica, si era realizzata nel Medioevo.

La modernità, con la sua frammentazione politica e religiosa, era ormai alle porte.

AL TERMINE DEL CAPITOLO

Schede di approfondimento

• Erasmo da Rotterdam, uomo di moderazione in un’età drammatica

• Il linguaggio veemente di Lutero

• La caccia alle streghe: un fenomeno sostanzialmente moderno

• Le chiese protestanti… apparentemente simili, ma molto diverse da quelle cattoliche

Raccontiamo in breve

Attività e verifiche

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per non perdere il filo

Perché, secondo Lutero, le opere non possono portare l’uomo alla salvezza?

1 · Il pensiero di Martin Lutero

Il dramma interiore di Lutero

Martin Lutero nacque nel 1483 nella regione tedesca della Sassonia da una famiglia di origini contadine. Dopo aver compiuto gli studi universitari, nel 1505 entrò in convento a Erfurt, diventando monaco agostiniano. Questa decisione fu presa anche in seguito a una circostanza drammatica, un voto fatto in occasione di un furioso temporale nel quale, colpito e gettato a terra da un fulmine, rischiò di morire. Terrorizzato, in quella occasione fece voto, in cambio della salvezza, di dedicarsi alla vita religiosa. Questo e altri episodi della sua infanzia e della sua giovinezza ci fanno capire che aveva un temperamento piuttosto istintivo e fortemente emotivo, e ciò avrà un peso importante in tutte le scelte che successivamente compirà. Una volta entrato in convento, si impegnò con decisione ed energia nelle pratiche richieste dalla regola, preghiere, digiuni, penitenze, senza però mai raggiungere quella pace interiore cui aspirava. Ben presto si rese conto che, nonostante gli sforzi e le buone azioni, non era capace di diventare buono, di eliminare il peccato dalla propria vita e quindi di raggiungere da sé la salvezza eterna. Si sentiva sempre in colpa davanti a Dio che, così gli era stato insegnato, immaginava come un giudice severo e inflessibile nei confronti dell’uomo peccatore. Non contribuì a migliorare i suoi sentimenti neppure un viaggio che fece a Roma. Qui vide la vita corrotta e mondana degli ecclesiastici che frequentavano la sfarzosa curia papale e ne trasse un'impressione fortemente negativa.

Solo la fede salva l’uomo, non le sue opere

Approfondendo lo studio della Bibbia, in particolare della Lettera ai Romani di san Paolo, Lutero credette finalmente di trovare la risposta alle sue ansie. Arrivò infatti a pensare che l'uomo non può mai diventare buono davanti a Dio affidandosi solo alle proprie forze e alla propria buona volontà. Per quanto si sforzi le sue azioni saranno sempre malvagie, perché il peccato originale, commesso da Adamo ed Eva, ha distrutto definitivamente in lui la capacità di fare il bene. L'uomo è così definitivamente schiavo del male e del peccato. Per salvarsi e per raggiungere il Paradiso quindi non può contare sulle sue opere ma può solo sperare nel perdono di Dio e affidarsi alla sua grazia, che si è manifestata con la morte in croce di Gesù per salvare l'umanità. Con il sacrificio del Figlio, Dio però non ha cancellato i peccati degli uomini e non li ha resi più buoni, li ha solo giustificati, cioè ha deciso di non tenere più conto delle loro colpe, come se con un mantello coprisse le loro sporcizie e non le lavasse con l'acqua. Questo è il punto che segna l'inizio del distacco di Lutero dalla dottrina cattolica.

L’abuso della vendita delle indulgenze

Mentre Lutero sviluppava queste riflessioni scoppiò in Germania uno scandalo terribile. Un giovane vescovo, il nobile Alberto di Brandeburgo, che già era vescovo di una città e ne amministrava un’altra, volle diventare vescovo anche di una terza diocesi , una delle più importanti della Germania, Magonza. Il suo scopo era di accumulare sempre più beni e ricchezze e questo già di per sé costituiva motivo di scandalo. Per ottenere l’autorizzazione dal papa Leone X a fare questo, egli si impegnò a versare a Roma una forte somma di denaro, 24.000 ducati che sarebbero serviti a completare la costruzione della basilica di San Pietro. Per raccogliere questa somma gli era stato concesso di mettere in vendita le indulgenze, facendo ricorso alla collaborazione dei banchieri Fugger. Come già visto, le indulgenze consentivano di scontare le pene temporali (in

Martin Lutero

Olio su tavola di Lucas Cranach il Vecchio (1529), Galleria degli uffizi, Firenze

Diocesi

Territorio su cui si estende la giurisdizione di un vescovo. Il termine risale però alle antiche circoscrizioni amministrative romane.

Abuso

uso scorretto e arbitrario di qualcosa con particolare riferimento al cattivo uso di un potere.

Perché la vendita delle indulgenze costituiva un abuso?

sostanza gli anni da trascorrere, dopo la morte, in purgatorio) in cambio però di un sincero pentimento del penitente e di opere di preghiera e carità. Non certo pagando una tariffa! In questa circostanza lo scandalo era proprio dato dal fatto che tali indulgenze venivano messe in vendita, addirittura sui banchi dei banchieri. Era come se uno potesse andare in banca e comprarsi il paradiso, senza che nemmeno vi fossero in lui un sincero pentimento e una profonda volontà di conversione. Si trattava di un abuso , un vero scandalo che ogni buon cristiano non poteva accettare.

Le “95 tesi” contro le indulgenze

Lutero reagì con durezza e in modo molto polemico. Se l’uomo non poteva salvarsi con le opere buone, tanto meno poteva farlo con i soldi! Egli scrisse ben 95 argomenti (tesi) contro la pratica delle indulgenze e il 31 ottobre 1517 affisse queste sue critiche alla porta della chiesa del castello di Wittenberg dove viveva. Per la verità quest’ultima circostanza non risulta del tutto provata. Probabilmente in un primo momento si limitò a mostrare le sue critiche a un gruppo ristretto di persone, amici e teologi. Sta di fatto che dopo un po’ le sue idee vennero conosciute da molti e suscitarono le prime grandi discussioni. Da questo momento prese inizio quella che verrà chiamata “Riforma protestante”, e che in realtà sarà una vera e propria rivoluzione religiosa.

2 · L’elaborazione della dottrina di Lutero

La critica di Lutero si allarga all’insieme della dottrina cattolica

La riflessione di Lutero non si fermò qui. Nel giro di pochi anni egli sottopose a una critica serrata tutti i princìpi della dottrina cattolica. Negò per prima cosa la validità dei sacramenti che, in quanto semplici azioni umane, non hanno nessuna utilità per condurre l'uomo alla salvezza, che dipende solo da una profonda fede interiore nella grazia di Dio. Per la verità, egli conservò due sacramenti, il Battesimo e l’Eucaristia, spiegandoli però in modo radicalmente diverso dalla Chiesa. In particolare riguardo all'Eucaristia, egli negò la transustanziazione e questo spinse dei teologi suoi seguaci a negare nella Messa la reale presenza del sacrificio di Gesù per ridurla solo a una rievocazione, un ricordo.

Negò poi la funzione del papa, dei vescovi e del sacerdozio. Secondo lui, infatti, non servivano i sacerdoti per amministrare i sacramenti, e nemmeno il papa e i vescovi per insegnare e ammaestrare nella fede i credenti. Ogni singolo fedele poteva leggere e interpretare a suo piacimento la Sacra Scrittura senza, come invece stabiliva la dottrina cattolica, che ci fosse un’autorità, il magistero del papa e dei vescovi, che ne garantisse l’esatta interpretazione. In sostanza ogni fedele era “sacerdote di se stesso”.

Transustanziazione

Trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo che avviene, secondo la dottrina cattolica, nel corso della Santa Messa. Lutero rifiutava questo concetto preferendo quello di consustanziazione, secondo cui il corpo e il sangue di Cristo si uniscono semplicemente al pane e al vino

La vendita delle indulgenze Xilografia di Hans Holbein il giovane (XVI secolo), Rosenwald Collection, National Gallery of Art, Washington, DC

L’opera, di parte luterana, esprime chiaramente le accuse di Lutero contro il papa. Nella parte destra infatti è ritratto papa Leone X che concede l'assoluzione dei peccati a chi può pagare mentre i poveri (in primo piano) devono farne a meno. Su lato sinistro invece sono rappresentati i personaggi biblici di re Manasse, del re Davide e del centurione romano che, pentiti dei loro peccati, chiedono perdono a Dio che li accoglie a braccia aperte, a significare che la salvezza non si compra col denaro, ma si acquista col pentimento e la preghiera.

Perché Lutero negava che dovesse esistere la Chiesa?

La Chiesa non aveva quindi più nessuna ragione di esistere come “intermediaria” della salvezza e ogni fedele regolava da sé i propri rapporti con Dio. Addirittura, nei momenti in cui più esprimeva il proprio rancore contro la Chiesa, Lutero ricorreva a espressioni molto forti: la considerava un’opera demoniaca che allontanava gli uomini da Dio, anziché avvicinarli, e parlava di “superstizione papista”. Il culto cristiano andava infine rivolto solo a Gesù: Lutero si schierò contro il culto della Madonna e dei santi che, a suo dire, non potevano recare nessun aiuto all’uomo in ordine alla salvezza.

Lutero cristiano, ma non più cattolico: la sua fu una rivoluzione più che una riforma È ormai chiaro come su tutti i punti principali della dottrina cristiana, Lutero aveva preso posizioni decisamente contrarie all'insegnamento della Chiesa. Egli poteva ancora dirsi cristiano in quanto conservava la fede in Gesù Cristo, figlio di Dio, morto in croce e risorto per salvare i peccatori; ma la sua non era più una posizione cattolica in quanto negava la validità della Chiesa e la sua realtà “sacramentale” cioè il fatto che attraverso i sacramenti essa potesse condurre l'uomo alla salvezza. Per questo, più che una semplice “riforma” la sua fu una vera e propria rivoluzione. La Chiesa nata dal suo insegnamento, detta “evangelica”, si presenta perciò

Lutero brucia la bolla papale

Incisione del XVI secolo

ancora oggi molto diversa da quella cattolica. I suoi “pastori” non celebrano il “sacrificio eucaristico” e quindi non sono propriamente sacerdoti, ma soltanto predicatori, annunciatori della Scrittura. Tra l’altro, diversamente dai sacerdoti della Chiesa Cattolica di rito latino, possono sposarsi e avere famiglia.

3 · Le conseguenze sul piano storico

Inizia lo scontro con Roma

Inizialmente il papa Leone X non sembrò molto preoccupato per le notizie provenienti dalla Germania. Già altri in passato avevano mosso critiche alla Chiesa, ma poi la loro protesta era finita nel nulla. Così, pensava il papa, sarebbe successo anche con Lutero. E invece le cose andarono diversamente, anche perché il monaco ribelle cominciava ad avere molti seguaci, soprattutto tra i nobili e i principi tedeschi, ed era ben deciso a continuare nella sua azione. Quando il papa si rese conto della situazione, cercò di intervenire chiamando a Roma Lutero per interrogarlo e poi inviando in Germania un suo emissario per cercare di convincerlo a ritrattare le sue idee. Di fronte alle risposte negative di Lutero scattò la scomunica (1521). Il monaco tedesco rispose a sua volta in modo durissimo: sulla piazza di Wittenberg bruciò davanti alla folla il documento del papa che conteneva l’atto di scomunica. La sfida era ormai lanciata.

Interviene anche l’imperatore

La questione a questo punto divenne anche politica: nella rivolta di Lutero stavano infatti iniziando a intervenire anche i principi e il popolo tedesco e questo metteva in pericolo la pace e la tranquillità dell’Impero. Quindi decise di intervenire anche l’imperatore Carlo V, che convocò Lutero in una Dieta a Worms, ma anche in questa circostanza il monaco ribelle si rifiutò di rivedere le sue posizioni. Fu allora condannato a morte dall’imperatore come “eretico convinto”. Nel frattempo però egli era riuscito a mettersi al sicuro, rifugiandosi a Wartburg, presso il castello del potente princip e elettore di Sassonia, Federico il Savio, che gli offrì la sua protezione. Qui rimase per un po’ di tempo, continuando i suoi studi e dedicandosi in particolare alla traduzione dal latino al tedesco della Bibbia. Questa era per lui un’opera assolutamente necessaria per portare avanti la sua riforma: se infatti ogni fedele doveva poter leggere e interpretare come voleva la Sacra Scrittura, occorreva che essa fosse disponibile non più soltanto in latino, ma anche nella lingua che tutto il popolo conosceva.

Perché Lutero non può più essere considerato cattolico?

Perché inizialmente il papa non si mostrò molto preoccupato per la predicazione di Lutero? Perché poi lo scomunicò?

Principe elettore

Si chiamavano in questo modo i sette principi che, secondo la Bolla d’Oro, emanata da Carlo IV nel 1356, potevano eleggere l’imperatore. Il principe di Sassonia era uno di questi.

Perché anche l’imperatore

Carlo V intervenne per sedare la rivolta di Lutero?

Perché, per Lutero, era importante la traduzione in tedesco della Bibbia?

Castello di Wartburg, Eisenach, Germania

Decime

Era il tributo che i fedeli dovevano pagare alla Chiesa e con cui essa finanziava sia il mantenimento del clero e degli edifici di culto sia le proprie opere caritative e assistenziali. Il nome era di origine romana: nell’antica Roma si doveva infatti pagare al fisco la decima parte del raccolto nelle terre conquistate.

Perché molti principi tedeschi sostennero Lutero?

La dottrina di Lutero si diffonde e la Germania si spacca in due La stampa, appena inventata, favorì la diffusione della Bibbia in tedesco e degli altri scritti di Lutero, che cominciò ad avere sempre più seguito anche grazie al sentimento di ostilità verso Roma e il papato che da tempo si era diffuso in Germania. A unirsi al monaco ribelle furono in particolare altri principi tedeschi che seguirono l’esempio di Federico il Savio. A volte lo fecero perché ne condividevano la dottrina, più spesso per interessi politici ed economici. Se l’azione di Lutero avesse avuto successo infatti, essi si sarebbero sbarazzati della Chiesa Cattolica, e avrebbero potuto così impossessarsi di tutti i beni, terre e palazzi, che essa aveva nei loro territori, nonché delle decime , cioè delle tasse che allora i fedeli versavano a Roma. Inoltre avrebbero avuto sotto pieno controllo la vita religiosa dei loro sudditi.

Nascono i “protestanti”

Quando perciò, in una Dieta convocata a Spira nel 1529, Carlo V volle ricondurre all’obbedienza a Roma i principi schierati con Lutero, questi si ribellarono dando vita a un’azione di protesta (proprio da questo momento si cominciò a usare l’espressione “protestanti”

per definire i seguaci di Lutero). L’anno seguente, poi, costituirono un’alleanza, detta Lega di Smalcalda, che si proponeva di lottare contro l’imperatore e contro gli altri principi rimasti fedeli al Cattolicesimo. Iniziò così una guerra di religione che durò parecchi anni.

La rivolta dei cavalieri e dei contadini

Oltre ai principi, nella ribellione di Lutero si coinvolsero ben presto anche altri ceti sociali. Cominciarono i cavalieri che, col pretesto di seguire i nuovi insegnamenti luterani, davano l’assalto a chiese e conventi per depredarli delle loro ricchezze. A questi si aggiunsero i contadini che, guidati da un acceso predicatore, Thomas Müntzer, assalivano i castelli dei nobili per impossessarsi delle loro terre. Essi sostenevano che non bisognava aspettare la fine del mondo per vedere realizzato il Regno di Dio, ma che, al contrario, esso si doveva realizzare subito, su questa terra. E per farlo bisognava porre fine, anche con la violenza, alle ingiustizie e alle disuguaglianze tra ricchi e poveri e distribuire a questi ultimi i beni e le ricchezze dei nobili.

La durissima reazione di Lutero

Lutero reagì con estrema durezza a queste rivolte che giudicava strumentalizzazioni politiche della sua dottrina. Mai avrebbe potuto tollerare dei disordini sociali che mettessero a rischio l’esito della sua azione e creassero difficoltà ai principi che in quel momento lo stavano sostenendo. Intervenne quindi in favore di questi ultimi, incitandoli a reprimere duramente le rivolte dei contadini, da lui definiti “cani furiosi”, che minacciavano l’ordine della società. E così avvenne. Prima i cavalieri e poi i contadini ribelli vennero sconfitti e massacrati dagli eserciti dei principi. Oltre 5.000 furono i morti e lo stesso Müntzer fu prima torturato e poi giustiziato.

Falliscono tutti i tentativi di riconciliazione: ormai la frattura è insanabile

Gli anni successivi videro l’alternarsi di tentativi di riconciliazione, per la verità sempre più timidi, e momenti di duro scontro militare. Nel 1545 prese avvio il Concilio di Trento, di cui parleremo più avanti, che non portò a nessun riavvicinamento, ma al contrario consolidò le contrapposizioni. Nel 1547 l’imperatore, schierato ormai decisamente con le forze cattoliche, ottenne una schiacciante vittoria sulle truppe protestanti nella battaglia di Mühlberg, sull’Elba, ma non riuscì a trarne tutte le conseguenze positive che aveva sperato, in quanto dovette volgere la sua attenzione ad altri gravi problemi che attanagliavano in quel momento l’Impero.

Perché Lutero reagì duramente contro i contadini ribelli?

Incisione di Antonio Tempesta (1614), Rijksmuseum

Amsterdam, Paesi Bassi

La pace di Augusta: cuius regio eius religio

Morto Lutero, nel 1546, si giunse infine a una pace tra l’imperatore, i principi cattolici e quelli protestanti ad Augusta (1555). In questa pace si stabilì il principio del cuius regio eius religio. In sostanza, da allora in poi negli stati tedeschi i sudditi avrebbero dovuto seguire la religione del proprio principe. In tal modo si sarebbero evitati per il futuro conflitti interni. Si trattava di una soluzione poco rispettosa della libertà di fede delle singole persone che dovevano obbligatoriamente conformarsi alla scelta religiosa del proprio principe (e a quelle che non lo facevano non rimaneva che la possibilità di emigrare altrove), ma fu allora accettata come l’unico modo per porre fine alle guerre di religione che avevano sconvolto per qualche decennio la Germania. Ormai, con questo accordo, si crearono delle Chiese luterane di stato poste sotto l’autorità dei vari principi. Lutero aveva vinto la sua battaglia per staccarsi da Roma, ma il prezzo che dovette pagare fu altissimo: la sua Chiesa fu totalmente sottomessa al potere politico dei principi.

Carlo V concede
la grazia al duca di Sassonia

4 · Le altre confessioni protestanti

Il mondo protestante si frantuma

Lutero aveva affermato il principio che ognuno poteva liberamente interpretare le Sacre Scritture e ricavarne a suo piacimento insegnamenti diversi. Seguendo questo principio e prendendo esempio dal monaco tedesco altri “riformatori” ben presto proposero un loro modo di intendere il Cristianesimo e fondarono delle loro “chiese”, diverse sia da quella cattolica sia da quella di Lutero. Prima furono poche, poi sempre più numerose nei secoli successivi: ancora oggi nel mondo continuano a sorgere centinaia di nuove confessioni cristiane, talvolta delle vere e proprie sette . Era questo l’esito prevedibile e inevitabile, una volta negato il riconoscimento di un’autorità unica nella Chiesa e affermato il principio del “libero esame”.

Calvino e la dottrina della predestinazione

Il riformatore più importante dopo Lutero fu sicuramente il francese Giovanni Calvino (1509-1564), che operò nella città di Ginevra. La sua dottrina, diffusa inizialmente solo nella Svizzera di lin-

Setta

Associazione di carattere religioso, ma anche politico e filosofico, talvolta segreta, caratterizzata da atteggiamenti di netta chiusura rispetto a ogni forma di dialogo con l’esterno.

Perché dopo Lutero nacquero molte altre Chiese cristiane?

Strega

Con questo termine si indicavano donne accusate di avere rapporti con le potenze demoniache e che, grazie a questo, operavano azioni delittuose di particolare gravità e nefandezza. La parola deriva dal vocabolo latino strix, nome dato a un uccello notturno che si riteneva succhiasse il sangue dei neonati.

Perché si dice che quello di Calvino a Ginevra fu un governo teocratico?

gua francese, ebbe in seguito grande successo anche altrove; si può dire anzi che il Calvinismo ebbe una maggior diffusione rispetto allo stesso Luteranesimo. Il punto centrale della visione religiosa calvinista era la dottrina della predestinazione. Secondo Calvino, che partiva dall’insegnamento di Lutero per andare oltre, se non è l’uomo con i suoi sforzi a raggiungere il paradiso, allora significa che la decisione a riguardo spetta solo a Dio. È lui che decide e destina gli uomini alla salvezza o alla dannazione eterna fin dalla nascita. All’uomo non rimane che cercare di capire, durante la sua vita, qual è il destino che Dio ha deciso per lui e uno dei segnali della benevolenza divina è il successo terreno. L’uomo che si realizza con soddisfazione nelle attività terrene, che “riesce”, soprattutto nel lavoro, è benvoluto da Dio e destinato alla salvezza eterna.

Il governo teocratico di Ginevra

Calvino non si limitò a predicare la sua dottrina, ma cercò anche di imporla prendendo in mano il governo della città in cui viveva, Ginevra. Qui costituì una sorta di teocrazia attraverso la quale i suoi princìpi vennero imposti per legge, e quindi con la forza, a tutti gli abitanti. I comportamenti ritenuti immorali vennero duramente perseguiti, furono abolite feste e divertimenti e un clima di rigido moralismo calò sulla città. Naturalmente anche il dissenso in materia religiosa, e non solo quello dei cattolici, venne colpito. Celebre fu il caso di un medico spagnolo residente in città, Michele Serveto che, discostandosi su alcuni punti dall’insegnamento di Calvino, venne da questi fatto condannare a morte sul rogo. In questo contesto prese vigore anche la caccia alle streghe che si diffuse soprattutto in molte regioni del nord protestante.

La diffusione del Calvinismo

Ugonotti

Termine derivante dal francese huguenots, a sua volta traduzione dal tedesco eidgenossen che significa “confederati”, appellativo col quale si designavano i ribelli calvinisti.

Perché il Calvinismo ebbe un grande successo?

Nonostante queste rigidità, il Calvinismo godette di un consenso molto ampio, soprattutto in quanto incoraggiava le persone ad impegnarsi attivamente nel campo del lavoro e dell'imprenditoria (qualche studioso, ma si tratta di una tesi contestata da molti, ritiene che addirittura sia all’origine dell’economia capitalistica occidentale). Esso si diffuse ben presto anche al di fuori della Svizzera, nei Paesi Bassi, in Francia (dove i calvinisti presero il nome di “ugonotti ”), in Inghilterra. Questa dottrina avrà larga diffusione anche presso i coloni che popolarono l’America del Nord (ricordiamo che calvinisti, detti puritani, erano i “padri pellegrini” che nel 1620 fondarono le prime colonie inglesi in America settentrionale). Sostanzialmente estranei alle idee calviniste, e più in generale al Protestantesimo, rimasero Italia, Spagna, Portogallo, ma anche le aree meridionali della Germania, l’Austria, l’Irlanda e, a est, Polonia e Lituania.

L’Anabattismo

Un cenno infine va fatto a un’altra corrente protestante a quel tempo molto diffusa. Si tratta dell’Anabattismo, chiamato così perché sosteneva che il battesimo dato ai neonati non fosse valido e che quindi bisognasse procedere a un secondo battesimo in età adulta. L’Anabattismo nacque in Svizzera negli ambienti vicini a un altro celebre riformatore del tempo, Ulrich Zwingli, ucciso nel 1531 in uno scontro armato. Da qui si diffuse in alcune aree tedesche e nei Paesi Bassi, raccogliendo anche l’adesione dei seguaci di Thomas Müntzer. In varie parti d’Europa gli anabattisti diedero vita ad azioni violente, finendo per essere in gran parte sterminati. Assunte posizioni più pacifiche, essi riuscirono a sopravvivere nel tempo. Attualmente legate a questa dottrina sono alcune correnti protestanti diffuse soprattutto in America, quali i battisti e gli avventisti.

La diffusione del Protestantesimo

Calvinisti

Luterani Anglicani

Perché l'anabattismo prese questo nome?

Wittenberg
Danubio
Reno
Rodano
Trento
Ginevra

PROTAGONISTI

Erasmo da Rotterdam, uomo di moderazione in un’età drammatica

Un grande umanista

Tra i protagonisti di quest’epoca drammatica va annoverato sicuramente Erasmo da Rotterdam, grande intellettuale, letterato e umanista, famoso e ascoltato nell’Europa di quel tempo, e anch’egli coinvolto nel clima di accese discussioni e di scontri avviato dalla rivolta di Lutero. Nato nella città olandese attorno al 1466 (la data è tuttora incerta), fu avviato agli studi religiosi e divenne sacerdote, ma esercitò poi molto poco il suo ministero; ad attrarlo furono fin da subito gli studi delle lettere classiche di cui divenne uno dei maggiori e più ascoltati esperti. Perfetto esempio di umanista, viaggiò moltissimo per biblioteche e corti in cerca di libri e di contatti intellettuali. Fu spesso ospite delle città italiane (Torino, Bologna, Roma, Venezia dove fu accolto dallo stampatore Aldo Manuzio). Si impegnò strenuamente in tutti i campi in cui allora si discuteva, da quello religioso e teologico a quello politico e morale, prendendo parte al dibattito sulla riforma della Chiesa diffusosi ben presto anche al di fuori della Germania.

Difensore della libertà dell’uomo contro Lutero

Quando Lutero diede avvio alla sua opera di contestazione Erasmo ne condivise alcuni obiettivi. Soprattutto criticava nella Chiesa gli abusi e la corruzione. Rifiutò però di seguire il monaco tedesco quando questi si staccò definitivamente da Roma per fondare una sua Chiesa. Ciò che lo allontanava da lui erano sia il linguaggio (Lutero era violento e aggressivo mentre Erasmo brillava per la sua moderazione) sia soprattutto la differente concezione dell’uomo. Egli non condivideva infatti il pessimismo di Lutero che sosteneva, come abbiamo visto, che dopo il peccato originale l’uomo non ha più la capacità di tendere al bene ed è divenuto interamente schiavo del male. Per Erasmo, invece, l’uomo conserva ancora la sua libertà, non è totalmente in balia del peccato: è quindi ancora capace di scegliere il bene e ha una responsabilità in questa scelta. A causa di tali divergenze I due entrarono in forte polemica e scrissero opere importanti per so-

stenere le loro opposte teorie: Erasmo pubblicò il De libero arbitrio, al quale Lutero rispose, al solito in modo veemente, con il De servo arbitrio in cui negava completamente la libertà dell’uomo («la volontà umana è posta nel mezzo, come un animale da soma; quando Dio vi si siede sopra, essa vuole e va dove vuole Dio… quando vi si siede sopra Satana, essa vuole e va dove vuole Satana»).

La morte in solitudine

Rimasto fedele al Cattolicesimo, pur critico (gli fu anche proposto di diventare cardinale, ma egli non accettò), trascorse gli ultimi anni della sua vita a Basilea in Svizzera, dove morì in solitudine nel 1536. Gli ultimi mesi della sua esistenza furono turbati dalla notizia del tragico assassinio del suo grande amico Tommaso Moro, che egli definì «più che la metà di me stesso» e al quale aveva dedicato la sua più celebre opera, Elogio della follia

Erasmo da Rotterdam

Incisione di Albrecht Dürer (1526), Rosenwald Collection, National Gallery of Art, Washington, DC

Il linguaggio veemente di Lutero

una delle caratteristiche che emergono più evidenti esaminando la figura e l’opera di Lutero è la sua veemente forza polemica che si esprime in un linguaggio spesso aggressivo, violento, offensivo nei confronti degli avversari e non di rado accompagnato da espressioni scurrili. Questo dipendeva sicuramente dal suo temperamento alquanto emotivo che, come spesso avviene, sfociava nell’aggressività. Ma non si trattava solo di questo: vi era in lui anche la consapevolezza che la battaglia che stava conducendo era epocale, decisiva per le sorti del Cristianesimo. Da qui derivava un impeto grandissimo che lo portava a utilizzare tutti i mezzi verbali pur di sopraffare l’avversario. Presentiamo alcuni esempi di tale linguaggio. Si tratta, nell’ordine, di un attacco ai preti per la celebrazione della messa, di un attacco al papato per la riscossione delle decime, dell’intervento in cui chiedeva ai principi tedeschi di sterminare i contadini ribelli di Müntzer e di una dura requisitoria contro gli ebrei:

«Ciascuno sa su che cosa poggia tutto il potere dei pretacci, cioè sulla conservazione della messa, cioè sulla più malvagia idolatria della terra, su di una vergognosa menzogna, sul perverso ed empio abuso del sacramento e su di un’incredulità che è peggiore di quella dei pagani».

«Le entrate di tutta la Cristianità sono assorbite da questa insaziabile basilica che è San Pietro. Tra non molto tutte le chiese, i palazzi, le mura e i ponti di Roma saranno edificati con il nostro denaro. Perché il papa non costruisce la basilica di San Pietro con i suoi soldi? È più ricco di Creso [un personaggio leggendario noto per le sue ricchezze]. Farebbe meglio a vendere San Pietro e a dare il denaro ai poveri che sono spennati dai commercianti ambulanti di indulgenze».

«un uomo ribelle è al bando di Dio e dell’imperatore cosicché chi per primo voglia ucciderlo agisce molto rettamente. Perciò, chiunque lo può colpire, scannare, massacrare in pubblico o in segreto proprio come si deve accoppare un cane arrabbiato, ricordando che nulla è tanto velenoso, dannoso e diabolico quanto un ribelle».

«Se avessi sugli ebrei l’autorità che hanno i nostri principi e le nostre città, mi comporterei con severità per le loro bocche mendaci. Perché un usuraio è più ladro di un ladro, e di un rapinatore, e dovrebbe giustamente essere appeso alla forca sette volte più in alto degli altri ladri. Noi siamo colpevoli per non aver vendicato tutto il sangue innocente di Nostro Signore e dei cristiani che lo hanno sparso per trecento anni dopo la distruzione di Gerusalemme. Siamo colpevoli di non averli ammazzati. Io voglio e chiedo che i nostri governanti che hanno sudditi ebrei esercitino un’attenta misericordia verso questi infelici. Devono agire come un buon medico che, quando si manifesta la cancrena interviene senza compassione per tagliare, segare e bruciare carne, vene, ossa e midollo».

Dagli scritti di Lutero, adatt.

1. Quali espressioni usa Lutero per definire i preti e la messa?

2. A chi vengono paragonati i contadini ribelli?

3. Quali accuse rivolge agli ebrei?

4. Come, secondo Lutero, si deve comportare un governante nei confronti degli ebrei?

METTIAMO A FUOCO

La caccia alle streghe: un fenomeno sostanzialmente

moderno

Rari casi nel Medioevo

Contrariamente a quanto si pensa, il fenomeno della stregoneria non è medievale, ma in gran parte moderno. Durante il Medioevo infatti si registrarono pochi casi di “caccia alle streghe” (gli storici hanno individuato non più di qualche decina di casi tra il 1320 e la seconda metà del Quattrocento), mentre furono parecchie migliaia successivamente. L’esplosione del fenomeno avvenne sul finire del XV secolo e proseguì nei secoli successivi fino ad esaurirsi in gran parte, nella prima metà del Settecento. Tutto questo si spiega col fatto che nel corso del Medioevo la Chiesa aveva condotto con un certo successo una durissima battaglia contro la magia e le superstizioni. Gradualmente, soprattutto nelle aree dove si radicò più profondamente (cioè in quelle

meridionali dell’Europa) il Cristianesimo riuscì a eliminare tali credenze (sono ancora rintracciabili ad esempio documenti nei quali i vescovi invitano i loro fedeli a non cedere a queste superstizioni). Questo spiega anche come mai, una volta diffusosi, il fenomeno ebbe relativamente più presa nei paesi del nord Europa, proprio dove l’insegnamento della Chiesa aveva fatto più fatica ad attecchire e le precedenti concezioni pagane erano ancora molto radicate e diffuse.

Frutto della miseria, della paura e dell’ignoranza

A partire dal Quattrocento, a seguito di un’epoca caratterizzata da epidemie, carestie, guerre, ferocia, ma anche dal venir meno della Chiesa come punto di riferimento significativo per la

Manuale di caccia alle streghe Pubblicazione di Matthew Hopkins edita a Londra nel 1647, The British Library, Londra

popolazione, il fenomeno riprese vigore. Nelle zone più povere o più martoriate da questi flagelli la popolazione, disperata e confusa, andava in cerca del “capro espiatorio” cioè di qualcuno a cui attribuire le colpe di queste tragedie e su cui esercitare una presunta vendetta. E tra questi capri espiatori furono individuate le streghe, donne accusate di avere legami col diavolo, di unirsi a lui in rituali detti sabba, e di praticare incantesimi e magie malvagie. Contro di loro si scatenò la furia popolare alimentata anche dal fanatismo e dall’ignoranza, si diede loro la caccia e, a volte al termine di processi sommari, si mandavano a morte. Sul finire del Quattrocento due frati domenicani tedeschi scrissero una sorta di manuale per condurre questa caccia e soprattutto nel centro e nord Europa, nei paesi dove tra guerre e violenze si stava diffondendo la Riforma protestante, si ebbero esplosioni di fanatismo di massa particolarmente estesi (si calcolano oltre 100.000 processi con circa 60.000 vittime). Più contenuto fu il fenomeno nei paesi dell’Europa meridionale rimasti ancorati al Cattolicesimo (in Italia in due secoli le uccisioni non furono più di 200, localizzate in aree alpine o appenniniche e nel sud).

La funzione moderatrice della Chiesa

Spesso accadeva che, di fronte alla furia popolare, fossero proprio le autorità civili e religiose a intervenire cercando di porre un argine o di mitigare la violenza. In Italia, ad esempio, la Chiesa svolse un’importante funzione moderatrice, stabilendo regole che evitavano processi e condanne sommarie. Nei primi anni del Seicento essa emanò un’istruzione che fissava regole molto rigide, e per quei tempi piuttosto avanzate, per la conduzione dei processi per stregoneria. Si stabiliva, ad esempio, che occorresse il parere di un medico o di un esperto sia per accertare le cause reali della morte delle presunte vittime di malefìci, sia per stabilire se un unguento fosse realmente velenoso, sia infine per accertare se la presunta strega fosse sana di mente e non piuttosto una povera pazza. Occorreva inoltre che le confessioni di colpevolezza, anche quelle spontanee (spesso infatti erano le presunte streghe che per svariate e complesse ragioni si autodenunciavano), fossero accompagnate, per giungere a una condanna, da altre prove oggettive e si invitava alla cautela nell’uso delle testimonianze accusatorie, spesso

opera di persone che avevano motivi di odio o di rancore nei confronti delle accusate. Grazie a questi e ad altri interventi il fenomeno della stregoneria, come dimostrato da eminenti storici, è andato scomparendo all’inizio del Seicento. Anche nella Spagna, che la convinzione comune vede come un paese allora arretrato, nel quale si commetteva ogni sorta di atrocità (vedremo come questa “leggenda nera” sia stata diffusa spesso ad arte nei secoli successivi dagli inglesi), in realtà le uccisioni per stregoneria furono inferiori a quelle verificatesi nel nord Europa e declinarono fino a scomparire del tutto anche in questo caso per l’intervento mitigatore della Chiesa.

VISITIAMO I LUOGHI DELLA STORIA

Le chiese protestanti… apparentemente simili, ma molto diverse da quelle cattoliche

un visitatore distratto può non accorgersi, entrando, di essere in una chiesa protestante; le differenze infatti rispetto alle chiese cattoliche non sono vistose e appariscenti. Tuttavia esistono e sono rilevanti, per certi aspetti addirittura sostanziali. Comprenderle è quindi di una certa utilità per capire meglio alcuni aspetti decisivi della dottrina e dell’insegnamento di Lutero.

La prima e forse più evidente differenza è la mancanza in queste chiese di raffigurazioni (dipinti, statue) della Madonna e dei santi, che per il monaco tedesco non devono essere oggetto di venerazione. Può accadere che queste chiese siano dedicate a qualche santo, ma si tratta di retaggi antichi, di dedicazioni risalenti a prima della Riforma. un altro aspetto che emerge, ma che solo un occhio particolarmente attento può notare, è l’assenza, presso l’altare, della lampada votiva sempre accesa che invece si ritrova nelle chiese cattoliche. Per i cattolici essa indica la presenza eucaristica di Gesù nel tabernacolo sotto forma di ostia consacrata. I protestanti, negando questa presenza, non sentono la necessità di un segno che distingua il tabernacolo rispetto alle altre parti dell’edificio.

un ulteriore aspetto che si può notare in molte di queste chiese è la centralità data al pulpito, cioè

quel palco rialzato dal quale il pastore commenta la parola di Dio. Non di rado l’orientamento delle panche e delle seggiole su cui i fedeli si siedono non è, come in tutte le chiese cattoliche, verso l’altare, ma verso il pulpito; ciò è segno dalla centralità che nella visione protestante ha l’ascolto della parola di Dio, il momento centrale della loro liturgia. un ultimo rilievo di carattere generale è che le chiese protestanti risultano spesso più spoglie rispetto a quelle cattoliche. Mancano in esse quadri alle pareti, statue, altari laterali, decorazioni, marmi e stucchi, ex voto in ricordo di miracoli accaduti. Ciò è dovuto in parte alla sensibilità nordica, piuttosto sobria e aliena dalle manifestazioni esteriori; ma la ragione più profonda va fatta risalire alla concezione luterana dell’esperienza religiosa. Per il riformatore tedesco, infatti, essa è essenzialmente un fatto interiore, richiede concentrazione, meditazione, ascolto dei propri stati d’animo e della voce della coscienza. Fattori esterni e visivi, come dipinti, statue, decorazioni, rischiano di distogliere da questa interiorità profonda, di creare disturbo e distrazione, di rendere superficiale ed esteriore la fede.

Chiesa protestante di Anduze, Francia

RACCONTIAMO IN BREVE

1. Quella messa in atto dal monaco tedesco Martin Lutero più che una “riforma” (questo è il nome con cui è passata alla storia) fu una vera e propria rivoluzione. Egli infatti scardinò tutti i princìpi della dottrina cattolica, dando al Cristianesimo un’interpretazione nuova e del tutto originale.

2. Alla base del suo pensiero sta la convinzione che l’uomo non si può salvare mediante le opere in quanto il peso del peccato non gli permette di tendere al bene. La salvezza quindi può venire solo dalla fede nel perdono di Dio e nella sua grazia. Dalla sua nuova visione veniva esclusa la Chiesa come intermediaria tra l’uomo e Dio: venivano negati i sacramenti, l’autorità del papa e dei vescovi, l’ordine sacro e si affermava il principio della libera interpretazione delle Scritture.

3. La scintilla che fece scattare la ribellione di Lutero fu costituita dallo scandalo della vendita delle indulgenze, attuata dal vescovo Alberto di Brandeburgo allo scopo di acquistare una nuova carica episcopale. Con la diffusione delle 95 tesi del monaco tedesco contro le indulgenze la ribellione cominciò a dilagare in tutta le Germania.

4. Lutero venne seguito nella sua protesta sia da molti principi tedeschi, sia dai contadini. Questi ultimi chiedevano, accanto al rinnovamento religioso, anche una maggior giustizia sociale e la fine del predominio dei nobili nella società. La rivolta assunse così anche un aspetto politico. Lutero si schierò con i principi mentre condannò decisamente le proteste e le rivendicazioni sociali dei contadini.

5. I duri interventi sia del papa che dell’imperatore non valsero a ricondurre all’obbedienza il monaco ribelle e a riportare la pace in Germania. I principi tedeschi si divisero tra coloro che erano rimasti fedeli a Roma e quelli che avevano seguito le idee di Lutero (detti anche “protestanti”) e il paese fu percorso da una violenta guerra di religione in cui intervenne anche l’imperatore. Questa guerra si concluse con la Pace di Augusta (1555) in cui si stabilì il principio del “cuius regio eius religio”: all’interno di ogni stato i sudditi avrebbero dovuto conformarsi alla religione scelta dal principe. In sostanza la Chiesa protestante luterana divenne una chiesa di stato posta sotto il controllo dei principi.

6. Sull’onda del principio luterano del libero esame delle Scritture, altri predicatori e teologi elaborarono nuove interpretazioni del Cristianesimo, ponendo le basi per la frammentazione del mondo protestante in molteplici Chiese o addirittura sette. Il più celebre riformatore dopo Lutero fu il ginevrino Giovanni Calvino la cui dottrina, incentrata sulla teoria delle predestinazione, si diffuse con successo in molte parti d’Europa e nell’America settentrionale.

ATTIVITÀ E VERIFICHE

Esercizio 1 · Rispondi, anche oralmente, alle seguenti domande.

1. In che modo, secondo Lutero, l’uomo può raggiungere la salvezza?

2. Chi era e che cosa fece Alberto di Brandeburgo?

3. Che cosa pensava Lutero a proposito dei sacramenti?

4. Che cosa pensava Lutero della Chiesa?

5. Come si comportò il papa nei confronti di Lutero?

6. Che cos’era la Lega di Smalcalda?

7. Chi era Thomas Müntzer?

8. Che cosa stabilì la Pace di Augusta?

9. Qual è l’idea centrale della dottrina di Calvino?

10. In quali paesi si diffuse il Calvinismo?

11. Qual è l’origine del nome Anabattismo?

Esercizio 2 · Completa la linea del tempo: scrivi il numero del fatto storico sulla data corretta.

1. Pace di Augusta

2. Lutero diffonde le 95 tesi contro le indulgenze

3. Lutero viene scomunicato

Esercizio 3 · Indica se l’affermazione riportata è vera o falsa.

Lutero diffuse 95 tesi contro la pratica delle indulgenze. V F

Per Lutero l’interpretazione delle Scritture spettava esclusivamente al papa e ai vescovi. V F

Lutero considerava molto importante il sacerdozio. V F

Il termine “protestante” indicava i principi tedeschi che protestavano contro Lutero. V F

Lutero sostenne la rivolta dei contadini tedeschi contro i feudatari. V F

Calvino sosteneva la predestinazione degli uomini alla salvezza. V F

Esercizio 4 · Per completare la frase iniziale scegli fra le tre alternative proposte quella che ti sembra oltre che esatta anche precisa e formulata con il linguaggio più appropriato

Per Lutero le opere non servono all’uomo per salvarsi perché

a. dopo il peccato originale l’uomo non è più capace di compiere il bene.

b. è Dio che decide chi avrà la salvezza.

c. basta solo la fede nel perdono di Dio.

Per Lutero l’interpretazione della Bibbia spetta

a. non ai fedeli, ma solo al papa e ai vescovi.

b. ai “pastori”.

c. a ogni singolo fedele.

Per Lutero la Chiesa

a. non ha ragione di esistere perché ogni fedele ha un rapporto personale con Dio.

b. amministra i sacramenti e guida l’uomo alla salvezza.

c. è l’unica interprete dell’autentico insegnamento di Cristo.

I contadini guidati da Thomas Müntzer volevano

a. portare avanti la riforma di Lutero.

b. abolire le tasse e gli obblighi feudali.

c. abolire le ingiustizie e le disuguaglianze tra ricchi e poveri distribuendo ai poveri le ricchezze dei nobili.

Con il principio cuius regio eius religio si stabilì che

a. ogni fedele era libero di seguire la propria coscienza e di abbracciare la religione che voleva.

b. ogni fedele doveva abbracciare la religione scelta dal proprio principe.

c. nessun fedele poteva cambiare religione.

Nel Calvinismo il successo nelle attività terrene è importante perché

a. così l’uomo conquista la salvezza eterna.

b. così l’uomo scopre la benevolenza di Dio nei suoi confronti.

c. così l’uomo può dare il suo contributo alla salvezza del mondo.

Esercizio 5 · Completa il testo sotto riportato inserendo negli spazi vuoti i termini che ritieni più appropriati.

La Chiesa nel secolo attraversava un periodo di grave crisi. I papi e i vescovi vivevano come principi rinascimentali nello sfarzo e nel lusso e praticavano il nepotismo e la simonia cioè . Anche la pratica delle indulgenze suscitava scandalo: le indulgenze erano infatti . Questo fu opera in particolare del vescovo .

Di fronte a questa situazione un monaco agostiniano tedesco Martin iniziò a . Diffuse tesi contro le suscitando la reazione del che gli impose di rigettare le sue idee. Lutero non lo fece e fu scomunicato. Iniziò così la protestante. Con Lutero si schierarono tedeschi anche perché . Intervenne anche l’imperatore preoccupato che si schierò dalla parte del papa contro i principi protestanti. Ne nacque uno scontro che si concluse con la Pace di con la quale si stabiliva il principio del eius religio. Tale principio stabiliva che . In tal modo si poneva fine alla guerra di religione in Germania, ma anche all’unità religiosa dell’ . Da questo momento in poi vi saranno infatti stati e popoli cattolici, che riconosceranno l’autorità del e stati e popoli protestanti.

San Carlo visita gli appestati

Tempera su tela di Giovan Battista Crespi detto il Cerano (1602), Museo del Duomo, Milano

L’opera fa parte della serie dei cosiddetti “quadroni” che rappresentano la vita di san Carlo Borromeo e che vengono esposti ogni anno nel Duomo di Milano nei mesi di novembre e dicembre.

Capitolo 5

La risposta cattolica

La Chiesa raccoglie

la sfida della modernità

Già negli ultimi decenni del XV secolo, ben prima quindi che in Germania esplodesse la protesta di Lutero, la Chiesa Cattolica aveva dato segni di risveglio, conoscendo al suo interno un rinnovato fermento. Semplici sacerdoti, ma anche molti laici, spesso di umile origine, avvertivano l’esigenza di una fede profonda e personale, vissuta in modo autentico e vicina all’insegnamento evangelico. Questo fermento, che si espresse in confraternite e altre forme di aggregazione comunitaria, confluì, dopo l’esplosione della rivolta luterana, nel vasto movimento con cui la Chiesa, da un certo punto in poi anche ai suoi vertici, cercò di arginare il Protestantesimo e di correggere quei vizi e quei difetti che erano stati denunciati con veemenza dal monaco tedesco.

Questo processo di rinnovamento interno viene dagli storici chiamato “Riforma cattolica” ed ebbe il suo momento culminante nel Concilio di Trento.

Qui la Chiesa precisò e definì tutti i princìpi della dottrina cristiana che Lutero aveva messo in discussione, corresse gli abusi, e adottò misure volte ad arginare, anche con strumenti repressivi, il diffondersi dell’eresia luterana (è questo l’aspetto che più propriamente si può chiamare “controriformistico”).

In tal modo il Concilio di Trento, grazie anche all’opera di straordinari santi che ne favorirono la realizzazione successiva, garantì alla Chiesa Cattolica il necessario rinnovamento e la possibilità di riprendere un ruolo importante sulla scena europea.

AL TERMINE DEL CAPITOLO

Schede di approfondimento

• Ludovica di Guastalla: educatrice sapiente e instancabile amante della bellezza

• La civiltà del Barocco

• I Sacri Monti delle Alpi

• Il senso della disciplina e dell’obbedienza per i gesuiti

Raccontiamo in breve

Attività e verifiche

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Conciliarismo

Dottrina che sosteneva che nel guidare la Chiesa il concilio (cioè l’assemblea dei vescovi) è superiore al papa. Questa dottrina si era diffusa in particolare dopo il periodo avignonese, ma era stata condannata dalla Chiesa come eretica.

1 · Anche nella Chiesa Cattolica vi erano aspirazioni al cambiamento

Una diffusa esigenza di riforma

Già sul finire del XV secolo si erano manifestati all’interno della Chiesa Cattolica segnali di risveglio. Numerosi fedeli, semplici laici e sacerdoti, anche di umile origine, sentivano l’esigenza di una fede vissuta in modo più autentico e più vicino all’insegnamento evangelico. Era per questo rifiorita l’attività di confraternite e congregazioni, alcune di origine medievale, altre di più recente formazione, dedite alla preghiera, alla meditazione, a pratiche di carità (ad esempio presso gli ospedali). In questo diffuso risveglio cominciava ad avvertirsi anche l’esigenza di correggere quegli abusi che erano sotto gli occhi di tutti e che Lutero, di lì a poco, avrebbe denunciato. Alti ecclesiastici, come pure semplici fedeli, iniziavano a chiedere una riforma della Chiesa che la riconducesse alla purezza evangelica. Queste richieste, spesso accompagnate dall’esempio di un’intensa vita di preghiera personale, di povertà e di carità verso i poveri e i bisognosi, non erano mai seguite da critiche violente alle autorità ecclesiastiche o dalla volontà di abbandonare la Chiesa o di contestare i princìpi della dottrina cattolica, come invece farà Lutero.

Si arriva al concilio…

Alla fine queste richieste vennero accolte e si cominciò a pensare alla convocazione di un concilio generale, simile a quelli tenutisi nei primi secoli del Cristianesimo, che promuovesse un generale rinnovamento della vita cristiana. In un primo momento in realtà i papi temettero che in questo eventuale concilio, da molti richiesto, potessero manifestarsi posizioni conciliariste e in contrasto con la loro autorità; per questo avevano evitato di procedere in tale direzione. L’esplosione rapida e drammatica della ribellione luterana in Germania spinse però Paolo III a rompere ogni indugio.

… ma i protestanti non vi partecipano

Perché il concilio si tenne a Trento?

Per la verità lo scopo iniziale per cui si decise di convocare il concilio fu proprio quello di tentare di ricondurre all’obbedienza il monaco tedesco e i suoi seguaci. Fu proprio per tale ragione che, organizzato inizialmente a Mantova, esso fu poi spostato, anche su pressione dell’imperatore Carlo V, a Trento, città che, trovandosi a circa metà strada tra Roma e la Germania, sembrava essere sede più accettabile per il luterani. I protestanti invece non arrivarono, timorosi per la loro incolumità, ma più probabilmente perché Lutero riteneva ormai inutile ogni discussione con Roma. Per questo motivo il concilio finì per modificare i suoi obiettivi iniziali: si volle non più ricondurre i protestanti all’obbedienza a Roma, ma rafforzare la Chiesa cattolica, fissando una volta per tutte i princìpi in cui crede-

re, correggendo gli abusi e i difetti degli ecclesiastici, trovando strumenti per impedire la diffusione delle idee protestanti al di fuori della Germania.

Riforma cattolica, non solo Controriforma

A questo punto dobbiamo fare un breve accenno a un dibattito apertosi tra gli studiosi riguardo all’interpretazione di tali fatti. Fino a qualche decennio fa, per indicare questo complesso movimento all’interno della Chiesa Cattolica si usava l’espressione Controriforma. Di recente però alcuni storici hanno obiettato che l’uso di questo termine non corrispondeva pienamente alla verità storica in quanto faceva pensare solo a un’opera repressiva della Chiesa nei confronti del Luteranesimo. È vero che l’azione repressiva ci fu

Papa Paolo III, ispirato dalla fede, ha la visione del futuro Concilio di Trento Olio su tela di Sebastiano ricci (1687-88), Musei Civici, Piacenza

Perché si parla di Riforma cattolica e non solo di Controriforma?

ma, come abbiamo visto, ci furono anche sinceri tentativi di far rinascere dal profondo, nel popolo, l’autentica vita cristiana. Per questa ragione tali storici hanno proposto di affiancare all’espressione Controriforma quella più adeguata di “Riforma cattolica”. Si tratta di due fenomeni sicuramente tra loro connessi e con qualche punto di contatto, ma nel complesso sostanzialmente differenti.

2 · Il Concilio di Trento

Lo svolgimento del Concilio

Perché il Concilio di Trento ebbe effetti profondi e duraturi nella vita della Chiesa?

Il Concilio iniziò nel 1545 e terminò nel 1563. Durò quindi per ben diciotto anni anche se con varie interruzioni (la più importante fu in seguito a un’epidemia di peste che spinse i partecipanti a trasferirsi per qualche tempo a Bologna). Vi parteciparono arcivescovi, vescovi, abati, superiori generali di ordini religiosi, rappresentanti del papa e delle autorità politiche. Durante il suo lungo svolgimento si succedettero ben tre papi: oltre a Paolo III che lo inaugurò, Giulio III e Pio IV, che lo portò a termine (un quarto papa, Marcello II, morì di malattia solo dopo 20 giorni dall’elezione). I risultati del Concilio, le decisioni e i provvedimenti adottati lasciarono un segno profondo e duraturo nella vita della Chiesa. In seguito ad esso la Riforma si arrestò senza raggiungere l’Italia e nemmeno altri paesi quali la Spagna, il Portogallo, la Polonia, la Lituania, l’Irlanda. Inoltre né la Svizzera né la stessa Germania divennero totalmente protestanti mentre in Francia, Boemia, Moravia e Ungheria i seguaci di Lutero e di Calvino non andarono oltre una posizione di pur consistente minoranza. Diverso sarà il caso dell’Inghilterra che affronteremo più avanti.

Le decisioni più importanti sul piano della dottrina

Il Concilio di Trento precisò e definì in maniera definitiva e inequivocabile tutti i dogmi della fede cristiana che Lutero aveva messo in discussione. Riaffermò che per raggiungere la salvezza la fede deve accompagnarsi alle opere; ribadì la presenza reale di Cristo nell’eucaristia e il valore e il significato dei sette sacramenti; ridefinì la necessità del sacerdozio e dell’ordine sacro, contro la dottrina luterana del sacerdozio universale. In merito alla Sacra Scrittura, affermò che essa non va lasciata all’interpretazione del momento di singoli fedeli, ma va letta seguendo la tradizione, cioè il patrimonio di esperienze e di riflessioni sulla fede elaborate nel tempo dall’intero popolo cristiano e riconosciute come autentiche dal papa e dai vescovi nel loro insegnamento, detto anche “magistero”. Ribadì infine la legittimità del culto della Madonna e dei santi. Tutti questi princìpi vennero sintetizzati in un documento, una professione di

fede, su cui avrebbero dovuto giurare solennemente, da allora in poi, tutti i vescovi e i docenti di teologia. Papa Pio V redasse inoltre un catechismo e fissò il testo e il rito della messa nonché il calendario delle celebrazioni liturgiche e delle feste religiose.

I provvedimenti per correggere gli abusi ecclesiastici

Importanti decisioni furono prese per correggere gli abusi nei comportamenti degli ecclesiastici. Si cominciò con lo stabilire per i vescovi l’obbligo di residenza nella diocesi di cui erano titolari e quindi il divieto di accumulo delle cariche; si proseguì riaffermando l’obbligo del celibato per i preti e infine la necessità che i nuovi sacerdoti fossero sempre più preparati alla loro missione e quindi avessero un’adeguata istruzione in appositi istituti di formazione del clero detti seminari. Ai vescovi poi era chiesto un maggiore controllo di quanto avveniva nei loro territori attraverso delle visite costanti alle varie parrocchie (le “visite pastorali”).

Sessione solenne del Concilio di Trento Olio su tela di scuola veneziana (XVI secolo), Musée du Louvre, Parigi

Perché si stabilì per i vescovi l’obbligo di residenza nella propria diocesi?

Perché fu adottato

l’Indice dei libri proibiti e fu istituito il tribunale del Santo Uffizio?

Gli strumenti repressivi

Furono infine adottati strumenti di carattere repressivo che dovevano servire a frenare la diffusione delle idee protestanti nei paesi rimasti cattolici (è qui che si può parlare propriamente di Controriforma). Fu creato a tale proposito l’Indice dei libri proibiti attraverso il quale un’apposita commissione ecclesiastica vigilava su tutti i libri destinati alla pubblicazione, vietando quelli che contenevano idee ritenute eretiche (oggi useremmo per definire questo la parola “censura”). Venne inoltre ripristinata l’inquisizione (per la verità questo avvenne ancor prima dell’inizio del Concilio, ma trovò in esso conferma) con la creazione di un apposito tribunale detto del Santo Uffizio che doveva colpire, anche con la condanna a morte, gli eretici. Si tratta di provvedimenti che possono sembrare a noi moderni molto lontani dal messaggio evangelico, ma bisogna tener presente il modo intenso e drammatico con cui a quel tempo, da una parte e dall’altra, erano vissuti i contrasti religiosi, senza dimenticare che anche nel mondo protestante, come abbiamo visto, non si esitava a ricorrere alla violenza pur di imporre idee e dottrine. La vittima più illustre di questa inquisizione, detta poi “romana” fu il filosofo, mago e alchimista Giordano Bruno, arso al rogo a Roma nell’anno 1600.

3 · L’attuazione del Concilio

Vescovi zelanti: l'esempio di san Carlo Borromeo

Il compito di mettere in pratica le direttive conciliari toccò in prima persona ai vescovi, alcuni dei quali si distinsero per impegno e zelo instancabile. Tra essi ricordiamo il vescovo di Milano, Carlo Borromeo. Nato da famiglia nobile e nipote di papa Pio IV, egli fu avviato ancor giovane alla carriera ecclesiastica e divenne vescovo della grande città lombarda nel 1565. Qui spese tutte le sue energie per riedificare la Chiesa e rinvigorire la fede dei milanesi. Straordinaria fu soprattutto la sua azione caritativa rivolta in particolare ai mendicanti, alle donne abbandonate, agli orfani. In occasione di una grande carestia e poi in quella della pestilenza che colpì Milano nel 1576 egli impiegò tutte le ricchezze che gli provenivano dalla sua famiglia per aiutare i bisognosi (al punto che questa peste fu chiamata “peste di san Carlo”) riducendosi a sua volta a vivere in assoluta povertà. Altri vescovi importanti furono Matteo Giberti a Verona, Giacomo Paleotti a Bologna e, nei territori della Svizzera francese dove grande era la forza del Calvinismo, Francesco di Sales.

Uno stuolo di santi

Una straordinaria fioritura di grandi personalità religiose segnò questo periodo di rinascita della Chiesa Cattolica. Con il loro insegnamento e soprattutto con il loro esempio questi personaggi, in gran parte poi proclamati santi, contribuirono alla ripresa della fede e della devozione popolare. Va detto che la loro preoccupazione primaria non fu quella di combattere l’eresia luterana (tra l’altro alcuni di loro avevano cominciato la loro attività prima dell’azione di Lutero), ma di vivere fino in fondo il Vangelo e di trasmetterlo a tutti coloro che incontravano. Molti di loro si dedicarono all’assistenza ai malati e agli

L’arrivo di missionari gesuiti presso le coste di Nuova Granada in America meridionale Dipinto del XVIII secolo, Museo Nacional de Colombia, Bogotá

Mistica

Con questo termine si indica una particolare esperienza religiosa basata sullo sforzo di avvicinarsi sempre più a Dio mediante la preghiera, la meditazione e la contemplazione. Mistici sono detti tutti coloro che vivono in modo particolare questa esperienza.

infermi. Ricordiamo, tra questi, san Giovanni di Dio, che fondò l’ordine dei Fatebenefratelli, san Camillo de Lellis che fondò i Camilliani e il francese san Vincenzo de’ Paoli che fondò le Suore della Carità. Molti altri si dedicarono all’infanzia abbandonata e all’insegnamento soprattutto ai bambini poveri. Ricordiamo, a tale proposito, il sacerdote san Filippo Neri (che istituì l’Oratorio per i giovani); il patrizio veneziano san Girolamo Emiliani che, lasciate tutte le sue ricchezze, si dedicò all’assistenza ai malati e agli orfani dando loro casa, istruzione e formazione professionale (fondò l’ordine dei Padri Somaschi); il medico cremonese sant’Antonio M. Zaccaria (fondatore dei Barnabiti) e lo spagnolo san Giuseppe Calasanzio a cui si deve la prima scuola gratuita per i poveri e che fondò, a sua volta, l’ordine dei Padri Scolopi. Altrettanto importanti furono alcune personalità femminili come sant’Angela Merici che si occupò delle bambine povere, fondando l’ordine delle Orsoline, e la contessa Ludovica Torello della Guastalla. Altri importanti personaggi si dedicarono più espressamente alla riforma della vita dei sacerdoti e degli ordini religiosi. Tra questi san Gaetano da Thiene (fondatore dell’ordine dei Teatini), i frati Matteo da Bascio e Ludovico da Fossombrone, a cui si deve la fondazione dell’ordine dei Cappuccini e la grande mistica spagnola santa Teresa d’Avila che riformò l’ordine carmelitano.

Ignazio di Loyola

Un grande protagonista della lotta contro il Protestantesimo e della rinascita dell’attività missionaria della Chiesa fu lo spagnolo Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore della Compagnia di Gesù, l’ordine dei gesuiti.

Cadetto di una famiglia della piccola nobiltà basca, Ignazio da giovane si dedicò all’attività militare e alla vita avventurosa e spensierata. Ferito in battaglia, durante la lunga convalescenza ebbe modo di riflettere sulla sua vita e di leggere testi religiosi. Maturò così la conversione unita alla decisione di dedicarsi ad una nuova e più importante guerra, quella contro le idee dei protestanti. Si trattava di un combattimento, però, che si sarebbe dovuto condurre non con vere armi, ma con la parola, la predicazione, la cultura. Trasferitosi a Roma, ottenne dal papa il consenso per la creazione di un nuovo ordine religioso, la Compagnia di Gesù appunto, che conobbe subito un grande successo con l’adesione di centinaia di giovani decisi a seguire la sua strada. Le sue esperienze militari influenzarono molto l’opera da lui creata: i gesuiti avrebbero dovuto assomigliare a un esercito, con una disciplina ferrea e rigorosa e l’assoluta obbedienza al loro superiore, detto appunto “generale”. Avrebbero dovuto essere ben preparati grazie a studi assai impegnativi, e temprare lo spirito attraverso periodici “esercizi spirituali”, fatti di meditazioni, preghiere e educazione all’autocontrollo, che avrebbero dovuto fortificarli e renderli capaci di affrontare al meglio la loro missione.

I gesuiti: un “esercito” al servizio del papa

Ai tre tradizionali voti di povertà, castità e obbedienza sant’Ignazio ne aggiunse un quarto, l’obbedienza al papa. I suoi gesuiti infatti promettevano di essere fedeli e obbedienti in modo totale e assoluto al papa e si mettevano al suo servizio, pronti a compiere tutte le missioni che egli intendeva affidare loro. Essi si impegnarono principalmente nel campo dell’educazione e della cultura, senza trascurare la missione in favore del popolo e dei ceti più umili. Colpiti da quanto era successo in Germania, dove molti principi avevano abbracciato la fede luterana dando così un contributo fondamentale al successo della Riforma, i gesuiti si convinsero della necessità di educare innanzitutto i principi, e i loro figli, alla fede cattolica affinché essi rimanessero fedeli al papa, non seguissero le idee protestanti e guidassero i loro popoli verso la vera dottrina. Per questo si preoccuparono di fondare scuole e collegi di alto livello, rivolti in particolare ai figli dell'aristocrazia e dell’alta borghesia. Cercarono poi di inserirsi nelle grandi corti europee per diventare i consiglieri dei sovrani, i loro confessori e direttori spirituali. La profonda cultura aprì loro molte strade, ma questo suscitò anche invidie e ostilità di molti avversari che mossero contro di loro le più svariate accuse, molto spesso infondate, tra cui quella di organizzare complotti e intrighi e quella di non insegnare correttamente la morale cristiana.

Perché i gesuiti fondarono scuole di alto livello e si inserirono nelle corti?

Ingresso trionfale di sant’Ignazio in Paradiso Affresco di Andrea Pozzo (1685), chiesa di Sant’Ignazio, roma

Francesco Saverio

battezza gli indigeni

Olio su tela di Juan rodríguez Juárez, 1693, Museo Franz Mayer, Città del Messico

L’intensa attività missionaria

Molto attivi in Europa, i gesuiti lo furono altrettanto come missionari nel resto del mondo, dove le recenti scoperte geografiche avevano aperto nuovi orizzonti e nuove possibilità di evangelizzazione. In particolare lo spagnolo Francesco Saverio portò il Cristianesimo in Giappone, evangelizzando lungo la via anche regioni costiere dell’India e del Sudest asiatico. L’italiano Matteo Ricci fece lo stesso in Cina dove già nel Medioevo erano giunti missionari cristiani di cui però nel tempo si era persa traccia. Celebri sono pure le missioni che essi realizzarono in America Latina, in particolare in Paraguay dove si impegnarono nella difesa degli indios dalle violenze dei coloni spagnoli e portoghesi. Qui fondarono le reducciones, dei villaggi in cui gli indigeni potevano vivere in libertà, coltivando la terra e ricevendo un’adeguata istruzione.

PROTAGONISTI

Ludovica

di Guastalla:

educatrice sapiente e instancabile amante della bellezza

La contessa Ludovica Torello della Guastalla fu una delle grandi figure femminili che animarono la vita religiosa dopo il Concilio di Trento, operando attivamente a Milano nell'epoca di san Carlo Borromeo. Ancora oggi l'opera di questa donna è viva nel ricordo dei milanesi che le hanno dedicato una via importante (via della Signora) e dei graziosi e frequentati giardini (detti appunto i “giardini della Guastalla”).

Una vita difficile in una società violenta

Nata nel 1499 a Guastalla (attualmente in provincia di reggio Emilia), Ludovica ereditò nel 1522, alla morte del padre, la contea paterna, allora di pertinenza del Ducato di Milano. Le cronache del tempo la descrivono come donna alta, “di occhi grandi e neri”, bella e allegra, al punto da conquistare facilmente i cuori di tutti coloro che la incontravano e avevano modo di conversare con lei. La sua vita però non fu facile: all’inizio dovette lottare duramente con i parenti che non volevano riconoscerle l’eredità in quanto donna, e dovette ricorrere persino alle protezione delle guardie del corpo per evitare di essere uccisa. A ventinove anni era già vedova due volte, dopo che i due mariti che aveva avuto erano stati entrambi brutalmente assassinati, e aveva perso un figlio. Continuava però a condurre la spensierata vita di corte fino a quando conobbe un frate domenicano, Battista da Crema, che divenne suo confessore.

Un incontro che cambiò la sua vita

Questo incontro la segnò profondamente. rinunciò al suo feudo che vendette a Ferrante Gonzaga e, con i soldi ottenuti dalla vendita, si trasferì a Milano. Qui, insieme ad Antonio Maria Zaccaria, collaborò alla fondazione di una congregazione di suore e a quella del collegio dei padri Barnabiti. Si dedicò anche a numerose opere di carità per donne povere e bisognose; in particolare realizzò un ricovero per le “femmine di mala vita” (le prostitute) che, grazie al suo aiuto, potevano cambiare vita. Si dedicò in modo particolare all’educazione delle “fanciulle ricche di leggiadria, ma prive di mezzi” (cioè ricche di qualità, ma povere econo-

micamente). Per esse fondò nel 1557 un collegio, il Collegio della Guastalla dove vennero ospitate e istruite ragazze dai dieci ai ventidue anni. A conclusione degli studi forniva loro anche una dote adeguata per potersi garantire un matrimonio e un futuro sereni e fece in modo che quest’opera proseguisse anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1569, ponendola sotto la protezione del re di Spagna, Filippo II. Talvolta il suo grande impegno suscitò invidie e maldicenze che però seppe sempre superare grazie al carattere forte, intelligente e aperto. Mai però mancò in lei l'impegno della preghiera, secondo l'insegnamento dell'ora et labora di san Benedetto.

La grande cura per la bellezza

Va ricordata un’ultima caratteristica di questa donna straordinaria: amò sempre la bellezza; e questo si vede in modo particolare nella grande cura che lei poneva nella realizzazione dei giardini. Le suore e le studentesse del suo collegio dovevano vivere in ambienti gradevoli ed essere circondate da cose belle perché i loro animi non fossero mortificati: non dovevano mai mancare loro «quelle comodità e quei divertimenti leciti di cui la giovinezza ha bisogno, per evitare che sentissero la nostalgia della vita mondana che avevano condotto».

Ritratto della Contessa Ludovica Torello Olio su tela, XVII secolo, Collezione Guastalla, Monza

METTIAMO A FUOCO

La civiltà del Barocco

Lo stile della rinascita cattolica

La ripresa che la Chiesa conobbe negli anni del Concilio di Trento diede un impulso rilevante anche allo sviluppo dell'arte e della cultura. La rinnovata consapevolezza della grandezza delle fede cattolica trovò espressione in creazioni artistiche, in opere letterarie e in composizioni musicali che avevano in comune uno stile, definito “Barocco”, caratterizzato soprattutto dall’esplosione della fantasia, dalla ricerca della maestosità, della complessità e della vivacità espressiva, della spettacolarità.

Questo stile si diffuse soprattutto a roma e nel resto dell’Europa cattolica, in Spagna, in Austria, nell’America Latina. Divenne perciò lo stile proprio della rinascita cattolica, ma lasciò tracce anche in alcuni stati protestanti tedeschi e nella stessa russia ortodossa.

La ricerca della meraviglia e dello stupore

In campo architettonico vennero realizzati edifici dalle forme molto complesse ed elaborate, riccamente decorati, spesso di grande imponenza e solennità. Le chiese erano prevalentemente a pianta circolare, sormontate da cupole, con pareti interamente dipinte o ricoperte da quadri e da stucchi, da statue e da marmi dei più svariati colori, quasi a non voler lasciare spazio al vuoto. Lo scopo di questo stile era principalmente quello di mostrare la grandezza della Chiesa Cattolica così come era stata rilanciata dal Concilio di Trento. Con esso si intendeva perciò suscitare nell’osservatore stupore e meraviglia al fine di volgere il suo cuore all’ammirazione per Dio e per la sua Chiesa. La pittura poi cercava di colpire la fantasia e i sentimenti, di favorire il gusto del “meraviglioso”, di stupire, con l’abbondanza dei colori, la vivacità delle scene, estremamente movimentate e ricche di personaggi, con il gioco delle luci e delle ombre, con delle indicazioni che miravano a far partecipare, quasi a far “entrare” lo spettatore nella scena raffigurata. I maggiori esponenti del Barocco in Italia furono artisti di fama mondiale quali gli architetti Gian Lorenzo Bernini, Francesco Borromini, Baldassarre Longhena, Guarino Guarini, Filippo Juvarra, e i pit-

tori Tintoretto, Annibale e Agostino Carracci e soprattutto Michelangelo Merisi detto il Caravaggio.

Roma cambia volto

Importante fu anche l’influenza del Barocco sul piano urbanistico. roma in particolare si arricchì non solo di chiese e palazzi, ma anche di maestosi viali, con piazze, dominate da obelischi e da fontane. La città diventava così uno splendido scenario per le cerimonie civili e religiose che avvenivano sempre con grande sfarzo e spettacolarità: alle grandi processioni, in particolare, partecipavano, come a grandi scene teatrali, centinaia di fedeli con costumi sgargianti, drappeggi, gonfaloni, in un clima vivace e festoso.

Un velo di tristezza dietro lo sfarzo

Dietro lo sfarzo esteriore però il Barocco rivelava anche una profonda venatura di tristezza. Gli artisti esprimevano infatti nelle loro opere l'idea che la felicità, il successo, la fama terrena fossero qualcosa di fragile e di breve durata e che la morte attende ogni uomo al termine della sua vita. Singolare a tale proposito è la presenza, in molti dipinti del tempo, dell’immagine del teschio che stava a ricordare all’uomo che non doveva attaccarsi ai beni terreni, che erano destinati inevitabilmente a finire, ma pensare all’aldilà e alla vita eterna.

I risultati in campo musicale e letterario

Grandi risultati raggiunse il Barocco anche in campo musicale: nacque in questo periodo un nuovo genere detto melodramma, una sorta di teatro cantato in cui alle parole si univa la musica. ricordiamo tra i grandi artefici di questo nuovo genere gli italiani Pierluigi da Palestrina e Claudio Monteverdi.

Meno validi furono invece, almeno in Italia, i risultati in campo letterario: spesso gli scrittori e i poeti, tra cui ricordiamo il napoletano Giambattista Marino, eccedevano nella ricerca di effetti “meravigliosi”, raccontando di mondi fantastici e irreali e abbondando nell’uso di metafore e similitudini che creavano nel lettore un senso di confusione e stordimento. Va detto però che al di fuori dell’Italia, in questo campo, si ebbero geni

di prima grandezza quali gli spagnoli Calderon de la Barca e Miguel de Cervantes (l’inventore del celebre personaggio di Don Chisciotte) oppure i

grandi autori del teatro francese come Corneille e racine, mentre chiari legami col Barocco ebbero anche i maestri del teatro Moliere e Shakespeare.

Il monumento alla Cattedra di san Pietro nell’abside della basilica di San Pietro, Città del Vaticano

La Cattedra è un trono ligneo sul quale un'antica tradizione vuole che si sia seduto l'apostolo Pietro durante le prediche.

La reliquia è stata inserita all'interno di una grandiosa composizione barocca, progettata da Gian Lorenzo Bernini e realizzata fra il 1656 e il 1665, che esprime l'idea di riunire in una sola opera pittura, scultura e architettura.

LEGGIAMO

L’ARTE

I Sacri Monti delle Alpi

L’azione del Concilio in favore dell’arte sacra

Il Concilio di Trento, nella sua azione di rilancio della fede e della devozione popolare, affermò l’importanza e l’utilità dell’arte sacra che serviva, oltre che a rendere lode a Dio attraverso la bellezza, a far conoscere la storia della salvezza al popolo che, non sapendo scrivere e leggere, poteva conoscere da vicino queste vicende solo con le immagini. Tra le creazioni più significative e interessanti che derivarono da questa affermazione vi furono, oltre alle splendide chiese barocche, i Sacri Monti.

Luoghi d’arte e di preghiera

Si tratta di colline o di veri e propri monti sui quali sono situate delle cappelle disposte lungo un

percorso che il visitatore deve compiere a piedi, come in pellegrinaggio. All’interno di queste cappelle sono riprodotte, attraverso dipinti e statue, spesso di grandezza naturale, scene sacre riguardanti l’Antico Testamento e la vita di Cristo o della Madonna.

Il percorso è costituito in modo tale da favorire in chi lo compie la preghiera, la meditazione e soprattutto l’immedesimazione nelle vicende che vede rappresentate. In tal modo si è spinti anche a rivedere la propria vita, riconoscere le proprie mancanze, avvicinarsi a Dio in un itinerario di purificazione che va oltre l’aspetto puramente artistico. La gran parte di questi luoghi si trova nell’area lombarda e piemontese (ricordiamo i principali:

Varallo Sesia, Crea, Domodossola e Orta in Piemonte, Varese in Lombardia, Locarno nella Svizzera italiana) e il loro sviluppo risale proprio agli anni successivi al Concilio di Trento, grazie in particolare dall’azione dell’arcivescovo di Milano, san Carlo Borromeo. In alcune aree situate in zone che potevano essere minacciate dal diffondersi delle idee luterane, e dove vi erano già in precedenza forme spontanee di devozione e di culto, egli promosse l’edificazione di questi itinerari devozionali, servendosi dell’opera di artisti locali, alcuni anche di prima grandezza come i valsesiani Gaudenzio Ferrari e Tanzio da Varallo.

Un’arte più semplice e popolare

C’è una differenza, però, tra queste opere e l’arte barocca che si sviluppò nelle grandi città. Mentre in quest’ultima infatti spesso prevalevano la raffinatezza, la spettacolarità, la magnificenza, nei

Sacri Monti ci si avvicina alle forme semplici ed espressive dell’arte popolare. I personaggi hanno espressioni e atteggiamenti realistici, indossano gli stessi abiti indossati dai contadini o dalla gente del popolo, sembrano viverne gli stessi sentimenti. Ciò avvicinava maggiormente la scena sacra alla quotidianità e favoriva un maggior coinvolgimento da parte dei fedeli e una più facile immedesimazione.

I Sacri Monti di Varallo Sesia e di Varese

Per la verità, il più celebre tra i Sacri Monti, quello di Varallo Sesia, in Piemonte, nacque prima dell’esplosione della rivoluzione luterana e con intenti diversi. Un frate francescano, Bernardino Caimi, di ritorno da un soggiorno in Terra Santa e profondamente colpito dalla vista diretta dei luoghi in cui era vissuto Gesù, volle fare in modo che anche coloro che non avevano la possibilità di recarsi in quei luoghi potessero vivere la medesima esperienza. Nel 1491, quindi, diede inizio all’edificazione delle prime cappelle, costruite proprio sul modello degli edifici di Gerusalemme e di Betlemme che egli aveva visitato. Il progetto si concretizzò grazie alla straordinaria capacità artistica e scenografica di Gaudenzio Ferrari che, ispirandosi alla tradizione popolare e alle sacre rappresentazioni medievali, realizzò le scene con sculture a grandezza naturale e con affreschi sulle pareti delle cappelle a fare da contorno e completamento.

Più tardi l’opera incontrò il favore di san Carlo Borromeo che la propose come modello per gli altri Sacri Monti che si andavano edificando. Tra questi grande rilievo ha il Sacro Monte di Varese, le cui cappelle sono dedicate ai misteri del rosario.

“Ecce homo”, cappella del Sacro Monte di Varallo Statue in terracotta policroma di Giovanni d'Enrico (1615 circa), che le collocò su due differenti livelli, con Cristo nella loggetta della parte alta e la folla in basso

PARTIAMO DALLE FONTI

Il senso della disciplina e dell’obbedienza per i gesuiti

Nell’insegnamento di sant’Ignazio di Loyola e nelle regole della Compagnia di Gesù l’obbedienza ai superiori ha un ruolo fondamentale. È attraverso l’obbedienza che si tempra il carattere e si rafforza la fedeltà a Dio, che guida la sua Chiesa. Ti proponiamo la lettura di alcuni brani che sottolineano questo aspetto. Il primo, tratto dalle Costituzioni della Compagnia di Gesù, utilizza la formula, divenuta proverbiale, di perinde ac cadaver (che in latino significa “come un corpo morto”): tale dovrebbe essere l’obbedienza del gesuita ai suoi superiori. Gli altri due brani sono invece tratti dal testo degli Esercizi spirituali. Nel primo si sottolinea come l’obbedienza, assoluta e totale, fino a credere nero ciò che si vede bianco se lo insegna la Chiesa (formula evidentemente paradossale), è dovuta al fatto che a guidare la Chiesa è lo Spirito Santo. Nel secondo si mostra come l’obbedienza comunque non escluda la possibilità di criticare i superiori, e quindi non è del tutto acritica. Questo però va fatto con i dovuti modi, in privato e con le persone giuste, non certo in pubblico.

«Facciamo tutto quello che ci sarà comandato con molta prontezza, gioia spirituale e perseveranza persuadendoci che tutto ciò è giusto, e rinnegando con cieca obbedienza ogni parere e giudizio personale in contrario, in tutte le cose che il superiore ordina e nelle quali non vi sia alcuna traccia di peccato. Convinti come siamo che chiunque vive nell’obbedienza si deve lasciar guidare dalla Provvidenza, per mezzo del superiore, come se fosse un corpo morto (perinde ac cadaver), che si fa trattare come più piace, o come un bastone da vecchio che serve per andare dovunque e per tutti gli scopi, per i quali vorrà servirsene chi lo usa».

«Per essere certi in tutto, dobbiamo sempre tenere questo criterio: quello che io vedo bianco lo credo nero se lo stabilisce la Chiesa gerarchica. Infatti noi crediamo che lo Spirito che ci governa e che guida le nostre anime alla salvezza è lo stesso Cristo nostro Signore, lo sposo, e nella Chiesa sua sposa; poiché la nostra santa madre Chiesa è guidata e governata dallo stesso Spirito e signore nostro che diede i dieci comandamenti».

«Dobbiamo essere sempre pronti ad approvare e a lodare, sia le disposizioni e le raccomandazioni, sia i comportamenti dei superiori. Infatti, anche se alcuni di questi non fossero buoni, o non lo fossero stati, il criticarli, predicando in pubblico o discorrendo con persone semplici susciterebbe mormorazione o scandalo piuttosto che vantaggio; e così la gente si sdegnerebbe contro i superiori civili e religiosi. Tuttavia come è dannoso criticare i superiori in loro assenza davanti alla gente semplice, così può essere vantaggioso parlare dei loro cattivi comportamenti alle persone che possono portarvi rimedio».

Adatt.

Ignazio di Loyola in armatura

Anonimo di scuola francese (XVI secolo)

Sulla corazza il trigramma IHS sormontato da una croce e circondato da 12 raggi di luce che divenne l'emblema della Compagnia di Gesù.

RACCONTIAMO IN BREVE

1. Le aspirazioni ad una più autentica vita cristiana e a purificare la Chiesa dagli abusi erano da tempo vive anche all’interno del Cattolicesimo. Molti, ecclesiastici e laici, chiedevano che la Chiesa tornasse ad una vita più vicina al Vangelo e all’insegnamento di Gesù e davano testimonianza di questo, impegnandosi in prima persona a vivere in preghiera e in povertà, spesso dedicandosi all’aiuto dei poveri e dei bisognosi. Per queste ragioni si può parlare, prima ancora che di “Controriforma”, di “Riforma cattolica”, condotta in gran parte da semplici fedeli.

2. Queste aspirazioni di rinnovamento della vita cristiana trovarono ascolto, seppur con un certo ritardo, anche ai vertici della Chiesa. Nel 1545 papa Paolo III avviò a tale scopo un grande concilio a Trento, al quale però non parteciparono emissari protestanti, per cui uno degli obiettivi iniziali, quello di ricondurre il Protestantesimo all’obbedienza a Roma, non poté essere perseguito.

3. Il Concilio di Trento fissò una volta per tutte i princìpi della dottrina cattolica, adottò una serie di provvedimenti per eliminare gli abusi nel comportamento del clero e creò l’Indice dei Libri Proibiti e il Tribunale del Santo Uffizio per frenare la diffusione delle idee protestanti.

4. L’attuazione delle direttive del Concilio fu poi dovuta all’opera di grandi personaggi, vescovi, ma anche religiosi e semplici laici, che diedero vita a molteplici attività sia in campo spirituale che caritativo e assistenziale. Particolare rilievo ebbe l’impegno di molti ordini religiosi nel campo dell’educazione dei ragazzi e dei giovani.

5. Un grande protagonista della rinascita cattolica fu l’ordine dei gesuiti (la Compagnia di Gesù) fondato dallo spagnolo Ignazio di Loyola. Questi si proponeva di lottare contro il Protestantesimo con le armi della cultura e della predicazione. I gesuiti si impegnarono in campo scolastico, cercarono di esercitare una stretta influenza sui sovrani, divenendone consiglieri, confessori e direttori spirituali e, con un’intensa opera missionaria, portarono il Vangelo in terre lontane quali la Cina, il Giappone e l’America Latina.

ATTIVITÀ E VERIFICHE

Esercizio 1 · Rispondi, anche oralmente, alle seguenti domande.

1. Quali furono gli obiettivi iniziali del Concilio di Trento? Come si modificarono in seguito?

2. Quali princìpi della dottrina cattolica furono definiti nel Concilio di Trento?

3. Che cosa decise il Concilio di Trento riguardo alla formazione dei sacerdoti?

4. Che cos’era l’Indice dei libri proibiti?

5. Quali vescovi si adoperarono in modo deciso per attuare le direttive del Concilio?

6. Quali santi si dedicarono in modo particolare all’assistenza e all’educazione dei giovani?

7. In che modo i gesuiti cercarono di combattere la diffusione delle idee protestanti?

8. Che cos’erano le reducciones?

Esercizio 2 · Per completare la frase iniziale scegli fra le tre alternative proposte quella che ti sembra, oltre che esatta, anche precisa e formulata con il linguaggio più appropriato.

Molti storici ritengono che l’espressione Riforma cattolica sia più adeguata rispetto a Controriforma perché

a. la Chiesa avviò al suo interno un processo di correzione di vizi e difetti per tornare all’autenticità evangelica.

b. la Chiesa si contrappose con durezza e con strumenti repressivi alla riforma di Lutero.

c. la Chiesa promosse una più intensa azione missionaria.

Il Concilio fu convocato a Trento perché

a. il clima era più salubre.

b. la città era lontana dall'influenza delle famiglie aristocratiche romane.

c. poteva essere facilmente raggiungibile anche dai rappresentanti luterani.

Per migliorare la formazione culturale e spirituale dei sacerdoti

a. nacquero nuovi ordini religiosi.

b. si istituirono i seminari.

c. i vescovi organizzarono visite pastorali per vigilare sul loro comportamento.

I gesuiti si inserirono nelle principali corti europee

a. per ottenere posizioni di privilegio e di comando nella società.

b. per diventare consiglieri dei sovrani e assicurare così la loro fedeltà al Cattolicesimo.

c. per convertire i nobili.

Esercizio 3 · Svolgi una ricerca sulla vita di uno dei santi della Riforma cattolica e sull’ordine religioso da lui fondato. Verifica se questo ordine esiste tuttora.

Esercizio 4 · Completa la seguente tabella nella quale sono messe a confronto le tesi di Lutero e i princìpi della dottrina cattolica sanciti nel Concilio di Trento.

Tesi di Lutero

Princìpi della dottrina cattolica

rapporto tra fede e opere

Sacramenti e funzione della Chiesa

Interpretazione della

Sacra Scrittura

Sacerdozio

Culto della Madonna e dei santi

Valore e funzione dell’arte sacra

Esercizio 5 · Completa la seguente tabella dove sono inseriti da un lato un elenco degli abusi e dei problemi che la Chiesa dovette affrontare, dall’altro i provvedimenti adottati nel Concilio di Trento per fronteggiare tali problemi.

Provvedimenti adottati nel Concilio di Trento

Creazione dei seminari

Abusi e problemi

Confusione dottrinale

Indice dei libri proibiti

Corruzione morale dei sacerdoti

Obbligo di residenza per i vescovi

Carlo V nella battaglia di Mühlberg
Olio su tela di Tiziano (1548), Museo
Nacional del Prado, Madrid

Il sogno di Carlo V

Il sogno di restaurare

il grande impero cristiano

Fin dalla sua ascesa al potere, Carlo V, che aveva ereditato sia il trono di Spagna che i possedimenti imperiali, coltivò il grande sogno di restaurare l’antico impero cristiano del Medioevo: una comunità di popoli che, pur diversi tra loro, fossero uniti dalla fede cristiana, vissuta attraverso l’obbedienza al papa e all’imperatore.

A questo scopo egli dedicò tutta la sua vita.

Eletto imperatore a soli diciannove anni, Carlo incontrò però molti ostacoli sul suo cammino e il suo progetto risultò alla fine irrealizzabile. Tra i suoi più fieri oppositori vi fu il re di Francia Francesco I, che pur di contrastarlo non esitò ad allearsi con i turchi musulmani.

Un altro ostacolo fu costituito dalla nascente Riforma protestante, che minò dall’interno l’unità del suo Impero e lo impegnò in durissimi ed estenuanti scontri.

Lo stesso papato non si mostrò affatto favorevole ai suoi disegni e finì spesso per contrastarlo.

In questo scontro anche Roma conobbe nel 1527 un terribile saccheggio da parte delle truppe imperiali. Nel 1555, deluso dagli insuccessi e indebolito dalle malattie, egli decise di rinunciare al trono e divise i suoi possedimenti tra il figlio Filippo e il fratello Ferdinando.

Nonostante il bilancio negativo del suo regno, Carlo V rimane un sovrano di indubbia grandezza. Il suo fu l’ultimo tentativo nella storia di far rinascere il Sacro Romano Impero, ispirato agli ideali della cristianità medievale, un progetto ormai divenuto anacronistico: molto diverso era infatti il contesto politico, culturale e religioso in cui l’Europa del XVI secolo si stava incamminando.

AL TERMINE DEL CAPITOLO

Schede di approfondimento

• Giovanna la pazza, una madre poco amata e infelice

• La rivalità tra Carlo V e Francesco I

• Il sacco di Roma

Raccontiamo in breve

Attività e verifiche

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per non perdere il filo

L’imperatore

Massimiliano I

d’Asburgo, e la sua famiglia

Olio su tavola

di Bernhard strigel (1516-20), Kunsthistorisches Museum, Vienna

Carlo è il personaggio raffigurato in basso al centro.

Perché le Fiandre

erano un paese ricchissimo?

1 · L’ascesa di un grande sovrano

Le Fiandre: un paese ricchissimo

Nel 1500 le Fiandre erano una delle zone più ricche d’Europa. Le sue pianure abbondavano di grano; le banche e le casseforti di Arras, Gand e Bruxelles si riempivano di pezzi d’oro provenienti dal nuovo continente appena scoperto; i pascoli delle province del nord rigurgitavano dei frutti della terra e nel porto di Anversa facevano scalo navi di tutte le bandiere. I suoi mercati e le sue fiere erano punti di approdo di tutti i più ricchi commercianti europei.

Questo splendido e fiorente territorio faceva parte del Ducato di Borgogna, uno stato potente, formalmente vassallo del Regno di Francia, dopo che nel secolo precedente aveva tentato invano di conquistare la propria sovranità.

Fu proprio in questa terra, nella città di Gand (oggi appartenente al Belgio), che il futuro imperatore Carlo V venne alla luce, il 24 febbraio del 1500.

Un matrimonio fortunato

Non fu solo la prosperità del luogo natale a segnare in maniera positiva il suo destino. I genitori erano Filippo, duca di Borgogna (figlio dell’imperatore Massimiliano I), e Giovanna di Castiglia (figlia dei “re cattolici” Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia). Questo fortunato incrocio matrimoniale fece sì che il bambino avesse per nonni quelle che all’epoca erano le persone più potenti d’Europa: tale circostanza non poteva che segnare in maniera positiva il suo destino.

Infatti nel 1516, alla morte di Ferdinando, venne nominato re di Spagna. A quell’epoca aveva appena sedici anni, e salì al trono al posto della madre, che era stata esclusa dalla successione perché giudicata dai genitori malata di mente (passerà infatti alla storia come “Giovanna la Pazza”, nonostante non si sia mai scoperto se tale diceria corrispondesse a verità)

Un re amato dal suo popolo

Carlo non si era mai recato in Spagna prima d’allora e non parlava neppure una parola di spagnolo, avendo come lingua madre il fiammingo. Per queste ragioni i sudditi non lo accettarono subito: lo vedevano come uno straniero e non furono pochi i malcontenti nei mesi immediatamente successivi alla sua incoronazione. Il giovane sovrano si diede però da fare: risiedette parecchi anni in Spagna, imparò la lingua e si circondò di validi ed esperti collaboratori. Governò così con grande saggezza, dando un forte impulso ai viaggi oceanici che cambiarono per sempre il volto del mondo (e soprattutto resero ricchissima la Spagna). Per tutti questi motivi, gli spagnoli si dimenticarono delle sue origini straniere e gli tributarono grandi onori. Alla sua morte verrà sepolto nella famosa “cripta dei re” del palazzo dell’Escorial (vicino a Madrid), dove già riposavano tutti i suoi illustri predecessori.

Verso l’impero universale

Nel 1519 morì l’altro nonno, Massimiliano I d’Asburgo, e Carlo venne eletto imperatore al suo posto, vincendo la dura concorrenza del re di Francia Francesco I e di Enrico VIII, monarca d’Inghilterra, entrambi aspiranti a quella che era di fatto la carica più prestigiosa del mondo.

A soli diciannove anni dunque questo ragazzo, unendo i territori imperiali a quelli spagnoli, era sovrano di quasi tutto il mondo allora conosciuto e poteva giustamente dire che sul suo regno “non tramonta mai il sole” con riferimento al fatto che in Sudamerica, dove la Spagna aveva le sue colonie, è notte quando in Europa è giorno. Fondamentali per la sua educazione furono due uomini in particolare: Adriano di Utrecht (futuro papa col nome di Adriano VI) e il famoso umanista Mercurino di Gattinara, che al termine della ce-

Perché la madre era stata esclusa dalla successione al trono?

Perché i sudditi inizialmente non accettarono Carlo V?

Perché successivamente gli tributarono grandi onori?

Perché Francesco I, re di Francia, si oppose al progetto di Carlo V?

Perché il papa fu uno degli avversari di Carlo V?

rimonia di incoronazione gli disse così: «Sire, poiché Dio vi ha concesso la prodigiosa grazia di elevarvi, sopra tutti i re e i principi della cristianità, a una potenza che fino ad oggi ebbe soltanto il vostro predecessore Carlo Magno, voi siete sul cammino della monarchia universale e della riunione della cristianità sotto un solo pastore». Per tutta la sua vita il suo progetto principale sarebbe stato dunque uno solo: restaurare l’antico impero cristiano del Medioevo, una comunità di genti che, seppur diverse tra di loro, fossero unite dalla fede cristiana, vissuta attraverso l’obbedienza e la dedizione alle figure del papa e dell’imperatore.

2 · Le lunghe guerre di Carlo V

Un re con molti nemici

Il progetto di riportare l'impero cristiano all'antica gloria era nobile e ambizioso, ma incontrò molti ostacoli. Il giovane imperatore ebbe da subito moltissimi nemici. Innanzitutto il re di Francia Francesco I, che aspirava a divenire il sovrano più potente d’Europa e che considerava Carlo V come suo acerrimo nemico al punto che, per contrastarlo, non esiterà ad allearsi persino con l’Impero Ottomano. In secondo luogo i principi tedeschi, che avevano abbracciato il Protestantesimo nel tentativo di rendersi autonomi dall’Impero e che non avevano nessuna intenzione di sottomettersi alla sua autorità. In terzo luogo l’Impero Ottomano, che dal 1453 costituiva sempre più una minaccia per l’intera Europa (nel 1526 i turchi arrivarono fino all’Ungheria e, successivamente, assedieranno addirittura Vienna). Infine lo stesso papa, Clemente VII, appartenente alla famiglia dei Medici, che era molto più preoccupato dei suoi domini politici piuttosto che del bene della Chiesa e che, per questo, rifiutò di schierarsi con Carlo contro i turchi e non volle mai convocare un concilio per risolvere il problema dei protestanti.

L’eterno duello con Francesco I

Il risultato di queste rivalità fu che per tutta la vita Carlo V dovette combattere una serie lunghissima di guerre, che lo distolsero più volte dal sogno di costruire un’Europa grande e pacifica. Il suo più grande rivale fu senza dubbio Francesco I, un sovrano che poteva spesso contare sull’appoggio del papa. Le guerre contro di lui, che durarono quasi ininterrottamente per più di vent’anni, si svolsero in gran parte in Italia (si combatteva infatti soprattutto per il possesso del Ducato di Milano). I momenti più drammatici di questo scontro furono la battaglia di Pavia (1525), al termine della quale Francesco fu fatto prigioniero, e il “sacco di Roma” (1527), uno degli episodi più tragici di quel periodo.

Regno di Inghilterra

Regno di Polonia

Domini nelle Americhe

Il “sacco di Roma”

In quest’ultima circostanza infatti Carlo V si trovò a dover contrastare una lega di stati italiani (la Lega di Cognac) che si erano alleati con la Francia e alla quale aveva aderito anche papa Clemente VII. Per questo inviò in Italia un esercito di mercenari lanzichenecchi , per la maggior parte protestanti. Questi, esasperati dalla lunga spedizione per la quale non erano ancora stati pagati e mossi da odio contro la Chiesa Cattolica, si riversarono su Roma, conquistandola e sottoponendola a otto giorni di saccheggi e violenze che l’imperatore non riuscì a impedire e dalle quali lo stesso papa si salvò a stento. Nel conflitto costante con Francesco I più di una volta Carlo cercò di esortare il rivale a deporre le armi e a rivolgere i suoi sforzi verso l’Oriente, dove l’Impero Ottomano diventava sempre più minaccioso. Tutto fu vano: nonostante le sue continue promesse, Francesco I tornava sempre a rivolgersi contro l’imperatore. Questi scontri non ebbero nessun risultato concreto: alla morte del re francese (1547) la situazione politica rimase di fatto immutata, dato che nessuno dei due contendenti era riuscito a indebolire l’altro in maniera decisiva.

I domini di Carlo V

Impero Ottomano

Eredità degli Asburgo Eredità spagnola

Confini del sacro Romano Impero

Lanzichenecchi

Termine che deriva dal tedesco e significa letteralmente “servo rurale”. designava militari di professione, reclutati dall’Imperatore soprattutto tra i figli cadetti delle famiglie di contadini piccoli proprietari. Costoro preferivano dedicarsi all’attività militare pur di non diventare servi rurali al servizio dei fratelli primogeniti, che erano gli unici eredi dei beni paterni. da ciò derivava il loro nome. Il loro armamento consisteva in una spada e una lunga picca.

Perché Carlo V inviò i lanzichenecchi ad attaccare Roma?

Danubio
Reno
Rodano
Barcellona Loira
Regno del Portogallo
Regno di Spagna
Regno di Francia
Ducato di Milano
Stato della Chiesa
Regno di Napoli
Regno di Sicilia
Regno di Sardegna
Siviglia
Lisbona

I

pirati

del Mediterraneo

Nel tentativo di indebolire l’Impero Ottomano, Carlo V diresse la sua azione contro il temibile Khair Ad-Din, detto il Barbarossa, uno dei più temibili pirati del Mediterraneo. Nel 1520 egli era diventato vassallo del sultano di Istanbul e comandante supremo della sua flotta. Nel 1535 Carlo organizzò una gigantesca spedizione contro Tunisi, la sua roccaforte principale. Questa operazione fu un completo successo: l’esercito imperiale conquistò la città, rendendo molto più sicuro il mar Mediterraneo. In quell’occasione lo stesso Barbarossa (Khair Ad-Din), ammiraglio dell’impero Ottomano

Olio su tela di Ohannes

Umed Behzad (1866), Museo Navale, Istanbul

imperatore, che in precedenza non aveva mai partecipato a nessuna campagna militare, decise di scendere in prima linea. Stando ai resoconti dei cronisti dell’epoca, egli si comportò con straordinario valore sul campo di battaglia, mostrando sprezzo del pericolo e contribuendo non poco alla vittoria finale. Da quel momento egli seguirà sempre di persona il suo esercito.

Nel 1541, approfittando di un periodo di tregua con la Francia, un’altra spedizione si diresse contro Algeri. Questa volta però la sconfitta fu clamorosa e in Germania si sparse addirittura la notizia che Carlo fosse stato ucciso. I turchi ripresero vigore e il progetto di cacciarli dall’Europa dovette essere accantonato per parecchi decenni.

Contro i principi protestanti

Abbiamo già visto come fosse stato proprio Carlo V a condannare Lutero alla Dieta di Worms (1521). Il Protestantesimo si diffuse però ampiamente nell’Impero e le esortazioni al papa perché convocasse un concilio che risolvesse la questione cadevano continuamente nel vuoto. Il desiderio di indipendenza dei principi si concretizzò dopo la morte di Lutero (1546): essi avevano formato in precedenza la Lega di Smalcalda e dichiararono guerra all’imperatore, il quale rispose chiamando a raccolta i signori che gli erano ancora fedeli.

Nella battaglia di Mühlberg (1547), l’esercito di Carlo V ottenne una vittoria schiacciante, e per un po’ il problema sembrò risolto.

Cinque anni dopo però i protestanti tornarono all’attacco e questa volta si allearono con il re di Francia Enrico II. Il giovane sovrano, figlio di Francesco I, aveva ereditato in pieno l’odio del padre verso l’imperatore e, pur di farla finita con lui, non esitò, benché cattolico, ad allearsi con i principi protestanti.

Nella guerra che seguì, l’esercito di Carlo V fu pesantemente battuto ad Innsbruck. Egli stesso riuscì a sfuggire per un soffio alla cattura (1552).

La Pace di Augusta (1555) stabilì, come visto, che ogni principe aveva il diritto di scegliere la propria religione e i sudditi si dovevano adeguare di conseguenza (il principio del cuius regio eius religio). Il Protestantesimo divenne dunque una religione pienamente riconosciuta e accettata all’interno dell’Impero. Il progetto di Carlo di ricreare l’unità religiosa della cristianità era fallito.

Perché Carlo V attaccò Tunisi?

Perché fallì il progetto di Carlo V?

3 · Un progetto fallito?

Un mondo cambiato: si stanno affermando gli stati nazionali

Per più di trent’anni Carlo V d’Asburgo aveva speso ogni energia nel tentativo di restaurare quel Sacro Romano Impero che era stato del suo lontano predecessore Carlo Magno. Ogni sua singola azione aveva avuto come fine ultimo quello di restituire all’Europa la sua unità religiosa, ma egli si era trovato drammaticamente solo in questa impresa. Gli stati nazionali, dotati di confini definiti e governati da sovrani con grandissimi poteri, erano ormai diffusi e consolidati in gran parte del continente. I re e i principi agivano per il proprio interesse personale e, se anche erano religiosi, questo era un fatto privato, che non influiva minimamente sul loro modo di governare (pensiamo a Francesco I, che si alleò con i turchi, e a suo figlio che strinse accordi coi Protestanti, oppure a Enrico VIII, che, come vedremo, non esiterà ad andare contro il papa pur di soddisfare i suoi desideri).

Un impero troppo grande per essere governato da una persona sola

L’immensa vastità del suo Impero, inoltre, ne rendeva molto difficile il governo: nel tentativo di tenere tutto sotto controllo, Carlo prese l’abitudine di spostarsi piuttosto spesso (anche se per la maggior parte del tempo risiedette in Spagna) e di nominare delle persone fidate, spesso parenti, come reggenti dei domini da cui era lontano. Questo sistema aveva ovviamente numerosi inconvenienti, dato che il sovrano non riusciva quasi mai a tenere tutto sotto controllo.

L’abdicazione e la fine

La disfatta di Innsbruck fu la goccia che fece traboccare il vaso: Carlo V si rese improvvisamente conto che il mondo stava andando nella direzione opposta a quella da lui sognata, e che per lui non c’era dunque più posto.

Prese allora una decisione davvero straordinaria per uno come lui, che era stato per così tanto tempo l’uomo più potente della terra, il signore del regno “dove non tramonta mai il sole”: rinunciò al trono e si ritirò in un monastero.

C’era infatti in lui la coscienza del fallimento, ma anche di aver vissuto la propria missione con devozione e impegno, facendo del suo meglio per portarla a termine: adesso toccava a qualcun altro.

L’abdicazione, avvenuta a Bruxelles, segnò anche la fine del suo immenso Impero: Carlo si era infatti reso conto di quanto fosse difficile tenere sotto controllo simultaneamente un così alto numero di territori diversi tra loro.

Decise dunque di dividere i suoi domini in due: al fratello Ferdinando, che venne nominato imperatore, consegnò la Germania,

l’Austria e l’Est europeo. Al figlio primogenito Filippo donò invece la Spagna con tutte le colonie americane, i Paesi Bassi e l’Italia. Nel 1556, compiuti questi ultimi doveri, lo stanco ex sovrano si ritirò in Spagna nel monastero geronimita di Yuste, nell’Estremadura, dove visse gli ultimi due anni della sua vita in preghiera e morì il 21 settembre 1558.

Al servizio del bene comune

Se dovessimo giudicare Carlo V sulla base dei suoi successi, non lo reputeremmo un sovrano così straordinario. Ciò che lo ha reso unico al mondo è stata la concezione della politica, l’arte del governo, non come uno strumento per accrescere il proprio potere, ma come un servizio per il bene comune, da compiere davanti a Dio. La sua fu una vita di battaglie perdute, illuminata solo a tratti da qualche breve successo militare e da qualche effimero riconoscimento. Una vita però interamente spesa per il suo Impero, per la sua gente, per la costruzione di un mondo che fosse edificato sull’ideale cristiano, ideale che egli cercò di trasmettere, al momento del passaggio delle consegne, anche al figlio.

Presentazione di don Giovanni d’Austria all’imperatore Carlo V a Yuste Olio su tela di Eduardo Rosales (1869), Museo Nacional del Prado, Madrid

Perché Carlo V abdicò?

METTIAMO A FUOCO

Giovanna la pazza, una madre poco amata e infelice

Un amore travolgente

La vita e la carriera politica di Carlo V, apparentemente irreprensibili e segnate dai più alti ideali, ebbero però una macchia decisamente difficile da cancellare. Ci riferiamo al rapporto con la madre Giovanna. Costei, educata in maniera rigida e austera da Isabella di Castiglia, all’età di diciassette anni era stata data in sposa a Filippo duca di Borgogna, uno dei più affascinanti cavalieri della sua epoca. Giovanna se ne innamorò perdutamente, ma il loro non fu un matrimonio felice. Filippo infatti era un violento, beveva, la picchiava e corteggiava tutte le donne che incontrava, comprese le dame di compagnia della moglie. In nove anni di matrimonio i due ebbero nove figli, e questo nonostante il marito fosse spesso lontano per affari di stato o campagne militari. E sarebbe stata proprio l’eccessiva impulsività di Giovanna, che nel 1503 tentò di fuggire da Bruxelles per andare a raggiungere lo sposo, a far pensare che fosse pazza.

Esclusa dalla successione al trono

La sua situazione peggiorò poi con la morte del fratello Juan, erede al trono spagnolo. Giovanna veniva immediatamente dopo nella linea di successione ma, sorprendentemente, né Ferdinando né Isabella erano disposti ad accettare a che lei accedesse al trono. Nel 1505 Ferdinando si incontrò in segreto con Filippo di Borgogna, e lo nominò ufficialmente erede del trono spagnolo. L’anno successivo però Filippo morì in circostanze misteriose (si pensa avvelenato): la psiche di Giovanna, già duramente provata dagli anni infelici del matrimonio, non resse e la donna fu sopraffatta dal dolore. da quel momento il suo comportamento fu sempre più strano, tanto che venne soprannominata “la Pazza”. Ferdinando d’Aragona era sempre più deciso a non permetterle di salire al trono di spagna, e a tale scopo mandò una lettera a tutte le corti d’Europa, spiegando la pazzia della figlia e rifiutando per lei tutte le proposte di matrimonio che erano nel frattempo arrivate (una persino da Enrico VIII d’Inghilterra!). da quel momento la donna fu costretta a vivere rinchiusa nella sua abitazione, e alla morte del padre (1516) fu il loro primogenito Carlo a divenire re di spagna.

Ritratto di Giovanna d'Aragona e Castiglia

Maestro di Affligem, 1500 circa, Museo nazionale di scultura, Valladolid, Spagna

Pazza veramente o vittima di intrighi di palazzo?

I rapporti tra la madre e il figlio furono praticamente inesistenti: Carlo la incontrò solo due volte, di cui la prima nel 1518. Non sappiamo se credesse o meno alla sua pazzia, ma di fatto non fece mai nulla né per liberarla dalla prigione né per far valere i suoi diritti sul trono. Nel 1520 i nobili spagnoli si ribellarono al nuovo sovrano, liberarono Giovanna e pretesero di rimetterla sul trono. In quell’occasione la donna, che pure soffriva per la sua condizione, preferì rifiutare e da quel momento visse rinchiusa fino alla fine dei suoi giorni. Morì nel 1555, all’età di settantasei anni, pochi mesi prima che suo figlio Carlo, spossato dalle malattie e dalle sconfitte, rinunciasse per sempre al trono.

Ancora oggi gli storici sono divisi: c’è chi pensa che Giovanna fosse realmente malata di mente e che quindi fosse necessario allontanarla dal potere, e c’è chi la considera semplicemente la vittima innocente degli oscuri intrighi imbastiti dal padre e dal marito. L’imperatore Carlo, da parte sua, probabilmente non si pose mai il problema. C’è però chi sostiene che nei suoi ultimi giorni a Yuste egli dovette aver avvertito fortemente il peso della colpa per quel che aveva fatto.

METTIAMO A FUOCO

La rivalità tra Carlo V e Francesco I

Uomini dagli ideali molto diversi

Francesco I di Valois era salito al trono di Francia il 1 gennaio 1515, all’età di ventuno anni. Uomo dal fisico grande e vigoroso, era un perfetto sovrano del Rinascimento: amava la gloria, le donne, gli eserciti, le battaglie, le arti, la letteratura, i giochi, la caccia. se Carlo V sognava l’unione della cristianità sotto l’autorità del papa e dell’imperatore, il suo rivale era molto più ambizioso ed egocentrico. Egli era infatti assetato di gloria, e sognava di sottomettere l’intera Europa all’autorità della corona francese. sin dal 1515 infatti cercò di strappare agli Asburgo i territori italiani e, quando nel 1519 fallì il tentativo di diventare imperatore, la sua ostilità nei confronti di Carlo V crebbe a dismisura. Il 24 febbraio 1525 l’esercito imperiale sbaragliò quello francese nella battaglia di Pavia. Lo scontro fu uno dei più sanguinosi dell’epoca, con perdite altissime da entrambi gli schieramenti. Lo stesso Francesco I ebbe il cavallo ferito sotto di sé e sarebbe certamente morto se uno dei capitani di Carlo V non lo avesse riconosciuto. Lo fece allora circondare dagli archibugieri e lo prese prigioniero.

La cavalleria di Carlo V…

L’imperatore apprese la notizia due settimane dopo, mentre si trovava a Madrid. In quel momento la Francia era totalmente alla sua mercé e, se avesse voluto, avrebbe potuto facilmente infliggerle il colpo di grazia. Inspiegabilmente però, Carlo ordinò di sospendere le ostilità. «Non rientra nel mio concetto d’onore – si giustificò – fare la guerra a un re che è mio prigioniero e che non può difendersi».

Il 20 luglio Francesco I arrivò sotto scorta a Madrid, come prigioniero. In quell’occasione i due sovrani si incontrarono per la prima volta di persona. L’incontro fu fraterno e cordiale: «Imperatore, mio signore – disse il francese – voi vedete davanti a voi il vostro servitore e il vostro schiavo». «Al contrario – replicò Carlo – io vedo in voi un uomo libero, il mio buon fratello e il mio amico». I due stettero insieme a lungo, organizzarono battute di caccia, ed ebbero modo di manifestarsi reciproca stima e simpatia. Finalmente, dopo complesse trattative, venne firmato il Trattato di Madrid (gennaio

1526): Francesco rinunciò a tutti i suoi diritti in Italia, e pagò i debiti contratti dall’imperatore in occasione dell’ultima guerra. si impegnò inoltre a fornire aiuto per una futura crociata contro i turchi. Il congedo tra i due sovrani fu amichevole: si abbracciarono e il sovrano francese promise ancora una volta che avrebbe onorato i patti.

… ma Francesco I non mantiene i patti

Tre mesi dopo, invece, Francesco I si era già alleato con l’Inghilterra, Venezia e Firenze per combattere nuovamente l’Asburgo. Possiamo immaginare quale fu la reazione di Carlo nel momento in cui apprese la notizia: mandò immediatamente una lettera al rivale chiamandolo “malvagio” e “vile”. Francesco ne fu così irritato che lo sfidò a duello! sarebbe stata una cosa assolutamente senza precedenti: i due sovrani più potenti del mondo che si battono a duello per decidere le sorti dell’Europa; ma alla fine la cosa non si fece. I consiglieri di entrambe le parti consideravano un gesto folle che i loro signori mettessero a repentaglio la propria vita in questo modo, e li costrinsero a rifiutare. Qualcuno avrebbe potuto dire che Carlo V aveva perso un’importante occasione per chiudere i conti col rivale, ma in realtà, in quel momento, egli aveva dimostrato davvero tutta la sua grandezza: ciò che gli stava a cuore infatti non era tanto il dominio personale, quanto la ricomposizione dell’unità europea.

Francesco I viene fatto prigioniero nella battaglia di Pavia Illustrazione tratta da Cassel’s Illustrated History of England, Vol. II, 1865

PARTIAMO DALLE FONTI

Il sacco di Roma

Rispetto alle guerre del Medioevo, quelle del Rinascimento furono indubbiamente più cruente: non solo perché le armi da fuoco provocavano più danni tra i combattenti, ma soprattutto perché sovrani e principi avevano ormai preso l’abitudine, come abbiamo già visto, di utilizzare truppe mercenarie. L’esercito imperiale aveva inoltre un problema in più: in esso convivevano mercenari spagnoli (cattolici) e tedeschi (protestanti), che trovavano ogni pretesto per scontrarsi tra di loro. Il furore dei mercenari tedeschi, i famosi e temutissimi lanzichenecchi, fu particolarmente evidente il 6 maggio 1527 durante il saccheggio di Roma: arrabbiati per non essere ancora stati pagati, e animati da odio verso la Chiesa Cattolica e il papa, essi furono spinti dai loro comandanti a riversarsi in massa sulla città eterna. dopo una breve resistenza, i 14.000 mercenari irruppero all’interno delle mura e si diedero a otto giorni di saccheggi e violenze di ogni genere. Ecco come Francesco Guicciardini, un famoso storico dell’epoca, descrive questo episodio: «Impossibile a narrare la grandezza della preda, essendovi accumulate tante ricchezze e tante cose preziose e rare, di cortigiani e di mercatanti [mercanti]; ma la fece ancora maggiore la qualità e il numero grande de’ prigioni [dei prigionieri] che si

Scontro tra lanzichenecchi e mercenari svizzeri

Disegno di Hans Holbein il Giovane (prima metà del XVI secolo)

ebbeno a ricomperare con grossissime taglie [che si dovettero riscattare con ingenti taglie]. Morirono nella battaglia e nello impeto del sacco circa quattromila uomini. Furono saccheggiati i palazzi di tutti i cardinali. I prelati e i cortigiani spagnuoli e tedeschi, riputandosi sicuri delle ingiurie delle loro nazioni [sentendosi protetti dal fatto che appartenevano alla stessa nazionalità degli aggressori], furono presi e trattati non manco acerbamente [non meno crudelmente] degli altri. sentivansi i gridi e le urla miserabili delle donne romane e delle monache. Tutte le cose sacre, i sacramenti e le reliquie de’ santi, delle quali erano piene tutte le chiese, spogliate de’ loro ornamenti, erano gittate per terra; aggiugnendovi la barbarie tedesca infiniti vilipendi [oltraggi e atti sacrileghi]. Ed era fama, che tra denari oro argento e gioie [gioielli], fusse asceso il sacco a più di uno milione di ducati, ma che di taglie avessino cavata ancora quantità molto maggiore».

Francesco Guicciardini

Storia d’Italia, libro XVIII, capp. I-VIII, adatt.

1. Quanti furono i morti durante la battaglia e durante il saccheggio?

2. Quali furono i palazzi saccheggiati?

3. Cosa si dice dei cortigiani spagnoli e tedeschi? Ebbero un trattamento diverso rispetto a quelli italiani?

4. Perché, secondo te, i lanzichenecchi si accanirono in modo particolare contro gli oggetti sacri?

5. A quanto ammontava il valore degli oggetti saccheggiati?

RACCONTIAMO IN BREVE

1. Il futuro imperatore Carlo V nacque il 24 febbraio 1500 a Gand, nelle Fiandre. Favorito da fortunati incroci famigliari ereditò sia il trono di Spagna (1516) che quello imperiale (1519). Coltivò a questo punto il sogno di ricostituire l’antico impero cristiano del Medioevo, un grande impero universale che arrivava fino all’America e che era unito dalla comune fede cristiana e dall’obbedienza a un unico imperatore. Per realizzare questo sogno dovette però scontrarsi con molti nemici: il re di Francia Francesco I, i principi protestanti tedeschi, i Turchi musulmani e persino il papa.

2. Col re di Francia Carlo V combatté numerose guerre per il possesso dell’Italia. La più importante di queste culminò nella battaglia di Pavia (1525), al termine della quale il sovrano francese fu fatto prigioniero, senza che però il conflitto avesse fine. Durante la guerra successiva contro la Lega di Cognac, nel 1527, i lanzichenecchi, mercenari tedeschi al suo servizio, attaccarono Roma e la saccheggiarono, compiendo efferate violenze contro la popolazione.

3. L’imperatore tentò anche di indebolire l’Impero Ottomano, conducendo delle spedizioni militari contro i temibili pirati che infestavano il Mediterraneo al soldo del Sultano. Dopo aver espugnato Tunisi (1535), una seconda operazione contro Algeri, non raggiunse l’esito sperato.

4. Nel frattempo dovette anche affrontare i principi tedeschi che avevano aderito al Protestantesimo unendosi nella Lega di Smalcalda. Lo scontro durissimo si concluse senza vinti né vincitori con la Pace di Augusta (1555), che stabiliva che i sudditi avrebbero dovuto seguire la religione del principe: veniva così sancita ufficialmente la divisione religiosa dell’Impero.

5. A questo punto, dopo più di trent’anni di lotte e conflitti, Carlo V dovette riconoscere che il suo progetto non poteva essere realizzato. Il mondo era cambiato e i nuovi stati nazionali non intendevano più riconoscere alcuna autorità sopra di loro, neanche quella imperiale. Nel 1556, deluso, stanco e malato, decise di rinunciare al trono. In quell’occasione divise anche i suoi domini: al figlio Filippo affidò la Spagna con i territori sudamericani, i Paesi Bassi e i territori italiani (il Ducato di Milano e il Regno di Napoli). Il fratello Ferdinando divenne imperatore e regnò sui domini tedeschi, l’Austria e l’est europeo. Successivamente si ritirò nel monastero di Yuste, in Spagna, dove trascorse i suoi ultimi anni in preghiera e morì il 21 settembre 1558.

ATTIVITÀ E VERIFICHE

Esercizio 1 · Rispondi, anche oralmente, alle seguenti domande.

1. Quali erano le condizioni economiche delle Fiandre nel XVI secolo?

2. Quali circostanze favorirono inizialmente la fortuna di Carlo V?

3. Chi era Mercurino di Gattinara?

4. Quali furono i nemici che Carlo V dovette fronteggiare per realizzare il suo progetto di monarchia universale?

5. Che cos’era la Lega di Cognac e chi vi aderì?

6. Chi erano i lanzichenecchi?

7. Che cosa stabilì la Pace di Augusta?

8. A chi Carlo V affidò il suo territorio al momento di abdicare?

9. dove Carlo V trascorse gli ultimi anni della sua vita dopo aver abdicato e a che cosa si dedicò?

Esercizio 2 · Completa la linea del tempo: scrivi il numero del fatto storico sulla data corretta.

1. sacco di Roma

2. Pace di Augusta

3. Carlo V viene eletto imperatore

4. Carlo V abdica

5. Battaglia di Mühlberg

Esercizio 3 · Indica se l’affermazione riportata è vera o falsa.

Carlo V divenne imperatore all’età di sedici anni. V F

Il futuro papa Adriano VI fu uno dei maestri di Carlo V. V F

Nel 1527 Roma fu saccheggiata dai lanzichenecchi.

F

Nella battaglia di Mühlberg Carlo V sconfisse i principi protestanti. V F

Al momento di abdicare Carlo V assegnò i territori tedeschi al figlio e quelli spagnoli al fratello.

Esercizio 4 · Per completare la frase iniziale scegli fra le tre alternative proposte quella che ti sembra, oltre che esatta, anche precisa e formulata con il linguaggio più appropriato.

La frase “sul mio regno non tramonta mai il sole” significa

a. che Carlo V governava su territori dal clima favorevole e sempre soleggiati.

b. che godette sempre di grande fortuna.

c. che nei suoi territori c’era il sole in Europa mentre era notte in sudamerica e viceversa.

F

Il progetto di Carlo V fu di

a. ingrandire i domini spagnoli.

b. ricostituire l’antico impero cristiano e realizzare la “monarchia universale”.

c. sconfiggere una volta per tutte la Francia.

Carlo V ebbe come nemici

a. i turchi, i principi protestanti tedeschi e il papa, ma ebbe come alleato il re di Francia Francesco I.

b. i turchi, i principi protestanti e il re di Francia Francesco I, ma ebbe come alleato il papa.

c. i turchi, i principi protestanti tedeschi, il papa e il re di Francia Francesco I.

Il progetto di Carlo V fallì

a. perché trovò l’opposizione dei sovrani nazionali che non esitarono ad allearsi anche con i turchi e i protestanti.

b. perché gli mancarono le forze e l'Impero era troppo vasto da governare.

c. perché non trovò l’appoggio dei suoi sudditi.

Carlo V suddivise il suo immenso territorio

a. perché si rese conto che era troppo vasto per essere governato da un uomo solo.

b. perché i suoi nemici erano troppo potenti.

c. perché desiderava accontentare sia il figlio che il fratello.

Esercizio 5 · Colora, nella cartina riportata, i territori appartenenti a Carlo V. Utilizza due colori diversi per indicare i territori ereditati dalla madre e quelli ereditati dal padre. Realizza poi la legenda.

Legenda

L’Invencible Armada attaccata dalla flotta inglese

Olio su tela di Hendrick Cornelisz. Vroom (1601), Tiroler Landesmuseum, Innsbruck, Austria

Le macchie rosse che si notano in basso sono le esplosioni dei brulotti, piccole navi cariche di esplosivo che gli inglesi lanciavano contro le navi spagnole.

Capitolo 7

Spagna, Francia e Inghilterra tra Cinquecento e Seicento

Guerre di religione e lotte per l’egemonia: si delinea il volto nuovo dell’Europa

Dopo essersi separata da Roma al termine di un lungo periodo di contrasti e lotte religiose che avevano portato alla nascita della Chiesa Anglicana, l’Inghilterra, sotto il lungo regno di Elisabetta I, si avviò a diventare per molti secoli la potenza dominatrice dei mari.

La Spagna invece, sua rivale e paladina del Cattolicesimo, dopo essere stata sconfitta dalla potenza inglese, iniziò un inarrestabile declino, perdendo anche i Paesi Bassi.

Gli scontri di carattere politico-religioso tra cattolici e ugonotti calvinisti travolsero, nella seconda metà del XVI secolo, anche la Francia e sfociarono in una sanguinosa guerra civile che si concluse solo con la conversione al Cattolicesimo e la salita al trono di Enrico IV di Borbone.

Le tensioni politiche e religiose all’interno dei singoli paesi esplosero anche su scala europea con la Guerra dei Trent’Anni (1618-1648), con la quale l’Europa sembrò spaccarsi in due parti; da un lato le forze cattoliche al fianco degli Asburgo e dall’altro quelle protestanti sostenute, in funzione antiasburgica, anche dalla Francia. Questo tragico conflitto, che devastò gran parte del continente, si concluse con la Pace di Westfalia, che sancì il futuro assetto dell’Europa, affermando in particolare la sovranità assoluta degli stati nazionali rispetto a qualsiasi istanza superiore, e quindi la fine di quel che ancora restava del ruolo esercitato fin dal Medioevo da Papato e Impero.

AL TERMINE DEL CAPITOLO

Schede di approfondimento

• Dagli eserciti mercenari a quelli nazionali

• L’Escorial

• La battaglia di Lepanto

• Il massacro della notte di San Bartolomeo

Raccontiamo in breve

Attività e verifiche

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per non perdere il filo

Perché Enrico VIII

entrò in contrasto con il papa?

1 · Lo scisma anglicano

Enrico VIII da difensore della fede a ribelle

L’Inghilterra non rimase estranea ai fermenti religiosi che si stavano verificando nella prima metà del XVI secolo nel resto dell’Europa e finì anch’essa per staccarsi da Roma. Si trattò, però, di una separazione molto diversa rispetto a quelle di Lutero e Calvino, maturata soprattutto a corte e fortemente influenzata da ragioni di carattere politico.

Tutto ebbe inizio quando il re, Enrico VIII Tudor (1491-1547), fino ad allora campione della fede cattolica al punto da meritarsi l’appellativo di defensor fidei, si scontrò apertamente col papa. Il motivo di questo scontro fu apparentemente futile: innamorato di una cortigiana, Anna Bolena, egli voleva divorziare dalla moglie Caterina d’Aragona, figlia del re di Spagna Ferdinando il Cattolico; il papa non concesse l’autorizzazione all’annullamento di questo matrimonio e ciò suscitò le ire e la rivolta del re inglese.

In realtà però, alla base del conflitto stavano motivi innanzitutto politici. In primo luogo il fatto che Caterina aveva dato a Enrico solo una figlia femmina e questi rischiava così di non avere eredi maschi che gli succedessero sul trono (e sappiamo come questo per un sovrano non fosse un problema da poco).

In secondo luogo, in una situazione nella quale la rivalità tra Inghilterra e Spagna stava diventando sempre più forte, Enrico VIII intendeva rompere ogni legame di parentela con la casa reale spagnola.

Il distacco da Roma e la persecuzione dei “papisti”

Dopo il diniego del papa alla sua richiesta di annullamento del matrimonio, Enrico VIII passò all’azione: nel 1534 fece votare al parlamento inglese l’Atto di Supremazia, un documento nel quale si proclamava capo della Chiesa d’Inghilterra, che da allora verrà chiamata Anglicana, riservandosi il potere di nominare i vescovi e riscuotere le decime.

Più che di un’eresia si trattò inizialmente di uno scisma, in quanto i princìpi della dottrina cattolica non vennero messi in discussione.

Perché inizialmente quello di Enrico VIII fu uno scisma più che un’eresia?

Dopo questo atto di ribellione Enrico scatenò una durissima persecuzione contro tutti coloro che rifiutarono di riconoscere la sua autorità sulla Chiesa e che intendevano rimanere fedeli al papa. Tra i “papisti” (così erano chiamati con disprezzo questi ultimi), trovarono la morte per decapitazione anche personaggi di grande rilievo come l’arcivescovo di Londra John Fisher e l’ex cancelliere della corona, il celebre e dotto umanista Thomas More (Tommaso Moro).

Da Edoardo VI a Maria “la Sanguinaria”

Per la verità anche dopo le seconde nozze con Anna Bolena, Enrico VIII non raggiunse l’obiettivo sperato. Da lei infatti ebbe una seconda figlia femmina, Elisabetta, e non l’atteso erede maschio. Enrico a questo punto fece uccidere la seconda moglie e sposò successivamente altre quattro donne. Solo la prima di esse, Jane Seymour, riuscì a dargli un erede maschio, il futuro Edoardo VI. Questi ereditò il trono alla morte del padre, all’età di soli dieci anni, ma morì giovanissimo dopo sei anni, senza aver mai potuto, data la sua giovane età, esercitare il potere. A questo punto, in assenza di altri eredi maschi,

Enrico VIII

Olio su tavola di Hans Holbein il giovane (1537 circa), Museo ThyssenBornemisza, Madrid

Perché Maria fu detta la Sanguinaria?

il trono passò alla figlia di prime nozze di Enrico, Maria che, educata dalla madre al Cattolicesimo, tentò di reintrodurre nel paese l’obbedienza a Roma. Si trovò però a dover fronteggiare l’opposizione di molti nobili inglesi che tramavano contro di lei e per questo fece ricorso a una durissima repressione che le meritò l’appellativo di Sanguinaria, anche se in realtà lo fu probabilmente molto meno del suo terribile padre. Morta Maria senza eredi nel 1558, si aprì la strada alla successione per la sorellastra Elisabetta.

2 · L’Inghilterra nell’età elisabettiana

Una figlia illegittima, tenuta per lungo tempo prigioniera

Perché Elisabetta era stata esclusa dalla successione?

Elisabetta I salì al trono nel 1558. Figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, dopo l’uccisione della madre era stata dichiarata illegittima ed esclusa dalla successione. Una volta salita al trono, Maria, temendo che potesse complottare contro di lei, l’aveva fatta segregare, in una condizione adeguata al suo rango, in una splendida residenza, dove tra l’altro poté studiare avendo come precettore il celebre umanista Roger Asham, che le insegnò il greco, il latino, lo spagnolo, l’italiano, e le diede una buona preparazione in tutti i rami del sapere dell’epoca.

Diventa regina alla morte di Maria Tudor

La reclusione finì quando, morta Maria, venne designata per la successione al trono. Elisabetta ereditò un regno solido e ben organizzato dal punto di vista economico e politico, anche se travagliato dai conflitti religiosi, un regno che durerà fino al 1603 e sarà uno dei più lunghi della storia europea. Durante quella che gli storici chiamano “età elisabettiana”, uno dei periodi più prosperi e fortunati della sua storia, l’Inghilterra conobbe una grande fioritura artistica e letteraria oltre che una notevole crescita economica.

Perché questo periodo venne chiamato l'età elisabettiana?

Fiera e orgogliosa, per tutta la vita Elisabetta rifiutò il matrimonio, nonostante le insistenze dei suoi consiglieri perché trovasse un uomo che le desse un erede. La sua morte, come vedremo, provocherà la fine della dinastia Tudor.

Elisabetta governa da monarca assoluto per tutti i suoi 45 anni di regno Durante i suoi 45 anni di regno Elisabetta governò in maniera accentrata e autoritaria, come un vero e proprio monarca assoluto, senza consultarsi con altri se non con le sette persone che componevano il suo Consiglio privato. Queste, con pochissime eccezioni, rimasero sempre le stesse per tutto il periodo in cui lei mantenne il trono. Si trattava di uomini di grandissima abilità ed esperienza, e

senza di essi la regina non avrebbe potuto esercitare il potere con la destrezza che dimostrò.

Il parlamento fu invece poco consultato: nel sistema monarchico inglese esso approvava le tasse che il re decideva di imporre ed esaminava ogni legge prima che entrasse effettivamente in vigore. Allora però si riuniva solo quando il sovrano lo convocava. Elisabetta, forse anche per la sua vicenda personale, non si fidava di questa assemblea, tanto che nei suoi 45 anni di regno lo convocò solamente tredici volte.

Elisabetta I, regina d'Inghilterra Olio su tela attribuito a nicholas Hilliard (1575 circa), Kunsthistorisches Museum, Vienna

Perché si dice che Elisabetta governò in maniera accentrata e autoritaria?

Francis Drake riceve il cavalierato dalla

regina Elisabetta

Opera scultorea di Joseph Boehm inserita nel basamento del monumento dedicato a Drake, Tavistock, gran Bretagna

Il suo rapporto con la religione: restaura il Protestantesimo e si proclama capo della Chiesa inglese

La questione religiosa era particolarmente sentita nel paese: come abbiamo visto, durante il regno di Maria Tudor la Chiesa inglese era ritornata al Cattolicesimo ripristinando la sua comunione con il papa. I sudditi (soprattutto i nobili di più alto rango) non avevano però accettato di buon grado questa decisione, in primo luogo a causa del legame che la regina aveva stretto con Filippo II di Spagna.

Con la salita al trono di Elisabetta, l’Anglicanesimo divenne di nuovo la religione ufficiale dello stato e, con il ripristino dell’Atto di Supremazia, la Chiesa d’Inghilterra venne posta nuovamente sotto l’autorità incondizionata della Corona. Stavolta inoltre si introdussero, attraverso un testo importante e molto diffuso, il Book of Common Prayer, princìpi calvinisti e protestanti che portarono la Chiesa Anglicana lontana da Roma anche sul piano dottrinario. Ormai, rispetto al Cattolicesimo, non si poteva più parlare semplicemente di scisma, ma di eresia vera e propria.

Per la verità, in un primo momento Elisabetta si mostrò tolleran-

te con i cattolici. Successivamente però, anche in seguito allo scoppio della guerra con la Spagna di cui parleremo più avanti, cominciò una dura persecuzione.

Tra il 1569 e il 1570 vi fu anche una ribellione delle province del nord, che non volevano rinunciare al legame col papa: Elisabetta mandò l’esercito e attuò una brutale repressione. A seguito di questi avvenimenti, la regina fu scomunicata ufficialmente da papa Pio V.

La dura persecuzione dei cattolici

Man mano che la guerra con la Spagna proseguiva, aumentava anche il sentimento anticattolico degli inglesi, anche perché la questione religiosa assumeva rilevanza sul piano politico: i cattolici vennero infatti accusati di essere traditori della nazione e amici delle potenze straniere che volevano danneggiare l’Inghilterra. Le persecuzioni nei loro confronti divennero perciò durissime, ma nonostante tutto essi non si arresero: un ruolo importantissimo fu svolto dal seminario dei gesuiti a Douai, in Francia, che formava i preti inglesi destinati a tornare in patria in clandestinità per svolgere la propria missione. Il Cattolicesimo poté così essere tenuto vivo all’interno del paese, anche se a prezzo di grandi sofferenze.

Le azioni dei corsari e la rivalità con la Spagna

L’Inghilterra andò incontro a una notevole crescita economica, grazie all’operato delle compagnie commerciali, gestite da privati (anche se parte dei loro proventi andavano alla Corona). Queste nel giro di pochi anni diedero nuovo impulso al commercio marittimo, espandendosi sul Baltico, nel Mediterraneo e in Asia.

A partire dal 1568, come vedremo, iniziò anche la guerra con la Spagna, per contenderle la supremazia sui mari. Elisabetta mandò i corsari ad assaltare le navi spagnole provenienti dal Sudamerica. Il più famoso di questi, Francis Drake, fu anche un grandissimo esploratore. A lui si deve tra l’altro il secondo viaggio di circumnavigazione della terra dopo quello intrapreso da Magellano.

Sempre in funzione antispagnola, Elisabetta appoggiò gli ugonotti francesi e i calvinisti olandesi nella loro lotta contro Filippo II. La vittoria decisiva sulla Invencible Armada spagnola, di cui parleremo più avanti, aprì all’Inghilterra la strada della definitiva supremazia sui mari, che sarebbe stata ulteriormente consolidata e ampliata nel secolo successivo.

L’uccisione di Maria Stuart

Una delle vicende più drammatiche del regno di Elisabetta I fu la tragica uccisione di sua cugina Maria Stuart, regina di Scozia. Nel 1558 Maria era andata in sposa all’erede al trono di Francia, il futuro Francesco II, e aveva perciò abbandonato il suo regno, dove nel frattempo si era diffuso il Protestantesimo. Rimasta vedova nel

Perché Elisabetta I fu scomunicata dal papa?

Perché vennero perseguitati i cattolici?

Corsari Erano banditi che praticavano la pirateria assalendo le navi mercantili non in proprio, ma al servizio di uno stato e di un sovrano che rilasciava loro un’apposita autorizzazione chiamata “lettera di corsa”.

Perché Elisabetta appoggiò gli ugonotti francesi e i calvinisti olandesi?

Perché Elisabetta fece uccidere

Maria Stuart?

1560, ritornò, l’anno seguente, in Scozia, dove però venne accolta con ostilità dalla nobiltà protestante. La situazione peggiorò nel 1565, quando si risposò con un lord cattolico e diede alla luce un figlio, Giacomo. Considerando che la regina Elisabetta non sembrava per niente intenzionata a sposarsi, il primogenito di Maria si trovava ad essere il legittimo erede al trono d’Inghilterra e il paese rischiava così di passare nuovamente al Cattolicesimo. Questo non poteva assolutamente essere accettato dai nobili. Dopo alcune tragiche vicende anche di carattere famigliare, Maria dovette rinunciare al trono scozzese e si rifugiò da Elisabetta, nella speranza di ricevere protezione. La regina colse al volo l’occasione per metterla fuori gioco: dapprima la tenne segregata, per ben diciotto anni, in modo tale che non potesse mai minacciare il suo potere; in un secondo momento, nel 1587 la fece condannare a morte e decapitare con l’accusa di aver preso parte a un complotto contro di lei ordito da nobili cattolici.

Alla fine della sua vita comunque, Elisabetta, priva di eredi, dovette accettare di nominare il figlio di Maria, Giacomo, suo legittimo erede. Questi salirà al trono d’Inghilterra nel 1603, con il nome di Giacomo I.

3 · La Spagna di Filippo II

Re di un dominio vastissimo

Filippo II nacque nel 1527, dal matrimonio tra Carlo V e Isabella del Portogallo. L’imperatore lo fece istruire da subito nell’arte del governo e lo chiamò più volte a sostituirlo in Spagna durante i suoi viaggi nei territori tedeschi. Quando il grande sovrano decise di abdicare, nel 1556, egli si trovò a governare sulla Spagna, le colonie sudamericane, i Paesi Bassi e i territori italiani (Ducato di Milano e Regno di Napoli). In pratica, il giovane Filippo aveva accumulato un potere più grande di quello dello stesso Ferdinando I, successore di Carlo V sul trono imperiale.

La Pace di Cateau-Cambrésis mette fine al lungo scontro tra Asburgo e Valois

La sua prima prova da sovrano di Spagna fu la ripresa del pluridecennale scontro tra gli Asburgo e i Valois. Dopo aver messo duramente in difficoltà Carlo V negli anni finali del suo regno, il re di Francia Enrico II tornò all’attacco nel 1555: il suo esercito invase Napoli per strapparla agli spagnoli e fu sostenuto in questa sua aspirazione da papa Paolo IV. Il pontefice apparteneva infatti alla famiglia Carafa, di antica nobiltà napoletana, e già in passato nemica degli Asburgo. La guerra fu vinta dagli spagnoli, che ottennero

poi il successo decisivo con la battaglia di San Quintino, combattuta il 10 agosto 1557.

La Pace di Cateau-Cambrésis, firmata il 3 aprile 1559, mise fine una volta per tutte al conflitto decennale tra le due monarchie. Ad uscirne sconfitta fu la Francia, che dovette rinunciare per sempre ai suoi diritti sulla Borgogna, su Milano e su Napoli.

Un re infaticabile, seduto al centro del suo impero

Contrariamente a suo padre, che amava spostarsi frequentemente nei vasti territori del suo impero, Filippo II a partire dal 1561 installò la sua corte a Madrid, e da lì non si mosse mai, gestendo tutte le faccende di governo al suo tavolo da lavoro, assistito dai suoi consiglieri personali e da una nutrita schiera di funzionari. Lavorava anche quattordici ore al giorno, e per questa sua dedizione fu soprannominato “el rey papelero” (“il re delle scartoffie”). Questo sistema centralizzato di comando era senza dubbio efficace, ma alla lunga risultò troppo lento e non adatto a fronteggiare le situazioni

Filippo II
Olio su tela di Tiziano (1551), Museo nacional del Prado, Madrid

Perché Filippo II fu soprannominato il re delle scartoffie?

Perché le finanze del Regno di Spagna erano sempre povere nonostante le ingenti ricchezze provenienti dall’America?

di emergenza. Inoltre, nonostante l’oro e l’argento delle miniere sudamericane garantissero alla Spagna ingenti entrate finanziarie, Filippo II si trovava continuamente a corto di denaro, a causa delle numerose guerre combattute contro i suoi nemici. Per questo motivo, durante il suo regno la Spagna visse il Siglo de oro (“secolo d’oro”), ma nello stesso tempo manifestò i primi segnali di una decadenza che si sarebbe poi rivelata irreversibile.

La repressione delle eresie

Avendo fatto della lotta contro il Protestantesimo una priorità della sua azione politica, Filippo II rafforzò e mise sotto il proprio diretto controllo l’inquisizione, assegnando ad essa il compito di stroncare sul nascere la dissidenza protestante. Ciò impedì che le idee protestanti si diffondessero nei territori spagnoli dove, diversamente dalla Francia o dall’Inghilterra, non scoppiarono perciò guerre di religione. Tuttavia, questo avvenne a caro prezzo: l’inquisizione spagnola fu una dura macchina repressiva che lasciò di sé una pessima memoria.

La vittoria contro i turchi

Perché il papa promosse la Lega Santa?

Nonostante gli sforzi di Carlo V per combatterli, i turchi erano sempre più pericolosi e ormai predominavano nell’intero bacino del Mediterraneo. Per fronteggiare tale minaccia, il papa promosse la Lega Santa, a cui aderirono, oltre alla Spagna di Filippo II, Venezia, Genova, Firenze, Napoli, il Duca di Savoia e i Cavalieri di Malta. Sotto le bandiere della Lega Santa venne raccolta un'imponente flotta che, raggiunte le rive greche del Mar Ionio, il 7 ottobre 1571 travolse la flotta turca in una grande battaglia combattuta nelle acque del golfo di Corinto presso Lepanto. In seguito a questa battaglia, l’avanzata turca fu per qualche tempo fermata.

Filippo II è deciso a soffocare le autonomie politiche e religiose dei Paesi Bassi

I Paesi Bassi o Fiandre erano allora una delle terre più ricche non solo dei domini asburgici, ma anche dell’intera Europa, soprattutto grazie alla loro qualificata produzione di lana e tessuti.

Essendo ben consapevole del grande attaccamento che le Fiandre avevano per i loro storici diritti di autonomia, Carlo V (che vi era nato e cresciuto e che parlava correntemente il fiammingo) aveva sempre avuto un occhio di riguardo nei loro confronti, anche quando nelle province del nord aveva iniziato a diffondersi il Calvinismo.

Filippo II decise invece di cambiare atteggiamento: nominò reggente la zia Margherita di Parma e le diede ordine di aumentare le tasse e i poteri della Corona. Si accanì poi con particolare durezza contro il Calvinismo, praticato da tutti i principali esponenti della nobiltà olandese. Tali provvedimenti provocarono una vera e pro-

pria rivolta dei notabili, che gli spagnoli soprannominarono con disprezzo “pezzenti”.

Nonostante la violenza dell’insurrezione, Filippo II non cedette («Preferirei perdere centomila vite piuttosto che arrendermi», è la frase che gli viene attribuita): mandò quindi nei Paesi Bassi il temibile Duca d’Alba, uno dei suoi migliori generali, con il compito di sconfiggere i ribelli.

La rivolta dei Paesi Bassi piega la Spagna: le province del nord ottengono l’indipendenza

Nonostante la forza dell’esercito spagnolo, i ribelli olandesi erano favoriti da una migliore conoscenza del territorio e diedero del filo da torcere alle truppe del Duca D’Alba. Filippo II si trovò dunque costretto a cedere: la guerra cominciava a costargli troppo in termini finanziari e la Corona aveva accumulato debiti che non era più in grado di pagare. Nel 1573 le truppe spagnole, furiose per non essere

La battaglia di Lepanto Affresco su disegno del cartografo Egnazio Danti (1580-83), galleria delle Carte geografiche, Città del Vaticano

Perché scoppiò la rivolta dei pezzenti?

La flotta della Compagnia olandese delle Indie prende il mare diretta a Batavia Olio su tela di rudolf Backhuyzen (1675), Musée du Louvre, Parigi

Batavia è l'antico nome di giacarta, oggi capitale dell'Indonesia.

state pagate, saccheggiarono la città di Anversa, uno dei principali centri commerciali d’Europa sin dal Medioevo, e aumentarono così l’odio dei fiamminghi nei loro confronti.

Nel 1579 si giunse finalmente a un accordo: le dieci province del sud, desiderose di conservare la fede cattolica e timorose di una sottomissione alle forze calviniste, decisero di rimanere fedeli alla Spagna; le sette province del nord, a maggioranza calvinista, optarono invece per l’indipendenza.

Si apriva così la strada alla straordinaria ascesa dei Paesi Bassi, che avrebbero dominato l’economia europea per quasi un secolo.

Spagna e Inghilterra si sfidano per il controllo dei mari

La Spagna e l’Inghilterra erano le più importanti potenze marinare di quei tempi e finirono per scontrarsi duramente allo scopo di ottenere il dominio assoluto degli oceani. Nel 1554 Filippo II aveva sposato la regina d’Inghilterra Maria Tudor: il suo scopo era quello di legare a sé la Corona britannica, ma i sudditi dei due paesi non avevano visto di buon occhio l’unione, soprattutto gli inglesi, che

non avevano nessuna intenzione di ridiventare un paese cattolico. Alla morte della regina, nel 1558, Filippo II chiese la mano della sorellastra Elisabetta, ma ottenne un fermo rifiuto.

Elisabetta fece di tutto per danneggiare la potenza spagnola: come visto, arrivò ad autorizzare addirittura i corsari ad assaltare le navi provenienti dal Sudamerica e a rubarne i preziosi carichi d’oro e d’argento. In questo modo, il danno economico per Filippo II divenne sempre più consistente.

La rovinosa sconfitta dell’Invencible Armada

Nel 1588 Filippo II decise perciò di raccogliere la sfida della sovrana inglese: allestì la più grande flotta da sbarco che mai fino ad allora avesse solcato i mari, 130 navi con 4mila marinai e 20mila soldati, e la inviò alla conquista dell’Inghilterra. Definita Invencible Armada (“Armata Invincibile”), la flotta, giunta nelle acque della Manica dopo non poche vicissitudini, subì da parte della marina inglese degli attacchi che riuscì a respingere, ma che la costrinsero a rinunciare per il momento allo sbarco. Su di essa in un secondo momento si abbatterono tre terribili tempeste che la dispersero con gravi perdite di navi e di uomini. Sconfitta, malgrado il nome, assai più dalla natura che dagli inglesi, l’Invencible Armada fece allora ritorno nei porti della Spagna avendo perduto 45 navi e 10mila uomini. Tramontava così il mito della potenza navale spagnola. Da quel momento in poi sarà l’Inghilterra a prendere progressivamente possesso dei mari: in due secoli riuscirà a diventare signora incontrastata degli oceani e quindi del commercio mondiale.

4 · La Francia delle guerre di religione

La morte improvvisa di Enrico II apre un periodo di grossa difficoltà per la Francia

Abbiamo già visto come in Francia Enrico II avesse continuato la politica antiasburgica del padre, senza tuttavia conseguire alcun successo. Nel 1559, pochi mesi dopo aver firmato la Pace di CateauCambrésis, che di fatto escludeva i francesi dal dominio dell’Italia, il sovrano morì improvvisamente, a seguito di una ferita riportata nel corso di un torneo cavalleresco. Questo fatto sfortunato ebbe conseguenze gravissime sul futuro della nazione: il figlio primogenito Francesco II era infatti ancora piccolo, per cui la reggenza fu affidata alla regina Caterina de’ Medici che, pur essendo una donna coraggiosa e spregiudicata, non riuscì a evitare l’esplodere del conflitto tra cattolici e calvinisti, in Francia detti “ugonotti”, che avrebbe lacerato il paese per ben cinquant’anni.

Perché Spagna e Inghilterra entrarono in conflitto?

Perché Caterina de’ Medici ottenne la reggenza del Regno di Francia?

Enrico IV, re di Francia Incisione di Hendrick goltzius (1592), rosenwald Collection, national gallery of Art, Washington, DC

Una guerra scoppiata soprattutto per motivi politici Il conflitto non scoppiò tanto per motivi religiosi, quanto politici: i calvinisti erano diffusi soprattutto nel sud-est della Francia, in quelle zone che la Corona riusciva a controllare di meno, e in generale intendevano limitare il potere del re in favore delle autonomie locali. A complicare le cose c’era anche la grande rivalità tra le più importanti casate nobiliari del paese: i Guisa erano cattolici e molto vicini alla famiglia reale, vantavano addirittura una discendenza da Carlo Magno; i Montmorency-Chatillon erano invece calvinisti e occupavano i gradi più importanti dell’esercito e della marina. A tutto ciò si aggiunga che nella vicenda si inserirono anche Spagna e Inghilterra, desiderose di trarre vantaggio dalla vittoria di uno dei due contendenti.

Un conflitto lungo e sanguinoso

Tra il 1562 e il 1580 le due fazioni si combatterono quasi ininterrottamente: furono anni di straordinaria violenza, aggravata anche dal fatto che i successori di Enrico II, Francesco II e Carlo IX, entrambi deboli e malati, morirono rispettivamente nel 1560 e nel 1574. Il paese era dunque in mano alle squadre armate dei Guisa e dei Montmorency, e non c’era nessuna autorità abbastanza forte da poter ristabilire l’ordine.

L’episodio più grave di questo scontro fu senza dubbio la strage della notte di San Bartolomeo, avvenuta tra il 23 e il 24 agosto 1572, quando gli ugonotti di Parigi e di molte altre zone del paese vennero massacrati dai cattolici guidati dai Guisa, in occasione del matrimonio tra il principe Enrico di Borbone e Margherita di Valois, figlia di Caterina de’ Medici.

La conversione al Cattolicesimo di Enrico di Borbone riporta la pace nel paese

Dopo il 1580 vennero firmati degli accordi, che garantivano agli ugonotti il possesso di alcune piazzeforti militari, senza tuttavia risolvere del tutto il problema.

Nel 1584 la situazione precipitò nuovamente: morì infatti Francesco d’Alençon, fratello del re Enrico III e unico erede al trono, dato che il sovrano non poteva avere figli. Secondo la legge di successione in vigore sin dal tempo dei Franchi il nuovo erede avrebbe dovuto essere Enrico di Borbone che, scampato al massacro di San Bartolomeo, si era rifugiato in Navarra. Egli era però protestante, cosa che rendeva del tutto impossibile la sua ascesa al trono. Nel conflitto si inserirono anche la Spagna e l’Inghilterra, in quel periodo in lotta per la supremazia sui mari, cercando di attrarlo dalla loro parte.

Mentre spuntavano pretendenti al trono da ogni parte d’Europa e la confusione era ormai insostenibile, Enrico risolse la situazione con una mossa cinica ma decisiva: si convertì ufficialmente al Cattolicesimo eliminando in tal modo ogni ostacolo alla sua ascesa al trono. Nel 1593 venne quindi incoronato re col nome di Enrico IV. Le guerre di religione erano terminate e la Francia conobbe finalmente un periodo di pace.

La morte tragica di Enrico IV apre un nuovo periodo di reggenza

La più importante mossa del nuovo sovrano fu quella di emanare l’Editto di Nantes (1598), che per la prima volta garantiva agli ugonotti una quasi totale libertà di culto e riconosceva loro l’influenza su alcune zone del paese con la realizzazione di un certo numero di città fortificate che costituivano un vero e proprio “stato nello stato”. Attuò poi una serie di riforme fiscali ed economiche che migliorarono la situazione della Francia.

Perché finirono in Francia le lotte religiose?

Perché fu ucciso Enrico IV?

Il suo regno si concluse tragicamente nel 1610, quando venne ucciso da un fanatico cattolico, che intendeva punirlo per le concessioni fatte agli ugonotti. Si aprì dunque per la Francia un nuovo periodo di reggenza, dato che il primogenito Luigi XIII era ancora un bambino e le redini del potere vennero gestite dalla moglie di Enrico, Maria de’ Medici.

L’era di Richelieu

Nel 1617 Luigi XIII decise che era venuto il tempo di gestire in prima persona gli affari del regno. Contrario alla linea politica della madre e del primo ministro Concino Concini, a suo parere troppo favorevoli agli Asburgo, fece arrestare la prima e uccidere il secondo. A partire dal 1624, egli governò con l’aiuto del cardinal Richelieu, uno dei più abili e spregiudicati politici dell’età moderna.

Perché Richelieu

coinvolse la Francia nella Guerra dei Trent’Anni?

Perché in politica interna perseguitò i protestanti?

Nonostante fosse un ecclesiastico, Richelieu si dimostrò molto più attento agli interessi politici che a quelli religiosi. Riprendendo la politica aggressiva ed espansionistica che era stata di Francesco I, coinvolse la Francia nella Guerra dei Trent’Anni, nella quale appoggiò il fronte protestante contro gli Asburgo, i nemici di sempre.

All’interno invece fece il contrario: scese infatti in campo contro i protestanti, ritenendo che l’autonomia di cui godevano fosse un ostacolo alla piena affermazione dell’autorità dello stato. La Rochelle, la più importante piazzaforte ugonotta, venne perciò per suo ordine assediata e poi conquistata nel 1628.

La politica centralistica di Richelieu provoca la rivolta dei nobili

Anche dal punto di vista amministrativo Richelieu pose le basi per un aumento del potere del re: a capo di ogni provincia del regno mise infatti un funzionario statale nominato direttamente dal sovrano, chiamato intendente.

Gli intendenti erano spesso scelti tra la borghesia, non tra l’antica nobiltà, di cui il primo ministro voleva invece limitare il potere. Per questo le più importanti famiglie nobiliari francesi, dopo la morte di Richelieu (1642) e di Luigi XIII (1643), scatenarono alcune grandi rivolte tra il 1648 e il 1650.

Perché i nobili si ribellarono?

Alla morte di Luigi XIII il trono toccò al figlio Luigi XIV, allora poco più di un neonato, ma che sarebbe divenuto uno dei più potenti sovrani dell’epoca moderna.

5 · La Guerra dei Trent’Anni

Una grande guerra europea

Per la lunghezza delle operazioni militari (dal 1618 al 1648), il numero delle nazioni coinvolte e l’ampiezza del fronte dei combattimenti, la Guerra dei Trent’Anni viene considerata da molti storici come la prima vera guerra europea, quasi una sorta di anticipazione del primo conflitto mondiale.

Nonostante sia stata di fatto una guerra tra le potenze cattoliche e quelle protestanti (con l’unica eccezione della Francia, come vedremo), sarebbe sbagliato interpretarla solo come una guerra di religione. Essa fu anche e soprattutto una guerra politica nella quale la Francia e nazioni emergenti come la Svezia e i Paesi Bassi sferrarono un attacco alla supremazia degli Asburgo.

Rodolfo II, imperatore singolare e protettore di artisti

Dopo la morte di Ferdinando I al quale, come abbiamo visto, Carlo V aveva lasciato il titolo imperiale, il trono del Sacro Romano Impero venne occupato da Massimiliano II (che regnò dal 1564 al 1576) e successivamente da Rodolfo II (1576-1612). Quest’ultimo, personaggio singolare, più dedito all’arte e alla letteratura che alla politica, trasferì la sua corte a Praga, circondandosi di artisti e scienziati celebri, tra cui l’astronomo Giovanni Keplero. Ai suoi sudditi protestanti concesse una sostanziale libertà di culto.

La battaglia della Montagna Bianca Olio su tela di Pieter Snayers (1620), Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Monaco

Fu il primo storico scontro della guerra dei Trent'anni. La Montagna Bianca è una collina della Boemia centrale, ora compresa nell’agglomerato urbano di Praga.

Le defenestrazione di Praga

Incisione acquerellata di Matthäus Merian il vecchio (1640), Kunstbibliothek, Staatliche Museen, Berlino

Perché scoppiò la Guerra dei Trent’Anni?

Il suo successore Mattia limita le autonomie dei nobili boemi e provoca la rivolta

Alla morte di Rodolfo salì al trono Mattia il quale, contrariamente al suo predecessore, iniziò a limitare le autonomie dei protestanti. Ciò provocò una crisi che giunse all’apice quando, nel maggio 1618, i nobili boemi buttarono dalle finestre del castello di Praga due alti funzionari imperiali. Gli sventurati ebbero la fortuna di atterrare su un carro ricolmo di paglia per cui riuscirono a salvarsi, ma l’episodio, passato alla storia come “defenestrazione di Praga”, assunse il valore altamente simbolico di una sfida lanciata all’imperatore.

Mattia morì quello stesso anno e i boemi si rifiutarono di riconoscere il fratello Ferdinando II come legittimo successore, nominando come loro re un principe protestante. Lo scontro divenne così inevitabile.

La battaglia della Montagna Bianca dà inizio al conflitto

A fianco del nuovo imperatore si schierarono i principi cattolici tedeschi e soprattutto la Spagna e l’apporto spagnolo risultò decisivo nella prima fase del conflitto: nella battaglia della Montagna Bianca, combattuta nel 1620, le truppe imperiali inflissero una dura sconfitta ai boemi. La punizione che seguì fu durissima: la regione

perse la dignità elettorale (il re di Boemia era infatti uno dei sette Grandi a cui spettava nominare l’imperatore), i nobili calvinisti furono espulsi e le loro terre confiscate.

Anche la Danimarca entra in guerra

Forte era a questo punto il rischio di una ripresa dell’egemonia asburgica e spagnola sull’Europa e ciò spinse vari sovrani a intervenire. Nel 1625 Cristiano IV di Danimarca venne in soccorso dei protestanti tedeschi, riuniti nell’Unione Evangelica. L’imperatore però col suo esercito molto più consistente e preparato, guidato dal generale Wallenstein, reclutatore di truppe mercenarie e ottimo stratega militare, inflisse una dura sconfitta anche ai danesi costretti ad uscire di scena definitivamente con la Pace di Lubecca del 1629.

La Svezia di Gustavo Adolfo, una nuova e sorprendente potenza europea

Nel 1630, proprio nel momento in cui il fronte asburgico sembrava vicino alla vittoria, scese in campo la Svezia di Gustavo Adolfo, nazione protestante che fino ad allora si era tenuta piuttosto ai margini delle grandi vicende europee. Al suo fianco si schierò pure la Francia, anche se Luigi XIII inizialmente si limitò a mandare aiuti economici ai nemici dell’Impero.

Gli svedesi erano militarmente ben preparati e favoriti dal fatto che il loro era un esercito totalmente “nazionale”, che non faceva cioè uso di truppe mercenarie. Gustavo Adolfo conseguì perciò importanti successi e il campo protestante iniziò a prevalere, arrivando fino ad occupare la Baviera.

Nella battaglia di Lützen però, dove ottennero la vittoria, gli svedesi persero il loro re, colpito a morte nel mezzo della mischia.

Da quel momento le sorti della guerra tornarono in favore dei cattolici, che ottennero un decisivo successo a Nördlingen, nel 1634.

L’entrata in guerra della Francia e la fine del conflitto

Di fronte alla prospettiva di una vittoria degli Asburgo, la Francia decise di intervenire direttamente. Le sorti della guerra allora si capovolsero di nuovo: i Paesi Bassi sconfissero la Spagna nella battaglia delle Dune (1639), mentre nella celebre battaglia di Rocroi (1643) i francesi ottennero un successo decisivo sull’esercito imperiale.

La Pace di Westfalia, nel 1648, mise la parola fine su una guerra durata tre decenni e che aveva insanguinato l’Europa senza tuttavia far registrare un vero e proprio vincitore. A farne le spese furono soprattutto gli abitanti dei territori tedeschi teatro delle operazioni militari, che per anni dovettero subire le distruzioni, le spogliazioni e i saccheggi delle truppe dei vari eserciti in campo.

Perché altri sovrani europei entrarono in guerra contro gli Asburgo?

Perché l’esercito svedese era particolarmente forte?

Perché la Francia entrò direttamente in campo nella guerra?

Pace di Westfalia

Olio su rame di gerard ter Borch (1648), The national gallery, Londra

Il giuramento dei delegati per la ratifica del trattato di Münster fra la Spagna e il parlamento delle Province unite (Paesi Bassi).

La Pace di Westfalia e il declino della potenza imperiale

La Pace di Westfalia fu un atto particolarmente importante, poiché determinò l’assetto che l’Europa avrebbe tenuto per almeno un secolo. Per prima cosa venne ribadito il principio del cuius regio, eius religio, già formulato dalla Pace di Augusta del 1555, in forza del quale in ogni stato era legittima solo la confessione religiosa del sovrano. Vennero inoltre attuati alcuni cambiamenti territoriali, che favorirono soprattutto la Francia e i Paesi Bassi, mentre la potenza più penalizzata fu senza dubbio l’Impero: i grandi e piccoli stati che lo componevano ottennero infatti il diritto di condurre una politica autonoma in ogni settore, e addirittura di farsi guerra tra loro, a condizione che questo non danneggiasse l’imperatore. Costui diveniva sempre di più una figura simbolica, priva di un effettivo peso politico, cessando così di svolgere quella funzione di arbitro e garante dell’equilibrio europeo che in passato spesso aveva avuto; anche per questo, l’Europa conoscerà, nei secoli successivi, un numero crescente di conflitti per la supremazia tra i vari stati nazionali. Avendo visto ridotto a nulla o quasi il loro titolo imperiale, gli Asburgo, dopo questa pace, cominciarono a gravitare verso l’Austria, dove si trovavano i feudi originari della famiglia. Vedremo nei prossimi capitoli come questa decisione avrebbe cambiato la configurazione politica dell’Europa.

METTIAMO A FUOCO

Dagli eserciti mercenari a quelli nazionali

A partire dalla seconda metà del quattrocento, le guerre combattute in Europa videro l’utilizzo sempre più massiccio di truppe mercenarie, sicuramente ben equipaggiate e addestrate ma, come già visto, estremamente inaffidabili e pericolose. non rari erano stati, a questo proposito, i casi di intere compagnie passate dalla parte del nemico nel corso stesso di una battaglia perché avevano ricevuto un’offerta economica più vantaggiosa. Inoltre, i capitani di ventura permettevano ai loro soldati saccheggi selvaggi e indiscriminati di città e villaggi. Di questi drammatici episodi fu teatro in particolare la guerra dei Trent’anni che fece registrare, proprio per questo, un altissimo numero di vittime tra la popolazione civile.

La figura di Wallenstein

Tra i capi degli eserciti di questo tipo, la figura più importante fu senza dubbio quella di Albrecht von Wallenstein. Si trattava di un nobile boemo, cattolico, che dopo la battaglia della Montagna Bianca si arricchì comprando a prezzo ridotto le terre sequestrate ai protestanti. Divenuto ricco, iniziò a reclutare soldati, mettendo insieme un esercito enorme e ben equipaggiato, che poi “vendette” all’imperatore. Col tempo, complici anche i successi sul campo e la sua abilità di stratega, la sua importanza e il suo prestigio crebbero a dismisura, finché arrivò addirittura a insidiare il potere dello stesso sovrano. Per questo motivo, si inimicò i nobili più importanti dell’Impero e fu assassinato proprio mentre meditava di passare dalla parte dei protestanti.

Il modello svedese nello stesso periodo in cui si affermavano le armate mercenarie, gli svedesi svilupparono un altro modello di esercito, che avrebbe avuto molta fortuna nei decenni successivi. gustavo Adolfo fu infatti il primo sovrano europeo a imporre sul suo regno la coscrizione obbligatoria: tutti gli uomini adulti erano cioè arruolati in occasione delle guerre. Il vantaggio indubbio di questo sistema era che l’esercito era composto da uomini uniti dall’amore per la loro nazione e dalla religione protestante, che negli ultimi tempi era divenuta

un importante fattore di coesione all’interno del paese. gustavo Adolfo migliorò inoltre l’equipaggiamento delle proprie truppe, dotandole di cartucce e moschetti, che erano più facili da ricaricare. Eliminò anche le pesanti armature di ferro, che proteggevano dai proiettili ma rendevano difficili i movimenti, e le sostituì con fucili ed elmetti. Anche la logistica fece passi avanti: le truppe furono divise in gruppi di circa 400 uomini, dotati di un servizio di approvvigionamento autonomo e dunque molto più agili nella manovra. Si trattava di un grande progresso, perché in questo modo si impediva che schiere di vivandieri si recassero al seguito dell’intero esercito, rallentandone notevolmente i movimenti.

L’esempio di gustavo Adolfo venne presto seguito dalle altre nazioni europee: i governi iniziarono a destinare più soldi per le spese militari, tra i soldati venne imposta una maggiore disciplina e fu introdotto il sistema dei gradi, grazie ai quali gli ufficiali iniziarono a distinguersi in base ai meriti e alle qualifiche; tutto ciò ebbe come conseguenza quello di stimolarne la competitività, aumentando quindi la loro efficienza e quella delle truppe.

Ritratto di Albrecht von Wallenstein Antoon Van Dyck, 1629, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Monaco di Baviera

VISITIAMO I LUOGHI DELLA STORIA

L’Escorial

Non solo palazzo reale

L’Escorial è un enorme complesso, insieme palazzo reale, convento e mausoleo, che Filippo II fece costruire fuori Madrid, e che divenne la sua residenza ufficiale a partire dal 1575. La realizzazione di quest’opera deriva da un voto che il monarca spagnolo fece in occasione della battaglia di San quintino, combattuta e vinta contro i francesi nel 1557. La pianta è infatti a forma di graticola, in ricordo del modo in cui fu martirizzato san Lorenzo, che è il santo la cui festa cade nello stesso giorno della battaglia.

Nel cuore della Spagna

Filippo volle che il palazzo fosse edificato esattamente al centro della Spagna, in modo che divenisse il simbolo dell’unità del Paese. Accanto agli appartamenti reali, venne inoltre aperto un convento di frati: il re desiderava infatti essere richiamato quotidianamente al fatto che il governo di una nazione non è cosa che un uomo possa compiere con le sue sole forze, ma che c’è bisogno dell’aiuto di Dio. Tutte le mattine Filippo assisteva alla messa e poi si dedicava agli affari di stato, interrompendoli per prendere parte ai momenti di preghiera da cui veniva scandita la giornata.

Il simbolo della grandezza spagnola

nell’Escorial si trova anche il “Panteon de los reyes”: si tratta di una cripta nella quale sono sepolti tutti i sovrani di Spagna e i loro famigliari. I sarcofaghi dorati nei quali riposano le spoglie dei re ricordavano a Filippo la storia gloriosa della sua nazione, che ora lui era chiamato a portare avanti, e lo richiamavano alle sue responsabilità di governo.

Il palazzo dell’Escorial è oggi visitabile nella sua interezza, e costituisce uno dei luoghi più importanti per l’arte e la cultura spagnola. Particolarmente interessanti sono la biblioteca, ricca di preziosi manoscritti e documenti dell’epoca, la cripta dei re (dove, oltre a Filippo II, riposano anche Carlo V, Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia), la basilica (considerata una delle più belle opere dell’architettura spagnola). Vi è poi tutta una serie di stanze, utilizzate da Filippo e dai suoi successori, ancora arredate con mobili d’epoca e abbellite con quadri di importanti pittori del tempo che ritraggono i sovrani nella loro maestosità.

Monastero dell'Escorial, Madrid

METTIAMO A FUOCO

La battaglia di Lepanto

L’avanzata dei turchi nel Mediterraneo

Fu nel pieno dell’opera di rilancio della Chiesa

Cattolica dopo il Concilio di Trento che avvenne la grande battaglia di Lepanto, che vide il papato, dopo molto tempo, tornare al centro della scena politica e riacquistare il suo ruolo di punto di riferimento per sovrani e popoli europei. questo scontro, durissimo, avvenne nel tentativo di fermare l’avanzata dei turchi che, conquistata Costantinopoli, avevano proseguito verso ovest sia sulla terraferma che per mare. In particolare nel Mediterraneo essi avevano già tentato di conquistare Malta, nel 1565, ma erano stati respinti dalla strenua difesa dei Cavalieri di Malta. non avevano però desistito, e qualche anno dopo occuparono l’isola di Cipro, possedimento della Serenissima, nonostante l’eroica resistenza dei veneziani che, arresisi in cambio della promessa di aver salva la vita, furono poi invece massacrati e il loro comandante, l’eroico Marcantonio Bragadin, orrendamente torturato e scorticato vivo.

La Lega Santa respinge i turchi

La caduta di Cipro in mani turche allarmò non solo Venezia, minacciata sempre più da vicino, ma anche gli altri stati italiani e papa Pio V, il quale bandì subito una crociata e si adoperò per costituire una

lega di stati cristiani, la Lega Santa, con l’intento di allestire una grande flotta da inviare nel Mediterraneo contro gli invasori turchi. A questa lega aderirono la Spagna, il duca di Savoia (che in quanto signore della Contea di nizza disponeva di una piccola, ma agguerrita marina da guerra), le repubbliche di Venezia e di genova, il granducato di Toscana, lo Stato della Chiesa, il Ducato di urbino, il regno di napoli e di Sicilia, i Cavalieri di Malta. Aderì, con aiuti e rifornimenti, anche la repubblica di Lucca. A capo della flotta cristiana fu posto il fratellastro del re di Spagna, don giovanni d’Austria, il quale seppe abilmente condurla, nel 1571, alla strepitosa vittoria al largo di Lepanto, località del golfo di Corinto sulle rive greche nel mar Ionio. I turchi subirono una pesantissima sconfitta che ne fermò per qualche tempo l’avanzata. La penisola e l’intera Europa cristiana erano, almeno per ora, salve. Il valore simbolico, oltre che politico, di questa vittoria fu sancito dal papa con l’istituzione di una festa ancor oggi particolarmente sentita, quella della Madonna del rosario che si celebra annualmente il 7 ottobre, data in cui avvenne la celebre battaglia.

I comandanti delle flotte imperiali contro i Turchi nella battaglia di Lepanto: da sinistra, don Giovanni d'Austria, Marcantonio Colonna e il doge Sebastiano Venier Anonimo (1575), Schloss Ambras, Innsbruck, Austria

NON TUTTI SANNO CHE

Il massacro della notte di San Bartolomeo

quello che si consumò tra il 23 e il 24 agosto 1572 (la notte di San Bartolomeo, appunto) fu senza dubbio uno degli episodi più tragici della storia francese. In poche ore, a Parigi e nel resto della Francia, i cattolici fecero strage di ugonotti, arrivando a sterminarne diverse migliaia (è difficile avere cifre precise, ma si parla di 2.000 morti solo a Parigi e più di 5.000 nel resto del paese).

Le nozze contrastate di Margherita di Valois e Enrico di Borbone

Ma come si arrivò a un evento simile? Abbiamo già visto che la rivalità tra cattolici e ugonotti stava insanguinando la Francia da alcuni anni e che già in precedenza vi erano stati scontri e carneficine da una parte e dall’altra. nel tentativo di porre un freno a tali violenze, si decise di cercare un accordo attraverso il matrimonio tra Margherita di Valois, figlia di Caterina de’ Medici e sorella del re Carlo IX, e il principe protestante Enrico di Borbo-

Strage di San Bartolomeo, 24 agosto 1572

ne, che era anche re di navarra e figura eminente del partito ugonotto. Tuttavia, le nozze non erano viste di buon grado né dal papa gregorio XIII né dai più alti esponenti della nobiltà cattolica, i guisa tra tutti. Le nozze ebbero luogo regolarmente il 18 agosto a Parigi, anche se gran parte dell’aristocrazia cattolica decise di non partecipare e il clima nella capitale era reso pesante dai predicatori cappuccini, che si scagliavano contro l’unione di una cattolica con un “eretico protestante”.

Il 22 agosto l’ammiraglio Coligny, uno dei più importanti esponenti degli ugonotti, subì un attentato, dal quale però uscì solo lievemente ferito. Tuttora gli storici sono divisi riguardo ai mandanti di tale azione, ma è probabile che le responsabilità siano da addossare a Caterina de’ Medici: la donna era infatti preoccupata per l’influenza sempre più importante che il Coligny stava avendo a corte, ma era anche decisa a fermare la mano dei guisa, pronti ad aggredire i numerosi protestanti

Olio su tavola di François Dubois (1572 circa), Musée Cantonal des Beaux-Arts, Losanna, Svizzera

giunti in città per le nozze: probabilmente aveva pensato che l’uccisione di un simile personaggio li avrebbe placati.

Il terribile massacro

Tuttavia, non appena si sparse la notizia del fallito attentato, la situazione divenne esplosiva: i protestanti minacciarono una rappresaglia e a questo punto, per evitare un simile rischio, Caterina de’ Medici dovette cedere ai guisa e dare via libera al massacro.

nella notte le porte della città furono sbarrate, furono consegnate armi anche alla borghesia, e gli ugonotti vennero sorpresi nelle loro abitazioni ed eliminati. uno dei primi a cadere fu proprio il Coligny, ucciso nel proprio letto (era ancora convalescente dalle ferite riportate) e poi gettato nella Senna. Le uccisioni a sangue freddo avvennero anche in altre città del paese; almeno fino al 5 di ottobre: in molti casi si trattava di persone che non avevano nessun legame con le faide intestine allora in corso. Il papa gregorio XIII, che apprese la notizia nella versione fornita dalla corte, secondo la quale sarebbe stato sventato un colpo

di mano degli ugonotti, manifestò soddisfazione e fece eseguire un Te Deum di ringraziamento, coniò una medaglia commemorativa dell’evento e commissionò al famoso pittore Vasari un affresco con la raffigurazione della strage, affresco tuttora presente in una delle sale dei Musei Vaticani.

Un atto selvaggio e criminale

maturato in un contesto drammatico questo massacro fu senza dubbio un atto selvaggio e criminale, maturato in un contesto estremamente complesso e drammatico nel quale alle motivazioni religiose si aggiunsero e si sovrapposero rivalità politiche, rancori personali, un forte disagio sociale. Le responsabilità personali di chi promosse, attuò o favorì queste violenze sono innegabili, ma altrettanto innegabile è il fatto che il clima che allora si respirava, in Francia e non solo, clima alimentato da decenni di odi e violenze da una parte e dall’altra, non poteva che favorire il verificarsi di tali episodi. Di tale contesto non si può non tener conto sul piano della ricostruzione storica.

Massacro della Michelade a Nîmes dove morirono preti e fedeli cattolici ad opera di protestanti, 29 settembre 1567 Incisione colorata di Frans Hogenberg (1585), Musée national du Château de Pau, Pau (Francia)

RACCONTIAMO IN BREVE

1. Il re d’Inghilterra Enrico VIII si staccò dalla Chiesa di Roma nel 1534, a seguito del rifiuto del papa Clemente VII di concedergli il divorzio da Caterina d’Aragona per sposare Anna Bolena. I veri motivi di questa decisione erano in realtà politici, in particolare la rivalità tra Inghilterra e Spagna. Con l’Atto di Supremazia, Enrico VIII si pose a capo della Chiesa Anglicana e scatenò una dura persecuzione contro coloro che rifiutarono di sottomettersi lui. Tra questi trovò la morte anche il celebre umanista Thomas More (Tommaso Moro).

2. Alla morte di Enrico, dopo il breve regno di Edoardo VI, il trono passò a Maria, figlia di Enrico e di Caterina d’Aragona. Maria riallacciò i legami con la Chiesa e avviò una persecuzione dei protestanti. Morì però dopo pochi anni senza lasciare eredi e al suo posto divenne regina Elisabetta, figlia della seconda moglie Anna Bolena.

3. Il suo regno, durato 45 anni, fu uno dei più lunghi della storia d’Inghilterra. Elisabetta governò in maniera accentrata e autoritaria, indebolendo moltissimo il ruolo del parlamento. Dal punto di vista religioso abbracciò il Protestantesimo, si proclamò capo della Chiesa inglese e ben presto diede inizio alle persecuzioni dei cattolici. Nel 1568 iniziò anche la guerra contro la Spagna, per contenderle la supremazia sui mari. La vittoria in questo conflitto aprirà al paese secoli di grande prosperità. Elisabetta, che aveva rifiutato ogni proposta di matrimonio, morì senza eredi nel 1603; salì allora al trono Giacomo I, figlio della cugina Maria Stuart, in precedenza fatta uccidere da Elisabetta, che l’aveva accusata di aver preso parte a un complotto per rovesciarla dal trono.

4. Filippo II, nato nel 1527, divenne re di Spagna all’abdicazione del padre Carlo V (1556). Oltre che sulla penisola iberica, regnò anche sulle colonie sudamericane, sui Paesi Bassi, sul Ducato di Milano e sul Regno di Napoli. Ripresa la guerra contro i Valois, Filippo ottenne il successo decisivo con la battaglia di San Quintino, combattuta il 10 agosto 1557. Con la Pace di Cateau-Cambrésis si concluse il conflitto decennale tra le due monarchie. La Francia dovette rinunciare per sempre ai diritti sulla Borgogna, Milano e Napoli.

5. Filippo II stabilì la sua corte a Madrid e da lì gestì tutte le principali faccende di governo. Questo sistema centralizzato di comando alla lunga risultò troppo lento e non adatto a fronteggiare le situazioni di emergenza. Durante il suo regno la Spagna visse il suo “secolo d’oro”. Filippo combatté il Protestantesimo, ma dovette anche affrontare la minaccia dei turchi, sempre molto attivi in Europa. Sotto il suo regno si verificò l’importante vittoria di Lepanto (1571) e i Paesi

Bassi, a maggioranza calvinista, ottennero l’indipendenza dalla Corona. Nel 1588 Filippo decise di muovere guerra all’Inghilterra, ma la sua imponente flotta venne sconfitta da quella inglese. Da quel momento in avanti, l’Inghilterra diventerà padrona esclusiva dei mari mentre la Spagna inizierà la sua parabola discendente.

6. In Francia, il re Enrico II morì improvvisamente nel 1559 e da quel momento iniziò un lungo conflitto tra cattolici e calvinisti (chiamati “ugonotti”). Fu uno scontro dettato soprattutto da motivi politici: i calvinisti erano diffusi in quelle zone che la Corona riusciva meno a controllare. Vi era inoltre la forte rivalità tra le più importanti famiglie del paese: i Guisa, cattolici, e i Montmorency-Chatillon, calvinisti. La guerra durò quasi ininterrottamente fino al 1580 e si concluse con la salita al trono di Enrico IV di Borbone, che prima si era convertito passando dal Calvinismo al Cattolicesimo. Nel 1598 il sovrano emanò l’Editto di Nantes che concedeva agli ugonotti una quasi totale libertà di culto e riconosceva loro una certa influenza su alcune zone del paese. Il suo assassinio, nel 1610, aprì un altro periodo difficile per la Francia.

7. A partire dal 1624, Luigi XIII governò con l’aiuto di Richelieu, uno dei più abili e spregiudicati politici dell’età moderna. Egli coinvolse la Francia nella Guerra dei Trent’Anni mentre sul fronte interno limitò il potere dei calvinisti e rafforzò il ruolo della monarchia.

8. La Guerra dei Trent'anni (1618-1648), considerata dagli storici come la prima grande guerra europea, ebbe inizio in Boemia quando l'imperatore Mattia volle limitare i diritti dei protestanti. Da qui il conflitto divenne generale: a fianco dell'imperatore si schierarono la Spagna e i principi cattolici tedeschi, mentre contro di lui si schierarono i principi protestanti, la Svezia, la Danimarca e, in un secondo momento, la Francia. Il conflitto procedette a fasi alterne senza un vero vincitore. La Pace di Westfalia, firmata nel 1648, ribadì tuttavia il principio del “cuius regio eius religio” e indebolì il ruolo dell’imperatore, segnando l'affermarsi sulla scena europea degli stati nazionali.

ATTIVITÀ E VERIFICHE

Esercizio 1 · Rispondi, anche oralmente, alle seguenti domande.

1. quale appellativo si era meritato Enrico VIII Tudor prima di scontrarsi col papa?

2. Che cosa stabiliva l’Atto di Supremazia?

3. Chi era Thomas More?

4. Che cosa si intende per età elisabettiana?

5. Chi era Francis Drake?

6. Su quali territori governava Filippo II?

7. Che cos’è il Siglo de oro?

8. quali compiti Filippo II affidò all’inquisizione?

9. Chi era il Duca d’Alba?

10. Chi era il cardinal richelieu e che cosa fece?

11. Chi erano gli intendenti?

12. Chi era Wallenstein?

13. Che cosa stabiliva il principio cuius regio eius religio?

Esercizio 2 · Completa la linea del tempo: scrivi il numero del fatto storico sulla data corretta.

1534 1558 1559 7 ottobre 1571 23-24 agosto 1572 1603 1618-1648

1. Pace di Cateau-Cambrésis

2. Strage di San Bartolomeo

3. guerra dei Trent’Anni

4. Ascesa al trono d’Inghilterra di Elisabetta I

5. Battaglia di Lepanto

6. Atto di Supremazia

7. Morte di Elisabetta I

Esercizio 3 · Indica se l’affermazione riportata è vera o falsa. gli inglesi rimasti fedeli al papa subirono dure persecuzioni. V F

Edoardo VI non riuscì a governare l’Inghilterra. V F

Elisabetta governò con la collaborazione del parlamento. V F

nella battaglia di Lepanto le forze cristiane riportarono un’importantissima vittoria contro i turchi. V F

Le Fiandre appartenevano all’Impero ed erano un territorio molto ricco. V F

L’Invencible Armada spagnola sconfisse la flotta inglese. V F

Enrico IV, pur essendo calvinista, diventò re di Francia. V F

nella battaglia di rocroi l’esercito francese sconfisse quello imperiale. V F

Esercizio 4 · Per completare la frase iniziale scegli fra le tre alternative proposte quella che ti sembra, oltre che esatta, anche precisa e formulata con il linguaggio più appropriato.

L’Atto di Supremazia di Enrico VIII stabiliva che

a. il nuovo capo della Chiesa inglese sarebbe stato il re.

b. il re si sarebbe posto in contrasto col papa.

c. i cattolici inglesi avrebbero dovuto aderire alla riforma di Lutero.

Con il Book of Common Prayer

a. la Chiesa inglese venne riportata al Cattolicesimo.

b. si introdussero nella Chiesa inglese princìpi calvinisti e protestanti che la allontanarono sempre di più dal papa.

c. si diffusero nuove pratiche religiose in Inghilterra.

Con la Pace di Cateau-Cambrésis

a. la Francia dovette rinunciare per sempre ai suoi diritti sulla Borgogna, su Milano e su napoli.

b. la Spagna ingrandì i suoi domini.

c. la Spagna ottenne la supremazia commerciale sui mari.

In Francia il conflitto fra cattolici e ugonotti scoppiò

a. per motivi esclusivamente religiosi.

b. per motivi religiosi e politici e per rivalità tra le grandi famiglie nobiliari.

c. per motivi legati alla successione al trono.

L’Editto di Nantes stabiliva

a. l’espulsione degli ugonotti dalla Francia.

b. la possibilità di salita al trono di un sovrano calvinista.

c. la libertà di culto per i calvinisti e la concessione a loro di un certo numero di città fortificate.

La Guerra dei Trent’Anni fu

a. una guerra dei maggiori stati europei per fermare l’egemonia asburgica e spagnola in Europa.

b. una guerra di religione.

c. una guerra della Francia contro le altre potenze europee.

Con la Pace di Westfalia

a. il potere degli Asburgo fu ridimensionato a vantaggio di Francia e Paesi Bassi.

b. il potere degli Asburgo si rafforzò su tutta l’Europa.

c. Il potere degli Asburgo si ridimensionò, ma aumentò quello della Spagna.

Esercizio 5 · Redigi sul tuo quaderno un breve testo di non più di 15 righe nel quale metti a confronto gli eserciti mercenari, sviluppatisi nel XV secolo, e gli eserciti nazionali che si diffusero a partire dal XVII secolo. Illustrane brevemente i rispettivi vantaggi e svantaggi.

La reggia di Versailles nel 1668

Olio su tela d’epoca di Pierre Patel, Musée national des Châteaux de Versailles et de Trianon, Versailles

Si tratta di una rappresentazione estremamente accurata dei giardini e del palazzo di Versailles, residenza del Re Sole.

L’Europa del Seicento

Un panorama piuttosto variegato e complesso

Nel corso del Seicento Inghilterra e Francia conobbero un diverso destino.

Nella prima, a seguito di vicende piuttosto concitate in cui si affermò inizialmente la dittatura di Oliver Cromwell e in seguito la cosiddetta “Gloriosa Rivoluzione”, si realizzò una forma di monarchia costituzionale, sancita nella Dichiarazione dei Diritti del 1689, con i poteri del re fortemente limitati da un parlamento.

Nella seconda si affermò un rigido assolutismo monarchico che vide tutti i poteri accentrati nelle mani del re, Luigi XIV, che governò dando alla sua sovranità una veste quasi sacrale. La politica di Luigi XIV portò la Francia a intraprendere una lunghissima serie di guerre di espansione, non sempre coronate da successo.

Nell’Europa orientale accanto alla crescita della potenza russa che si aprirà all’Occidente all’inizio del secolo successivo, con Pietro il Grande, si fece sentire per l’ultima volta la minaccia dei turchi, fermati, però, sotto le mura di Vienna da un esercito europeo guidato dal re di Polonia

Jan Sobieski. Questa sconfitta segnò l’inizio del declino della potenza turca in Europa.

Da ultimo, gli stati italiani seguirono per lo più le sorti della Spagna. Solo la Repubblica di Venezia riuscì a sfuggire a tale dipendenza, mentre cominciava a salire alla ribalta uno stato transalpino, il Ducato di Savoia che, spostata la capitale da Chambery a Torino, stava sempre più orientando la sua politica verso la penisola.

AL TERMINE DEL CAPITOLO

Schede di approfondimento

• La “peste del Manzoni”

• Il trionfo cristiano sotto le mura di Vienna

• Luci e ombre del dominio spagnolo sullo stato di Milano

• Galileo Galilei: il padre della scienza moderna

• Jean Baptiste Colbert, il principale collaboratore del re

• La reggia di Versailles

Raccontiamo in breve

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per non perdere il filo

Puritani

Anglicani intransigenti che contestavano la Chiesa ufficiale inglese accusandola di eccessiva ricchezza e di legami col potere politico. Devono il loro nome alla pretesa di purificare la dottrina anglicana da ogni residuo riferimento ad elementi cattolici.

1 · L’Inghilterra dalla guerra civile alla “Gloriosa Rivoluzione”

Alla morte di Elisabetta I si estingue la dinastia Tudor e comincia quella degli Stuart Elisabetta I morì nel 1603. Durante il corso del suo lungo regno, non si era mai voluta sposare e quindi, con la sua scomparsa, si estinse anche la dinastia Tudor. Come legittimo erede venne da lei designato Giacomo VI Stuart re di Scozia, il figlio della cugina Maria, che lei stessa aveva fatto assassinare qualche anno prima.

Il nuovo sovrano assunse il titolo di Giacomo I e inaugurò la dinastia degli Stuart che, al pari della precedente, non avrebbe regnato molto sul paese. Attuò una politica accentratrice, di stampo assolutista, limitando i poteri del parlamento e perseguitando sia i cattolici sia i protestanti che non si conformavano alle dottrine della Chiesa Anglicana, i cosiddetti “puritani ”. Proprio in questo periodo, nel 1620, un gruppo di puritani a bordo della nave Mayflower raggiunse l’America del nord fondandovi la prima stabile colonia inglese. Con questa colonia, i cui fondatori passeranno perciò alla storia col nome di “Padri Pellegrini”, iniziano le vicende di quelli che poi sarebbero diventati gli Stati Uniti d’America.

Il regno di Carlo I e i contrasti col parlamento: la Petition of Rights

La situazione si aggravò sotto il regno del figlio di Giacomo, Carlo I (1625-1649): l’opposizione del parlamento si fece più forte, al punto da negare al sovrano i soldi che gli servivano per sostenere le sempre più alte spese di corte. Nel 1628 l’assemblea impose al re la Petition of Rights: si trattava di una carta dei diritti che limitava drasticamente l’autorità del potere centrale, richiamandosi esplicitamente ai princìpi della Magna Charta del 1215.

Perché Carlo I sciolse il parlamento?

Carlo I approvò il documento, ma l’anno successivo sciolse il parlamento; da quel momento governerà senza più convocarlo fino al 1640. Furono questi gli anni in cui montò anche la rabbia della piccola borghesia, a causa delle tasse che il re imponeva in maniera arbitraria.

Perché scoppiò la guerra civile?

La guerra civile: “Cavalieri” contro “Teste rotonde” La situazione esplose nel 1642 quando il re cercò di far arrestare i suoi principali oppositori all'interno del parlamento. Subito scoppiò una rivolta che si trasformò in una vera e propria guerra civile in cui si contrapposero due schieramenti. Da una parte vi erano i sostenitori del re (detti “Cavalieri” per la loro origine nobiliare e guerriera) e dall'altra quelli del parlamento (formati dalla piccola nobiltà rurale, da artigiani e commercianti e detti “Teste rotonde” per il caratteristico taglio di capelli).

Oliver Cromwell vince grazie alla forza del suo esercito Capo delle forze parlamentari era Oliver Cromwell, un membro della piccola nobiltà, puritano fanatico e abile stratega militare; in breve tempo organizzò un esercito moderno ed efficiente, chiamato New model army (“Esercito di nuovo modello”), composto per lo più da artigiani e contadini, accomunati dall’ostilità al re e dalla sete di radicali riforme sociali, ma soprattutto da un forte estremismo religioso. I combattenti erano infatti convinti di svolgere una missione divina per affermare la vera fede, quella puritana, contro la corruzione della Chiesa Anglicana. Cromwell inoltre organizzò il suo esercito in modo da far avanzare di grado i combattenti più valorosi, anche se erano semplici contadini e non nobili, cosa che non avveniva in nessun altro esercito del tempo. Questo incoraggiava i suoi soldati a combattere con più coraggio ed energia per ottenere le meritate promozioni. Grazie a questi fattori, i seguaci del parlamento ottennero una serie di importanti vittorie e nel 1646 sbaragliarono completamente gli avversari, facendo prigioniero lo stesso re Carlo I.

Il re è condannato a morte. Nasce la Repubblica

Il sovrano venne condannato a morte e decapitato il 30 gennaio 1649. Si trattava di un avvenimento senza precedenti, poiché mostrava che c’erano dei limiti all’assolutismo e che, se un re tradiva il proprio legame coi sudditi, avrebbe dovuto subirne le conseguenze. Il potere passò dunque nelle mani di Cromwell che, aboliti i regni

Ritratto di Oliver Cromwell

Olio su tela di

Samuel Cooper, 1656, national Portrait Gallery, Londra

Perché l'esercito di Cromwell fu più forte nella guerra?

Perché il Commonwealth si rivelò una dittatura?

d’Inghilterra e di Scozia, proclamò la Repubblica o Commonwealth (parola che letteralmente significa “Ricchezza comune”). La nuova repubblica si rivelò però ben presto una dittatura. Cromwell infatti, dopo essersi attribuito il titolo di Lord protettore, si mise a governarla pretendendo per sé un potere assoluto. I membri del parlamento, che avevano iniziato la guerra nel tentativo di vedere riconosciute le loro libertà, si trovarono sottoposti a un dispotismo ancora più forte di quello imposto da Carlo I.

L’Inghilterra diventa una grande potenza commerciale, ma opprime irlandesi e scozzesi

A farne le spese furono soprattutto gli irlandesi: di religione cattolica e da sempre fieri del loro carattere nazionale, essi mal sopportarono la dominazione di Cromwell. La loro ribellione fu però stroncata con eccezionale durezza da parte del dittatore: ben 600.000 persone su una popolazione complessiva di un milione e mezzo furono uccise o costrette ad emigrare. Altrettanto dura, nel 1650, fu la repressione di una rivolta degli scozzesi.

Sul piano economico, Cromwell diede un’ulteriore spinta alla crescita dell’Inghilterra come potenza navale. Combatté tre guerre vittoriose contro l’Olanda e si assicurò così il predominio commerciale sull’Oceano Atlantico. Firmò inoltre accordi commerciali col Portogallo e con alcuni dei paesi affacciati sul mar Baltico. Appoggiò poi la Francia di Luigi XIII nella sua lotta contro gli spagnoli, avendone in cambio l’isola caraibica della Giamaica.

Alla morte di Cromwell si apre una crisi e torna la monarchia

Cromwell morì nel 1658 dopo aver governato con pugno di ferro la Gran Bretagna per quasi un decennio. Gli succedette suo figlio Richard, che non aveva però la stessa abilità politica del padre. Nel paese si aprì dunque una crisi, risolta chiamando sul trono il figlio del sovrano assassinato dieci anni prima, che divenne re col nome di Carlo II (1660). Egli, che era cattolico, non pretese però di imporre a tutti la sua fede. Concesse invece una certa libertà religiosa e ristabilì il ruolo del parlamento.

Perché si profilava un ritorno del Cattolicesimo in Inghilterra?

L’Inghilterra visse così un periodo di pace e tranquillità, che finì nel 1685, quando salì al trono Giacomo II, fratello di Carlo II, ma non altrettanto tollerante. Questi tentò di ridimensionare sia il ruolo della Chiesa Anglicana sia il potere del parlamento. Il re aveva poi sposato una principessa cattolica italiana, Maria Beatrice d’Este, la quale gli aveva dato un figlio, Giacomo Edoardo. Si profilava così l’avvento di una dinastia totalmente cattolica, un’eventualità che spaventò enormemente la nobiltà inglese

La “Gloriosa Rivoluzione” di Guglielmo III d’Orange: verso la monarchia costituzionale

Per questo motivo, il parlamento dichiarò come erede legittima Maria, nata da un precedente matrimonio di Giacomo II. Questa aveva sposato il principe olandese Guglielmo III d’Orange, protestante e dunque maggiormente gradito agli inglesi.

Nel novembre del 1688 Guglielmo sbarcò in Inghilterra con il suo esercito e, con il favore del parlamento, salì al trono mentre Giacomo II si rifugiò in Francia. Fu la cosiddetta “Gloriosa Rivoluzione”, perché di fatto in questa occasione non venne versata nemmeno una goccia di sangue; con essa ebbe fine la dinastia degli Stuart. Nel 1689 Guglielmo d’Orange emanò la “Dichiarazione dei Diritti” (Bill of Rights), una vera e propria costituzione che, riprendendo i precedenti della Magna Charta e della Petition of Rights, trasformò l’Inghilterra in una monarchia costituzionale, in cui il potere del re era fortemente limitato da quello del parlamento. Si trattava di una scelta importantissima, che avrebbe reso questa nazione un modello a cui guardare nei successivi dibattiti sulla democrazia.

L'esecuzione del re Carlo I

Incisione (1649 circa), national Portrait Gallery, Londra

Perché il parlamento dichiarò come erede legittima Maria e rifiutò la corona a Giacomo II?

2 · La Francia di Luigi XIV

Olio

Il più importante sovrano dell’epoca moderna Luigi XIV nacque nel 1638. Suo padre, Luigi XIII, era morto quando lui aveva appena cinque anni, per cui la reggenza fu affidata alla madre Anna d’Austria e al cardinal Mazzarino. Furono questi gli anni turbolenti delle rivolte nobiliari ed è probabilmente da tali avvenimenti che il futuro sovrano ricaverà la sua ostilità verso gli aristocratici, fino al punto da escluderli completamente dalla gestione del potere.

Nel 1661, alla morte di Mazzarino, il giovane Luigi decise che da quel momento avrebbe gestito personalmente gli affari di stato anche se poi in realtà si avvalse della collaborazione di alcune figure politiche di grande abilità ed esperienza, a ognuna delle quali affidò una competenza specifica (particolarmente importante per le fortune del regno si rivelerà essere il ministro delle finanze Colbert).

Luigi XIV regnerà complessivamente per 54 anni, divenendo la figura più importante della politica europea del tempo.

Ritratto di Luigi XIV, re di Francia
su tela di Hyacinthe Rigaud (1701), Musée du Louvre, Parigi

La reggia di Versailles, “prigione dorata” della nobiltà

Luigi XIV fu l’esempio perfetto di sovrano assoluto: egli concepì la Corona come il centro coordinatore di tutto lo stato e di tutta la società, come un sole attorno al quale ruotano i pianeti (e per questo venne chiamato “Re Sole”). Per lui il potere era come se derivasse direttamente dall’autorità di Dio e potesse quindi essere esercitato senza alcun limite. Costruì a tale scopo una grande e fastosa reggia a Versailles, appena fuori Parigi, che divenne il vero e proprio simbolo della sua potenza. Vi invitò tutti i più importanti nobili del paese, dando loro il privilegio di partecipare alla vita di corte e di stare vicino al sovrano. In realtà, in questo ambiente sfarzoso, ricco di dame e cortigiani, in cui feste e banchetti si susseguivano quasi ogni sera, la nobiltà visse come in una “prigione dorata”, in mezzo a divertimenti e comodità, ma lontano dall’effettivo potere politico, che veniva esercitato dai ministri e dai funzionari nominati dal re. Questi proseguì infatti nell’abitudine del suo predecessore di vendere le cariche amministrative del regno, dando così origine a una “nobiltà di toga ”, totalmente fedele alla persona del sovrano, poiché a lui doveva la sua fortuna.

Un regno lungo e costellato di guerre

Luigi XIV spese ben 37 anni della sua vita a combattere guerre lunghe e costose, così che alla sua morte, avvenuta nel 1715, il paese si ritrovò completamente stremato dal punto di vista finanziario e a nulla servì la politica protezionistica in campo commerciale avviata dal ministro Colbert perché le casse della Corona rimasero costantemente vuote.

La guerra della Lega di Augusta segna un punto di arresto nella politica di potenza francese

Il primo di questi conflitti fu la cosiddetta “Guerra dei Paesi Bassi belgi”. Luigi XIV aveva sposato infatti Maria Teresa, figlia del re di Spagna Filippo IV; di conseguenza, rivendicò per sé queste province che, contrariamente al resto dei Paesi Bassi, erano ancora sotto il controllo spagnolo.

Un’altra guerra importante fu quella contro l’Olanda, che fu causata da motivi prettamente commerciali. Con la Pace di Nimega, firmata nel 1678, la Francia riconobbe l’indipendenza olandese, ma aumentò notevolmente le sue conquiste territoriali: si impadronì di Strasburgo, della Franca Contea, del Lussemburgo e di varie città nelle Fiandre. In pratica aveva allargato i suoi confini fino al fiume Reno.

A questo punto, consapevoli del pericolo che Luigi XIV rappresentava per l’Europa, Spagna, Svezia, Olanda, alcuni principati tedeschi e il piccolo Ducato di Savoia si unirono in una coalizione denominata Lega di Augusta. La guerra che ne seguì fu lunga e passò attraverso diverse fasi alterne, ma alla fine il grande sovrano dovet-

Perché Luigi XIV venne chiamato Re Sole?

Perché la reggia di Versailles fu una prigione dorata per i nobili?

Nobiltà di toga e nobiltà di spada La prima era costituita dai nobili che esercitavano funzioni amministrative e che avevano acquistato il titolo e la carica di recente, spesso comprandola e trasmettendola per via ereditaria ai figli. La seconda era costituita dalla nobiltà più antica che svolgeva funzioni militari.

Politica protezionistica Politica che mira a difendere i prodotti nazionali contro la concorrenza straniera mediante l’imposizione di alti dazi sui prodotti importati.

Perché la Francia si avviò a un lento declino?

te cedere alla disparità delle forze. Con la Pace di Ryswick (1697) la Francia dovette abbandonare tutti i territori conquistati, con l’eccezione di Strasburgo.

Gli ultimi anni di Luigi XIV e il lento declino della Francia

Gli ultimi anni di Luigi XIV furono segnati dal declino della potenza francese. La popolazione soffriva ormai da tempo per le continue guerre, le tasse e le carestie. Oltretutto, il sovrano si impegnò in un nuovo conflitto, la Guerra di successione spagnola, che gli costerà una rovinosa sconfitta e metterà per sempre fine ai suoi progetti di egemonia europea.

Come se non bastasse, anche la sua vita personale fu costellata da tragedie, come la morte nel 1711 di suo figlio, erede al trono, e quella di suo nipote, il duca di Borgogna, avvenuta l’anno successivo.

Morì il 1 settembre 1715, consumato dalla vecchiaia e dalle malattie. Il suo successore fu Luigi d’Angiò, figlio del duca di Borgogna appena scomparso. Egli era appena un bambino, per cui la Francia andò incontro alla terza reggenza in poco meno di cento anni.

3 · L’ingresso della Russia nelle vicende europee

La Russia da Ivan III a Ivan IV il Terribile

Perché Ivan IV fu detto il Terribile?

Come già visto dopo il crollo dell’Impero d’Oriente il Granducato di Mosca era divenuto un vero e proprio stato, sotto la guida di Ivan III (1440-1505). Fu proprio durante il suo lungo regno che era nato il progetto di fare di Mosca la “terza Roma”, raccogliendo l’eredità dei due grandi imperi del passato, quello di Roma e quello di Costantinopoli. Anche sul piano religioso il patriarca di questa città era divenuto la figura spirituale più importante della Chiesa d’Oriente. La Russia accrebbe poi la sua potenza sotto il regno di Ivan IV, detto il Terribile (1530-1584) che continuò la politica espansionistica dei suoi predecessori, ingrandendo notevolmente il proprio territorio. Fu inoltre il primo ad adottare il titolo di zar (una denominazione che si può tradurre come “imperatore”, dato che deriva dal latino caesar), che da quel momento verrà utilizzato da tutti i sovrani russi. Ivan IV cercò di eliminare i boiardi, il ceto dei grandi nobili proprietari terrieri che avevano il loro centro di potere in un’assemblea chiamata Duma (una sorta di parlamento). Contro di loro agì con grande durezza (da qui il soprannome di “Terribile”), sottraendo loro il potere locale e favorendo un corpo di funzionari da lui nominati. Il suo fu dunque un comportamento non diverso da quello dei sovrani assolutisti europei, con la differenza che il suo regno ebbe caratteristiche ancor più dispotiche.

Province Unite

Paesi Bassi

Spagnoli

Il difficile regno di Boris Godunov e l’affermazione della dinastia Romanov

Alla morte di Ivan il Terribile salì al trono il figlio Fedor; egli era però infermo e debole di mente, per cui il potere effettivo fu tenuto dal cognato Boris Godunov. Costui regnò fino al 1605, dando inizio alla colonizzazione della Siberia e contenendo le spinte espansionistiche dei polacchi. Riuscì a rimanere saldamente sul trono fino alla morte, nonostante su di lui pesasse l’accusa di aver fatto assassinare il giovane nipote Dimitri, che avrebbe dovuto regnare al suo posto (verso la fine del suo regno, dovette addirittura fronteggiare un pretendente che sosteneva di essere Dimitri redivivo!). Boris Godunov morì però senza eredi, per cui la sua scomparsa aprì un periodo di totale anarchia all’interno del paese. Finalmente, nel 1613, un’assemblea di nobili elesse Michele, appartenente alla dinastia dei Romanov, dinastia che avrebbe regnato ininterrottamente sulla Russia fino al 1917. Sarà con uno dei più importanti esponenti di questa dinastia, Pietro il Grande (1672-1725) che la Russia si avvierà verso la modernizzazione, divenendo una grande potenza sul modello occidentale.

Le guerre di Luigi XIV

Tentativi espansionistici di Luigi XIV

Acquisizioni territoriali di Luigi XIV

Frontiere della Francia nel 1715

Loira
Rodano
Reno
Bordeaux Perpignan
Pau
Marsiglia Grenoble
Lione
Strasburgo
Angouleme Poiters Tolosa
Moulins
Rossiglione
Ducato di Savoia
Impero Romano Germanico

4 · La vittoria europea sotto

le mura di Vienna

Il ritorno della minaccia turca

nella seconda metà del XVII secolo

Dopo essere stati sconfitti a Lepanto nel 1571, i turchi non costituirono più un pericolo per l’Europa per quasi un secolo, ma tornarono minacciosi verso la metà del 1600. Tra il 1645 e il 1669 assediarono ininterrottamente Creta, allora possedimento della Repubblica di Venezia. I veneziani, che avevano terribili ricordi di ciò che era accaduto a Famagosta, resistettero eroicamente, ma alla fine dovettero cedere. Riuscirono però a rifarsi nel 1687, conquistando la penisola del Peloponneso, che però sarà ripresa dai turchi nel 1717. Contemporaneamente, l’Impero Ottomano riprese la sua avanzata via terra, verso l’Europa dell’Est. Va ricordato che sin dai tempi di Carlo V (battaglia di Mohacs del 1526) i turchi tenevano saldamente metà dell’Ungheria e, nonostante fossero stati stipulati diversi accordi, la situazione non era per niente tranquilla. Alcune di queste regioni pagavano costanti tributi per il mantenimento della pace, ma, nonostante questo, il sultano assoldava frequentemente mercenari locali per compiere scorrerie sulla popolazione inerme.

La battaglia di Vienna Olio su tela di Pauwel Casteels (1683-85), Museo del Palazzo di re Giovanni III, Wilanów, Varsavia

La vittoria di Vienna e il declino dell’Impero Ottomano Nel 1683, un esercito turco forte di circa mezzo milione di uomini giunse fin sotto le mura di Vienna. Il pericolo era enorme perché, se la città avesse ceduto, tutta l’Europa sarebbe potuta diventare facilmente una provincia ottomana. E come dimostrava il caso delle nazioni dell’Europa orientale che già avevano subito tale sorte, ciò ne avrebbe bloccato drasticamente ogni forma di sviluppo. Papa Innocenzo XI, consapevole del rischio, bandì una crociata in tutti gli stati del continente. Al successo dell’iniziativa diede un contributo di primissimo piano una grande figura di predicatore, padre Marco d’Aviano (1631-1699), un cappuccino originario del Friuli, che fin da giovane aveva vissuto in prima persona le continue scorrerie turche nella sua terra. Con la sua grande autorità morale e con il suo coraggio personale egli riuscì a motivare e a tenere unita la coalizione di forze che aveva risposto al richiamo del papa e che, come già accaduto a Lepanto, era lacerata da rivalità e divisioni. Nonostante la disparità delle forze, l’esercito europeo, giunto in soccorso di Vienna e guidato dal re di Polonia Jan Sobieski, riuscì a spezzare l’assedio e a mettere in fuga gli ottomani. Fu una vittoria di grande portata con cui iniziò il definitivo declino della potenza turca. Perché l’attacco turco a Vienna fu una minaccia per l’intera Europa?

Perché il Seicento fu per l’Italia un periodo di decadenza?

5 · L’Italia sotto il dominio degli spagnoli

La penisola italiana tra frammentazione geografica e crisi economica

Il Seicento fu per l’Italia un periodo di relativa decadenza. Terminata ormai da tempo l’epoca fiorente dei comuni e tramontato anche lo splendore artistico e letterario del Rinascimento, la penisola attraversò un periodo di ristagno economico. I traffici commerciali si erano spostati verso l’Oceano Atlantico e il Mediterraneo aveva perso la sua importanza. Dal punto di vista politico poi l’Italia continuava a trovarsi alla mercé delle grandi potenze del tempo. I vari stati in cui era divisa infatti, da un lato non potevano resistere da soli alla pressione della Spagna, della Francia o dell’Impero, e dall’altro non erano capaci di allearsi tra loro in difesa dei comuni interessi.

La Pace di Cateau-Cambrésis segna l’inizio del predominio spagnolo sulla penisola

Perché con la Pace di Cateau-Cambrésis l’Italia finì sotto l’influenza spagnola?

Nel 1559 la Pace di Cateau-Cambrésis aveva definitivamente sancito il passaggio dell’Italia sotto il predominio spagnolo. In seguito a questo trattato infatti, la Sicilia, la Sardegna, il Regno di Napoli e il Ducato di Milano divennero terre del re di Spagna, Filippo II. Rimanevano autonome la Repubblica di Genova (sebbene ormai lontana dallo splendore di un tempo) e quella di Venezia, che continuava a giocare un ruolo di primo piano nei commerci internazionali, ma che doveva fronteggiare la sempre più grave minaccia turca. C’era poi lo Stato Pontificio, che aveva al centro Roma e che negli ultimi anni si era consolidato notevolmente grazie ad allargamenti territoriali e ad uno splendore artistico senza precedenti, mentre si andava affacciando sulla scena il piccolo Ducato di Savoia che avrebbe giocato un ruolo importantissimo nelle future vicende dell’Italia. Vi erano poi altri stati minori, come i ducati di Piacenza, Parma, Mantova e Ferrara, che erano invece legati agli Asburgo d’Austria, per via delle unioni matrimoniali tra le famiglie regnanti.

Perché il governo spagnolo fu guardato con benevolenza dagli italiani?

Un periodo fortunato dal punto di vista artistico Almeno fino alla metà del XVII secolo l’Italia visse comunque di riflesso lo splendore politico, culturale e artistico del Siglo de oro. Certo, la penisola non era più al centro del commercio mondiale come nel Medioevo ma, soprattutto per quanto riguarda l’arte, attraversò ugualmente un periodo fortunato, col trionfo della nuova corrente del Barocco. Ricordiamo anche che il governo spagnolo, che nel complesso fu guardato con benevolenza dagli abitanti dei territori italiani che esso amministrò, salvò la penisola dalla tragedia delle guerre di religione che tante lacrime e sangue costarono ad altri paesi europei.

Ducato di Milano

Ducato di Savoia

Marchesato del Monferrato

Marchesato di Saluzzo

di Parma

Ducato di Mantova

Repubblica di Venezia

Repubblica di Genova

Repubblica di Lucca

Granducato di Toscana

Tevere

Ducato di Ferrara

Ducato di Modena

Mar Mediterraneo

Mar Adriatico

Regno di Napoli

Mar Ionio Roma

L'opera di Galileo Galilei nel campo della ricerca scientifica

Nel campo della ricerca scientifica spicca in quegli anni l'opera dell'astronomo e matematico pisano Galileo Galilei. Questi, utilizzando il cannocchiale per osservare gli astri, portò prove decisive in favore della teoria copernicana che vedeva il sole al centro del nostro sistema dei pianeti e smantellò così in modo definitivo la cosmologia precedente. Nonostante la condanna subìta da parte del Santo Uffizio (per i motivi contingenti che puoi trovare in una scheda di approfondimento più avanti) la sua opera finì per imporsi e il suo metodo di studio basato sull'osservazione attenta della realtà e sugli esperimenti è diventato il metodo usato poi in tutti i campi della scienza. Per questa ragione egli è ancora oggi considerato il padre della scienza moderna.

La situazione italiana va di pari passo con quella spagnola Nel periodo in cui la Spagna era all’apice dello splendore, grazie all’oro e all’argento proveniente dalle miniere sudamericane, anche l’Italia conobbe un certa prosperità.

I banchieri genovesi facevano grossi affari con i prestiti; l’agricoltura e la pastorizia praticate in Sardegna potevano contare su un legame costante con le stesse attività praticate in Spagna; un grosso incremento ebbero anche la tessitura e l’estrazione dei metalli. Di

L'Italia dopo la pace di Cateau-Cambrésis Territori governati dalla Spagna

Napoli

Perché scoppiò la rivolta guidata da Masaniello?

grande importanza fu inoltre l’istituzione dei monti di pietà, maturati all’interno dello spirito religioso della Riforma cattolica. In tutta Italia vi fu poi un notevole miglioramento dell’agricoltura, grazie all’adozione di nuove tecniche e alla bonifica dei terreni paludosi. Insomma, nella seconda metà del Cinquecento la penisola italiana godeva ancora di un’economia sviluppata, ma la decadenza cominciò nei primi decenni del Seicento, come riflesso della più generale crisi spagnola, e in Italia si manifestò soprattutto attraverso un consistente aumento della tassazione.

L’organizzazione politica dei domini spagnoli e la difficile convivenza tra le due aristocrazie

Dal punto di vista politico, le istituzioni preesistenti vennero lasciate sopravvivere un po’ dovunque, ma nella sostanza il potere era tenuto da viceré o governatori nominati dal re di Spagna. In generale, le decisioni più importanti erano prese a Madrid e molti degli incarichi pubblici erano ricoperti da aristocratici spagnoli. La convivenza tra le due nobiltà, quella italiana e quella iberica, non era sempre facile e talvolta scoppiavano degli attriti. Per questo motivo, la rabbia e l’esasperazione nei confronti delle prepotenze dei signorotti spagnoli crebbero, soprattutto nelle grandi città.

L’insurrezione di Napoli

Nel Seicento, la crisi economica e l’aumento delle tasse provocarono rivolte tra la popolazione. La più importante scoppiò a Napoli nel 1647: prese il via per una nuova imposta indiretta che colpiva la vendita della frutta, e venne guidata da Masaniello, un pescivendolo che venne ucciso dopo soli dieci giorni dai suoi stessi seguaci. Il vero comando della rivolta era però in mano a elementi della borghesia napoletana che miravano alla cacciata degli spagnoli e alla modifica del sistema di governo. Gli insorti proclamarono la repubblica e chiesero la protezione del re di Francia. Mazzarino, che in quegli anni dirigeva la politica di Parigi, reagì in maniera tiepida e non fornì l'aiuto richiesto, essendo il paese appena uscito dalla Guerra dei Trent’Anni, per cui la rivolta venne facilmente stroncata dagli spagnoli.

Firenze torna ai Medici e vive un grande periodo di fioritura artistica

Firenze, tornata nel 1530 sotto il dominio dei Medici, allargò il suo territorio quasi all’intera Toscana, così da formare un vero e proprio stato. Carlo V concesse poi a Cosimo I il titolo ducale, e si formò così il Granducato di Toscana. Venne avviata una ingente opera di modernizzazione dell’agricoltura e vi fu anche un notevole incremento del commercio. A Firenze venne costruito il palazzo degli Uffizi, oggi sede di una delle più importanti collezioni d’arte del mondo. L’opera di Cosimo venne proseguita dal successore Ferdinando I,

che diede un grande impulso all’arte e alla letteratura, continuando in qualche modo la tradizione gloriosa del Rinascimento.

Venezia e Genova: lontane dall’antico splendore, ma sempre attive sul mare

La Repubblica di Genova rimase indipendente, anche se economicamente legata a Madrid. Infatti, continuava a commerciare con la Spagna, ma anche con Germania e Lombardia, e i suoi mercanti e i suoi banchieri, pur se lontani dall’antico splendore, erano ancora tra i più attivi e rispettati dell’intera Europa. Nel 1684 la città subì un duro colpo, quando venne bombardata da navi della flotta di Luigi XIV, allora in guerra contro gli Asburgo.

La Repubblica di Venezia era invece ancora una potenza navale e commerciale di tutto rispetto anche se, dopo l’apertura delle rotte oceaniche verso l’Asia, non deteneva più il monopolio sul traffico delle spezie. Aveva ampliato il suo dominio sulla terraferma, annettendosi Bergamo, Brescia, Cremona, l’odierno Veneto e una parte dell’odierno Friuli. Sulla costa orientale dell’Adriatico aveva ampliato i propri domini in Istria e Dalmazia, ed era entrata in possesso di alcune isole della Grecia. La Serenissima svolse allora un ruolo importante per l’intera Europa, essendo una delle poche potenze europee costantemente schierate contro gli Ottomani. In questo periodo, la sua civiltà colta e raffinata attraversò una fase di splendore culturale, evidente soprattutto nell’architettura, grazie alle opere del famoso architetto Palladio.

Cosimo I de’ Medici, duca di Firenze Medaglia in bronzo dorato di Pier Paolo Galeotti (1567), national Gallery of Art, Washington, DC

Perché Venezia svolse un’opera importante per la cristianità?

Perché la posizione geografica favorì la politica estera del Ducato dei Savoia?

Il matrimonio di Emanuele Filiberto I di Savoia con Margherita di Valois (10 luglio 1559)

Olio su tela di Amedeo Augero (1843), Palazzo Reale, Torino

L’ascesa della casa di Savoia, futura protagonista della storia italiana

Particolare fu invece la vicenda della casata dei Savoia. Signori sin dal Medioevo dell’omonima regione montuosa al confine tra Francia e Italia e ben presto anche della Contea di Nizza grazie alla quale disponevano di uno sbocco sul mare, i Savoia avevano successivamente cominciato a conquistare territori in quello che oggi è il Piemonte. La fortuna della famiglia giunse a un’importante svolta nel 1559 quando Emanuele Filiberto, condottiero al servizio di Carlo V, dopo aver vinto, due anni prima, la cruciale battaglia di San Quintino, ebbe in cambio dall’imperatore la restituzione del ducato che la Francia aveva tolto a suo padre. Tornato in possesso dei domini di famiglia, Emanuele Filiberto li riorganizzò profondamente: spostò la capitale a Torino, in modo tale da trasferire il centro del suo regno dalla Francia all’Italia. Grazie alla loro particolare posizione geografica, i Savoia riuscirono poi a condurre una politica estera autonoma, cercando di trarre il massimo profitto dalle alleanze che di volta in volta stipulavano con le varie potenze europee in lotta. Così facendo, aumentarono progressivamente la loro importanza all’interno della penisola. Vedremo più avanti come questa strategia li avrebbe portati a svolgere un ruolo di primo piano negli avvenimenti che daranno origine allo stato italiano.

METTIAMO A FUOCO

La “peste del Manzoni”

La peste fu uno dei flagelli che con più frequenza si abbatté su una Milano già mal ridotta a causa della povertà e delle frequenti carestie. una prima grande pestilenza infierì sulla città nel 1576. La più grave si ebbe però a partire dal 1629, ed è un’epidemia divenuta celebre perché ci è stata narrata da Alessandro Manzoni nel suo capolavoro I promessi sposi.

Un contagio che ha molti responsabili

L’enorme diffusione della terribile malattia, portata nel Milanese da truppe di passaggio provenienti dalla Germania, ebbe molte cause. In primo luogo va detto che la medicina del tempo non ne conosceva le origini e quindi non sapeva né come prevenirla né come curarla efficacemente. A ciò si aggiunse l’inerzia del governatore spagnolo nel fronteggiarla e infine la diffusione di dicerie senza fondamento, che provocarono una catastrofe nella catastrofe.

Tra i milanesi si sparse infatti l’idea che il morbo fosse diffuso da misteriosi agenti stranieri (gli “untori”) che spargevano pozioni venefiche sui muri delle case, nei luoghi pubblici, perfino sui banchi delle chiese, allo scopo di fare strage tra la popolazione. Questa credenza di tipo superstizioso ebbe ampia diffusione, soprattutto perché nei gravi momenti di crisi, di fronte a situazioni tragiche di cui non si riesce a comprendere la natura, viene spontaneo individuare dei facili capri espiatori. Questo ingenerò tra la popolazione un clima di sospetto, che sfociò, tra l’altro, in un episodio gravissimo, la condanna a morte dopo un processo sommario di due poveri cittadini accusati di essere untori (anche di questo episodio ci ha parlato Alessandro Manzoni, con un’opera di straordinario interesse storico intitolata Storia della colonna infame).

Il Lazzaretto e l’opera dei frati cappuccini un ruolo importante nel poco che si poté fare per assistere gli appestati ebbe il Lazzaretto, un ospizio risalente a più di un secolo prima, allestito fuori le mura delle città, all’interno del quale i malati venivano accolti e nel medesimo tempo isolati per quanto possibile. Il Lazzaretto, concepito per

ospitare non più di 2.000 malati, arrivò nel periodo più acuto del contagio a doverne contenere più di 16mila.

Ad assistere i malati nel Lazzaretto erano i frati cappuccini destinati a tale opera dal cardinale di Milano. Molti di loro, dedicandosi con grande abnegazione a questo servizio, contrassero il morbo e morirono anch’essi.

Il “lavoro sporco” dei monatti

Altri personaggi caratteristici che operarono a Milano durante la peste e di cui ci parla ampiamente Manzoni erano i monatti: si trattava di persone, talvolta ex galeotti o semplici delinquenti, che avevano accettato il lavoro rischioso di girare per la città a raccogliere sui loro carri i malati da trasportare al Lazzaretto o i morti da portare nelle fosse comuni dove venivano sepolti. Spesso questi monatti, che giravano con un campanellino al piede per avvisare le persone del loro arrivo, trattavano con molta durezza i malati e i loro parenti, oppure entravano nelle loro case per rubare. nonostante il lavoro dei monatti, l’elevato numero di vittime (mediamente 500 al giorno, anche se qualche storico si è spinto addirittura a ipotizzarne 1.500!) impediva che tutte potessero essere raccolte e sepolte, per cui in città vi era lo spettacolo triste di cadaveri abbandonati per strada, che si decomponevano ammorbando l’aria e che erano ulteriore motivo di diffusione del contagio.

Il lazzaretto di Milano

Veduta esterna di ciò che oggi rimane dell’antico Lazzaretto manzoniano in via San Gregorio 5

METTIAMO A FUOCO

Luci e ombre del dominio spagnolo sullo stato di Milano

Un’epoca di notevole sviluppo architettonico e urbanistico

L’epoca del dominio spagnolo, durata circa centocinquant’anni, fu per Milano un periodo di notevole sviluppo architettonico e urbanistico. Risalgono a quel tempo molti imponenti edifici monumentali giunti sino a noi, come il Collegio Elvetico (oggi sede dell’Archivio di stato), palazzo Litta, palazzo Marino (oggi sede degli uffici del sindaco della città), la Rotonda di via Besana, il palazzo delle

Stelline, l’arco di Porta Romana. nell’insieme però Milano, capitale di un territorio che dipendeva da Madrid, era ben lontana dalla magnificenza che caratterizzava le grandi città spagnole del tempo o le capitali degli stati italiani che continuavano a essere indipendenti. La rete viaria del centro cittadino era per lo più un dedalo di vicoli e passaggi stretti e angusti. Su tutto dominava la mole del castello trasformato in fortezza, mentre il Duomo continuava ad essere privo di facciata (nel 1646,

Il tumulto dei milanesi per la grave carestia sotto la dominazione spagnola Episodio dei «Promessi sposi» illustrato da Francesco Gonin nell’edizione del 1840 del libro

in occasione della visita della regina di Spagna, si rimediò ricoprendolo di una finta facciata in legno e gesso). Venne però pianificato un grande ampliamento e rafforzamento della città costruendo una nuova cerchia di mura, i cosiddetti bastioni, molto più larga di quella precedente, che era medievale, ma risaliva sostanzialmente all’epoca romana. Demoliti negli anni ’30 del secolo scorso, dopo che la città aveva finalmente cominciato a espandersi al di là del loro perimetro, i bastioni hanno lasciato il posto a una circonvallazione, detta comunemente “cerchia dei bastioni spagnoli”, che ne tramanda così la memoria.

Una vita sociale e culturale molto animata

La vita sociale era molto animata. Feste popolari, giochi e spettacoli erano frequenti al punto che l’arcivescovo Carlo Borromeo intervenne per ottenere dalle autorità spagnole che non potessero avere luogo in concomitanza con le celebrazioni religiose. nacquero in quegli anni anche importanti istituzioni culturali come ad esempio la Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana, fondata dal cardinale Federigo Borromeo, che è tuttora uno dei punti forti della cultura milanese.

Il Corso di Porta Romana, che era la via principale della città, durante il carnevale si animava del passaggio dei carri, e durante l’anno era il luogo preferito dai ricchi milanesi per le loro passeggiate. un altro spettacolo non infrequente erano purtroppo le esecuzioni pubbliche di ladri e assassini, verso i quali la giustizia spagnola era severissima (ovviamente se si trattava di poveri, poiché i crimini degli appartenenti alla nobiltà rimanevano spesso impuniti). La condanna a morte veniva eseguita nei modi più crudeli: rogo, decapitazione o addirittura squartamento.

L’epoca venne però anche positivamente segnata dallo sviluppo di un insieme di istituzioni assistenziali, molte delle quali fondate o sviluppate dal cardinale Carlo Borromeo, come orfanotrofi, case di riposo per gli anziani, collegi.

Un

enorme aumento delle tasse

Come sempre accade in questi casi, il declino della Spagna andò di pari passo con un aumento della sua esosità nei confronti dei territori assoggettati. nello stato di Milano i governatori spagnoli cominciarono a imporre dazi non solo sulle importazioni di merci dall’esterno, ma anche sul

commercio interno, il che mise in difficoltà dapprima la produzione delle armi (uno dei punti di forza dell’economia milanese), poi quella tessile. C’erano imposte sui cavalli, sui camini e qualsiasi tipo di merce, imposte sul sale, sul vino, sul macinato. I soldi ricavati da queste imposte venivano spesi soprattutto per il mantenimento dell’esercito che stazionava stabilmente in città e per le spese della corte del governatore e delle grandi famiglie aristocratiche. La nobiltà, sia milanese che spagnola, viveva infatti con grande lusso: verso la fine del Seicento in città circolavano 2.186 carrozze, un vero e proprio record per l’Europa.

La cattiva amministrazione della giustizia un altro grosso problema era quello della giustizia: i governatori emanavano in continuazione delle “grida” (cioè dei decreti) che però nessuno aveva la capacità o la voglia di far rispettare. I funzionari pubblici, di qualsiasi grado, erano quasi sempre corrotti, i nobili e il clero godevano di ampi privilegi. Molti nobili tenevano al loro servizio delle squadre di uomini armati, chiamati “bravi” (termine derivante dallo spagnolo e che significa “coraggioso”), e se ne servivano anche per intimidire, minacciare e ricattare la gente comune delle campagne e delle città.

Il

trionfo cristiano sotto le mura di Vienna

I turchi tornano a minacciare l’Europa

nel 1683 sul trono della Sublime Porta (così era chiamato il governo turco ottomano) c’era il sultano Alì Pascià, uomo dedito più ai piaceri della caccia e della tavola che all’arte del governo, cosicché i fili dell’Impero erano manovrati dal gran visir Karà Mustafà. Questi era una persona dotata di spregiudicatezza politica e grandi capacità militari, e coltivava da sempre il desiderio di allestire una nuova spedizione allo scopo di giungere a Vienna e colpire al cuore la cristianità europea. L’occasione gli venne data dallo scoppio di una rivolta antiasburgica in ungheria. Il capo di questa rivolta chiese aiuto proprio a lui che prontamente intervenne allestendo un’armata di dimensioni imponenti che comprendeva, oltre ai turchi, anche gli ungheresi ribelli e i tatari di Crimea.

Janos Sobieski ultimo baluardo difensivo

La situazione per l’Europa era piuttosto critica: sempre più lacerata e divisa al suo interno, aveva perso da tempo l’entusiasmo diffusosi dopo la battaglia di Lepanto; a questo si aggiungevano le manovre segrete di Luigi XIV che, continuando la tradizionale politica filoturca e antiasburgica della Francia, appoggiava silenziosamente l’intervento ottomano, senza rendersi conto che sotto le mura di Vienna si sarebbe combattuta una battaglia nella quale erano in gioco gli interessi vitali non della sola Austria, ma di tutta l’Europa. In aiuto dell’Austria, minacciata dall’attacco ottomano, si formò allora, su impulso di papa Innocenzo XI, un'alleanza di stati europei chiamata Lega Santa, alla quale, vista la gravità della situazione, avevano aderito anche sovrani protestanti. Tra questi stati c’era la Polonia, il cui re Janos Sobieski III era guardato dagli imperiali come l’ultimo baluardo per evitare la sconfitta: dal 1667 il sovrano combatteva infatti contro gli Ottomani sul proprio territorio, e aveva già ottenuto contro di loro alcuni significativi successi.

L’importante ruolo svolto da Marco d’Aviano

Se Sobieski e Carlo di Lorena, un nobile generale francese, caduto in disgrazia presso Luigi XIV e passato perciò nelle file imperiali, possono es-

sere considerati gli artefici militari della vittoria di Vienna, è indubbio il merito che il padre cappuccino Marco d’Aviano ebbe nel ricomporre le discordie in seno ai princìpi cristiani, riportandoli all’unità in nome della causa comune. Costui, nato in Friuli da una famiglia appartenente alla media borghesia, ed entrato successivamente nei cappuccini, era divenuto un predicatore molto ascoltato. Ben presto aveva conseguito anche la fama di guaritore e taumaturgo, fama che aveva oltrepassato i confini italiani. Per questo era stato chiamato a Vienna alla corte dell’imperatore Leopoldo I di cui era divenuto insostituibile consigliere. nella città stretta d’assedio Marco d’Aviano ebbe un ruolo importante nel sostenere e incoraggiare i combattenti e nel sanare le discordie che si accendevano tra i comandanti dei corpi di spedizione di paesi diversi schierati a difesa della città. Quando giunse il momento decisivo dello scontro, la disparità delle forze sembrava comunque schiacciante a favore dei turchi. A difesa della città non c’erano più di 16.000 uomini, 5.000 dei quali reclute, soprattutto studenti e funzionari di corte, e dunque prive di una qualsiasi esperienza militare.

Lo scontro decisivo

L’assedio, iniziato il 14 luglio, si protrasse fino a settembre quando, avvicinandosi l’autunno che avrebbe reso sempre più difficili le operazioni militari, Karà Mustafà decise di forzare le operazioni concentrando tutte le truppe disponibili in un solo punto al fine di sfondare le barriere difensive, ma lasciando sguarnite le alture ad ovest della città. Fu questo probabilmente l’errore che gli costò la vittoria. Il re polacco, giunto in vista di Vienna con un esercito di 75.000 uomini, occupò queste alture e da lì cominciò la controffensiva. La mattina del 12 settembre 1683 avvenne lo scontro decisivo. Con una manovra a tenaglia le truppe cristiane circondarono gli assedianti turchi e in poche ore li sbaragliarono. Alle tre del pomeriggio l’esercito della Sublime Porta era in rotta.

Inizia il declino dell’Impero Ottomano

Si trattò di una vittoria imponente, quasi miracolosa (la Chiesa istituì proprio in questo giorno la solennità del nome di Maria, alla cui intercessione si attribuiva il successo della Lega Santa, considerato anche che Sobieski era devotissimo alla Vergine di Czestochowa). Di tale vittoria l’Europa non riuscì però a raccogliere tutti i frutti: si riaccesero infatti le rivalità tra i vari comandanti militari, ognuno dei quali voleva per sé tutto il merito della vittoria, e sia Marco d’Aviano sia papa Innocenzo XI dovettero usare le loro migliori arti persuasive per convincerli della necessità di riprendere l’offensiva. Le operazioni militari proseguirono

ancora per qualche anno ed ebbero solo un altro grandissimo successo: la riconquista di Buda, nel 1686, che faceva finalmente tornare l’ungheria in mani europee. Ad ogni modo la sconfitta di Vienna rappresentò un colpo durissimo per l’Impero Ottomano che, pur rimanendo ancora per circa un secolo una presenza incombente ai confini dell’Europa centro-occidentale, andò incontro a un declino inesorabile, fino a scomparire definitivamente nel 1919.

Sobieski sconfigge l’esercito turco alle porte di Vienna e manda al papa il messaggio della vittoria

Olio su tela di Jan Matejko (1883)

Sala Sobieski, Musei Vaticani, Città del Vaticano

PROTAGONISTI

Galileo Galilei: il padre della scienza moderna

Galileo Galilei, nato a Pisa nel 1564 e morto nel 1642 ad Arcetri, presso Firenze, nella villa dove viveva recluso dopo la condanna del Santo uffizio, è stato uno dei più grandi scienziati della storia dell’umanità. Il suo contributo allo sviluppo del pensiero scientifico è stato decisivo al punto da essere considerato, da parte di tutti gli studiosi, il padre della scienza moderna. Avviato a studi di medicina per continuare le tradizioni famigliari, finì però ben presto per appassionarsi alla matematica, a cui si dedicò con grande interesse fino ad ottenere la cattedra all’università di Pisa. nel 1592 si trasferì a Padova, dove vi era un’università di fama europea e dove si respirava un clima di maggiore libertà e intraprendenza. Fu qui che iniziò a dedicarsi in maniera stabile all’astronomia. Perfezionando il cannocchiale e utilizzandolo come telescopio fece le sue

straordinarie scoperte che iniziò a far conoscere a partire dal 1610 quando si trasferì a Firenze. Con esse smantellò definitivamente l’intera cosmologia tolemaica e portò decisive conferme sperimentali alla teoria copernicana: l’universo non è un sistema chiuso che ha al suo centro la terra, ma un sistema aperto dove la terra ruota, assieme ad altri pianeti, attorno al sole.

I contrasti con la Chiesa Le tesi di Galileo suscitarono, come è immaginabile, l’opposizione di tutti i sostenitori delle antiche dottrine. La stessa Chiesa Cattolica intervenne in un primo tempo per chiedergli di presentare la teoria copernicana solo come un’ipotesi e non come una tesi scientifica di valore assoluto. Da qui nacque un contenzioso che si trascinò fino al 1633 quando, a seguito della pubblicazione

Galileo Galilei Olio su tela di Justus Sustermans (1640 circa), National Maritime Museum, Greenwich, Londra

da parte dello studioso pisano del Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano, dove prendeva chiaramente posizione a favore delle nuove teorie astronomiche, egli venne condannato dal Santo uffizio e costretto ad abiurare la teoria copernicana. La condanna fu, per quei tempi, piuttosto mite: il soggiorno definitivo presso la villa di Arcetri e l’obbligo di recitare alcune preghiere settimanali. Questo però non toglie la gravità del fatto che un uomo si sia stato condannato per le sue idee, senza peraltro che fossero discusse, e sia stato costretto a ritrattarle, violando così la sua libertà di coscienza e di pensiero.

I motivi del contendere

Per comprendere le ragioni di questo atteggiamento delle autorità ecclesiastiche del tempo bisogna considerare il contesto in cui la vicenda di Galileo si svolse. La Chiesa non era contraria alla ricerca scientifica. Basti pensare che a quei tempi esisteva il Collegio Romano dei gesuiti che era all’avanguardia in questo campo. E d’altra parte, questo è un parere comune e ormai consolidato, i princìpi della fede non sono assolutamente messi in discussione dalle scoperte scientifiche. Quello che però preoccupava il tribunale ecclesiastico era probabilmente il timore delle conseguenze che questa teoria avrebbe potuto avere sulla fede delle persone semplici e soprattutto il fatto che le teorie di Galileo sembravano andare contro alcune affermazioni contenute nella Bibbia e quindi mettevano in discussione il principio dell’autorità della Chiesa nell’interpretazione e nell’insegnamento della Sacra Scrittura. Discutendo con i teologi del tempo, infatti, Galileo sostenne che la Bibbia va interpretata e non presa alla lettera e che essa contiene insegnamenti di carattere religioso e morale, ma non di carattere scientifico. Le conoscenze scientifiche provengono solo dallo studio della natura. Sono affermazioni, queste dello scienziato pisano, del tutto comprensibili e, oggi, tranquillamente accettate dalla Chiesa (che, tra l’altro, ha riabilitato Galileo fin dal Settecento), ma allora, in un momento in cui era ancora viva l’eco della ribellione luterana che verteva tra l’altro proprio sull’interpretazione della Bibbia, esse potevano sembrare pericolose.

Si capisce quindi il clima di sospetto con cui Galileo venne guardato e la condanna a cui venne sottoposto.

L’inventore del metodo scientifico

Al di là delle sue scoperte l’opera di Galileo fu importantissima anche perché a lui si deve l’elaborazione del metodo scientifico sperimentale che, da allora in poi, è alla base del lavoro di tutti gli scienziati che si occupano delle scienze della natura. Le conoscenze scientifiche, secondo lui, non dovevano basarsi su quanto detto dagli antichi preso per vero in modo acritico. Dovevano, al contrario, derivare dall’osservazione della natura, con l’elaborazione di ipotesi di spiegazione dei fenomeni e la successiva verifica mediante esperimenti rigorosi e ripetuti che permettevano, in caso di conferma, di trasformare le ipotesi in leggi e teorie. Il tutto condotto attraverso misurazioni precise e formulato in termini matematici perché, come diceva lui, «la natura è scritta in linguaggio matematico». Questo metodo rivoluzionava le tradizionali forme di sapere e poneva le basi di un progresso nelle conoscenze scientifiche che sarebbe stato ben presto travolgente e inarrestabile.

La superficie della Luna con le montagne e i crateri in diversi momenti delle fasi lunari Acquerelli di Galileo Galilei (1609), Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze. Dipinti sulla base delle sue prime osservazioni telescopiche, sono molto simili alle fotografie della superficie lunare ottenute recentemente dai satelliti

PROTAGONISTI

Jean Baptiste Colbert, il principale collaboratore del re

Un oculato amministratore

Abbiamo già visto come Luigi XIV governasse con l’aiuto di diversi collaboratori, ognuno dei quali esperto in una funzione specifica. Quello a cui il sovrano garantì maggiore libertà di azione e di decisione fu il ministro delle finanze JeanBaptiste Colbert.

Colbert impostò l’economia dello stato sul modello di una normale azienda privata, in modo da poter avere un quadro sempre chiaro e preciso dei soldi guadagnati e di quelli spesi. La potenza di un regno come quello di Luigi XIV, le continue guerre e lo sfarzo della vita di corte richiedevano infatti una enorme quantità di denaro, per cui era necessario avere sempre la situazione sotto controllo e sapere bene dove e come reperire le somme necessarie.

Il pareggio del bilancio

Colbert soppresse gli uffici e le cariche inutili, in modo da limitare le spese, pose fine a privilegi fiscali ingiustificati, cercando di far pagare le tasse a tutti coloro che ne avevano l’obbligo (non però ai nobili che ne erano da sempre esenti). Grazie a questi metodi, raggiunse ben presto il pareggio del bilancio (significa che i soldi in entrata erano equivalenti a quelli in uscita) e negli anni successivi aumentò in maniera consistente la quantità di soldi incassati dalla Corona.

La politica protezionistica

Impostò una politica economica particolare, che sarebbe stata imitata anche da altri stati europei negli anni successivi, e che da lui avrebbe preso il nome di “Colbertismo”. Tale strategia si basava sull’imposizione di alti dazi sui prodotti stranieri che entravano in Francia, così da proteggere i prodotti nazionali (per questo si parla anche di “protezionismo”). Contemporaneamente, egli diede un impulso massiccio alle esportazioni i cui proventi venivano tassati a vantaggio dell’erario dello stato. Creò una imponente marina mercantile e militare, dando inizio a una politica coloniale che fino ad allora era stata seguita solamente da Inghilterra, Spagna e Portogallo: la Compagnia delle Indie Orientali e la Compagnia delle Indie Occidentali furono importanti aziende statali che realizzarono

l’esplorazione e la conquista di molti territori d’oltreoceano. Tra questi, nel nord America, il Canada e l’intero bacino del fiume Mississippi, ossia l’attuale segmento centrale degli Stati uniti, cui venne dato il nome di Luisiana, (ovviamente in onore di Luigi XIV). Importante fu pure la realizzazione del Canal du Midi o Canale dei Due Mari che collegava direttamente Bordeaux e la Garonna col Golfo del Leone, permettendo così alle navi di raggiungere velocemente l’Atlantico dal Mediterraneo, senza dover circumnavigare la Penisola Iberica. Significativo dell’importanza del ruolo che Colbert ebbe nell’ascesa della potenza francese (ma anche della sua incapacità di creare un sistema che gli sopravvivesse) è che a partire dal 1682, anno della sua morte, si riaffacciarono nel regno tutti quei problemi economici che un secolo dopo sarebbero esplosi nella rivoluzione francese.

Jean-Baptiste Colbert

Incisione di Robert Nanteuil (1676), Musée national du Château de Versailles et de Trianon, Versailles

La reggia di Versailles

Un luogo incantevole

Luigi XIV visitò per la prima volta Versailles nel 1651, quando aveva solo tredici anni: Era alla ricerca di una sua residenza ufficiale, lontano da quella di Parigi che dopo le ribellioni di pochi anni prima non gli appariva più tanto sicura. Versailles era però all’epoca un povero villaggio, e il suo castello, pur essendo moderno e circondato da ampi spazi dove cacciare, non convinse immediatamente la sua corte e i suoi collaboratori. Il sovrano si era però innamorato di questo posto e diede subito il via a costosissimi lavori, per renderlo degno della sua grandezza. nel 1664 nella reggia rimessa a nuovo fu celebrata la prima festa. A partire dal 1682, Luigi XIV vi installò stabilmente la propria corte e da quel momento Versailles divenne la sua residenza.

La “prigione dorata” della nobiltà…

Il sovrano invitò dunque tutti i più importanti nobili della nazione a vivere in questo luogo. Qui essi vennero riempiti di lussi e privilegi, onorati dalla

possibilità di stare accanto al loro sovrano, ma di fatto privati completamente del potere politico, tanto più che il re li obbligava in tal modo a vivere lontano dalle province in cui si trovavano i loro domini e dove la sostanza del potere stava passando nelle mani degli intendenti regi. A Versailles tutto ruotava attorno alla persona del re, ogni momento della giornata si svolgeva come un rituale a cui i membri dell’aristocrazia, a seconda del proprio rango, si disputavano il diritto e l’onore di assistere: persino il risveglio del re era trattato come un momento sacro! Essere graditi a lui, ottenere il suo consenso, essere da lui invitati a cena o anche a una semplice partita a carte, dava l’illusione di una condizione privilegiata, mentre in realtà si trattava di una “prigione dorata” per mascherare lo stato di assoluta inutilità al quale i nobili francesi erano stati ridotti.

… ma anche una raffinata civiltà di corte Versailles diventò comunque un luogo unico in Europa e al mondo per lo splendore architettonico, la bellezza dei costumi, la maestosità delle parate militari, l’abbondanza dei pranzi, la sontuosità delle feste, la cortesia dei modi e la finezza delle conversazioni. Per più di un secolo la Francia detterà legge nella moda e nei gusti dell’intero continente. La corte di Versailles era dunque il luogo più adatto per celebrare la grandezza di Luigi XIV, il “Re Sole”, come volle farsi chiamare, per indicare che, come tutti i pianeti ruotano intorno al sole e da esso prendono luce, così in Francia e in Europa tutto doveva ruotare intorno a lui. nonostante tutta questa magnificenza, Luigi XIV venne anche fortemente criticato dai suoi sudditi, e non furono poche le opere umoristiche di vari scrittori e autori di teatro, che prendevano di mira la sua mania di protagonismo, gli sprechi eccessivi dei lussi di corte e le continue guerre da lui combattute. Paradossalmente, proprio nel momento in cui la Francia sembrava dominare l’intero continente europeo, iniziò una decadenza da cui non si sarebbe più ripresa nei secoli successivi.

Sala degli specchi, reggia di Versailles

RACCONTIAMO IN BREVE

1. Elisabetta I morì nel 1603 senza figli, estinguendo così la dinastia Tudor. Designò come erede Giacomo VI di Scozia, che divenne re col nome di Giacomo I. Si inaugurò così la dinastia degli Stuart. I rapporti col parlamento, già difficoltosi, si fecero più tesi sotto il successore Carlo I. Nel 1628 l’assemblea impose al re la Petition of Rights, una carta dei diritti che limitava drasticamente l’autorità del potere centrale.

2. Nel 1642 scoppiò una guerra civile tra i sostenitori del re e quelli del parlamento. Tra questi si mise in luce Oliver Cromwell, il quale fondò un esercito, il “New Model Army”, composto da artigiani e contadini ben equipaggiati, accomunati da un forte fanatismo religioso e desiderosi di riforme sociali molto radicali. Nel 1646 le forze parlamentari vinsero la guerra e lo stesso Carlo I fu fatto prigioniero e successivamente condannato a morte e decapitato. Il potere passò nelle mani di Cromwell, che proclamò la Repubblica (Commonwealth). Il nuovo stato si rivelò però una dittatura e limitò fortemente i poteri del parlamento. Cromwell stroncò con particolare durezza la ribellione degli irlandesi mentre sul piano economico pose le basi per trasformare l’Inghilterra in una grande potenza navale.

3. Alla morte di Cromwell, nel paese si aprì una crisi che fu risolta chiamando al trono il figlio di Carlo I, che divenne re col nome di Carlo II. L’Inghilterra visse un periodo di pace e tranquillità che finì però nel 1685, all’avvento del nuovo re Giacomo II. Temendo che con lui il Cattolicesimo tornasse in Inghilterra (aveva infatti sposato una principessa cattolica e da lei aveva avuto un erede) il parlamento dichiarò come legittima erede Maria, figlia di un precedente matrimonio di Giacomo II e che aveva a sua volta sposato Guglielmo III d’Orange, un principe protestante olandese che nel 1688 sbarcò sull’isola e ne divenne re. Il nuovo sovrano emanò la Bill of Rights, una nuova costituzione che concedeva diversi poteri al parlamento.

4. In Francia Luigi XIV, assunti i pieni poteri all’età di ventitré anni, incarnò alla perfezione il modello di sovrano assoluto. Concepì infatti la corona come il centro coordinatore di tutto lo stato e di tutta la società e limitò fortemente i poteri dei nobili, che vennero confinati nella prigione dorata della reggia di Versailles. Inoltre, come il suo predecessore, vendette le principali cariche amministrative del regno, dando origine ad una “nobiltà di toga” a lui fedele.

5. Luigi XIV perseguì una politica di grande potenza, spendendo ben 37 anni della sua vita a combattere guerre e dissanguando il paese sul piano finanziario, senza ottenere significativi guadagni territoriali.

6. In Russia, Ivan IV, detto Il Terribile, continuò la politica espansionistica dei suoi predecessori e agì con grande durezza contro i boiardi, i grandi nobili, sottraendo loro il potere locale e favorendo un corpo di funzionari da lui nominati. Alla sua morte il trono fu retto dal nobile Boris Godunov, che regnò fino al 1605 e diede inizio alla colonizzazione della Siberia. Egli non lasciò eredi per cui alla sua scomparsa si aprì un periodo di anarchia che terminò nel 1613, quando venne eletto Michele, appartenente alla dinastia dei Romanov. Questa famiglia avrebbe dato zar alla Russia fino al 1917.

7. Verso la seconda metà del 1600 i turchi tornarono a minacciare l’Europa. Assediarono Creta, possedimento veneziano, che alla fine dovette cedere. Contemporaneamente, riprese l’offensiva via terra. Nel 1683, giunsero sotto le mura di Vienna minacciando così direttamente l’intera Europa. Su impulso di papa Innocenzo XI, e con il fondamentale aiuto del cappuccino Marco d’Aviano, si formò in aiuto di Vienna una coalizione di stati detta Lega Santa. Nonostante la disparità delle forze, la Lega Santa, grazie anche al decisivo contributo del re di Polonia Jan Sobieski, liberò Vienna dall’assedio mettendo in rotta l’esercito ottomano. Da questo momento la potenza turca andò incontro a un declino irreversibile.

8. Nel Seicento la penisola italiana attraversò un periodo di decadenza e ristagno economico. I traffici commerciali si erano infatti spostati verso l’Oceano Atlantico e il Mediterraneo era ormai divenuto un teatro secondario. Dal punto di vista politico, i vari staterelli italiani si trovavano in balia delle grandi potenze come Francia, Spagna e Impero. A partire dal 1559 l’Italia passò sotto il predominio spagnolo e visse di riflesso lo splendore del “siglo de oro”, un periodo piuttosto fiorente dal punto di vista artistico, ma anche scientifico, grazie all'opera di Galileo Galilei. Rimanevano autonome solo la Repubblica di Venezia, quella di Genova e lo Stato Pontificio, oltre a una serie di piccoli stati di poco peso. Venezia, con l’apertura delle rotte oceaniche verso l’Asia, non deteneva più il monopolio del traffico delle spezie ma, dopo aver allargato i suoi domini sulla terraferma e sulle coste adriatiche, continuò a svolgere un ruolo importante per la cristianità, opponendosi costantemente alla minaccia turca.

A partire dal 1559 i Savoia, trasportata la loro capitale a Torino, cominciarono ad orientare sempre più la loro politica verso l’Italia.

ATTIVITÀ E VERIFICHE

Esercizio 1 · Rispondi, anche oralmente, alle seguenti domande.

1. Chi erano i Padri Pellegrini?

2. Che cosa stabiliva la Petition of Rights?

3. Chi era Oliver Cromwell?

4. Che cos’era il Commonwealth?

5. Quali guerre intraprese Luigi XIV?

6. Che cosa si stabilì con la Pace di Ryswick?

7. Che cosa si intende per “sovrano assoluto”?

8. Chi furono Jan Sobieski e Marco d’Aviano?

9. Com’era la situazione economica dell’Italia sotto la dominazione spagnola?

10. Chi era Masaniello?

11. Che titolo ottenne Cosimo I de’ Medici?

12. Chi era Emanuele Filiberto e che cosa fece?

Esercizio 2 · Completa la linea del tempo: scrivi il numero del fatto storico sulla data corretta.

1. Gloriosa Rivoluzione

2. Carlo I viene giustiziato

3. Morte di Elisabetta I

4. Pace di Cateau Cambrésis

5. Luigi XIV prende i pieni poteri in Francia

6. Battaglia di Vienna

Esercizio 3 · Indica se l’affermazione riportata è vera o falsa.

Gli Stuart realizzarono una politica accentratrice.

Cromwell realizzò un governo estremamente tollerante e aperto.

La rivoluzione del 1688 fu detta “Gloriosa Rivoluzione” perché avvenne senza spargimento di sangue.

Ivan il Terribile lottò con particolare durezza contro i boiardi.

Dal XVI secolo i turchi controllavano la metà del territorio ungherese.

Sotto le mura di Vienna i turchi ottennero una strepitosa vittoria.

Gli Italiani non guardarono mai con benevolenza il governo spagnolo.

Esercizio 4 · Per completare la frase iniziale scegli fra le tre alternative proposte quella che ti sembra, oltre che esatta, anche precisa e formulata con il linguaggio più appropriato.

L’esercito di Oliver Cromwell era particolarmente forte perché

a. era composto da truppe mercenarie ben addestrate.

b. era sostenuto da ideali e motivazioni religiose.

c. adottava nuove armi e nuove strategie di combattimento.

La Bill of Rights

a. trasformò l’Inghilterra in una monarchia costituzionale, in cui il potere del re era fortemente limitato da quello del parlamento.

b. ridava pieni poteri al re sul parlamento.

c. concedeva maggiore libertà ai cattolici.

La nobiltà di toga

a. era costituita da nobili di antica origine specializzati nell’arte militare.

b. erano funzionari dello stato che avevano acquistato la carica di recente ed erano molto fedeli al re.

c. erano studiosi e intellettuali che collaboravano col re.

Con la pace di Cateau-Cambrésis

a. gran parte dell’Italia finì sotto l’influenza francese.

b. la Repubblica di Venezia e il Ducato dei Savoia finirono sotto l’influenza spagnola.

c. la Sicilia, la Sardegna, il Regno di napoli e il Ducato di Milano divennero possedimenti spagnoli.

La Repubblica di Venezia conservò una posizione di rilievo perché

a. aveva sviluppato i commerci oceanici.

b. aveva esteso i suoi domini sulla terraferma e sulle coste orientali dell’Adriatico.

c. lottò contro i turchi nel Mediterraneo.

Esercizio 5 · Rileggi attentamente l’approfondimento dedicato alla politica di Colbert, sottolinea i provvedimenti da lui presi, completa poi la tabella seguente e rispondi alle domande riportate sotto.

Provvedimenti rivolti al risparmio delle spese

Provvedimenti di carattere fiscale

Provvedimenti volti a sviluppare l’economia

1. Quali problemi dovette affrontare Colbert? Quali obiettivi si propose?

2. Cosa si intende per “pareggio del bilancio”?

3. Che cosa si intende per “protezionismo”?

4. Riuscì Colbert a conseguire risultati stabili e duraturi?

Frontespizio del primo volume

dell’Encyclopédie

Prima edizione (1751)

Il secolo dei lumi

Il sogno di rifare la civiltà su basi completamente nuove

L’Illuminismo rappresentò, per l’umanità, una svolta culturale decisiva e gravida di conseguenze. Secondo questa filosofia, l’uomo raggiunge la libertà e la felicità solo se, in ogni sua attività, si affida esclusivamente a ciò che la sua ragione può immediatamente comprendere e verificare. Se si lascia guidare solo da questa “luce”, egli può finalmente costruire una società migliore e uscire dalle tenebre del passato. Grande strumento di diffusione di tale pensiero fu l’Enciclopedia: un’opera monumentale in 28 volumi, pubblicata in Francia, e alla cui redazione collaborarono le migliori menti del tempo che vi espressero le loro idee rivoluzionarie sul sapere e sulla necessità di riformare la società, svolgendo una critica serrata ad ogni autorità.

L’Illuminismo, sorto in Inghilterra e affermatosi poi pienamente in Francia, nel resto d’Europa e nei nascenti Stati Uniti, inaugurò la grande stagione delle riforme, che apportò indubbi miglioramenti alle società del tempo. Tuttavia, come in tutti i grandi movimenti storici e culturali, non mancarono gli eccessi e gli aspetti contraddittori. Rifiutando il passato e recidendo, anche con radicalità, la plurimillenaria esperienza storica ed esistenziale dell’uomo, l’Illuminismo creò il terreno fertile su cui sarebbero germogliate le rivoluzioni, a partire da quella francese, con i loro strascichi di violenza e di odio. Anche un gran numero di guerre caratterizzò questo secolo, nonostante gli appelli alla pace e alla tolleranza tra i popoli espressi dai filosofi e raccolti spesso dagli stessi sovrani.

AL TERMINE DEL CAPITOLO

Schede di approfondimento

• La critica all’assolutismo nell’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert

• I durissimi attacchi di Voltaire contro gli ebrei

• La riforma del diritto penale di Cesare Beccaria

• Maria Teresa d’Austria: una donna di grande energia alla guida di un impero difficile

• La tratta degli schiavi

• Le missioni dei gesuiti in Paraguay

• Che cosa significa essere tolleranti?

• Dalla summa medievale a Wikipedia, passando per l’Enciclopedia

Raccontiamo in breve

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per non perdere il filo

Newton svolge un esperimento

1 · L’età dei lumi

I grandi progressi della scienza e della tecnica tra Seicento e Settecento

Già dagli inizi del XVII secolo la scienza in Occidente aveva conosciuto straordinari progressi. In campo astronomico gli studi di Keplero e Galileo, oltre a fornire solide basi sperimentali alla teoria copernicana, avevano contribuito a perfezionare la conoscenza del cosmo, mentre l’inglese Isaac Newton, con la scoperta della legge della gravitazione universale, aveva fornito una spiegazione complessiva della struttura dell’universo, ponendo le basi di tutta la fisica moderna. Sempre nel campo della fisica si deve all’italiano Evangelista Torricelli l’invenzione del barometro per misurare la pressione atmosferica. Importanti progressi nei campi dell’anatomia e della biologia si devono invece all’inglese William Harvey, scopritore della circolazione sanguigna, e all’italiano Marcello Mal-

Isaac
sulla luce Xilografia del XIX secolo

pighi che perfezionò questi studi. L’irlandese Robert Boyle pose le basi della chimica moderna, distinguendola definitivamente dall’alchimia. Il filosofo francese René Descartes, più noto col nome latinizzato di Cartesio, elaborò il modello generale di rappresentazione matematica della realtà mentre un altro pensatore francese, Blaise Pascal, realizzò i primi esemplari di macchina calcolatrice. In questo stesso periodo vennero perfezionati e utilizzati anche altri strumenti come il cannocchiale e il microscopio. Ovunque si andava diffondendo un crescente interesse per la scienza: si pubblicavano libri e riviste, sorgevano società scientifiche che sostenevano il lavoro degli scienziati (in Italia fu importantissima l’Accademia del Cimento che sviluppò le ricerche di Galileo, mentre in Inghilterra nacque la celebre Royal Society, tuttora esistente).

Il nuovo metodo sperimentale

Questi straordinari progressi nel campo della scienza, che suscitavano ovunque interesse e ammirazione, si basavano su osservazioni attente della realtà dettate da quel metodo che, da Galileo in poi, possiamo chiamare sperimentale. Con Galileo si iniziò a pensare che nello studio del mondo che ci circonda non si poteva partire dal presupposto che tutto quanto gli antichi ritenevano vero e autentico fosse indiscutibile. Ogni cosa andava verificata e vagliata tramite esperimenti appositamente preparati e condotti in cui risultava fondamentale essere precisi nella misurazione e nella rilevazione dei dati. Solo con tale metodo si poteva giungere a leggi e a conoscenze scientifiche sicure e certe.

La critica al sapere e alla tradizione in nome della ragione

Se questo metodo aveva dato ottimi risultati in campo scientifico, si poteva pensare di applicarlo a tutti i campi dell'attività umana: la politica, l'organizzazione della società, la religione, l'economia, il diritto. In queste attività nessuna legge, usanza, tradizione ereditata dal passato doveva essere accettata e messa in pratica acriticamente, ma tutte dovevano essere sottoposte a una critica serrata in nome della ragione umana.

La critica alle autorità

Lo stesso valeva anche per le autorità che da sempre avevano governato la vita della società (l’autorità politica del sovrano e quella religiosa della Chiesa): anche i loro insegnamenti e la pretesa stessa di essere guide degli uomini dovevano sottostare al vaglio della ragione. Se la società fosse stata governata e organizzata in base a nuove regole dettate dalla ragione e da tutte le conoscenze che da essa scaturivano, questo pensavano molti intellettuali del tempo, ne sarebbe derivato un generale progresso e un indubbio miglioramento nella vita degli uomini. La ragione, per loro, sarebbe stata

Perché il metodo proposto da Galileo può essere definito sperimentale?

Tradizione Insieme di conoscenze, informazioni, valori e ideali che le generazioni precedenti trasmettono alle successive (dal latino tradere che significa “consegnare”, “trasmettere”).

Perché secondo gli illuministi la ragione avrebbe portato un progresso decisivo all’umanità?

come una luce che avrebbe illuminato il cammino degli uomini, liberandoli dal buio delle tenebre del passato e conducendoli a un futuro radioso e felice.

Perché, secondo Kant, usando la ragione l’uomo sarebbe diventato “maggiorenne”?

L’Illuminismo: l’uomo pretende di diventare maggiorenne… Queste convinzioni, sempre più diffuse tra gli uomini di cultura, prima in Inghilterra e successivamente in Francia e nel resto d’Europa, furono all’origine di un movimento filosofico che prese il nome di Illuminismo e che si propose come obiettivo proprio quello di realizzare quanto detto prima. Il filosofo tedesco Immanuel Kant, in un celebre scritto del 1784 intitolato Che cos’è l’Illuminismo?, scriverà che esso è il modo con cui l’uomo esce dallo stato di “minorità” (cioè di inferiorità) durato secoli e dovuto al fatto di non aver usato “l’intelletto”, ma di aver sempre obbedito all’autorità di altri che comandavano su di lui. Usando il “lume” della ragione, l’uomo sarebbe ora diventato “maggiorenne” e avrebbe potuto camminare con le proprie gambe, senza dover seguire alcuna guida.

… e si libera del passato

Tutto questo conteneva un giudizio indubbiamente negativo sul passato: per gli illuministi nel passato non si poteva trovare alcun insegnamento utile. Era un peso, un insieme di errori, di false credenze e superstizioni, di cui sbarazzarsi. L’Illuminismo per la prima volta induce a pensare che si possa cambiare radicalmente la vita e l’organizzazione della società, che si possa e si debba “rivolu-

Il filosofo Immanuel Kant alla scrivania in una stampa del XVIII secolo

zionare” tutto. È quindi con questa filosofia che per la prima volta compare nella storia il concetto di “rivoluzione”, cioè il voler fare piazza pulita del passato per costruire un mondo del tutto nuovo. Si tratta di un atteggiamento che, di lì a pochi anni, vedremo all’opera, col suo carico di violenza e di odio, nella rivoluzione francese.

La vera novità: la ragione scientifica misura di tutte le cose e unico ed esclusivo strumento di conoscenza

Per comprendere appieno la portata delle affermazioni dei filosofi illuministi è opportuno a questo punto fare un breve confronto con la cultura precedente. Non è infatti una novità che l’uomo usi la ragione per conoscere. Anche nell’antichità classica o nel Medioevo essa era tenuta in grande considerazione, basti pensare alla nascita della filosofia e della scienza in Grecia e alle grandi opere filosofiche dei pensatori medievali. Dove sta quindi la novità? La novità sta nel fatto che ora essa, utilizzata secondo il metodo scientifico, è considerata l’unica ed esclusiva forma di conoscenza. In passato, infatti, si riconosceva che la ragione, pur importante, non era in grado di esaurire la conoscenza della realtà; potevano esistere aspetti e parti di essa, quali Dio, l’anima o l’aldilà, che solo la fede poteva far conoscere pienamente. Ora, invece, si afferma che ciò che la ragione non sa spiegare semplicemente non esiste. La fede quindi non è più considerata una forma di conoscenza credibile che si affianca e completa il cammino conoscitivo della ragione (questo era sostenuto non solo da filosofi medievali cristiani, ma anche, ad esempio, da un grande filosofo dell’antichità quale Platone), ma una credenza senza fondamento e senza valore, nulla più di una superstizione, per giunta dannosa

Il metodo scientifico è applicabile alla conoscenza dell’uomo?

Non bisogna dimenticare inoltre che gli illuministi quando parlavano di ragione si riferivano a come essa veniva usata nel campo della scienza, cioè partendo da osservazioni sperimentali, misurate matematicamente, e arrivando a determinare leggi formulate in termini matematici. Mentre è chiaro che tale metodo è l’unico utile e applicabile alla conoscenza della natura (e quindi alle scienze fisiche, chimiche, naturali) ed è grazie a questo che tali scienze hanno compiuto gli straordinari progressi che conosciamo, esso non è altrettanto adeguato alla conoscenza delle dimensioni profonde e spirituali dell’uomo e delle sue azioni. L’uomo ha sentimenti, desideri, convinzioni profonde, evidenze e certezze maturate attraverso incontri, rapporti, esperienze del passato proprie e altrui, che non sono, per così dire, “misurabili”, non sono conoscibili attraverso il metodo scientifico-matematico. Questa sarà la critica principale che, al pensiero degli illuministi, rivolgeranno, qualche decen-

Perché la fede veniva rifiutata dagli illuministi?

Perché secondo i critici il metodo scientifico è inadeguato a comprendere l'uomo?

nio dopo, i filosofi romantici: l’Illuminismo con la sua pretesa di conoscere esaurientemente l’interiorità umana e di valutare adeguatamente l’uomo e le sue attività applicando una ragione di tipo scientifico-matematico, in realtà ha finito per fornire dell’uomo una conoscenza ridotta e impoverita. Un esempio di questo è che in alcuni ambienti legati all’Illuminismo si cominciò a parlare di homme machine cioè dell’uomo ridotto a una macchina, una macchina in cui tutto, anche le attività del pensiero e i sentimenti, sono ridotti a movimenti di ingranaggi meccanici!

2 · La lotta contro la Chiesa

La critica alle religioni storiche

Ateo

Parola di origine greca che indica colui che nega l’esistenza di Dio (letteralmente significa “senza Dio”).

Materialista

Colui che ritiene che la realtà, e quindi anche l’uomo, sia costituita dalla sola materia e che non esista alcuna forma di spirito. Non crede quindi né all’esistenza di Dio né a quella di un’anima immortale. In questa visione tutti i sentimenti e le attività legate al pensiero sono considerati non frutto dello spirito, ma del movimento di ingranaggi meccanici presenti nel corpo (“meccanicismo”).

Uno dei primi ambiti in cui si esercitò la critica degli illuministi fu quello della religione (questo avvenne in Inghilterra già nella seconda metà del Seicento). Essi ritenevano che molti princìpi e credenze su cui si basavano le grandi religioni storiche, il Cristianesimo, ma anche l’Ebraismo e l’Islam, non erano comprensibili alla luce della ragione. Per quanto riguarda il Cristianesimo, ad esempio, la ragione non può spiegare come possano accadere i miracoli che nei vangeli sono attribuiti a Gesù. Inoltre, impressionati dall’esperienza dei secoli immediatamente precedenti, essi si erano convinti che le religioni fossero solo fonte di guerre e lotte feroci. Questi ragionamenti non li portavano però a rifiutare la religione (pochissimi di loro si dichiararono atei o materialisti ), ma ad accettare una religione sostanzialmente diversa e nuova rispetto a quelle tradizionali.

Il

deismo: una religione basata solo sulla ragione

Si trattava di una religione basata non su quelle che loro ritenevano presunte rivelazioni divine, ma solo su ciò che, riguardo a Dio, la ragione riusciva a dimostrare. Essi chiamavano questo nuovo modo di intendere la religione “deismo”, in contrapposizione al termine “teismo” con cui definivano le grandi religioni rivelate. In sostanza, per loro, si poteva arrivare a comprendere con la ragione sia che esiste un Dio che ha progettato il mondo come un grande architetto sia che l’uomo deve seguire dei precetti morali per poter vivere nella società, ma si negava che questo Dio si fosse mai rivelato agli uomini né avesse assunto forma umana. Il Gesù dei cristiani, per loro, non era quindi il figlio di Dio, ma solo un maestro di saggezza che ha insegnato norme morali molto profonde, senza però risorgere né compiere miracoli. Sono significativi a tale proposito due scritti dedicati a questo argomento da filosofi illuministi: Il Cristianesimo senza misteri, scritto dall’inglese John Toland sul finire del Seicen-

to, nel quale si affermava che nulla di quanto raccontato nei vangeli dovesse andare contro la ragione, e La religione nei limiti della semplice ragione, pubblicato circa un secolo dopo da Immanuel Kant.

Dalla religione razionale alla tolleranza universale

Dando seguito a queste idee, Voltaire (1694-1778), il più celebre degli illuministi francesi, predicava una religione universale, uguale per tutti gli uomini proprio perché fondata sulla ragione che tutti gli uomini possiedono. Una simile religione avrebbe fatto piazza pulita delle religioni storiche, differenti tra loro, ma ognuna con la pretesa di essere l’unica vera, e, con esse, di tutte le guerre di religione. Se tutta l’umanità avesse aderito a questa nuova religione “razionale”, sarebbero finiti guerre e contrasti e sarebbe iniziata un’età di pace e di tolleranza fra tutti i popoli.

La lotta contro la Chiesa e i gesuiti

Contro le religioni storiche, in particolare contro il Cristianesimo, molti illuministi, a partire da Voltaire, ingaggiarono una lotta serrata. L’influenza della religione cristiana nella società era vista come un ostacolo all’affermazione delle loro teorie. Da qui le battaglie contro quello che consideravano l’oscurantismo della Chiesa, battaglie condotte attraverso libri, giornali, discorsi pubblici, ma

Perché secondo

Voltaire dal deismo

sarebbe derivata un’età di pace e di tolleranza?

Oscurantismo

Atteggiamento di ostilità nei confronti del progresso, del sapere e della cultura. Festa in onore dell’Essere Supremo celebrata

l’8 giugno 1794

Bibliothèque Nationale de France, Parigi

Durante la rivoluzione francese fu introdotto il culto dell’Essere supremo, una divinità concepita secondo le idee del deismo.

Perché gli illuministi combatterono

contro la Chiesa e in particolare contro i gesuiti?

anche cercando di influenzare i sovrani europei disposti a prestare loro ascolto, allo scopo di indirizzarli verso una politica antiecclesiastica. Bersaglio principale dei loro attacchi furono in particolare i gesuiti che costituivano l’ordine religioso più agguerrito e in grado, sul piano culturale e scientifico, di controbattere alle loro teorie, anche per l’enorme influenza che essi avevano sia nelle corti che negli ambienti scolastici. Contro i gesuiti essi scatenarono una vera e propria campagna diffamatoria, accusandoli di ogni sorta di misfatto (perfino di organizzare attentati), al punto che molti sovrani (il primo fu il re del Portogallo) si convinsero ad espellerli dal loro territorio. Alla fine, spinto da questi sovrani, lo stesso papa Clemente XIV fu costretto a sopprimere temporaneamente la Compagnia di Gesù (1773).

La Massoneria: una società segreta molto attiva e ramificata Nella lotta contro la Chiesa cattolica un ruolo rilevante ebbe anche una società segreta, la Massoneria, nata nel 1717 in Inghilterra, e legata in modo molto stretto agli ambienti illuministici. La Massoneria traeva origine dalla corporazione medievale dei muratori, ma nel XVIII secolo essa assunse caratteristiche molto diverse. Divenne una setta segreta, i cui adepti, raccolti in gruppi ristretti chiamati “logge”, agivano per vie occulte (usando anche un linguaggio segreto) allo scopo di combattere contro coloro che essi definivano “tiranni” (i sovrani assoluti) e “superstizioni” (le religioni). In particolare questa lotta fu condotta dalle logge massoniche nei paesi latini deve più forte era la presenza del Cattolicesimo. Questa associazione raccoglieva aderenti soprattutto presso l’aristocrazia e l’alta borghesia, dove si ramificò moltissimo, mentre il popolo ne era sostanzialmente estraneo; tuttavia, nonostante questo, essa riuscì a condizionare enormemente la società del tempo soprattutto influenzandone gli ambienti politici. Basti dire che il primo ministro portoghese che decretò l’espulsione dei gesuiti dal suo paese, il marchese di Pombal, ne era uno dei più importanti esponenti.

3 · Il pensiero

politico,

economico e giuridico e la sua diffusione

Montesquieu: uno dei padri della moderna democrazia

In campo politico il pensatore più significativo dell’Illuminismo fu il barone di Montesquieu (1689-1755) che formulò il suo pensiero in un’opera divenuta celebre, Lo spirito delle leggi. In questo scritto egli criticava le forme politiche ereditate dal passato e in particolare condannava l’assolutismo monarchico. A suo avviso, affinché uno stato possa funzionare al meglio, garantendo demo-

crazia e libertà per i cittadini, il potere legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario devono essere attribuiti a organismi differenti che li esercitano in modo autonomo. Viceversa uno stato diventa tirannico quando non si verifica questa distinzione dei poteri e in sostanza chi fa le leggi è anche chi ne dà esecuzione e ne giudica i trasgressori. Non si trattava quindi di rifiutare la monarchia, ma di esigere che essa esercitasse poteri molto limitati. Una sorta quindi di monarchia costituzionale simile a quella inglese. Questa intuizione è ritenuta alla base di ogni moderna democrazia, ma a quel tempo non ebbe molto successo. Anche i sovrani che avevano simpatie per gli illuministi e che attuarono riforme da loro ispirate, infatti, si guardarono bene dall’accettare una limitazione dei loro poteri.

La teoria del libero scambio in economia

Un altro aspetto meritevole di essere approfondito riguarda l’economia. In questo campo alcuni studiosi ispirati all’Illuminismo sostennero che bisognava abolire i dazi e ogni forma di controllo dello stato sull’economia. In tal modo le merci sarebbero circolate

Riunione massonica con i simboli delle principali logge massoniche

Tavola del XVIII secolo, Musée des Arts Decoratifs, Parigi

Perché per Montesquieu è fondamentale la divisione dei poteri?

Dazio Imposta pagata al momento dell’introduzione in uno stato di merce proveniente dall’estero.

Perché per i liberisti lo stato non doveva esercitare alcun controllo sull’economia?

liberamente e i prezzi dei prodotti sarebbero stati dettati unicamente dalla legge della domanda e dell’offerta (cioè se un prodotto è molto richiesto ed è disponibile in quantità ridotta, il suo prezzo sale, altrimenti avviene il contrario). Ciò avrebbe favorito anche la libera concorrenza e avrebbe dato slancio alle attività produttive e commerciali portando indubbi vantaggi all’economia e, di riflesso, all’intera società. Questa teoria prese il nome di “libero scambio” e diede vita a una corrente di pensiero economico chiamata liberismo, legata soprattutto al nome dell’economista scozzese Adam Smith.

L'opera di Cesare Beccaria in campo giuridico

Perché per Beccaria è importante abolire la tortura?

Nel campo del diritto e delle leggi fu importante l'opera del milanese Cesare Beccaria, che in un celebre libro intitolato Dei delitti e delle pene, introdusse idee e proposte alquanto innovative soprattutto riguardo al significato e al valore da attribuire alle pene. Sostenne infatti che è più importante e utile per la società prevenire i delitti, impedire in anticipo che avvengano, piuttosto che limitarsi a punirli. Per questo le pene, più che a “vendicare” i reati commessi, devono servire a dissuadere i cittadini dal compierli con la minaccia di punizioni certe. Era inoltre necessario, a suo avviso, abolire la pratica della tortura negli interrogatori (pratica oltre che disumana, inutile e dannosa ai fini dell’accertamento delle colpe) e abolire, salvo casi rari e particolarmente gravi, la pena di morte. Le idee di Beccaria ebbero un certo seguito soprattutto in alcuni stati dove i sovrani cercarono di metterle in pratica nei loro ordinamenti giuridici.

La diffusione delle idee illuministe presso la borghesia: nasce l’opinione pubblica

Gli illuministi, inizialmente un gruppo piuttosto ristretto di intellettuali, mirarono a divulgare le loro idee all’interno della società conquistando ad esse soprattutto la classe borghese, desiderosa di assumere un ruolo sempre più attivo e di contrastare i privilegi e il predominio anche culturale dell’aristocrazia. Per questo utilizzarono nuovi strumenti di divulgazione, che ebbero una notevole efficacia in quanto raggiunsero pienamente i loro obiettivi. In breve tempo si creò, in ambito borghese, un’opinione pubblica nettamente favorevole al pensiero illuministico e decisamente influente nella società. Si trattava di un fenomeno del tutto nuovo rispetto al passato: mai infatti fino ad allora un così grande numero di persone era stato coinvolto in dibattiti di carattere culturale, riguardanti l’andamento generale della società, e avevano potuto esercitare un’influenza sulle scelte politiche dei governanti. Questa del peso e dell’influenza dell’opinione pubblica formata attraverso il dibattito e i mezzi di comunicazione è quindi un’altra caratteristica della società moderna, frutto dell’Illuminismo.

Il ruolo della stampa, i salotti e i caffè

Gli strumenti per questa operazione furono tanti. Innanzitutto i giornali. Sorsero ovunque, a partire dall’Inghilterra di fine Seicento, giornali e riviste che aumentarono sempre più la loro tiratura e diffusione. Su di essi si discuteva di problemi di attualità, di politica e di economia, di letteratura e filosofia. Si stampavano anche appositi fascicoli detti pamphlets che trattavano singoli argomenti di attualità e che venivano addirittura venduti per le strade. Queste pubblicazioni erano lette anche in luoghi pubblici dove si discuteva e si dibatteva dei problemi: sale di lettura, salotti della nobiltà o della borghesia, foyer dei teatri, soprattutto i caffè, nuovi luoghi di ritrovo della borghesia in cui, oltre a discutere, si sorseggiava questa nuova bevanda allora alla moda, ma anche piuttosto costosa, ritenuta molto utile perché stimolante per la mente, senza condurre, come l’alcool, all’ubriachezza.

L’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert

Il principale strumento di divulgazione delle idee degli illuministi fu però l’Enciclopedia (il titolo completo era Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri ) una imponente raccolta in più volumi, 17 di testo e 11 di tavole illustrate, in cui si trattavano secondo l’interpretazione della filosofia illuministica tutti i princi-

Frontespizio del Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini di Jean Jacques Rousseau

Edizione del 1755, Archivio della società Jean-Jacques Rousseau, Ginevra

Foyer sala di intrattenimento posta all’ingresso dei teatri e utilizzata dal pubblico prima dello spettacolo e durante gli intervalli.

Perché fu importante l’Enciclopedia?

pali argomenti allora in discussione nei vari campi del sapere e dell’attività umana. Il suo scopo era quello di presentare ordinatamente lo scibile umano per “cambiare il modo di pensare comune”. Le singole voci erano redatte da esperti nei vari campi, in tutto 139, e tra questi anche Voltaire e Rousseau, coordinati da Denis Diderot e Jean Baptiste d’Alembert. L’Enciclopedia ebbe vita particolarmente difficile in Francia in quanto la sua pubblicazione fu ostacolata dall’intervento della censura reale e da quella ecclesiastica. Nel 1772 venne infine completata (era iniziata nel 1751) e diede un contributo decisivo all’affermazione dell’Illuminismo in tutta Europa.

La visione negativa del progresso secondo Rousseau

Perché per Rousseau la proprietà privata è negativa?

Un filosofo di grande successo ma dalle idee piuttosto originali e controverse fu lo svizzero Jean Jacques Rousseau (1712-1778). Costui esprimeva, al contrario degli illuministi, una visione piuttosto negativa del progresso e della società. A suo avviso infatti la vita in società corrompe l'uomo e lo rende infelice. Se l'uomo potesse vivere al di fuori della società, in una condizione che lui chiama "naturale", non sarebbe all'affannosa ricerca delle ricchezze e delle proprietà. Non penserebbe di possedere nulla e vivrebbe solo di ciò che offre la natura. Al contrario, vivendo in mezzo agli altri uomini finisce per attaccarsi ai beni e agli oggetti che ha intorno per considerarli sua proprietà privata e quindi sottrarli agli altri che pure li desiderano. Questo fa nascere scontri, guerre, violenze e prevaricazioni.

L'importanza e la funzione dello stato

Siccome è impossibile immaginare che gli uomini vivano in uno stato naturale, isolati dagli altri, occorre trovare un'altra soluzione per impedire le guerre e le violenze e Rousseau pensa che questa soluzione stia nello stato che, con le sue leggi e la sua autorità, può costringere i cittadini a vivere fianco a fianco senza farsi del male. Ma perché lo stato nasca e funzioni occorre che i cittadini rinuncino alle loro pretese di possedere tutto e, come se firmassero una specie di contratto (lui lo chiama contratto sociale), affidino all'autorità dello stato il compito di governare su tutti. Rousseau afferma che così lo stato finisce per esprimere la volontà generale che dovrebbe garantire il bene per tutti, limitando le pretese dei singoli individui. A questa volontà tutti i cittadini devono piegarsi.

Democrazia o inizio del totalitarismo?

Totalitarismo

Termine indicante quella condizione politica nella quale chi detiene il potere ha il controllo totale e assoluto della società e della vita dei cittadini.

Questa di Rousseau potrebbe sembrare la descrizione di un governo democratico nel quale i cittadini scelgono chi li governa e stabilisce le leggi per una convivenza pacifica. In realtà, secondo alcuni studiosi questa idea esprimerebbe una visione totalitaria dello stato nella quale non c'è spazio di libertà per chi non è d'accordo con le idee della maggioranza. Infatti mentre in un sistema demo-

cratico chi governa è l'espressione della volontà della maggioranza, a cui si può opporre in un libero confronto la volontà della minoranza che non è d'accordo, nel sistema rousseauiano invece si parla di volontà generale (cioè di tutti) e quindi l’individuo e le minoranze non hanno alcuna possibilità di opposizione e devono piegarsi a tale volontà anche quando non sono d'accordo. Non possono godere di nessuna libertà se non condividono le idee della maggioranza. Si tratta naturalmente di in problema complesso che non va però taciuto e che avrà degli immediati sviluppi già qualche decennio dopo con lo scoppio della rivoluzione francese.

4 · Gli illuministi cambiano la società: le riforme dei sovrani “illuminati”

Riformismo, ma anche dispotismo

Le idee dell’Illuminismo, sviluppatesi soprattutto in Francia, ma osteggiate dalla monarchia francese, trovarono ascolto presso altri sovrani europei, che ospitarono nella loro corte filosofi e intellettuali illuministi, ne studiarono il pensiero, ne seguirono i consigli. Ispirati da loro, e facendo buon uso della ragione, questi sovrani attuarono riforme a volte molto importanti, allo scopo di rendere più efficiente il governo e il funzionamento dei loro stati e di controlla-

Riunione dell’Accademia dei Pugni

Olio su tela di Antonio Perego (1766), collezione sormani Andreani Verri

L’Accademia dei Pugni fu un importante circolo culturale che raccoglieva i maggiori intellettuali illuministi milanesi. Nel dipinto si riconoscono Alessandro Verri (il secondo da sinistra), Cesare Beccaria (il quarto da sinistra) e Pietro Verri (il secondo da destra).

Concerto di flauto di Federico II davanti alla sua corte presso la residenza di Sans Souci a Potsdam

Olio su tela di Adolph Menzel (1850-52), Alte

Nationalgalerie, Berlino

Perché si parla di riformismo illuminato?

Dispotismo

Governo di un tiranno o anche di un re con pieni poteri che impone anche con la forza o la violenza la propria autorità su tutti i sudditi.

re e organizzare al meglio la vita dei sudditi. Tra queste, ad esempio, l’eliminazione dei dazi sui commerci, il miglioramento del sistema dell’istruzione per diffondere il sapere, la riforma del sistema giudiziario per renderlo più equo. Va detto però che, nonostante questi interventi per cui gli storici hanno parlato di “riformismo illuminato”, i sovrani riformatori rimasero sempre dei monarchi assoluti, cioè continuarono a concentrare nelle loro mani tutti i poteri e si guardarono bene dal realizzare quella separazione di essi richiesta proprio dal più significativo tra i pensatori illuministi, il barone di Montesquieu. Per tale ragione si può giustamente definirli oltre che riformatori anche “despoti illuminati”.

La Prussia di Federico II

Federico II regnò in Prussia dal 1740 al 1786 e fu un grande ammiratore di Voltaire che ospitò per alcuni anni nella sua reggia a Potsdam. Si dedicò, con una serie di riforme, alla modernizzazione dello stato prussiano; abolì la tortura, fondò nuovi istituti di istruzione superiore, favorì lo sviluppo economico potenziando la rete dei trasporti, migliorò l’organizzazione delle forze armate rendendo il suo esercito uno dei più efficienti e disciplinati d’Europa. Non intaccò tuttavia il potere dei nobili latifondisti, gli junker, che continuavano a mantenere i loro privilegi spadroneggiando sui contadini, e che rimanevano ai vertici della società prussiana.

Spregiudicato in politica estera, ebbe di mira il rafforzamento del suo potere e dell’influenza della Prussia in Europa, spesso senza ri-

spettare nei suoi comportamenti le norme che tradizionalmente regolavano i rapporti tra gli stati. Questo si vede in modo particolare quando, senza alcun preavviso e senza una dichiarazione ufficiale di guerra, invase la Slesia dando inizio alla Guerra di successione austriaca.

L’Austria di Maria Teresa e di Giuseppe II

Ben più ampie e profonde rispetto a Federico II furono le riforme attuate nell’Impero Asburgico dall’imperatrice Maria Teresa, che regnò dal 1740 al 1780, e dal figlio Giuseppe II che le succedette sul trono nei dieci anni successivi. Pur dovendo gestire un impero vasto e con molti problemi (primo fra tutti quello di garantire la sottomissione e la convivenza di molti popoli di diverse etnie al suo interno), questi due sovrani seppero operare con grande decisione per dare una migliore organizzazione ed efficienza allo stato. Maria Teresa fra l’altro riorganizzò la pubblica amministrazione, introdusse l’istruzione obbligatoria, fissò per legge l’entità degli obblighi che i contadini avevano verso i signori in modo che questi ultimi non spadroneggiassero. Limitò in tal modo i poteri dei nobili ai quali impose il pagamento delle tasse calcolate in proporzione alle loro proprietà. Per questo istituì il catasto, una registrazione ufficiale, precisa e rigorosa di tutte le proprietà fondiarie su cui poi calcolare l’entità dei tributi.

Ancora più avanti si spinse Giuseppe II che abolì la censura, la pena di morte e la servitù della gleba. In campo religioso concesse l’emancipazione agli ebrei e una limitata tolleranza verso le confessioni non cattoliche. Cercò invece di sottomettere alla sua volontà la Chiesa cattolica attuando una politica che verrà definita giurisdizionalistica (e che a quel tempo, dal suo nome, venne detta “Giuseppinismo”). Controllò le nomine dei vescovi, soppresse gli ordini religiosi non dediti all’istruzione e all’assistenza, istituì seminari di stato per l’istruzione dei sacerdoti, arrivò persino ad occuparsi delle processioni, delle feste, di quante messe si dovessero celebrare ogni giorno, di come si dovessero suonare le campane. Questi comportamenti gli meritarono il soprannome di “re sacrestano”.

Va detto che questa sua politica piuttosto aggressiva gli procurò molti nemici e ostilità (tra cui quella del papa) e che alla sua morte, il successore, il fratello Leopoldo II, preoccupato di queste reazioni, annullò gran parte delle sue riforme.

L’ascesa della Russia con Pietro il Grande e l’opera di Caterina II

Alla fine del XVII secolo la Russia si presentava ancora come una nazione allo stato semibarbarico, chiuso ad ogni contatto con l’Occidente. In essa i nobili detenevano un grande potere e il possesso di vastissimi feudi nei quali era ancora praticata la servitù del-

Perché si dice che il comportamento in politica estera di Federico II fu spregiudicato?

Emancipazione Liberazione da vincoli, obblighi e costrizioni anche legislative.

Perché fu istituito il catasto?

Perché Giuseppe II fu soprannominato “re sacrestano”?

Pietro I il Grande, zar di Russia, mentre taglia la barba a un nobile

Miniatura del 1700

Pietro il Grande, ammiratore dei costumi occidentali, impose anche nella moda le usanze europee. Obbligò perciò tutti i nobili a tagliarsi le barbe che erano soliti portare molto lunghe.

Ritratto di Caterina II e Pietro III

la gleba. Il clero ortodosso poi esercitava un forte controllo sullo stato e sulla vita pubblica. Un grande rinnovamento si ebbe con lo zar Pietro I il Grande che regnò dal 1689 al 1725. Questi, profondo ammiratore della civiltà occidentale, impose con forza la modernizzazione del paese, creando uno stato accentrato e burocratico e cercando di limitare l’influenza della nobiltà, che naturalmente si oppose. Per sfuggire all’influenza del clero ortodosso egli decise di creare, lontano da Mosca, una nuova capitale in cui risiedere, San Pietroburgo, e chiamò per la sua costruzione celebri architetti dalla Lombardia e dalla Svizzera italiana. Nelle sue intenzioni la nuova capitale doveva essere una porta aperta sull’Occidente. Nel 1709 una travolgente vittoria contro gli invasori svedesi nella battaglia della Poltava gli diede la definitiva consacrazione a grande sovrano e fece entrare la Russia di diritto nel gruppo dei più influenti stati europei.

L’opera di Pietro il Grande qualche decennio dopo fu continuata, anche se con minor successo, dall’imperatrice Caterina II che salì al

potere nel 1762, dopo aver fatto imprigionare l’inetto marito Pietro III, morto poi in carcere in circostanze misteriose. Caterina II non riuscì ad andare oltre alcune riforme di scarso rilievo. Attuò la confisca dei beni della Chiesa Ortodossa, ma non riuscì a sottomettere i nobili. Al contrario dovette chiedere il loro aiuto quando si trovò a fronteggiare una rivolta contadina scoppiata nell’area sud orientale del paese e guidata dal capo cosacco Pugaciov che si faceva passare per Pietro III misteriosamente sfuggito alla morte. Caterina riuscì a sedare la rivolta (Pugaciov venne giustiziato), ma questa guerra le impedì di portare avanti le sue intenzioni riformistiche.

5 · Le guerre dei sovrani illuminati

Guerre di successione e di equilibrio

Le speranze di pace duratura suscitate dal trattato di Westfalia non si realizzarono. Senza più un imperatore sufficientemente forte da vigilare e imporre la sua volontà sui vari stati, scoppiarono ben presto nuove e frequenti guerre. I vari sovrani europei infatti consideravano gli stati come delle loro eredità, perciò alla morte di un re privo di eredi, scoppiavano facilmente delle dispute riguardo a chi avesse diritto di ereditarne i domini, dispute che spesso portavano a delle vere e proprie guerre, dette “di successione”. Questo perché le famiglie reali europee erano un gruppo di poche centinaia di persone che da secoli s’imparentavano tra loro e quindi era facile a molti avanzare pretese su un trono rimasto vacante. Queste guerre funestarono il XVIII secolo coinvolgendo quasi tutti i paesi europei e estendendosi anche nelle loro colonie. Era inoltre importante che nessuno stato diventasse troppo più forte degli altri e, quando ciò avveniva, gli altri sovrani si alleavano allo scopo di isolare o metter in difficoltà chi stava crescendo troppo. Per le medesime ragioni le stesse alleanze potevano, da un momento all’altro, rompersi e capovolgersi.

Molte, ma dagli effetti più limitati

Nel complesso queste guerre, seppur numerose, risultarono meno devastanti rispetto al passato per una serie di motivi. Innanzitutto non erano causate da motivazioni religiose o ideologiche per cui non vi era quasi mai la volontà di annientare il nemico, ma solo di costringere alla resa il sovrano avversario per sottrargli territori o per imporgli la propria superiorità. In secondo luogo i sovrani che combattevano avevano tutto l’interesse a rispettare i territori contesi, quindi le città e le campagne, perché erano consapevoli che in un futuro, in caso di vittoria, si sarebbero trovati loro a doverli governare e sarebbe stato sicuramente meglio trovarli in buone condizioni e non devastati. Se, infine, rimane vero che una

Confisca È l’appropriazione, da parte dello stato, di beni appartenenti ai cittadini, a enti o associazioni (in questo caso si tratta dei beni, soprattutto immobili, appartenenti alla Chiesa).

Cosacchi

Popolazione nomade di origine tartara insediatasi, a partire dal XV secolo nella Russia meridionale, lungo i corsi dei fiumi Dnepr e Don.

Perché Caterina II non riuscì a portare avanti le riforme?

Perché scoppiarono le guerre di successione?

buona parte di questi eserciti risultava composta da mercenari, era anche vero che il comando delle truppe era nelle mani dei nobili che seguivano ancora nel combattimento codici cavallereschi per i quali vigeva il rispetto di certe regole legate al senso dell’onore. Non vi era quasi mai un sentimento di odio fra di loro: anche se parte di eserciti opposti, infatti, condividevano il senso della comune appartenenza all’aristocrazia e non di rado si incontravano nobili che combattevano per sovrani diversi dai loro. Inoltre mentre nei due secoli precedenti gli eserciti si rifornivano razziando e saccheggiando i territori che attraversavano, nel secolo XVII cominciò a essere militarmente più efficace dotare le truppe di servizi organizzati di vettovagliamento che provvedevano al cibo per gli uomini e al foraggio per i cavalli, tramite requisizioni e acquisti. Per questo, pur non eliminati del tutto, i maltrattamenti nei confronti della popolazione civile, soprattutto dei contadini, si ridussero di molto.

Le guerre di successione spagnola e polacca

La prima di queste guerre di successione fu quella per il trono di Spagna (dal 1701 al 1714) cui fece seguito quella polacca (1733-1738). Entrambi questi conflitti scoppiarono quando la Francia cercò di imporre dei propri candidati alla successione ai due troni. Contro di essa si formarono coalizioni di vari stati che, sostenendo le pretese di altri candidati, le mossero guerra, finendo per prevalere.

Le conseguenze per l’Italia

Queste due guerre furono importanti anche per le sorti degli stati italiani. Alcuni di essi passarono nel 1714 dalla dominazione spagnola a quella austriaca. Sempre in questa occasione i Savoia, che erano stati alleati dell’Impero, ottennero la Sicilia che nel 1720 scambiarono con la Sardegna, mutando il loro Ducato in Regno di Sardegna, nome col quale entreranno nella storia più recente dell’Italia. Successivamente il Granducato di Toscana finì a Francesco di Lorena marito della futura imperatrice Maria Teresa, mentre il Vicereame di Napoli finì al figlio del re di Spagna Carlo di Borbone. Chi però più si avvantaggiò maggiormente da questi conflitti fu l’Inghilterra che ampliò i suoi domini coloniali e riaffermò il suo controllo su Gibilterra.

La Guerra di successione austriaca (1740-1748)

Il conflitto successivo scoppiò quando alcuni sovrani europei, primo fra tutti Federico II di Prussia, si rifiutarono di accettare la salita la trono imperiale di Maria Teresa, che il padre, l’imperatore Carlo V, aveva nominato sua erede nonostante fosse una donna e ciò fosse vietato dalle consuetudini dinastiche. Fu la guerra per la successione austriaca iniziata nel 1740 con l’attacco proditorio di Federico II alla Slesia e conclusa nel 1748, con la Pace di Aquisgra-

na. Con essa Maria Teresa era riconosciuta da tutti i sovrani in conflitto come nuova legittima imperatrice d’Austria, ma in cambio Federico II riceveva la ricca regione della Slesia, dando inizio alla grande ascesa della Prussia.

La Guerra dei Sette Anni (1756-1763) e la spartizione della Polonia

Dopo soli otto anni, Francia e Impero, da sempre rivali, si allearono contro la Prussia per limitarne la potenza. Nacque così la Guerra dei Sette Anni che coinvolse anche l'Inghilterra a fianco della Prussia e che si combatté anche in America Settentrionale. Al termine di questa guerra l'Inghilterra ottenne nuove colonie in America: dalla Francia ottenne il Canada e dalla Spagna la Florida.

L’ultimo evento importante del secolo fu la spartizione della Polonia, che dal 1795 non esisterà più come stato indipendente. Verrà frazionata in tre parti assegnate rispettivamente a Russia, Austria e Prussia.

Perché scoppiò la Guerra di successione austriaca?

Perché scoppiò la Guerra dei Sette Anni?

Perché l’Inghilterra trasse i maggiori vantaggi dalle guerre di successione?

Minorca occupata dagli Inglesi durante la Guerra dei Sette Anni

Incisione del XVIII secolo, Musée national de la Marine, Parigi

Perché l’applicazione del catasto contribuì ad aumentare la produzione agricola?

6 · L’Illuminismo in Italia: un illuminismo moderato

Un quadro non uniforme

L’Italia, dopo le guerre di successione, conobbe un assetto stabile che le garantì alcuni decenni di pace. Durante questo periodo, le idee illuministiche ebbero modo di diffondersi anche nella penisola, influenzando l’azione di alcuni tra i più significativi governanti che avviarono riforme sulla scia di quelle attuate negli altri stati europei. In questo processo riformatore si segnalarono il Ducato di Milano, il Granducato di Toscana e il Regno di Napoli mentre ne rimasero estranei il Regno di Sardegna, lo Stato Pontificio (anche se papa Pio VI avviò l’importante bonifica delle Paludi Pontine) e le repubbliche di Venezia e di Genova. Quest’ultima, ormai in pieno declino economico, dovette cedere nel 1768 la Corsica alla Francia.

Milano sotto il governo austriaco

In Lombardia vi fu una grande stagione di riforme grazie all’amministrazione austriaca che sostituì quella spagnola. Maria Teresa e Giuseppe II intervennero per dare efficienza e funzionalità al governo dello stato; favorirono lo sviluppo economico abolendo le corporazioni (che ormai, a differenza che nel Medioevo, erano divenute un pesante fardello che ostacolava i liberi commerci) e favorendo il sorgere delle prime aziende a carattere industriale. L’attuazione del catasto spronò i nobili proprietari terrieri a rendere più produttivi i loro terreni, coltivando anche le terre prima lasciate incolte. Con le maggiori entrate dovute al fatto che ora anche la nobiltà era sottoposta all’esazione fiscale, si costruirono opere di pubblica utilità quali strade e canali per l’irrigazione e si bonificarono zone paludose, rendendole produttive.

La vita culturale milanese

Anche sul piano culturale Milano divenne una città all’avanguardia. Sotto il tollerante governo austriaco sorsero associazioni culturali e accademie, si pubblicarono riviste (tra cui la più celebre Il caffè) che svilupparono un intenso dibattito sui più svariati argomenti. Si realizzò il Teatro alla Scala. Fiorì l’opera di grandi intellettuali quali il poeta Giuseppe Parini, fautore di una critica serrata al ruolo passivo della nobiltà, lo storico Pietro Verri e il giurista Cesare Beccaria di cui abbiamo già parlato.

In generale, come si può ben vedere, la cultura milanese di questo periodo era sicuramente all’avanguardia in Italia anche se, si deve dire, l’Illuminismo degli intellettuali milanesi fu moderato e mai estremista come invece era quello dei loro colleghi francesi. Non arrivarono mai, ad esempio, ad attaccare ferocemente la Chiesa, anzi, alcuni tra essi, come il Parini, erano degli ecclesiastici. La loro

Bergamo

Torino

Genova Venezia Milano

Duc. di Parma Duc. di Modena

(Savoi a )

R e g n o d i S a r d e g n a

Rep. di Genova

Rep. di Lucca

Princ. di Monaco

Firenze

Granducato di Toscana (Asburgo di Lorena)

Stato della Chiesa

Rep. di Ragusa

posizione poi, nei confronti di quelli che giudicavano essere i mali della società, era costruttiva: si occupavano di problemi molto concreti, proponendo incontri, studi, dibattiti, leggi innovative, favoriti in ciò dall’atteggiamento tollerante del governo austriaco. Erano infine alieni da ogni idea rivoluzionaria e di cambiamento radicale della società, come da ogni linguaggio violento e aggressivo.

L’azione di Pietro Leopoldo a Firenze

A Firenze le riforme in senso illuministico furono portate avanti dal Granduca Pietro Leopoldo, figlio di Maria Teresa. Costui governò il paese fino al 1790 prima di succedere al fratello Giuseppe II sul trono imperiale.

Negli anni del suo governo in Toscana ridusse i privilegi della nobiltà e del clero, abolendo anche il tribunale dell’inquisizione; diede grande impulso all’agricoltura attuando bonifiche e favorendo il libero commercio del grano (qualche anno prima a Firenze era stata fondata una scuola di studi agricoli di grande importanza, l’Accademia dei Georgofili); varò un nuovo codice penale che riprendeva le idee di Cesare Beccaria.

Difficoltà incontrò invece quando tentò di sottomettere la Chiesa toscana alla sua volontà, sopprimendo gli ordini religiosi, vietando le processioni e i pellegrinaggi, riducendo le funzioni dei tribunali

L’Italia dopo la Pace di Aquisgrana (1748)

Perché si dice che l’Illuminismo milanese era moderato?

Mar Tirreno
Mare Adriatico
Mar Ionio
Mar Mediterraneo
Roma Napoli
Palermo
Regno di Napoli (Borboni di Napoli)
Sicilia (Borboni di Napoli)
Ducato di Milano (Asburgo)
Ducato di Mantova

Perché fu importante l’opera di Carlo di Borbone nei confronti della popolazione del Regno di Napoli?

ecclesiastici che giudicavano i reati commessi da membri del clero. Queste riforme non incontrarono il favore della popolazione ed egli fu costretto a rinunciarvi.

Il riformismo nel Regno di Napoli

Altro centro del riformismo illuminato in Italia fu il Regno di Napoli e di Sicilia dove Carlo di Borbone si fece consigliare da un accorto politico, Bernardo Tanucci, e da validi esperti nei vari campi quali l’economista e filosofo Antonio Genovesi e i giuristi Gaetano

Filangieri e Pietro Giannone. Anche il suo successore Ferdinando IV continuò la politica paterna limitando i privilegi del clero e realizzando opere pubbliche e assistenziali come ospedali, ponti, strade di collegamento fra le principali città. Furono inoltre costruiti il celebre Teatro San Carlo a Napoli e la splendida reggia di Caserta, realizzata dall’architetto Luigi Vanvitelli sul modello di Versailles. Con Carlo di Borbone la popolazione del Regno acquisì forse per la prima volta la consapevolezza di far parte di uno stato italiano a tutti gli effetti e non più di essere sotto una dominazione straniera.

L’interno del Teatro

San Carlo di Napoli

Edificato nel 1737, è il più antico teatro d'opera in Europa

ancora attivo ed è stato riconosciuto dall’unesco come patrimonio dell'umanità.

PARTIAMO DALLE FONTI

La critica all’assolutismo

nell’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert

Molte voci contenute nell’Enciclopedia suscitarono discussioni accanite e violente opposizioni; in particolar modo quelle che trattavano temi politici e religiosi. Fu soprattutto a causa di queste parti che l’opera subì numerosi interventi censori sia da parte delle autorità che degli stessi editori. Proponiamo di seguito la lettura di alcuni estratti della voce riguardante l’autorità politica, redatta dallo stesso Diderot, nella quale si afferma in modo esplicito come l’origine del potere risieda nel popolo al quale anche il sovrano deve sottostare. In caso contrario si tratterebbe di una forma di violenza che va contro la legge stessa della natura.

«Nessun uomo ha ricevuto dalla natura il diritto di comandare sugli altri. La libertà è un dono del cielo e ogni individuo appartenente a una medesima specie ha il diritto di fruirne non appena comincia ad avere l’uso di ragione. se esiste un’autorità che la natura ha instaurato, è la patria potestà [cioè l’autorità del padre sul proprio figlio fin quando il figlio è incapace di provvedere a se stesso]. Ogni altra autorità non è da natura. A ben guardare la si farà sempre risalire ad una di queste due cause: la forza e la violenza di colui che se ne è impossessato, oppure il consenso di coloro che vi si sono sottomessi. Il principe riceve dai suoi stessi sudditi l’autorità che esercita su di essi; e tale autorità è limitata dalle leggi della natura e dello stato. Il principe non può dunque disporre del suo potere e dei suoi sudditi senza il consenso della nazione». Adatt

L’intervento censorio di Luigi XV

A seguito della pubblicazione dei primi due volumi nei quali erano contenute voci come la precedente e altre, altrettanto dirompenti, il Consiglio di stato del re Luigi XV emise un decreto col quale veniva proibita la stampa e la diffusione dell’opera. Ecco una parte dell’atto di soppressione emanato il 7 febbraio del 1572.

«sua Maestà ha constatato che in questi due volumi sono state inserite parecchie massime [idee] tendenti a distruggere l’autorità reale, a instaurare

uno spirito di indipendenza e di rivolta e, in modo oscuro ed equivoco, ad ampliare le fondamenta dell’errore; sua Maestà, sempre attenta a ciò che riguarda l’ordine pubblico e l’onore della religione, ha giudicato opportuno interporre la propria autorità per prevenire le possibili conseguenze di massime così pericolose, sparse in quest’opera; volendo a ciò provvedere ha ordinato e ordina che i primi due volumi dell’opera [Si trattava di quelli fino ad allora pubblicati] saranno e resteranno soppressi. Fa esplicita proibizione e divieto a tutti gli stampatori, librai o altri, di stampare o far ristampare i suddetti due volumi, e così pure di vendere, spacciare, o distribuire in altro modo le copie stampate loro rimaste».

Adatt

Incisione di Pierre-Michel Alix

Diderot
(1793), British Museum, Londra

NON TUTTI SANNO CHE

I durissimi attacchi di Voltaire contro gli ebrei

Tollerante a senso unico?

Voltaire è passato alla storia come uno dei paladini della tolleranza e della lotta contro ogni fanatismo, e questo è in parte vero. Per la verità in tale lotta non sempre però utilizzava un linguaggio a sua volta tollerante, visto che non esitava a definire “infame” la Chiesa cattolica e a servirsi consapevolmente di accuse false quando doveva attaccare qualche suo avversario. soprattutto, però, la sua tolleranza si riversava quasi esclusivamente sul mondo occidentale; chi non apparteneva a tale mondo era oggetto di feroci accuse che rasentavano il razzismo. Fu questo il caso degli ebrei nei confronti dei quali il suo spirito tollerante venne decisamente meno. Nei suoi scritti, in particolare nel Dizionario filosofico, vi sono decine di voci nelle quali questo popolo è definito «ignorante e barbaro», «il più abominevole popolo del mondo», «piccolo popolo nuovo, incolto, rozzo, da sempre e per sempre ignorante, in materia di belle arti». Agli ebrei antichi egli attribuiva l’usanza di cibarsi di carne umana, a quelli moderni rivolgeva la nota accusa di essere usurai e «rigattieri» che rivoltavano la storia a loro vantaggio.

Verso il razzismo

Anche contro i neri Voltaire espresse opinioni ferocemente razzistiche. Essi sono tranquillamente definiti da lui «animali» e «specie mostruose nate da abominevoli amori tra donne e scimmie» e nel Saggio sui costumi giustifica lo schiavismo affermando che i neri “per natura” sono schiavi degli altri uomini e che «come bestie, vengono acquistati sulla coste dell’Africa». Tenendo conto di tutte queste affermazioni uno dei maggiori storici dell’antisemitismo, Leon Poliakov, non sa capacitarsi di come invece il filosofo francese sia passato alla storia come il campione della tolleranza tra gli uomini. scrive a tale proposito: «È un mistero il fatto che Voltaire resti nel ricordo degli uomini come il principale apostolo della tolleranza, a dispetto di uno spietato esclusivismo occidentale a cui non si saprebbe dare altro nome che quello di razzismo». Come si vede quindi non sempre i giudizi tramandati nei secoli corrispondono alla realtà storica effettiva. Voltaire

PARTIAMO DALLE FONTI

La riforma del diritto penale di Cesare Beccaria

Cesare Beccaria pubblicò il suo libro Dei delitti e delle pene in forma anonima a Livorno, all’età di soli ventisei anni. In esso raccolse i frutti dell’insegnamento di Rousseau e Montesquieu, ma soprattutto dell’esperienza dell’amico Alessandro Verri che si occupava direttamente del sistema carcerario milanese e con il quale spesso aveva collaborato sulle pagine del giornale Il caffè. L’opera ebbe un successo notevole e meritò all’autore, ben presto venuto allo scoperto, grande fama internazionale accompagnata da polemiche e discussioni per il suo contenuto rivoluzionario. Di essa presentiamo alcuni tra i passaggi più significativi.

Qual è lo scopo delle pene

«Ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità, dice il grande Montesquieu, è tirannica. Ecco dunque sopra di che è fondato il diritto del sovrano di punire i delitti: sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari; e tanto più giuste sono le pene, quanto più sacra e inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva sui sudditi. È evidente che il fine delle pene non è di tormentare e affliggere un essere sensibile, né disfare un delitto già commesso. Le strida [grida di sofferenza] di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo [colpevole] di far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Devono essere scelte quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle che faranno una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini e la meno tormentosa sul corpo del reo».

Una politica di prevenzione

«È meglio prevenire i delitti che punirli. Questo è il fine principale di ogni buona legislazione, che è l’arte di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo d’infelicità possibile. Volete prevenire i delitti? Farete che le leggi siano chiare, semplici e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle. Fate che gli uomini le temano, e temano esse sole. Il timore delle leggi è salutare, ma fatale e causa di delitti è il timore di un uomo verso un altro uomo».

L’inutilità della pena di morte «uno dei più gran freni ai delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità. Non è l’intensità della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa. Non è il terribile, ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà [cioè uno condannato all’ergastolo] che, divenuto bestia di servigio [animale al servizio dello stato] ricompensa con le sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti». Adatt.

1. Qual è il fine delle pene?

2. Quali pene devono essere scelte?

3. In che modo si possono prevenire i delitti?

4. Perché è importante la certezza della pena?

5. Perché la pena di morte è inutile? Che cosa è più utile della pena di morte?

PROTAGONISTI

Maria Teresa d’Austria: una donna di grande energia alla guida di un impero difficile

Un inizio alquanto contrastato

Donna di grande decisione, forza ed equilibrio, Maria Teresa è da considerarsi come una delle più grandi sovrane dell’intera storia europea. Durante il suo lungo governo ella seppe mettere a frutto le qualità che possedeva e riformare ampiamente l’Impero, fino a renderlo uno stato moderno ed efficiente. Nonostante questi indubbi successi, tuttavia non si può dire che ebbe vita facile. Molte furono infatti le difficoltà che dovette affrontare già al momento di diventare imperatrice. Favorita dalla Prammatica Sanzione del padre, con la quale si sanciva il diritto di successione imperiale anche alle donne, la sua ascesa al trono fu contestata dagli altri sovrani europei, cominciando da Federico II di Prussia, che le mosse una lunga e

dolorosa guerra. Nel corso di questo conflitto, la Guerra di successione austriaca, Maria Teresa si trovò praticamente isolata a combattere, quasi da sola, contro molti nemici, ma non si perse d’animo. Guidando ella stessa in alcune occasioni l’esercito riuscì a resistere e a strappare agli avversari una pace onorevole con la quale ottenne il riconoscimento al trono imperiale e la nomina ad imperatore del marito Francesco di Lorena.

Riforme a tutto campo una volta divenuta imperatrice, governò di fatto al posto del marito, con grande spregiudicatezza e decisione, tentando, senza riuscirvi, di riconquistare la slesia, strappatale da Federico II. Tra una guerra e l’altra, si dedicò anche a un ampio pro-

gramma di riforme pressoché in tutti i campi, servendosi della collaborazione di importanti consiglieri quali il conte di Haugwitz e il principe di Kaunitz. L’intervento più significativo fu in campo fiscale con la decisione di imporre le tasse anche ai nobili, fino ad allora esentati, mediante il calcolo delle loro proprietà fondiarie. Queste vennero registrate ufficialmente attraverso l’istituzione del catasto che ancora oggi in Lombardia porta il suo nome. Intervenne anche in campo sanitario (con l’imposizione di nuove misure igieniche negli ospedali e nella sepoltura dei defunti, l’assistenza medica gratuita per le puerpere, cioè le donne che dovevano partorire, e i poveri nei territori dell’Austria e dell’ungheria, l’istituzione di corsi di preparazione per il personale sanitario); in quello giuridico (con un nuovo Codice civile e penale in cui si stabiliva l’abolizione della tortura e del marchio a fuoco per i prigionieri); in quello scolastico (con l’obbligo dell’istruzione elementare sotto il controllo dello stato, e il rilancio, in Lombardia, dell’università di Pavia e delle prestigiose scuo-

le Palatine di Milano in cui furono chiamati ad insegnare personaggi quali Parini e Beccaria); in quello sociale (dove abolì l’obbligo per il popolo di genuflettersi davanti ai nobili e annullò vari altri privilegi fino ad allora concessi all’aristocrazia). Autorizzò anche i contadini a cacciare gli animali che fuggivano dai recinti delle riserve padronali e che devastavano i campi, cosa fino ad allora proibita. Consentì inoltre il frazionamento delle proprietà fondiarie, concedendo ai contadini la possibilità di riscattare le terre che lavoravano; tentò inoltre di limitare le corvées e vigilò contro gli abusi dei nobili nella riscossione delle tasse. Anche l’esercito e l’amministrazione dello stato furono riformati. In campo economico infine fece costruire manifatture tessili, favorì i commerci migliorando le vie di comunicazione e abolendo i pedaggi; in alcune aree della Lombardia incentivò l’allevamento dei bachi da seta e delle mucche da latte come pure la coltivazione del riso e del gelso, mentre nelle regioni austriache promosse lo sviluppo dell’industria siderurgica.

La politica matrimoniale

un altro aspetto della sua saggia strategia fu l’accorta politica matrimoniale con la quale cercò di attribuire ai figli posizioni di prestigio e di importanza ai vertici dei maggiori stati europei. Oltre al primogenito Giuseppe che le succederà come imperatore fino al 1790 e a Pietro Leopoldo, che lo sostituirà, col nome di Leopoldo II, dal 1790 al 1792 ricordiamo Maria Antonietta, andata in sposa al re di Francia Luigi XVI (purtroppo però insieme a lui finita poi sulla ghigliottina), Maria Carolina moglie di Ferdinando IV di Borbone, re di Napoli, e Ferdinando che sposerà Maria Beatrice d’Este, acquisendo il Ducato di Modena.

Attiva fino alla fine

Il grande spirito di attivismo che la animò l’accompagnò fino in punto di morte: il 29 novembre 1780, dopo aver ricevuto l’estrema unzione, rifiutò un sonnifero che il medico intendeva somministrarle dicendo: «Volete che passi dormendo le mie ultime ore di vita?».

L’imperatrice Maria Teresa d’Austria, a lutto dopo la morte del marito, circondata dai figli (Il primo da destra è il futuro imperatore Giuseppe II) Tempera su pergamena di Heinrich Füger (1776) Österreichische Galerie Belvedere, Vienna

METTIAMO A FUOCO

La tratta degli schiavi

Dagli spagnoli agli inglesi spentasi nel Medioevo, la schiavitù rinacque all’inizio dell’era moderna quando, a partire dal XVI secolo, i coloni spagnoli in America del sud dovettero sostituire nel lavoro dei campi e delle miniere gli indigeni morti in gran quantità per gli stenti e le epidemie. Inizialmente, quindi, questo commercio era condotto da compagnie spagnole e portoghesi. Nel 1713, con la Pace di utrecht, il monopolio, cioè il controllo totale della tratta degli schiavi, passò agli inglesi. Anche la meta finale cambiò: ora erano le colonie del Nord America

con le loro immense piantagioni di cotone e tabacco che avevano bisogno di mano d’opera.

Le rotte triangolari per ottimizzare i costi e i guadagni Le navi percorrevano una rotta “triangolare” e non viaggiavano mai vuote: partivano infatti dai porti europei cariche di armi, alcool e altre merci con cui sulle coste africane pagavano i negrieri, cacciatori di schiavi generalmente arabi, che fornivano loro gli schiavi catturati nelle zone interne del continente. Con questo “carico” arrivavano poi

Rappresentazione della nave negriera Brookes (1788), usata dagli abolizionisti della tratta degli schiavi per sottolinearne la disumanità

Oceano

Atlantico

Inghilterra

Francia

Marocco

Occidentali

Oceano Pacifico

Il commercio triangolare: rotte commerciali francesi e inglesi cotone, zucchero, tabacco

armi, alcool, stoffe, utensili schiavi

sulle coste americane dove li vendevano in cambio dei prodotti locali, cotone, tabacco, zucchero, rum che trasportavano infine in Europa realizzando guadagni che andavano dal 30 al 500%.

Viaggi in condizioni disumane

Gli schiavi viaggiavano in condizioni disumane, stipati in soprannumero nelle stive delle navi dove mancavano cibo, acqua e adeguate misure igieniche al punto che una parte di loro moriva durante il viaggio. solo prima dello sbarco erano ripuliti e rifocillati così da fare una buona impressione ai “compratori” che facevano vere e proprie aste per acquistarli. Nella seconda metà del settecento anche compagnie francesi si unirono a questi commerci e porti come Nantes, Le Havre, Bordeaux si aggiunsero a quelli inglesi come centri del traffico schiavista. Pur condannata dalla Chiesa (i papi fecero a più riprese interventi contro di essa già a partire dal 1537 fino al 1839) e criticata da filosofi e intellettuali, questa pratica rimase in vigore a lungo e permise ingenti guadagni sia alle compagnie mercantili private che a quelle di stato: si può dire che una parte dello sviluppo economico

dell’Europa tra settecento e Ottocento è dovuta proprio agli introiti che provenivano da essa anche se non si è in grado di calcolare con esattezza il numero degli schiavi commerciati o morti (si va però nell’ordine di centinaia di migliaia).

Il lungo processo per l’abolizione di questo commercio disumano Complesso fu il processo che portò alla fine della schiavitù. In Francia durante la rivoluzione, nel 1794, ne venne ordinata l’abolizione, ma tale decreto rimase inapplicato. Più tardi anzi un intervento di Napoleone la reintrodusse. Nel corso del Congresso di Vienna nel 1815 fu approvata una risoluzione di condanna del mercato degli schiavi, ma poi occorsero alcuni decenni prima che questa condanna trovasse esecuzione: la Gran Bretagna abolì la schiavitù nelle sue colonie nel 1833 mentre la Francia lo fece nel 1848 e il Portogallo solo nel 1878. Per quanto riguarda gli stati uniti d’America la lotta contro di essa produsse addirittura una guerra di cui parleremo più avanti.

Messico Indie
Senegal
Costa degli schiavi
Fernando Poo Sao Tomé
Golfo di Guinea

METTIAMO A FUOCO

Le missioni dei gesuiti in Paraguay

Che cos’erano le “riduzioni”

Le “riduzioni”, cioè le missioni comunitarie create dai gesuiti nel XVII secolo (la prima risale al 1609) nelle regioni tra i domini spagnoli del Paraguay e quelli portoghesi del Brasile, sono tra le più significative e interessanti esperienze missionarie realizzate nella storia. si trattava di comunità raccolte in villaggi che i gesuiti avevano avuto il diritto di governare senza doverne rendere conto all’amministrazione coloniale; in questi villaggi gli indios vivevano in libertà, sotto la protezione dei missionari e dedicandosi all’agricoltura e ad attività artigianali. Le terre coltivate erano di proprietà dell’intero villaggio e questo contribuiva a creare un clima di collaborazione e di solidarietà che rendeva serena la vita degli abitanti. Gli stessi filosofi illuministi come Voltaire e Montesquieu, generalmente non teneri nei confronti del Cristianesimo e dei gesuiti, furono invece colpiti da questa esperienza. I gesuiti proteggevano gli indigeni dalle incursioni dei mercanti di schiavi, si occupavano della loro istruzione oltre che della loro educazione religiosa, li addestravano nell’uso delle varie tecniche agricole, insegnavano loro a leggere e a scrivere, con loro edificavano splendide chiese ricche di opere d’arte di grande valore.

La tragica fine di questa esperienza

Il proliferare di questi villaggi (nella prima metà del XVIII secolo erano più di 30 con circa 150.000 indios che vi abitavano) preoccupò ben presto i coloni spagnoli che vedevano messo in discussione l’uso degli schiavi e che ambivano a impossessarsi delle terre delle missioni. Per questo organizzarono una campagna di protesta contro i gesuiti, campagna fatta propria anche dai governatori spagnoli e che si sommò a quella che in Europa era stata avviata dagli illuministi e dalla Massoneria. Il risultato fu una prima spedizione militare ispano-portoghese nel 1754-57, che distrusse una parte di queste missioni, a cui fece seguito la loro soppressione definitiva quando, nel 1767, i gesuiti vennero espulsi dalla spagna e da tutte le colonie. Le riduzioni ebbero così tragicamente fine e migliaia di indios persero le loro terre e la loro libertà.

Scena dal film The Mission di Roland Joffé (1986) Il film narra le vicende di alcuni missionari gesuiti in Paraguay

SPUNTI DI RIFLESSIONE (PER L’EDUCAZIONE CIVICA)

Che cosa significa essere tolleranti?

La tolleranza non è l’indifferenza

Abbiamo visto che la tolleranza, cioè il rispetto per le persone di idee diverse, era uno dei cavalli di battaglia dell’insegnamento degli illuministi, uno dei contributi maggiori che essi diedero all’umanità. Voltaire stesso sosteneva di essere disposto a dare la vita perché anche chi la pensava diversamente da lui potesse esprimere le proprie idee. Ma che cosa vuol dire realmente essere tolleranti? Basta solo permettere a chi ha idee diverse dalle nostre di esprimersi per essere considerati tali? In realtà questo può non bastare: se si lascia parlare l’altro solo perché si ritiene che quello che ha da dire non ci riguarda, non ci interessa e pertanto non ci reca neanche fastidio, non si può certo parlare di vera tolleranza. È piuttosto indifferenza.

Tolleranza e dialogo: due concetti non equivalenti spesso si parla di tolleranza e di dialogo come di due concetti equivalenti o comunque strettamente correlati l’uno con l’altro. In effetti non è così: il dialogo è molto di più della semplice tolleranza; vuol dire guardare l’altro con simpatia e stima, ascoltare con reale interesse quello che ha da dire, cercando di apprendere da lui ciò che può essere veramente utile anche alla nostra vita. L’autentico dialogo è possibile solo tra persone che amano la verità, che la considerano una meta possibile al di là delle loro diverse opinioni, e che riconoscono nell’altro la possibilità che abbia qualcosa da insegnare alla propria vita.

L’amore alla verità condizione per il dialogo Rispetto a questo vi è una diffusa convinzione secondo cui solo chi non crede in nulla può essere dialogico: chi invece ha convinzioni profonde non potrebbe esserlo perché convinto della superiorità delle proprie idee rispetto a quelle altrui. Questo rischio può certamente verificarsi, ma spesso può anche accadere il contrario: chi non ha convinzioni profonde, chi non crede in nulla, chi non crede che esista una verità, rischia di non dare valore a nulla e quindi nemmeno alle opinioni altrui. Può ascoltarle ma, appunto perché scettico, non ritenerle importanti e quindi non prenderle in

seria considerazione. Al contrario chi ha convinzioni profonde, proprio perché crede che la verità esista e la tiene in grande considerazione, può essere più disposto ad accogliere le convinzioni altrui se scopre che sono più vicine al vero delle sue. La vera base del dialogo non è quindi dubitare di tutto ma essere convinti che tutti, in quanto esseri umani, abbiano le stesse esigenze e le stesse domande riguardo al senso della vita e che per questo è utile confrontarsi: il dialogo consiste in ultima analisi nel confronto tra le risposte che ciascuno di noi dà a tali domande.

A dialogare ci si educa

D’altra parte la capacità di dialogare non è istintiva, ma si impara, attraverso l’educazione e la ricerca appassionata delle ragioni delle proprie opinioni: infatti solo chi pone la certezza di quanto afferma su basi razionali non ha paura, ascoltando opinioni diverse dalla sua, di scoprire qualcosa di più profondamente vero di quanto ha sempre creduto. Il dialogo vero con chi è diverso da noi è un atteggiamento che si costruisce giorno per giorno, imparando con sacrificio ad ascoltare, a guardare con simpatia all’altro e ad amare la verità più delle proprie opinioni.

Frontespizio del Trattato sulla tolleranza di Voltaire

Pubblicato in Francia nel 1763, fu ispirato da un fatto di cronaca: l'ingiusta condanna a morte di un protestante, Jean Calas, sull'onda di un cieco fanatismo religioso

IL PERCORSO DELLE PAROLE

Dalla summa medievale a Wikipedia, passando per l’Enciclopedia

Il desiderio di raccogliere insieme tutte le conoscenze umane così da poterle avere sempre facilmente a disposizione ha accompagnato spesso gli uomini, fin dal Medioevo. Già a cavallo tra il VI e il VII secolo il vescovo Isidoro di siviglia aveva redatto di suo pugno un’opera in 20 volumi, detta Etymologiae, nella quale, partendo dalla spiegazione del significato delle parole, forniva una presentazione di tutte le conoscenze dell'epoca. L’opera ebbe un grande successo e fu, per secoli, una sorta di dizionario enciclopedico di ampia consultazione. Altra creazione del Medioevo furono le summae, la più importante delle quali fu redatta dal grande filosofo e teologo Tommaso d’Aquino. In queste opere il sapere era raccolto secondo un ordine di importanza che, partendo da Dio, messo al primo posto, giungeva alla conoscenza del cosmo e dell’uomo. sempre nel Medioevo ricordiamo che lo stesso Dante Alighieri tentò di redigere una specie di enciclopedia del sapere, da lui chiamata Convivio, ma l’opera rimase incompleta.

L’Enciclopedia moderna

L’enciclopedia come la conosciamo oggi (la parola deriva dal greco e significa “educazione circolare”) comparve per la prima volta agli inizi del XVIII secolo quando l’inglese Ephraim Chambers redasse un’opera di questo genere in due volumi, intitolata Cyclopaedia. Quest’opera, che ebbe grande successo, fu subito tradotta in molte lingue, compreso l’italiano, e aprì, la strada alla più celebre delle enciclopedie, quella curata dagli illuministi Denis Diderot e Jean Baptiste d’Alembert. La novità dell’opera degli illuministi francesi (il cui sottotitolo era Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri) era data innanzitutto dal fatto che fu il lavoro non di un uomo solo, ma di una équipe di esperti, ognuno specializzato in un campo diverso del sapere. Questo perché oramai l’insieme delle conoscenze nei vari ambiti era così vasto che non si poteva più pensare che un uomo da solo potesse conoscerlo interamente. Il sapere cioè si stava specializzando e questo fenomeno andrà sempre più amplificandosi nell’età

moderna. Inoltre, rispetto alle summae medievali, l’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert non presentava più le varie conoscenze disposte in ordine di importanza, ma in un semplice ordine alfabetico anche se con un sistema di rimandi che, come dei moderni link, collegava una voce ad altre che le erano affini, pur iniziando con altre lettere.

Le nuove prospettive aperte dalla “rete”

Detto che la più importante delle enciclopedie italiane su carta è stata ed è tuttora l’Enciclopedia Treccani che prende il nome dal suo ideatore, l’industriale e mecenate Giovanni Treccani che la avviò a partire dal 1925, rimangono da considerare i più recenti sviluppi originati dagli strumenti informatici e dalla “rete”. In questi ultimi decenni infatti alle tradizionali enciclopedie cartacee si sono affiancate con grande successo enciclopedie su supporti elettronici, spesso rintracciabili nella rete (internet) che collega ormai tutti gli strumenti informatici del mondo. La più celebre delle enciclopedie on-line è Wikipedia si tratta di un’enciclopedia a livello mondiale (è realizzata in più di 200 lingue con milioni di voci e di pagine) in cui le voci possono essere redatte da chiunque, non solo dagli esperti. Esiste infatti la possibilità di creare nuove voci o di accedere a quelle esistenti

per introdurvi modifiche o per correggere errori che altri possono aver introdotto, realizzando così una sorta di sistema di controllo mondiale che dovrebbe garantire la correttezza delle informazioni riportate. In realtà non essendo possibile risalire al redattore di ciascuna voce, e anche ai suoi eventuali correttori, non si è mai in grado di verificare la fonte da cui le notizie provengono e questo fa sì che non si possa mai essere completamente sicuri dell’attendibilità di ciò che viene scritto. Interessante è il significato della parola che dà il nome a questa enciclopedia: essa deriva dal termine hawaiano wiki che significa “veloce” aggiunto al suffisso greco pedia (“formazione”), quasi a voler collegare culture di grandi popoli del passato (i greci) a popoli nuovi, di altre parti del mondo, e a realizzare una fonte di informazioni veloce al passo con i ritmi di vita dell’uomo contemporaneo.

1. Prima edizione a stampa dell'Etymologiae (1472) 2. San Tommaso d’Aquino ha in mano un volume della Summa Theologica. Particolare dello scomparto del polittico di Carlo Crivelli (XV secolo), National Gallery, Londra 3. Frontespizio del primo volume dell'Encyclopédie 4. Il simbolo di Wikipedia

RACCONTIAMO IN BREVE

1. Il grande progresso che la scienza aveva conosciuto a partire dal XVII secolo favorì la nascita in tutta Europa dell’Illuminismo. Si trattava di una corrente di pensiero che esaltava la ragione come unico ed esclusivo strumento di conoscenza capace di rendere l’uomo protagonista della sua vita, dominatore della realtà e della natura e costruttore della propria felicità. Usando in tal modo la ragione i filosofi illuministi criticavano le istituzioni e le tradizioni del passato, la autorità, le credenze e le religioni. Le loro idee, inizialmente diffuse in ambito molto ristretto, ebbero poi grande successo soprattutto presso la borghesia, a partire da quella francese, grazie all’uso di trattati, giornali, libelli e ad altri mezzi di formazione dell’opinione pubblica.

2. Molti illuministi rifiutavano le religioni storiche, in particolare il Cristianesimo, per credere in un Dio conosciuto dalla ragione come principio regolatore dell’universo e per questo si definivano deisti. Combattevano poi contro l’influenza della Chiesa Cattolica nella società e soprattutto contro l’agguerrito ordine dei gesuiti. Per diffondere queste idee venne creata anche una società segreta, la Massoneria, che avrà un ruolo importantissimo nella successiva storia europea e non solo.

3. Sul piano politico Montesquieu auspicava una monarchia costituzionale, fondata sulla divisione fra i poteri. Rousseau teorizzò invece uno stato fondato sul consenso generale di tutti i cittadini. In campo economico i liberisti erano contrari all’intervento dello stato nell’economia e sostenevano la dottrina del libero scambio come legge regolativa dell’economia. Il milanese Cesare Beccaria propose un sistema penale in cui veniva abolita la tortura e, in molti casi, anche la pena di morte.

4. Molti sovrani cercarono di attuare, pur mantenendo poteri pressoché assoluti, riforme ispirate alle teorie illuministiche; per questo si parla di “sovrani illuminati”. I più importanti tra questi furono Federico II di Prussia, Maria Teresa e Giuseppe II d’Austria e Caterina II di Russia. Questi sovrani cercarono di rendere più efficiente l’organizzazione dello stato e di migliorare le condizioni del popolo. Le riforme più vaste furono quelle avviate nell’Impero Asburgico, prima da Maria Teresa, poi da Giuseppe II. In molti casi i sovrani illuminati si scontrarono con la Chiesa, nei confronti della quale attuarono una politica di controllo e di sottomissione detta anche Giurisdizionalismo.

5. Il Settecento vide anche frequenti conflitti, dovuti al tentativo dei vari sovrani di estendere la loro influenza su più stati europei approfittando di problemi legati alle successioni dinastiche. Queste “guerre di successione” furono nell’ordine quella spagnola, quella polacca e quella austriaca a cui fece seguito la Guerra dei Sette Anni. Gli esiti di queste guerre furono svariati: il ridimensionamento della potenza spagnola e l’emergere di quella di due nuovi stati, la Prussia e la Russia, il ridimensionamento delle pretese francesi e soprattutto la grande ascesa coloniale e commerciale della Gran Bretagna. In Italia, al termine di queste guerre si affermò l’influenza austriaca che si sostituì a quella spagnola. Fu in questo secolo che la casa di Savoia, i cui domini originari erano transalpini, cominciò ad avere sempre più peso sulla scena italiana estendendo i suoi domini al di qua delle Alpi e assumendo anche il controllo della Sardegna, da cui le venne il titolo regio.

6. La Lombardia sotto il governo austriaco, il Granducato di Toscana con Pietro Leopoldo e il Regno di Napoli con Carlo di Borbone furono gli stati italiani in cui si ebbe la più intensa attività riformatrice, grazie all’opera di illustri e ascoltati pensatori illuministi come Cesare Beccaria, Pietro Verri, Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri. Con l’introduzione del catasto delle proprietà fondiarie, il governo austriaco della Lombardia cercò di rendere più equa la tassazione. In Toscana il granduca Pietro Leopoldo, ispirandosi alle idee di Cesare Beccaria, abolì la pena di morte e la tortura, mentre non riuscì ad applicare sulla Chiesa la sua politica giurisdizionalistica. Carlo di Borbone e il suo successore Ferdinando IV diedero grande prestigio al Regno di Napoli con un’intensa attività riformatrice e realizzando opere di grande valore artistico come la splendida reggia di Caserta.

ATTIVITÀ E VERIFICHE

Esercizio 1 · Rispondi, anche oralmente, alle seguenti domande.

1. Che cosa sta al centro del pensiero degli illuministi?

2. Come gli illuministi giudicavano il passato?

3. Che cosa si intende per deismo?

4. Che cos’era la Massoneria?

5. Chi era Adam smith? Qual era il suo pensiero?

6. Di quali strumenti si servirono gli illuministi per divulgare le loro idee?

7. Quali riforme attuò Federico II?

8. Quali riforme attuarono Maria Teresa d’Austria e Giuseppe II a favore dei contadini e contro i privilegi dei nobili?

9. Quali furono le guerre di successione?

10. In quali stati italiani si attuarono riforme di stampo illuministico?

11. Che cosa affermava Beccaria nel suo trattato Dei delitti e delle pene?

Esercizio 2 · Completa la linea del tempo: scrivi il numero del fatto storico sulla data corretta.

1709 1773 1714 1740-1748 1740-1780 1751

1. Fine della Guerra di successione spagnola

2. soppressione dell’ordine dei gesuiti

3. Regno di Maria Teresa d’Austria

4. Guerra di successione austriaca

5. Battaglia della Poltava

6. Inizio della pubblicazione dell’Enciclopedia

Esercizio 3 · Indica se l’affermazione riportata è vera o falsa.

Per gli illuministi ciò che la ragione non comprende non esiste. V F

Per gli illuministi la religione è solo una forma di superstizione. V F

Per i deisti Gesù era il figlio di Dio incarnatosi per salvare l’umanità. V F

La Massoneria era una società segreta che difendeva gli interessi della Chiesa. V F

I sovrani illuminati applicarono nel loro governo le idee di Montesquieu. V F

Il catasto permetteva di registrare con precisione tutte le proprietà fondiarie dei nobili. V F

Caterina di Russia attuò riforme molto profonde nel suo stato. V F

L’Austria instaurò a Milano un governo piuttosto tollerante. V F

Esercizio 4 · Per completare la frase iniziale scegli fra le tre alternative proposte quella che ti sembra, oltre che esatta, anche precisa e formulata con il linguaggio più appropriato.

Per gli illuministi la ragione

a. è uno strumento poco utile a conoscere la realtà.

b. è uno strumento accanto ad altri per conoscere la realtà.

c. è l’unico ed esclusivo strumento di conoscenza della realtà.

Per gli illuministi lo studio del passato

a. era importante perché da esso si potevano trarre molti utili insegnamenti.

b. era completamente da rifiutare perché fonte di molti errori.

c. era utile per conoscere la religione e le forme politiche degli antichi popoli.

Per Montesquieu

a. il sovrano doveva governare con saggezza e moderazione.

b. i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario di uno stato dovevano essere divisi.

c. ci doveva essere democrazia e libertà in ogni stato.

I sovrani che si ispirarono all’Illuminismo furono detti “despoti illuminati” perché

a. attuarono riforme ispirate alle idee illuministe e tra queste, soprattutto, la divisione dei poteri.

b. attuarono riforme ispirate alle idee illuministe, ma mantenendo sempre un potere assoluto.

c. ospitarono nelle loro corti filosofi illuministi e cercarono di mettere in partica i loro insegnamenti.

Per “Giuseppinismo” si intende

a. la politica di stretto controllo sulla Chiesa operata da Giuseppe II.

b. la politica di tolleranza nei confronti degli ebrei e delle altre religioni attuata da Giuseppe II.

c. l’abolizione della censura e della pena di morte attuate da Giuseppe II.

La Guerra di successione austriaca scoppiò perché

a. i sovrani europei non accettarono la salita al trono imperiale di Maria Teresa.

b. Federico II di Prussia era invidioso del potere di Maria Teresa.

c. gli stati europei volevano limitare la potenza austriaca.

Pietro Leopoldo di Toscana incontrò difficoltà presso la popolazione

a. quando ridusse i privilegi della nobiltà.

b. quando tentò di sottomettere la Chiesa toscana.

c. quando varò il nuovo codice penale che applicava le idee di Cesare Beccaria.

Esercizio 5 · Ancora oggi esistono nel mondo stati nei quali si pratica la pena di morte.

Fai una breve ricerca per scoprire quali sono.

The Spirit of ’76 Riproduzione del dipinto di Archibald M. Willard (1875)

Originariamente intitolato Yankee Doodle, questo celebre dipinto rappresenta la lotta degli americani per la libertà. L’opera fu esposta per la prima volta alla mostra internazionale che si tenne a Filadelfia nel 1876 per festeggiare il centenario dell’Indipendenza. Ora si trova all’Abbot Hall di Marblehead, Massachusetts.

La Guerra d’indipendenza americana

Una nazione nata dall’esigenza di libertà

Quella che comunemente è chiamata “rivoluzione americana” fu in realtà una guerra d’indipendenza con la quale le colonie inglesi d’America si staccarono dalla madrepatria per costituire un nuovo stato.

Tutto ebbe origine quando la Corona britannica rifiutò di concedere ai coloni americani la rappresentanza nel parlamento allo scopo di decidere le imposte da pagare, negando il principio alla base della tradizione parlamentare inglese, sintetizzato nella frase no taxation without representation (“nessuna tassazione senza rappresentanza”).

A questo si aggiungeva l’esigenza da parte dei coloni americani di una sempre maggiore libertà, soprattutto economica e commerciale. L’origine stessa delle prime colonie va ricondotta a questa ricerca di libertà.

Sia i Padri Pellegrini sia i successivi coloni che erano giunti in America, infatti, fuggivano da situazioni di oppressione o di miseria per cui nella nuova terra riponevano grandi speranze di una vita più libera e fortunata.

Gli Stati Uniti d’America, una volta costituiti, si diedero un ordinamento del tutto nuovo rispetto alle realtà politiche allora conosciute: nacquero infatti come repubblica presidenziale e federale che conciliava un’ampia autonomia dei singoli stati con un forte potere centrale. Quella del bilanciamento dei poteri costituisce la caratteristica principale di questo ordinamento, caratteristica che si manifesta anche in molti altri aspetti e che è rimasta in gran parte invariata nei secoli.

AL TERMINE DEL CAPITOLO

Schede di approfondimento

• Benjamin Franklin

• La Dichiarazione

d’Indipendenza

• La Dichiarazione d’Indipendenza e la schiavitù

Raccontiamo in breve

Attività e verifiche

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per non perdere il filo

Perché non si può parlare di vera e propria scoperta dell’America da parte dei Vichinghi?

1 · La colonizzazione dell’America settentrionale

Una lunga tradizione di viaggi di esplorazione

La parte settentrionale del continente nordamericano era stata raggiunta già nel Medioevo: attorno al X secolo una spedizione di Vichinghi si era spinta fino alle coste del Labrador e di Terranova, nell’attuale Canada, ma senza che a ciò facesse seguito alcun insediamento stabile. Questo non ci consente di parlare di vera e propria “scoperta” dell’America da parte dei Vichinghi anche perché questi navigatori, pur ardimentosi e capaci, non si resero affatto conto di aver raggiunto un nuovo continente, né diffusero di quel loro viaggio notizie che consentissero ad altri di valutarne l’importanza ai fini di un’esplorazione. Bisognò dunque aspettare fino al XV secolo quando, in seguito al viaggio di Cristoforo Colombo, anche il re di Inghilterra Enrico VII, desideroso di ritagliarsi uno spazio nel nuovo continente che era stato scoperto, inviò il navigatore italiano Giovanni Caboto ad esplorare le coste di quelli che sarebbero divenuti il Canada e gli Stati Uniti. Da allora si susseguì una serie di tentativi di fondare colonie e città in vari punti della costa nordatlantica, ad opera di singoli gruppi di cittadini o di compagnie commerciali.

I Padri Pellegrini

Perché i Padri

Pellegrini lasciarono la madrepatria per insediarsi in America?

Nel 1620 un gruppo di puritani partiti dalla madrepatria a bordo della nave Mayflower raggiunse l’America e vi fondò la città di New Plymouth, iniziando così la colonizzazione di quello che sarebbe diventato il Massachusetts. Essi avevano attraversato l’oceano per iniziare una vita nuova, per fondare una società più libera e democratica di quella che avevano abbandonato. Il buon esito della spedizione dei “Padri Pellegrini” (così verranno chiamati in seguito) spinse molti a seguirne l’esempio. Dall’Inghilterra, ma anche da altri paesi dell’Europa del nord, un numero crescente di persone si mise in viaggio verso l’America per avere terra da coltivare, per sfuggire alla persecuzione religiosa o ai debiti, per evitare guai con la legge o semplicemente per sete di avventura. Tutti erano comunque animati da un ideale comune: vivere in libertà in una terra vasta, inesplorata e ricca di nuove possibilità.

Una colonizzazione difficile

Inizialmente la vita nelle nuove colonie non fu facile: il clima era molto più rigido di quello europeo, il suolo difficile da coltivare, l’ambiente generalmente selvaggio e inospitale. La mortalità fu dunque altissima nel corso dei primi decenni; molti insediamenti scomparvero e altri sopravvissero a fatica. Questo periodo tormentato venne però superato grazie al coraggio e all’intraprendenza dei coloni e all’aiuto delle popolazioni native che abitavano queste

zone. I “pellerossa” (questo il nome che gli europei diedero loro) ebbero infatti un comportamento amichevole verso i nuovi arrivati, scambiando con loro pellicce e manufatti, e insegnando loro il modo migliore per coltivare la terra.

Nacquero così le prime città (Boston nel 1630, Providence nel 1636) e videro la luce anche altre colonie: oltre al Massachusetts e alla Virginia, così chiamata in onore della regina "vergine" Elisabetta I, vennero fondate il Maryland, il New Hampshire e il Rhode Island.

Le tredici colonie

Nella seconda metà del XVIII secolo nel continente nordamericano si contavano ormai tredici colonie inglesi. Esse si erano formate in modi e tempi diversi e si estendevano per 2.500 chilometri lungo la costa atlantica, dai monti Appalachi al Golfo del Messico. Nonostante le differenze esistenti tra loro, è possibile dividerle in tre gruppi principali:

– le colonie del nord, nelle zone più selvagge, che vivevano di caccia, raccolta di legname, commercio di pellicce e fabbricazione di utensili;

– le colonie del centro, in cui prevalevano le piccole proprietà agricole e si praticava l’allevamento di bestiame;

– le colonie del sud, dove grazie al clima caldo si potevano colti-

L'imbarco dei pellegrini protestanti nel 1620

Olio su tela di Robert W. Weir (1843), Campidoglio degli Stati uniti, Washington, dC

I pellegrini sono ritratti in preghiera sul ponte della nave che dall'Olanda li porterà in Inghilterra per unirsi alla Mayflower in partenza per il nuovo Mondo. Alcuni sono vestiti con abiti tradizionali puritani. L'armatura, l'elmo e il moschetto in primo piano rappresentano gli strumenti che essi useranno per proteggersi nella nuova terra sconosciuta. da notare sulla vela, in alto a sinistra, la scritta “God with us” (dio con noi).

Contrabbando

Commercio clandestino di merci, all’interno di un paese o tra uno stato e l’altro, che avviene quindi senza pagare le tasse doganali che sono normalmente imposte sui vari prodotti.

Perché nonostante le misure svantaggiose imposte dalla madrepatria la situazione dei coloni americani rimaneva positiva?

vare su grande scala cotone, tabacco e zucchero, prodotti destinati all’esportazione in Europa. In questo caso prevalevano le grandi proprietà: estese piantagioni la cui manodopera era costituita da schiavi deportati dall’Africa e dai loro discendenti.

Superate le difficoltà del primo insediamento, l’abbondanza di terra arabile consentì in genere ai coloni di garantirsi condizioni di vita migliori rispetto a quelle di cui avevano goduto in madrepatria.

2 · I difficili rapporti con la madrepatria

La Gran Bretagna si assicura il monopolio commerciale sui territori americani

Da un punto di vista politico, ciascun territorio era retto da un governatore nominato da Londra, assistito da un’assemblea legislativa composta da abitanti del luogo, eletti a suffragio universale.

Da subito la Gran Bretagna, che deteneva il monopolio degli scambi commerciali con le colonie, cercò di trarne il massimo vantaggio. Comprava infatti le materie prime di cui esse disponevano e rivendeva loro i propri manufatti fissando i relativi prezzi in modo che le fossero assai favorevoli. Ai coloni venne inoltre vietato di impiantare industrie che potessero fare concorrenza a quelle della madrepatria. Nonostante queste misure indubbiamente svantaggiose, la situazione rimaneva positiva, anche perché le autorità britanniche chiudevano generalmente un occhio nei confronti dell’ingente contrabbando che i coloni praticavano con la Spagna e con la Francia.

La Guerra dei Sette Anni provoca conseguenze inaspettate

Perché scoppiò la Guerra dei

Sette Anni?

Tra il 1756 e il 1763 Francia e Gran Bretagna si affrontarono nella Guerra dei Sette Anni, scoppiata essenzialmente per il controllo del Nord America, zona in cui entrambi i paesi avevano grossi insediamenti. Il conflitto fu vinto dagli inglesi, che cacciarono così gli avversari dalla zona dei grandi laghi, dove erano presenti da circa un secolo. Le operazioni militari avevano però prosciugato le casse della madrepatria, che si ritrovò così nella necessità di far pagare ulteriori tasse alle proprie colonie.

L’aumento delle tasse e l’intransigenza di re Giorgio III provocano la ribellione dei coloni

Di per sé, la decisione di tassare i coloni non era sbagliata: essi erano quelli che avevano guadagnato di più dalla guerra, dato che si erano liberati della presenza francese, considerata come una minaccia. Agli inglesi sembrava dunque opportuno far loro pagare alcune delle spese che avevano sostenuto. Tuttavia, il provvedimento venne accolto con ostilità: i coloni sostennero infatti che secondo

alla Gran Bretagna

dal 1763 al 1783

poi alla Spagna

l’ordinamento inglese nessuna colonia poteva essere tassata se non aveva dei rappresentanti in parlamento (secondo il principio no taxation without representation). Gli americani non avevano nessun politico che li rappresentasse a Londra, per cui protestarono affermando che quelle tasse erano illegali.

Al rifiuto del re Giorgio III di modificare la situazione, la ribellione divampò apertamente.

In tutte le tredici colonie si formarono organizzazioni dette “Figli della libertà”, composte da giornalisti, intellettuali, politici e semplici cittadini. Ispirati alle idee dell’Illuminismo, questi gruppi organizzarono la protesta, stampando opuscoli e convocando manifestazioni pubbliche in cui denunciavano l’oppressione inglese.

Verso la guerra: il Boston Massacre e il Boston Tea Party

Non volendo cedere alle richieste americane, Giorgio III impose due ulteriori tasse, una sullo zucchero e una che avrebbe gravato su tutti i documenti legali, i contratti e persino i giornali che si sarebbero stampati nelle colonie (Stamp Act). Alle proteste pacifiche fecero seguito a questo punto aperti atti di violenza: il 5 marzo del 1770, nella città di Boston, una guarnigione di soldati britannici aprì il fuoco su una manifestazione pacifica di cittadini. Il Boston Massacre, come venne chiamato, fece salire ancora di più il livello

La formazione degli Stati Uniti d'America

Canada (inglese dal 1763)

Colonie spagnole

Le tredici

colonie nel 1776

Territori indiani

Confine degli Stati uniti nel 1783

Perché i coloni americani si rifiutarono di pagare le tasse imposte dalla madrepatria?

Il Boston Tea Party

Incisione tratta

W.d. Rev. Mr. Cooper, The History of North America (1789), Library of Congress, Washington, dC

della tensione. Il 16 dicembre del 1773, sempre a Boston, un gruppo di coloni travestiti da indiani salì a bordo di una nave inglese e buttò a mare un preziosissimo carico di tè che era appena arrivato al porto (questa azione fu chiamata Boston Tea Party).

I coloni non vogliono staccarsi dalla madrepatria, ma solo vedere riconosciuti i propri diritti

Va detto che l’intenzione dei coloni a questo punto non era ancora quella di staccarsi dalla madrepatria: la maggior parte di loro si considerava ancora fedele suddito britannico. Ciò che si voleva era semplicemente che l’Inghilterra allentasse la sua pressione sugli americani, abbassando le tasse e concedendo loro rappresentanti in parlamento.

Giorgio III non era però disposto a scendere a compromessi e pertanto la sua reazione fu immediata e durissima: il porto di Boston venne chiuso finché non fosse stata pagata la merce danneggiata; inoltre venne aumentato il numero dei soldati presenti in città e al governatore del Massachusetts vennero conferiti poteri straordinari. Si era ormai imboccata una strada senza ritorno.

3 · Lo scoppio del conflitto

Inizia la guerra

Il 5 settembre 1774 nella città di Filadelfia, in Pennsylvania, si riunirono per la prima volta i rappresentanti delle tredici colonie. L’evento era importante, poiché i vari territori nordamericani non avevano mai avuto molti rapporti tra loro. Questo incontro era la prova che essi riconoscevano un problema comune e desideravano risolverlo.

Nel frattempo, l’esercito inglese e quello dei coloni erano giunti allo scontro: le prime due battaglie furono combattute vicino a Boston, a Lexington e a Concord, e videro la vittoria degli americani. Galvanizzati da questo sorprendente successo, i politici riuniti a Filadelfia decisero di continuare la lotta: venne approvata la costituzione di un esercito di 20.000 uomini, posto sotto il comando di George Washington, un ricco proprietario terriero della Virginia che si era già distinto durante la Guerra dei Sette Anni.

La Dichiarazione d’Indipendenza

Il 4 luglio 1776 i rappresentanti delle colonie, riuniti di nuovo a Filadelfia, approvarono la Dichiarazione d’Indipendenza, che sanciva in maniera ufficiale la volontà dei coloni di separarsi dalla madrepatria, accusata di averli privati di quella libertà per la quale un secolo prima i loro antenati avevano lasciato le loro case per stabilirsi oltreoceano. Questo documento fondeva i princìpi cristiani con le idee dell’Illuminismo, in particolare con la teoria di Montesquieu sulla divisione dei poteri. In esso si leggeva che tutti gli uomini sono creati uguali da Dio, e che hanno diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Il governo di uno stato ha il compito di garantire questi diritti; in caso contrario, i sudditi hanno il dovere di rovesciarlo e di sostituirlo con uno più adatto alle loro aspirazioni. Va detto, per inciso, che nonostante questa solenne dichiarazione per circa un secolo sia i neri che i nativi americani vennero esclusi dal godimento di tali diritti, ma di questo parleremo più avanti.

Giorgio III, che non aveva ceduto neppure alle precedenti richieste, molto più moderate, reagì duramente a questa nuova sfida: la guerra riprese dunque più violenta che mai.

L’esercito britannico era superiore, ma la guerra fu vinta dagli americani

Dal punto di vista militare, la Gran Bretagna era senza dubbio superiore avendo un esercito molto più numeroso e meglio equipaggiato. I coloni, al contrario, erano in possesso di mezzi inferiori e non erano particolarmente addestrati al combattimento; inoltre erano anche profondamente divisi tra loro: tra i vari territori c’erano sempre state diverse rivalità, per cui in molti casi i soldati si

Perché fu importante la Dichiarazione d’Indipendenza?

Perché le sorti del conflitto, inizialmente favorevoli agli inglesi, cambiarono?

Perché Francia e Spagna aiutarono i coloni americani?

rifiutavano di ubbidire agli ufficiali che non provenivano dalla loro stessa colonia. Per questo motivo i primi scontri furono favorevoli agli inglesi. Tuttavia, ben presto, la situazione mutò: l’esercito di Giorgio III combatteva infatti a 5mila chilometri di distanza, e aveva quindi numerose difficoltà nell’organizzare le truppe e nel trasportare i rifornimenti. In più di un’occasione le postazioni conquistate dovettero essere abbandonate ai nemici poiché non c’erano abbastanza uomini per difenderle. Inoltre, gli americani avevano una conoscenza migliore del territorio e attuavano efficaci azioni di guerriglia, e Washington si rivelò abilissimo nel ricompattare le truppe e galvanizzarle, convincendole a combattere per un ideale comune. Infine, i coloni poterono anche contare sull’aiuto fornito da Francia e Spagna, decise ad ostacolare il primato della Gran Bretagna sui mari (in particolare, i francesi desideravano vendicare la sconfitta nella Guerra dei Sette Anni) e sull’appoggio di molti combattenti volontari provenienti da varie parti d’Europa.

Nell’ottobre del 1781 l’esercito inglese fu sconfitto a Yorktown e questa battaglia segnò di fatto la fine della guerra.

La fine della guerra non mette pace tra i vincitori: le discussioni sul futuro assetto delle colonie

La pace con l’Inghilterra fu firmata a Versailles nel settembre del 1783. Le tredici colonie ottenevano la completa indipendenza, anche se il loro assetto politico rimaneva incerto.

Per risolvere tale questione, venne nominata una commissione di 55 membri, incaricata di redigere una nuova costituzione. Da subito tra questi delegati scoppiarono accese discussioni: una parte di essi avrebbe infatti voluto che le colonie prendessero ognuna una strada diversa, mantenendosi indipendenti le une dalle altre, così come era accaduto negli anni precedenti al conflitto. Al contrario, altri desideravano un governo centrale solido per garantire forza e unità alle ex colonie.

Si giunse alla fine ad una sorta di compromesso adottando la formula della federazione: in questo modo ogni colonia avrebbe potuto conservare una certa autonomia, ma nel contempo il nuovo stato avrebbe mantenuto una compattezza tale da garantirgli stabilità e durata.

La Dichiarazione

d’Indipendenza del 1776

Olio su tela di John Trumbull (1819), united States Capitol, Washington, dC

Raffigura il momento in cui, il 28 giugno 1776, la prima bozza della Dichiarazione d’Indipendenza è stata presentata al Secondo Congresso Continentale.

Meno di una settimana dopo, il 4 luglio 1776, la dichiarazione fu ufficialmente adottata. Il dipinto è riprodotto anche sul retro della banconota da due dollari.

La resa di Lord Cornwallis a Yorktown dipinto di John Trumbull (1826), Campidoglio degli Stati uniti, Washington, dC

Il 19 ottobre 1781 a Yorktown, in Virginia, il generale inglese Cornwallis si arrende, ponendo fine alla guerra per l'indipendenza delle colonie americane.

4 · La nascita degli Stati Uniti d’America

La Costituzione americana

Gli Stati Uniti d’America (questa è la denominazione ufficiale) furono così inizialmente composti da tredici stati, ciascuno retto da un governatore e da un parlamento nel quale sedevano i rappresentanti eletti dai cittadini. Ogni stato poteva varare le proprie leggi, tranne che nelle materie di interesse comune che dovevano essere affrontate da un parlamento e da un governo di tutti gli stati (e perciò detto “federale”). La sede del Congresso (così si chiamò il parlamento americano) dapprima fu stabilita a Filadelfia, e successivamente fu spostata a Washington, una nuova città costruita per l’occasione e chiamata col nome del condottiero che aveva condotto gli americani alla vittoria.

Un'efficace divisione tra i vari poteri

Nel decidere il funzionamento del governo, i costituenti si ispirarono al principio della divisione dei poteri elaborato da Montesquieu. Il potere esecutivo era retto da un presidente, eletto dal popolo, che restava in carica per quattro anni ed era rieleggibile solo una volta. Egli era a capo, oltre che delle forze armate, anche del governo federale, composto dai segretari (ministri). I compiti che spetta-

vano al governo erano quelli di imporre le tasse, di regolamentare il commercio e di gestire la politica estera.

Il potere legislativo era invece detenuto dal Congresso, composto da due camere, il Senato (in cui ogni stato aveva lo stesso numero di membri indipendentemente dalla sua popolazione) e la Camera dei Rappresentanti (in cui gli stati più popolosi avevano il diritto di inviare più membri in proporzione al numero dei loro abitanti).

Vi era poi il potere giudiziario, al cui vertice stava la Corte Suprema, che aveva il compito di sorvegliare l’operato del governo e di destituire il presidente, qualora egli abusasse delle sue funzioni.

Una costituzione che ha resistito alla prova del tempo

La Costituzione americana di oggi è ancora, in gran parte, quella che oltre due secoli fa venne votata dai “padri della patria” degli Stati Uniti. Nel corso degli anni alcuni dei suoi articoli sono stati modificati, per mezzo dei cosiddetti “emendamenti”, allo scopo di renderla più funzionale e di adattarla a nuove esigenze. Si tratta però di modifiche che non ne hanno intaccato la sostanza che è rimasta la stessa. Salvo il caso particolarissimo della Gran Bretagna (che non ha una costituzione nel moderno senso della parola) quella americana è la più antica costituzione vigente nel mondo.

Una crescita apparentemente senza fine

Con la fine della guerra la situazione divenne più sicura e riprese il flusso migratorio dall’Europa. Tra il 1776 e il 1800 la popolazione aumentò da due a sei milioni; la ragione di questo fatto va ricercata anche nella grande quantità di terre disponibili, che faceva sì che i giovani si sposassero prima e mettessero al mondo più figli. Il tasso di natalità negli Stati Uniti era dunque più alto che in Europa.

A partire dal 1787 vennero fissate le regole per la creazione di nuovi stati: i coloni avevano infatti ripreso a muoversi verso ovest, andando ad occupare i territori in cui la presenza degli indiani era più numerosa. La candidatura a diventare uno stato vero e proprio avrebbe potuto essere presentata solo dopo che il territorio interessato fosse giunto ad avere una popolazione di almeno 60mila abitanti. Secondo questi criteri, i primi stati a nascere dopo le tredici colonie furono il Tennessee e il Kentucky; successivamente, nei territori del nordovest si formarono l’Ohio, l’Indiana, l’Illinois, il Michigan e il Wisconsin. Questa nuova fase della colonizzazione, se da un lato portò ad una indubbia crescita economica del paese, dall’altro provocò i primi scontri con la popolazione nativa, scontri che sarebbero divenuti sempre più drammatici con il passare degli anni.

Perché si parla di divisione dei poteri nell’ordinamento americano?

Perché gli Stati Uniti conobbero una grande crescita?

PROTAGONISTI

Uno dei padri degli Stati Uniti

In Italia è conosciuto principalmente per l’invenzione del parafulmine, ma Benjamin Franklin è stato soprattutto uno degli artefici della nascita degli Stati uniti d’America, uno dei cosiddetti “padri della patria” che furono protagonisti della lotta contro gli inglesi e della nascita della nuova nazione. La sua genialità, il suo spirito di iniziativa e la sua grande forza di volontà lo hanno reso il simbolo del perfetto uomo americano che, pur essendo di umili origini e privo di ricchezza e nobiltà, riesce grazie alle sue capacità a compiere grandi imprese (in inglese si dice self made man cioè “uomo che si è fatto da sé”).

Le prime esperienze

Franklin nacque a Boston nel 1706. Suo padre fabbricava candele di sego ed era un puritano convinto: il piccolo Benjamin crebbe dunque educato al duro lavoro e al principio dell’uguaglianza delle persone, due concetti su cui era imperniata la stessa società americana, sin dall’arrivo dei Padri Pellegrini.

A causa delle ristrettezze economiche della famiglia non riuscì a completare gli studi; tuttavia, amava moltissimo leggere, per cui nel corso degli anni non rinuncerà mai allo studio personale, riuscendo a raggiungere un alto livello di preparazione culturale. Sin da ragazzo lavorò alle dipendenze del fratello Ben (Benjamin era il quindicesimo di diciassette figli, che suo padre ebbe nel corso di due matrimoni). A diciassette anni si trasferì a Filadelfia in cerca di fortuna e, dopo aver lavorato come dipendente in alcune tipografie, si distinse come giornalista, pubblicando L’almanacco del Povero Richard, un periodico umoristico che ebbe un grandissimo successo presso il pubblico americano (in quest’occasione Franklin inventò modi di dire e proverbi che sono usatissimi ancora oggi, come ad esempio “I visitatori sono come il pesce: dopo tre giorni puzzano”).

In seguito fondò una sua tipografia e divenne direttore della Pennsylvania Gazette.

Benjamin Franklin Olio su tela di Joseph Siffred Duplessis (1783), National Portrait Gallery, Londra

L’interesse per la scienza e la politica

Contemporaneamente, la sua passione per l’osservazione dei fenomeni naturali lo portò a dedicarsi alla ricerca scientifica; in questo campo egli ottenne risultati eccezionali, ancora di più se si pensa che si trattava di un autodidatta: inventò infatti le lenti bifocali, un particolare tipo di stufa molto apprezzata per l’alto rendimento e il basso consumo, rimasta poi in uso in molti paesi del mondo, Italia compresa, fino agli anni ’50-’60 del secolo scorso, e soprattutto il parafulmine, indubbiamente la sua scoperta più importante, che gli valse numerosi riconoscimenti internazionali. Ben presto iniziò anche l’attività politica: fu dapprima eletto all’assemblea della Pennsylvania, e rappresentò poi la colonia come suo ambasciatore a Londra. Allo scoppio della guerra venne scelto come delegato per partecipare al Secondo Con-

Franklin, assistito dal figlio William, intraprende il suo leggendario esperimento con l'aquilone durante un temporale, nel giugno 1752, da cui svilupperà il concetto di parafulmine Litografia colorata a mano di Currier & Ives (1876), Springfield Museums, Springfield

gresso continentale, nel 1776. In quell’occasione, fece parte del comitato dei cinque che elaborarono il testo definitivo della Dichiarazione d’Indipendenza, e apportò sostanziali modifiche alla prima redazione operata da Thomas Jefferson. Si recò poi in Francia, dove ricoprì la carica di ambasciatore, giocando un ruolo molto importante nel convincere re Luigi XV a correre in aiuto dell’esercito americano contro gli inglesi.

Un ruolo decisivo

nella stesura della Costituzione

Al termine della guerra era ormai diventato un eroe nazionale, secondo solo a George Washington in quanto a importanza. Fece parte dell’assemblea che scrisse la Costituzione americana, e divenne dunque l’unico, tra i Padri Fondatori, ad aver firmato tutti e quattro i più importanti documenti legati

alla nascita degli Stati uniti: la Dichiarazione d’Indipendenza, il Trattato di pace di Parigi, il Trattato di alleanza con la Francia e la Costituzione.

Morì nel 1790 e venne seppellito a Filadelfia, la città nella quale spese gran parte della sua vita adulta. Ancora oggi, Benjamin Franklin è considerato uno dei più grandi geni del XVIII secolo, un uomo che (come scrisse lo storico Maldwyn Jones) «riuscì in tutto quello che cercò di fare».

PARTIAMO DALLE FONTI

La Dichiarazione d’Indipendenza

elaborata a Filadelfia nel corso del secondo Congresso delle tredici colonie americane, e pubblicata ufficialmente il 4 luglio 1776 (data che viene oggi festeggiata a ricordo della nascita degli Stati uniti d’America), la Dichiarazione d’Indipendenza è uno dei documenti più importanti dell’epoca moderna. esso spiega le ragioni che portarono i coloni alla decisione di separarsi dalla madrepatria, ma nella sua parte iniziale, detta preambolo, afferma in maniera chiara e insindacabile, che tutti gli esseri umani sono creati uguali da dio e possiedono pertanto gli stessi diritti: una concezione, questa, originatasi col Cristianesimo e ripresa successivamente dai filosofi dell’Illuminismo.

«noi giudichiamo le seguenti verità di per sé evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali; che il loro Creatore li ha investiti di alcuni diritti inalienabili; che tra questi ci sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità; che per garantire tali diritti furono istituiti fra gli uomini i governi, che ricevono i loro giusti poteri dal consenso dei governati [cioè il popolo]; che quando una forma qualsiasi di governo è dannosa al raggiungimento di quei fini giusti, il popolo ha il diritto di mutarla o di abolirla, istituendo un nuovo governo e dando come fondamento a questo quei princìpi e quell’ordinamento di poteri che al popolo stesso sembrino più adatti alla propria sicurezza e felicità. La prudenza consiglia che non si mutino per motivi superficiali e transitori i governi da lungo tempo stabiliti. Ma quando una lunga serie di abusi e di usurpazioni, invariabilmente diretti a conseguire lo stesso fine, rende pienamente evidente il disegno di ridurre un popolo alla soggezione di un dispotismo assoluto, esso ha il diritto e il dovere di abbattere un simile governo e di provvedere con nuove garanzie alla propria sicurezza futura. Questa è ora la necessità che costringe le nostre colonie a modificare gli antichi sistemi di governo. Il comportamento dell’attuale re della Gran Bretagna è una sequela di ripetute offese e usurpazioni dirette al fine di stabilire su tutti i nostri stati una tirannide assoluta. Invocando i sentimenti di giustizia e di magnanimità propri del popolo inglese, li abbiamo scongiurati, in nome dei legami di san-

Copia della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti stesa su carta di canapa L’originale, ormai quasi illeggibile, è esposto nella National Archives di Washington, DC

gue che ci uniscono, a porre fine a quelle usurpazioni, che avrebbero inevitabilmente rotto tra noi ogni comunione e rapporto. essi sono rimasti sordi alla voce della giustizia e del sangue. Ci troviamo dunque costretti a cedere alla necessità, dichiarando il nostro distacco e considerandoli, come consideriamo il resto dell’umanità, nemici in guerra e amici in pace».

Adatt.

1. Quali sono i diritti inalienabili che il Creatore ha donato agli uomini?

2. Su cosa si fonda il potere dei governi?

3. Quando è lecito al popolo cambiare tipo di governo?

4. Che accuse vengono rivolte al re?

SPUNTI DI RIFLESSIONE (PER L’EDUCAZIONE CIVICA)

La Dichiarazione d’Indipendenza e la schiavitù

nel preambolo della Dichiarazione d’Indipendenza si afferma senza mezzi termini che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono in possesso di diritti inalienabili, tra i quali vi è quello alla libertà. nonostante questo, abbiamo visto come sin dalla fondazione delle prime colonie, la schiavitù fosse stata ampiamente praticata in America. non solo le piantagioni del sud erano portate avanti dal lavoro di schiavi neri importati dall’Africa, ma gli stessi padri fondatori della nazione, tra cui George Washington, Samuel Adams e Thomas Jefferson, erano proprietari di schiavi. non si trattava dunque di una enorme contraddizione? Il contrasto tra i princìpi affermati nella Dichiarazione d’Indipendenza e la realtà della schiavitù era evidente, e non mancarono mai negli Stati uniti sia personalità di rilievo sia comuni cittadini che lo denunciarono. Al riguardo il disagio era tanto diffuso che già nel 1787 il Congresso emanò una legge che proibiva di importare schiavi nei territori del nord ovest appena colonizzati. Tuttavia la pressione di chi dalla schiavitù ricavava forti guadagni restò a lungo più forte di quella della buona coscienza. Solo al prezzo di una tremenda guerra civile questa pratica disumana venne finalmente abolita, quasi un secolo dopo la firma della Dichiarazione, come vedremo proseguendo i nostri studi. Tutto questo ci fa capire che non sempre le solenni affermazioni di principio nella storia sono poi seguite dai fatti. In molti casi il passaggio dai princìpi anche giusti ed evidenti alla loro attuazione nella realtà richiede un lungo processo di cambiamento di abitudini e mentalità, un processo nel quale, da sole la politica e le leggi non bastano e devono essere affiancate da un lavoro in campo culturale, educativo, morale e dall’impegno comune di tutto il popolo.

Particolare della statua di una donna in schiavitù posta in Stone Town a Zanzibar, sul luogo dove una volta sorgeva il mercato degli schiavi

RACCONTIAMO IN BREVE

1. Nel 1620 si insediarono in America i primi coloni inglesi (i “Padri Pellegrini”) che fondarono New Plymouth, sulle coste di quello che sarebbe poi divenuto il Massachusetts. Il loro intento era quello di fondare una società nuova, più libera e democratica di quella che avevano abbandonato. Il buon esito della loro spedizione spinse altri a seguirne l’esempio: nel giro di pochi anni, dall’Inghilterra e da altri paesi dell’Europa del nord, sempre più persone si recarono nel nuovo continente.

2. Nella seconda metà del XVIII secolo le colonie inglesi erano tredici, tutte situate lungo la costa atlantica. La Gran Bretagna deteneva il monopolio degli scambi commerciali con questi territori e i coloni non potevano impiantare industrie che facessero concorrenza alla madrepatria.

3. Tra il 1756 è il 1763 Gran Bretagna e Francia si affrontarono nella Guerra dei Sette Anni, scoppiata per il controllo del Nord America. Il conflitto fu vinto dagli inglesi, i quali furono però costretti a far pagare nuove tasse ai coloni, per rimediare alle spese sostenute.

4. I coloni accolsero con ostilità questo provvedimento, dato che secondo la legge inglese, nessuna colonia poteva essere tassata se non aveva rappresentanti al parlamento di Londra. Avanzarono perciò questa richiesta, ma non trovarono ascolto.

5. Per reprimere nuove proteste contro due nuove tasse, il 5 marzo 1770 a Boston una guarnigione di soldati aprì il fuoco su cittadini disarmati. Il 16 dicembre 1773, sempre a Boston, un gruppo di coloni buttò a mare una ingente quantità di the appena arrivato dalla Gran Bretagna. La reazione di Giorgio III fu immediata e durissima e questo spinse le colonie alla ribellione aperta. George Washington fu nominato comandante dell’esercito americano.

6. Il 4 luglio 1776, a Filadelfia, le tredici colonie approvarono la loro “Dichiarazione d’Indipendenza”. Essa sanciva in maniera ufficiale la volontà delle colonie di separarsi dalla madrepatria. La Gran Bretagna però non volle cedere e la guerra proseguì, sempre più violenta.

7. Sostenuto anche dall’aiuto di Francia e Spagna l’esercito americano, dopo alcune difficoltà iniziali, si impose nel conflitto. Nell’ottobre del 1781 gli inglesi furono sconfitti a Yorktown, battaglia che segnò la fine della guerra. La pace venne firmata a Versailles nel settembre del 1783.

8. Dopo accese discussioni riguardanti l’assetto del nuovo stato americano, prevalse la formula della federazione: ogni territorio avrebbe così potuto conservare la propria autonomia, ma nello stesso tempo ci sarebbe stato un governo centrale a vigilare sul tutto.

9. I vari poteri erano divisi: quello esecutivo era di competenza di un presidente, eletto per quattro anni dal popolo e rieleggibile solo una volta. Egli era dotato di ampi poteri, ma doveva anche rendere conto a un Congresso composto da due camere, che deteneva il potere legislativo. Il potere giudiziario, infine, era retto da una Corte Suprema, che aveva il compito di sorvegliare l’operato del governo e addirittura destituire il presidente, qualora egli abusasse delle sue funzioni.

10. Nel corso degli anni alcuni articoli della Costituzione sono stati modificati con degli emendamenti, con lo scopo di renderli più funzionali e adatti a nuove esigenze. Nel complesso però, il documento è rimasto lo stesso e quella americana è considerata la costituzione ancora in vigore più antica al mondo.

ATTIVITÀ E VERIFICHE

Esercizio 1 · Rispondi, anche oralmente, alle seguenti domande.

1. da quali ideali erano animati coloro che dall’europa giungevano in America?

2. Quale fu inizialmente l’atteggiamento dei pellerossa verso i nuovi coloni?

3. Quali erano le condizioni economiche delle tredici colonie?

4. Come si concluse la Guerra dei Sette Anni?

5. Chi erano i Figli della libertà?

6. Che cosa fu il Boston Tea Party?

7. Chi era George Washington?

8. A quale modello si ispirarono i padri costituenti nel redigere la nuova costituzione degli Stati uniti d’America?

9. Come è composto il parlamento americano?

10. Quali poteri ha il presidente degli Stati uniti e per quanto tempo resta in carica?

Esercizio 2 · Completa la linea del tempo: scrivi il numero del fatto storico sulla data corretta.

1620

1. Guerra dei Sette Anni

1756-1763

16 dicembre 1773

2. dichiarazione d’Indipendenza delle colonie americane

3. Spedizione del Mayflower

4. Boston Tea Party

4 luglio 1776

Esercizio 3 · Per completare la frase iniziale scegli fra le tre alternative proposte quella che ti sembra, oltre che esatta, anche precisa e formulata con il linguaggio più appropriato.

Nei confronti delle colonie americane la Gran Bretagna

a. deteneva il monopolio dei commerci e proibiva di impiantare industrie che facessero concorrenza a quelle britanniche.

b. deteneva il pieno controllo politico ed economico.

c. vietava ogni forma di contrabbando.

Il principio no taxation without representation stabiliva che

a. solo chi paga le tasse può mandare propri rappresentanti in parlamento.

b. non paga le tasse chi non può mandare propri rappresentanti in parlamento.

c. tutti i cittadini di uno stato devono pagare le tasse.

Inizialmente i coloni inglesi d’America

a. chiesero l’indipendenza dalla madrepatria.

b. chiesero di non pagare più tasse.

c. chiesero di poter nominare loro rappresentanti nel parlamento inglese.

La forma della federazione

a. accontentò tutti i rappresentanti delle tredici colonie.

b. permetteva alle colonie di conservare una certa autonomia, ma nel contempo manteneva la compattezza dello stato.

c. permetteva ad ogni colonia di essere più forte e di realizzare la propria politica.

Il Congresso americano è composto da

a. due camere, una in cui ogni stato ha lo stesso numero di rappresentanti ed una eletta proporzionalmente.

b. due camere elette entrambe proporzionalmente al numero di abitanti per ogni stato.

c. una camera con rappresentanti eletti proporzionalmente da ogni stato.

Esercizio 4 · Dopo aver definito che cos’è uno stato federale, fai una breve ricerca sugli ordinamenti politici di alcuni stati europei attuali e inseriscili negli appositi spazi della tabella sotto riportata.

Si ha uno stato a ordinamento federale quando

Stati a ordinamento federale

Stati non federali

Sapresti dire qualcosa riguardo all’ordinamento politico italiano? In quale colonna collocheresti l’Italia?

Operai al lavoro in una fabbrica inglese Affresco di William Bell Scott (1856-61), Wallington Hall, Northumberland, Gran Bretagna

La rivoluzione industriale

La più grande trasformazione economica e sociale dai tempi del Neolitico

L’Inghilterra conobbe nel XVIII secolo lo sviluppo di quella che poi sarebbe diventata l’industria nel senso moderno della parola, ossia la produzione in serie su larga scala di prodotti realizzati all’interno di grandi fabbriche dove gli operai lavoravano con l’aiuto di macchine azionate non più dall’acqua, ma dall’energia del vapore.

Questo processo, noto come “rivoluzione industriale”, si diffonderà presto anche nel resto dell’Europa, avviando la più grande trasformazione economica e sociale della storia dell’uomo dopo quella del Neolitico.

Lo sviluppo dell’industria in Inghilterra dipese da molti fattori: la presenza di istituzioni democratiche, la concorrenza e la libera iniziativa in campo economico, la disponibilità di un sottosuolo ricco di carbon fossile, l’abbondanza di cotone nelle colonie oltreoceano, l’invenzione, infine, della macchina a vapore e del telaio meccanico, che permisero di avviare la produzione tessile su larga scala.

La rivoluzione industriale ebbe nel tempo conseguenze largamente positive, ma all’inizio il prezzo da pagare fu altissimo: lavoratori, tra cui donne e bambini, sottoposti a durissime condizioni di lavoro, con salari molto bassi e la mancanza di ogni forma di tutela e di assistenza; città invase dall’inquinamento e dallo smog con quartieri operai malsani e privi dei servizi essenziali.

Solo molti anni dopo questi problemi verranno messi al centro del dibattito politico e se ne cercherà una qualche soluzione.

AL TERMINE DEL CAPITOLO

Schede di approfondimento

• La divisione del lavoro secondo Adam Smith

• I progressi della scienza nel Settecento

• La forza del vapore

• Le dure condizioni del lavoro di fabbrica

Raccontiamo in breve

Attività e verifiche

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per non perdere il filo

Perché si ebbe in Europa un incremento demografico a partire dal XVIII secolo?

1 · La crescita dell’agricoltura

Un secolo di forte incremento demografico

A partire dal XVIII secolo nei paesi europei la popolazione cominciò a crescere in misura notevole. Tale crescita fu dovuta al sommarsi di due fenomeni: da un lato l’aumento della natalità, particolarmente forte nell’Europa orientale e in Russia, e dall’altro la diminuzione della mortalità, dovuta ai progressi della medicina e al miglioramento delle condizioni igieniche. Grazie a questi progressi la peste e la carestia, da sempre veri e propri flagelli dell’umanità, colpirono con sempre minor violenza.

Alcuni studiosi sottolineano poi un altro fattore di grande rilevanza: un mutamento climatico grazie al quale la temperatura media, che era diminuita durante la cosiddetta “piccola glaciazione” del Seicento, complessivamente aumentò. Grazie a questo fenomeno diventarono coltivabili terre che in precedenza erano lasciate a bosco o destinate al pascolo.

Migliorano le tecniche agricole e si estendono le terre da coltivare

In conseguenza di questa “rivoluzione demografica” si verificarono anche notevoli mutamenti nell’agricoltura. La crescita della popolazione rendeva necessario disporre di maggiori quantità di cibo. Per aumentare la produzione agricola e la resa dei terreni si cominciarono a costruire macchine e attrezzi da lavoro sempre più efficaci, tra cui l’aratro di ferro, che si diffuse presto in tutto il continente. In Italia questo accadde in particolare in Piemonte, in Veneto e in Lombardia, dove nacquero vere e proprie aziende che investivano capitali (cioè denaro) nelle migliorie tecniche e che destinavano all’esportazione i loro prodotti.

In molte zone furono poi attuate opere di bonifica, per estendere la superficie coltivabile (le colture più diffuse erano il mais e la patata, entrambe giunte dall’America due secoli prima), anche se poi rimaneva il problema della scarsa disponibilità di concime naturale.

I contadini inglesi perdono l’uso dei terreni comuni In Inghilterra questi cambiamenti ebbero anche notevoli ripercussioni sociali: si era infatti creata nel paese una classe di imprenditori interessata a grandi investimenti in agricoltura. Più i terreni venivano resi produttivi e gli affari andavano bene, più cresceva il desiderio di mettere a coltura nuove terre. Sin dal Medioevo, però, in Inghilterra (ma anche altrove, Italia compresa) gli abitanti dei villaggi avevano a dispo-

sizione terreni di uso comune, che appartenevano alla comunità e che potevano essere utilizzati da chiunque per pascolare il bestiame, per la caccia e la pesca e per la raccolta della legna.

Famiglia di contadini che abbandona la campagna a causa delle recinzioni Incisione del 1800

A poco a poco i grandi lord proprietari terrieri, sostenendo che era meglio per tutti che tali terreni venissero usati in modo più produttivo, ottennero dal re l’autorizzazione ad appropriarsene recintandoli. Si tratta del fenomeno delle cosiddette enclosures (“recinzioni”), che era già iniziato con la regina Elisabetta, ma che divenne particolarmente diffuso in questo periodo. Fu per i contadini senza terra e i piccoli proprietari una vera e propria sciagura: non potendo più disporre liberamente di legna per il riscaldamento invernale né di pascolo per i propri animali, e non avendo più modo di integrare con la caccia e la pesca lo scarso frutto dei loro esigui campi, essi, privati di risorse essenziali per la loro sopravvivenza, non poterono fare altro che cercare lavoro come braccianti a servizio dei grandi proprietari, oppure emigrare in città in cerca di nuove occupazioni. Ne derivò una disponibilità di manodopera che la nascente industria britannica non avrebbe tardato a utilizzare. Perché molti contadini dovettero emigrare in città in cerca di nuove occupazioni?

Perché il sistema politico inglese creato dopo la Gloriosa Rivoluzione favorì lo sviluppo dell’economia?

2 · Il grande sviluppo industriale in Inghilterra

Alcuni lord iniziano a investire soldi in imprese produttive: nasce il lavoro a domicilio

Abbiamo già visto come dal 1688 l’Inghilterra non fosse più un paese governato da una monarchia assoluta: la Gloriosa Rivoluzione aveva infatti introdotto una volta per tutte un sistema politico democratico e parlamentare. Tutto questo ebbe conseguenze anche sul piano economico. Diversamente da quanto accadeva in Francia, infatti, lo stato non aveva la pretesa di regolare dall’alto tutte le attività, ma incoraggiava la concorrenza e la libertà di iniziativa. Divenne dunque naturale che quegli stessi lord che avevano investito somme di denaro per rendere produttive le loro terre decidessero, incoraggiati da questo clima favorevole, di impegnarsi in attività di diversa natura.

Fu così che, sfruttando la disponibilità di manodopera venutasi a creare con l’aumento delle recinzioni, cominciarono a inviare di casa in casa dei loro agenti incaricati di proporre ai contadini impoveriti dei contratti che oggi chiameremmo di “lavoro a domicilio”: in pratica fornivano ai contadini quantitativi di lana che questi avrebbero dovuto filare a casa loro (cosa che nelle campagne inglesi si faceva da secoli, per arrotondare i proventi del lavoro agricolo) e poi restituire all’imprenditore perché fosse venduta sul mercato.

La spoletta volante e il telaio meccanico permettono di aumentare la produzione

Perché fu importante l’invenzione del telaio meccanico?

Il lavoro a domicilio così strutturato introduceva una novità: i contadini non dovevano più preoccuparsi né dell’acquisto delle materie prime né della loro vendita, bensì solo della loro lavorazione. Erano diventati lavoratori dipendenti. Col passare del tempo, la domanda di tessuti di lana aumentò notevolmente e gli imprenditori si trovarono così nella necessità di incrementare la produzione. I telai che i contadini avevano a disposizione non permettevano però di fabbricare un numero maggiore di pezze; inoltre, allargare l’area del lavoro a domicilio avrebbe significato una maggiore difficoltà nel mantenere il controllo sui lavoratori. In questi stessi anni si verificarono però due importanti innovazioni tecnologiche: la spoletta volante, che permetteva di azionare più fusi contemporaneamente, e il telaio meccanico, azionato da energia prodotta da mulini ad acqua.

L’invenzione della macchina a vapore e la nascita delle prime fabbriche

Questi macchinari si rivelarono utili poiché resero possibile accelerare il ritmo di lavoro e quindi la produttività, ma erano anche enormemente costosi e non potevano essere acquistati dai contadini. Gli imprenditori acquistarono dunque i macchinari e li collocarono in appositi luoghi dove i contadini vennero portati a lavorare. Nacquero così le prime fabbriche, che posero le basi per quella che sarebbe diventata l’industria moderna.

Il definitivo decollo della produzione industriale si ebbe però solo con l’invenzione della macchina a vapore, messa a punto da James Watt nel 1768. Di per sé, la scoperta non era nuova: fin dall’antichità, infatti, si era scoperto che l’energia del vapore poteva essere sfruttata per produrre movimento; tuttavia a quel tempo nessuno vi aveva visto alcuna utilità pratica. Adesso invece essa si rivelò utilissima per azionare i macchinari delle fabbriche, che in questo modo non dovettero essere più collocate nei pressi di fiumi o altri corsi d’acqua: l’energia del vapore risultava infatti più comoda da sfruttare rispetto a quella idraulica.

Perché fu decisiva l’invenzione della macchina a vapore?

James Watt mentre perfeziona la macchina a vapore in una incisione di fine Ottocento

Perché il carbone fu più vantaggioso rispetto al legno nel funzionamento delle macchine?

Nasce anche la locomotiva

La macchina a vapore aprì la via anche a un’altra invenzione ancor più rivoluzionaria: con essa si poteva realizzare un motore relativamente leggero, potente e autonomo quanto bastava da essere installato su un veicolo, così da trasmettere movimento a quel veicolo e ad altri eventualmente agganciati. Si ponevano in tal modo le basi per la realizzazione della locomotiva e quindi del treno e, successivamente, degli altri veicoli a motore.

Carbone e ferro, i “motori” dell’industrializzazione

La macchina a vapore portò alla luce un’altra grande ricchezza della Gran Bretagna, fondamentale per lo sviluppo della sua industria: i giacimenti di carbone. Il sottosuolo inglese ne era ricchissimo e questo si rivelò un enorme vantaggio. Infatti, per avviare il processo di combustione necessario al funzionamento delle macchine sarebbe occorsa una grande quantità di legname, costoso e poco abbondante nel paese. Il carbone era invece molto più economico e più calorico, e la sua disponibilità permise di aumentare enormemente la produzione.

Si sviluppò così anche un’industria estrattiva: oltre al carbone, vi erano enormi giacimenti di ferro, materiale che era diventato indispensabile per il progresso degli strumenti per la coltivazione, lo sviluppo dei commerci e la crescente richiesta di macchinari per l’industria tessile.

Il cotone sostituisce la lana

come prodotto principale dell’industria tessile

Perché fu importante la produzione di tessuti in cotone?

Da questo momento, lo sviluppo dell’industria tessile non conobbe alcuna fase d’arresto, fornendo prodotti a prezzi sempre più bassi, man mano che si riducevano i costi della lavorazione. Progressivamente, alla tessitura della lana si aggiunse quella del cotone, che ampliò notevolmente il mercato tessile. Noto sin dal tempo degli antichi Egizi, il cotone era però stato fino ad allora un prodotto esotico di alto costo, e quindi riservato a pochi. Verso la fine del Settecento divenne invece possibile produrne in grandi quantità e a basso prezzo nel sud degli Stati Uniti e nelle colonie britanniche, da dove veniva poi inviato per la lavorazione nelle manifatture inglesi. L’utilizzo su vasta scala di tessuti in cotone, morbidi e facilmente lavabili, favorì il miglioramento delle condizioni igieniche e sanitarie della popolazione, che poteva disporre di frequenti ricambi e di biancheria sempre pulita. Grazie a tutto ciò, in quegli anni la produzione tessile aumentò di sei volte, mentre tra il 1788 e il 1806 quella del ferro quadruplicò. Infatti, oltre alle armi e agli strumenti da lavoro, cominciarono a essere prodotti binari, ponti, locomotive e parti di edifici. Di lì a poco la cosiddetta “industria pesante” avrebbe per sempre cambiato il volto del paese.

3 · Le conseguenze della rivoluzione industriale

Cambia totalmente il volto delle città…

La rivoluzione industriale non ebbe solo conseguenze economiche. Essa provocò infatti enormi trasformazioni, che interessarono il volto delle città e la vita dei loro abitanti. I centri urbani già esistenti conobbero una crescita di vaste proporzioni, dovuta al fatto che le fabbriche (che con l’avvento della macchina a vapore tendevano a nascere vicino alle grandi vie di comunicazione, nei pressi delle città) attiravano un sempre maggior numero di lavoratori dalle campagne. Dopo la recinzione delle terre comuni il lavoro in fabbrica era l’unica possibile speranza per i contadini senza terra o con proprietà insufficienti. A questi si aggiungevano gli artigiani, rovinati dalla concorrenza delle industrie, che erano ormai in grado di realizzare prodotti di maggiore qualità a un prezzo notevolmente più basso. Tutta questa gente si riversò nelle città già esistenti, andando a ingrossarne le periferie. Contemporaneamente, si verificò la nascita di altri centri urbani, sorti in particolare nelle vicinanze delle miniere di carbone e di ferro.

Giovani donne impegnate nell'industria tessile

Perché i centri urbani esistenti conobbero un grande sviluppo e si crearono nuovi insediamenti?

Perché nei quartieri operai si viveva male?

… ma nei nuovi quartieri operai si diffondono povertà e inquinamento

Questa crescita urbana ebbe anche conseguenze negative: i quartieri periferici erano spesso poveri e privi dei servizi essenziali, dato che i lavoratori delle fabbriche non potevano permettersi molto meglio. Le condizioni igieniche erano pessime, gli alloggi piccoli e la gente viveva stipata in spazi ristretti; dilagavano la criminalità e l’alcolismo mentre l’inquinamento, prodotto dai fumi degli stabilimenti, causava malattie respiratorie che in molti casi portavano alla morte.

La durissima condizione degli operai

Perché i salari degli operai erano particolarmente bassi?

Perché si facevano lavorare in fabbrica anche donne e bambini?

Nelle fabbriche la situazione non era migliore: la richiesta di lavoro era talmente alta, che i proprietari delle industrie potevano imporre salari bassissimi, convinti che per ogni persona che avesse rifiutato il lavoro, altre due erano pronte a prendere il suo posto. Gli operai facevano turni di lavoro massacranti, anche di dodici o quindici ore al giorno, in ambienti malsani e in condizioni spesso pericolose (il numero degli incidenti sul lavoro era infatti altissimo, soprattutto nelle miniere di carbone).

Solamente alla domenica era concesso un po’ di riposo; per il resto non c’era possibilità di prendere ferie e anche la malattia non era pagata: chi si ammalava non percepiva il salario della giornata. Inoltre, per incrementare lo scarso guadagno, le famiglie avviavano al lavoro anche donne e bambini, che erano sottoposti a ritmi non meno duri.

Rabbia e frustrazione: il Luddismo

Da un lato, quindi, la rivoluzione industriale fu all’origine di un forte sviluppo economico prima della Gran Bretagna e in seguito degli altri paesi europei nei quali gradualmente si estese. Dall’altro, però, il benessere che ne derivò non andò oltre i ceti medi, la cosiddetta borghesia. Inoltre, nelle campagne, ma soprattutto nelle città le condizioni di vita dei lavoratori peggiorarono radicalmente. L’insofferenza per questo stato di cose degenerò presto in rabbia e rivolte: in particolare, un notevole consenso ottenne il movimento dei “luddisti”. Essi derivarono il loro nome da Ned Ludd, un personaggio, probabilmente di fantasia, che nel 1779 avrebbe distrutto per protesta il primo telaio meccanico. Il Luddismo si proponeva dunque di distruggere le macchine, che venivano viste come unica causa dei disagi che gli operai stavano patendo. Questo movimento venne represso nel sangue, e il governo inglese proibì ogni associazione tra i lavoratori, temendo che potesse avere esiti violenti. Sarebbero dovuti passare ancora molti anni prima che la dura condizione di vita degli operai fosse messa al centro del dibattito politico nei vari paesi d’Europa e trovasse qualche soluzione.

METTIAMO A FUOCO

La divisione del lavoro secondo Adam Smith

L’intellettuale scozzese Adam Smith (1723-90) si dedicò soprattutto allo studio dell’economia. I suoi studi furono importanti in particolare per l’elaborazione della cosiddetta teoria liberista, di cui è considerato il fondatore. Tale teoria partiva dal presupposto che il singolo individuo, impegnandosi per realizzare il proprio interesse, se agisce bene finisce per realizzare il bene collettivo. Di conseguenza, lo stato avrebbe dovuto intervenire il meno possibile in materia economica, lasciando che la libera iniziativa degli imprenditori generasse sviluppo e benessere. Questa filosofia è senza dubbio alla base degli importanti cambiamenti che si verificarono in Gran Bretagna nel XVIII secolo, assieme all’altro grande principio della divisione del lavoro. Smith sosteneva infatti che il modo migliore per aumentare la produttività degli operai fosse quello di scomporre il processo di lavorazione di un prodotto in tante piccole operazioni, svolte ciascuna da un individuo diverso. In questo modo, il lavoratore poteva concentrarsi su un singolo dettaglio e potevano venire prodotti un numero maggiore di pezzi in un lasso di tempo inferiore e a costi fortemente ridotti. La fabbrica prendeva così il sopravvento sulla bottega artigianale, ma non sarebbero mancate le conseguenze negative: gli operai lavoravano di più e svolgevano operazioni meccaniche, senza provare la soddisfazione tipica di chi segue tutte le fasi della lavorazione di un oggetto, dall’inizio alla fine. ecco come Adam Smith, in un testo del 1776, spiega i vantaggi della divisione del lavoro:

«Se un solo uomo dovesse produrre tutte le parti di uno spillo, potrebbe a stento fare uno spillo in un anno. Il prezzo di questo spillo, quindi, dovrebbe essere almeno uguale al prezzo del mantenimento di un uomo per la durata di un anno. Facciamo l’ipotesi che, per questo mantenimento, siano necessarie sei sterline […], in tal caso il prezzo di ogni spillo dovrebbe essere di sei sterline. Supponendo che il filo metallico gli sia fornito già pronto, anche in questo caso penso che un uomo solo potrebbe, pur con il massimo impegno, fare a stento venti spilli al giorno. Ma il produttore di spilli, nel produrre questo piccolo oggetto di scar-

so valore, molto opportunamente si preoccupa di dividere il lavoro tra un gran numero di persone: a uno assegna il compito di raddrizzare il filo metallico, a un altro di tagliarlo, a un terzo di appuntirlo, a un quarto di schiacciarlo in cima per infilarci la capocchia; tre o quattro hanno il compito di fare le capocchie, uno deve innestarle, un altro riunisce gli spilli, e anche il compito di incartarli è affidato a qualcun altro. Se questa operazione viene in questo modo divisa tra circa diciotto persone, queste, complessivamente, realizzeranno più di trentaseimila spilli al giorno. Si può così pensare che ciascuno, facendo la diciottesima parte di trentaseimila spilli, faccia duemila spilli al giorno e, supponendo che vi siano trecento giornate lavorative in un anno, si può pensare che ognuno produca seicentomila spilli all’anno, cioè seimila volte la quantità di lavoro che sarebbe capace di produrre, se dovesse da se stesso provvedere a tutti gli attrezzi e le materie prime, come nella prima ipotesi; e cento volte la quantità di lavoro che sarebbe capace di svolgere, se il filo gli fosse fornito già pronto, come nella seconda. Il mantenimento di ciascuna persona per la durata di un anno non deve più ricavarsi quindi da un solo spillo, e neanche da seimila, come nelle due ipotesi fatte all’inizio, ma da seicentomila. Il padrone può permettersi, di conseguenza, di aumentare i salari dei lavoratori e vendere comunque questo articolo a un prezzo di gran lunga più basso di prima». Adatt.

Adam Smith

IL CAMMINO DELLA TECNICA E DELLA SCIENZA

I

progressi della scienza nel Settecento

Progressi in tutti i campi

Se il Seicento è stato un secolo di notevoli progressi soprattutto per quanto riguarda l’astronomia e la fisica, il secolo successivo vide un avanzamento generale di tutte le scienze. La matematica si avvalse del contributo di grandi geni come il francese Condorcet, il torinese Lagrange e lo svizzero eulero. L’astronomia progredì grazie agli studi sulle comete da parte dell’inglese edmond Halley, che tra l’altro scoprì la celebre cometa che porta il suo nome e che è visibile dalla terra ogni 80 anni. Il francese Lavoiser è invece considerato il padre della chimica moderna, poiché riuscì per primo a determinare la composizione dell’aria e dell’acqua e a distinguere gli elementi dai composti. Inoltre, cominciò ad essere studiata l’energia

elettrica, che si sarebbe in seguito rivelata fondamentale per lo sviluppo dell’umanità. I primi studi decisivi in questo campo furono condotti da due italiani, il bolognese Luigi Galvani e il comasco Alessandro Volta. In particolare quest’ ultimo fu l’inventore della pila, che trasformò l’energia chimica in energia elettrica. Grazie ad essa, si giungerà all’illuminazione elettrica, che nella seconda metà dell’Ottocento comincerà a entrare nelle case prendendo, a poco a poco il posto delle vecchie candele e lanterne.

La pila di Volta Disegni delle varie configurazioni di pila a colonna, inclusi nella lettera inviata da Volta allo scienziato inglese sir Joseph Banks per annunciargli la sua invenzione (1800)

Le applicazioni pratiche

Le scoperte scientifiche non rimasero fine a se stesse: esse ebbero numerose applicazioni pratiche, molte delle quali migliorarono la qualità della vita. Alla fine del Settecento fu realizzato in Germania il primo stabilimento per distillare lo zucchero della barbabietola. un alimento essenziale e diffuso poteva così essere messo a disposizione in maniera molto più economica, senza ricorrere per forza all’importazione di zucchero di canna dalle Americhe e dall’Africa. Inoltre, in Inghilterra si scoprì come produrre gas illuminante dalla distillazione del carbone: rischiarate da lampade a gas, le strade di Londra cambiarono rapidamente volto.

La scoperta del volo una delle invenzioni che all’epoca suscitò più entusiasmo fu quella della mongolfiera, nata dalla scoperta che l’aria calda ha un peso minore di quella fredda. Furono i due fratelli francesi Montgolfier (da cui il pallone aerostatico prese il nome) a compiere la prima ascensione umana nell’aria, nel 1783. Sarebbero occorsi ancora un paio di secoli prima che il volo potesse divenire una pratica comune da parte degli esseri umani, tuttavia questo primo successo sembrò realizzare le secolari aspirazioni dell’umanità di poter entrare a stretto contatto col cielo (ricordiamo che già Leonardo da Vinci, in via del tutto teorica, aveva progettato macchine volanti).

La fede nel progresso, alimentata dalla mentalità illuminista che esaltava la ragione dell’uomo come in grado di arrivare alla completa conoscenza di tutti i fattori della realtà, fu senza dubbio alla base di questa ondata di scoperte. È vero tuttavia che molti di questi scienziati erano anche uomini di profonda fede religiosa e che, d’altra parte, la rivoluzione francese, il maggior esperimento di attuazione pratica degli ideali dell’Illuminismo, non risparmiò affatto gli scienziati. Tra le sue numerose vittime ricordiamo proprio Antoine-Laurent de Lavoisier, padre della chimica moderna.

La sconfitta definitiva del vaiolo e fu proprio un personaggio umile e riservato, estraneo alla solennità degli scienziati dell’epoca, a compiere una delle scoperte più importanti di quel secolo. Si tratta del medico inglese edward Jenner (1749-1823), che mise a punto un rimedio contro il vaiolo, malattia mortale particolarmen-

te diffusa in europa. egli partì dalla credenza popolare secondo la quale le persone che avevano contratto il vaiolo delle mucche, una forma più leggera della malattia, rimanevano immuni da quella più grave. Dopo una serie di esperimenti il medico si rese conto che questa credenza aveva basi scientifiche e mise a punto un apposito “vaccino” (termine derivato proprio dal vaiolo delle vacche), grazie al quale poté finalmente essere debellata una malattia che in circa due secoli, dal XVII al XIX, aveva ucciso fino all’8% della popolazione europea. In Italia la vaccinazione antivaiolosa fu diffusa a partire dall’Ottocento, grazie al medico varesino Luigi Sacco, e divenne obbligatoria nel 1888.

Edward Jenner inocula al figlio il suo vaccino Incisione dalla scultura di Giulio Monteverde (1878) della quale una versione in marmo è esposta alla Galleria d'Arte Moderna di Genova

IL CAMMINO DELLA TECNICA E DELLA SCIENZA

La forza del vapore

Il grande sviluppo delle scienze, che si registrò nel Settecento, cominciò ad avere un grande impatto sulla tecnica, che proprio allora iniziò a trasformarsi largamente in tecnologia, cioè in scienza applicata.

Se in Inghilterra il progresso tecnico e la conseguente rivoluzione industriale fu opera di privati, inventori e imprenditori, protetti da una buona legislazione sui brevetti, che consentiva loro di guadagnare da quanto inventavano e sviluppavano, contemporaneamente in Francia fu lo Stato a prendere in mano il processo. La reale Accademia delle Scienze fu incaricata di pubblicare una descrizione scientifica illustrata di tutti i dispositivi tecnici esistenti allo scopo di renderli disponibili a tutti “per il bene generale della nazione” e fare così penetrare il metodo scientifico in tutta la produzione tecnica. Così, in capo ad un lavoro durato quasi un secolo, venne pubblicata tra il 1761 e il 1789 divisa in 121 parti e illustrata con oltre mille incisioni in rame una grande opera dal titolo Descriptions des arts et métiers. Le Descriptions sono più o meno contemporanee all’Encyclopédie e con essa in certo modo confrontabili ma diversamente da quest’ultima finirono per essere più un quadro del passato che un’apertura verso il futuro.

Il modello britannico

Si rivelò ad ogni modo vincente il modello inglese, e fu la Gran Bretagna a prendere la guida di tale processo, tanto più che era facilitata dall’abbondanza delle sue riserve di ferro e di carbone. Al centro di questo sviluppo fu la macchina a vapore brevettata nel 1782 dallo scozzese James Watt, che era un perfezionamento di quella inventata all’inizio del secolo da Newcomen. Watt (che venne poi onorato dando il suo nome al watt, l’unità di misura della potenza), applicando le sue conoscenze scientifiche sulle proprietà del vapore, creò una macchina più efficiente e che consumava meno di quella di Newcomen. Grazie ad essa l’estrazione di carbone, di ferro e di altri minerali aumentò di molto. Tra il 1788 e il 1806 la produzione in Inghilterra di ferro greggio si quadruplicò. Si registrarono grandi progressi nel campo della metallurgia con un positivo impatto sulla fabbri-

cazione di nuove macchine utensili, Di particolare importanza il telaio meccanico mosso da energia prodotta da macchine a vapore. Anche la chimica, ormai staccatasi dall’alchimia, fece registrare grandi progressi rendendo tra l’altro possibile la produzione massiva di prodotti per il candeggio e le tinte dei tessuti.

L’invenzione della ferrovia

Già nelle miniere, nelle fabbriche e nei cantieri navali si usavano carri trascinati da cavalli lungo binari dapprima in legno e poi in ferro finché nel secolo XIX l’uso combinato di binari in ferro, carri e macchine a vapore portò all’invenzione della ferrovia. Questa ebbe un gigantesco impatto non solo economico ma anche sociale e umano. Fino a quel momento l’uomo aveva potuto muoversi sulla terra ferma a piedi o a cavallo alla velocità media di 4/4,5 chilometri all’ora. Diversamene da quanto si vede oggi nei film il cavallo camminava normalmente al passo; al galoppo può correre soltanto per qualche chilometro al massimo Con le prime ferrovie, che andavano attorno ai 40/45 chilometri all’ora, la velocità di spostamento di colpo si decuplicò.

La storica locomotiva a vapore Rocket Museo della Scienza, Londra. Progettata da George e Robert Stephenson nel 1829, vinse il Rainhill Trials diventando la locomotiva più veloce mai costruita fino a quel momento.

Le navi a vapore

Nel 1808 l’americano robert Fulton costruì un battello fluviale mosso da una macchina a vapore e lo fece navigare sul fiume Hudson. La prima nave a vapore che navigò nel Mediterraneo fu il Ferdinando I, costruito a Napoli, che nel suo viaggio inaugurale nel 1818 toccò i porti di Livorno, Genova e Marsiglia. entro il 1875 i motori a vapore avevano quasi ovunque sostituito le vele. Nel 1854 a Londra venne varato il vapore Great Eastern lungo 211 m, largo 24 mt e con una stazza superiore alle 20.000 tonnellate. era allora la nave più grande del mondo e tale restò per circa cinquant’anni. Si rivelò tuttavia in anticipo sui tempi e come nave passeggeri ebbe una vita travagliata tanto che venne infine anche usato per posare il primo cavo telegrafico transatlantico tra europa e Nordamerica. Aprì comunque l’era dei grandi transatlantici che culminò a metà del secolo XX con navi attorno alle 85 mila tonnellate di stazza che viaggiavano a circa 40 chilometri all’ora.

I nuovi armamenti

Non va poi dimenticato l’impatto che l’abbondanza di ferro e l’aumento della capacità di servirsene ebbero sugli armamenti. Dai primi anni del secolo XIX fino alla metà del secolo XX le forze armate furono tra i maggiori acquirenti e consumatori di ferro. Molte tecniche trovarono nelle armi la loro prima applicazione e occasione di sviluppo. Fu soprattutto per le esigenze belliche della Francia della rivoluzione che nel 1794-95 venne fondata a Parigi l’École Polytechnique, a lungo fucina di ingegneri e tecnici soprattutto militari. A questa e ai suoi obiettivi si ispirerà anche la prima scuola politecnica tedesca, fondata a Karlsruhe nel 1825.

La nave a vapore Great Eastern in costruzione, 1857

PARTIAMO DALLE FONTI

Le dure condizioni del lavoro di fabbrica

Le condizioni pressoché disumane in cui gli operai furono costretti a lavorare agli albori della rivoluzione industriale non tardarono a colpire l’attenzione di alcuni scrittori e giornalisti britannici, che si impegnarono a denunciare questo stato di cose. Sembrava infatti una grande contraddizione il fatto che, per realizzare lo sviluppo economico, spesso dovessero essere sacrificate le vite di persone innocenti. Proponiamo questi due brani dell’epoca che denunciano le drammatiche condizioni degli operai in fabbrica: il primo, tratto da un articolo del Political Register diretto da William Cobbet, si concentra sull’ambiente disumano dei primi stabilimenti industriali. Il secondo, dello scrittore John Fielden, denuncia la terribile piaga del lavoro infantile.

«Alcuni di questi signori del telaio hanno alle loro dipendenze migliaia di miserabili creature. Nelle filande queste creature sono tenute rinchiuse quattordici ore al giorno, estate e inverno, in un calore che va dai 29 ai 30 gradi centigradi. Le regole a cui sono soggetti sono quali nessuno ha mai dovuto sopportare, nemmeno i lavoratori neri. Queste povere creature non hanno una stanza fresca in cui ritirarsi, né un momento per asciugarsi il sudore, e non un soffio d’aria che venga a preservarli dall’infezione. La porta del locale dove lavorano è chiusa a chiave, tranne che per la mezz’ora del tè, e gli operai non possono mandare a prendere acqua da bere; anche l’acqua piovana è inaccessibile, per ordine del padrone, altrimenti sarebbero ben contenti di berla. Se un filatore è trovato con la finestra aperta deve pagare una multa! In aggiunta ai nocivi effluvi del gas, mescolato al vapore, vi è la polvere e il pulviscolo del cotone, che le sventurate creature sono costrette a inalare; e il fatto noto a tutti è che gli uomini di normale costituzione diventano vecchi e inabili al lavoro a quarant’anni, e che i bambini sono resi rachitici e deformi, e a migliaia e migliaia muoiono di consunzione prima di arrivare ai sedici anni».

«È ben noto che i nuovi macchinari sottrassero l’attività manifatturiera dalle case dei contadini, dove era svolta dalle mogli o dalle figlie, e le con-

centrarono in grandi fabbriche dove furono introdotte le macchine di nuova invenzione, costruite al margine di corsi d’acqua in grado di far girare le ruote idrauliche.

Tutto a un tratto in quei luoghi remoti dalle città ci fu bisogno di migliaia di operai. Poiché le dita piccole e agili dei bambini erano le più richieste, si sviluppò rapidamente l’uso di procurarsi cosiddetti apprendisti dai vari istituti di ricovero delle parrocchie di Londra, Birmingham e altre località. Molte, molte migliaia di queste tenere e sventurate creature, dall’età di sette fino a tredici-quattordici anni, furono inviate nelle fabbriche.

L’usanza era che il padrone vestisse l’apprendista, lo nutrisse e lo alloggiasse in una casa vicina alla fabbrica; per il controllo del lavoro erano nominati dei sorveglianti, che avevano interesse a sfruttare al massimo i bambini perché erano pagati in proporzione al lavoro che riuscivano a ottenerne. La crudeltà era la conseguenza naturale; e abbondano le testimonianze scritte, confermate dai ricordi di persone ancora viventi, che dimostrano come i trattamenti più crudeli erano inflitti alle innocenti e derelitte creature così date in balia ai maestri-imprenditori. Come erano condotte fino all’orlo della morte dall’eccesso di fatica; come erano frustate, incatenate sottoposte alle torture più raffinate; come fossero, in molti casi, denutrite al massimo grado pur essendo obbligate a lavorare; e come fossero, in qualche caso, indotte al suicidio per sottrarsi alle crudeltà di un mondo in cui, benché vissute così poco, avevano passato i momenti più felici nell’uniforme e sotto le regole di un orfanotrofio».

Adatt

1. In quali condizioni erano tenuti gli operai in fabbrica?

2. Quali le conseguenze sulla loro salute?

3. Dove i padroni si procuravano i bambini da far lavorare nelle fabbriche?

4. Come si comportavano i sorveglianti nei confronti dei bambini? Quali crudeltà compivano? Perché?

RACCONTIAMO IN BREVE

1. A partire del XVIII secolo, in un contesto di diffuso incremento demografico europeo, i lord inglesi ottennero dal re il permesso di recintare i terreni comuni che da secoli erano utilizzati dai contadini per cacciare, pescare e raccogliere legname. Privi di questa importante risorsa i contadini poveri dovettero emigrare in città per cercare lavoro, oppure mettersi come braccianti al servizio dei vari proprietari terrieri. Accanto a questo fenomeno si diffuse quello del lavoro, soprattutto tessile, a domicilio. In tal modo i contadini divennero lavoratori dipendenti. Successivamente, l’invenzione del telaio meccanico e della spoletta volante creò le condizioni perché la produzione potesse aumentare.

2. Decisiva fu poi l’invenzione, ad opera di James Watt, della macchina a vapore, che consentiva di azionare parecchi telai in serie collocati in apposite fabbriche e non più nelle case dei contadini. Questo fece sì che al lavoro a domicilio si sostituisse il lavoro su scala industriale.

3. L’altro motore della rivoluzione industriale fu il carbone, che serviva ad alimentare le macchine a vapore e di conseguenza i telai meccanici: il sottosuolo della Gran Bretagna ne era ricchissimo e risultava così molto più vantaggioso del legno, che era invece scarso e andava importato da altri paesi.

4. Tra il 1783 e il 1796 alla produzione della lana si affiancò quella del cotone, che veniva coltivato in abbondanza nel sud degli Stati Uniti e poteva quindi essere trasportato in Europa a buon mercato. Contemporaneamente, ebbe una crescita enorme anche la produzione di ferro, utilizzato per fabbricare armi, ma anche ponti e binari della nascente ferrovia.

5. Nelle fabbriche le condizioni di lavoro degli operai erano durissime: si lavorava anche dodici ore al giorno, i salari erano molto bassi, le eventuali malattie non venivano pagate. Inoltre, per arrotondare i già scarsi guadagni, le famiglie avviavano al lavoro anche i bambini, oltre alle donne. Anche le città mutarono volto: dove vi erano le fabbriche sorgevano quartieri operai sovrappopolati e le condizioni ambientali erano pessime a causa soprattutto dell’inquinamento provocato dai fumi delle ciminiere.

6. Il malcontento per le dure condizioni degli operai sfociò nel Luddismo, un movimento che si proponeva di distruggere le macchine, considerate come l’unica causa dei problemi sociali del paese. Il Luddismo venne represso nel sangue dal governo inglese, ma sarebbero passati ancora molti anni prima che ci si rendesse davvero conto della gravità della situazione.

ATTIVITÀ E VERIFICHE

Esercizio 1 · Rispondi, anche oralmente, alle seguenti domande.

1. Che cos’erano le enclosures?

2. Come funzionava il lavoro tesile a domicilio?

3. Chi inventò la macchina a vapore?

4. A cosa servivano il ferro e il carbone?

5. Dove era coltivato il cotone?

6. In quali condizioni erano i quartieri operai? Quali piaghe dilagavano in questi quartieri?

7. Chi trasse maggior benessere in Inghilterra dalla rivoluzione industriale?

8. Chi era Ned Ludd?

Esercizio 2 · Indica se l’affermazione riportata è vera o falsa.

Nel XVIII secolo la temperatura media europea aumentò.

In Inghilterra vi era scarsa disponibilità di carbone.

Il cotone sostituì la lana nella produzione tessile.

Le condizioni di vita nei quartieri operai erano pessime.

Nelle fabbriche venivano fatti lavorare anche donne e bambini.

Esercizio 3 · Per completare la frase iniziale scegli fra le tre alternative proposte quella che ti sembra, oltre che esatta, anche precisa e formulata con il linguaggio più appropriato.

Con le enclosures

a. i terreni delle comunità vennero recintati e i contadini poveri persero possibilità di lavoro.

b. i terreni delle comunità vennero recintati e affidati ai contadini poveri.

c. i terreni delle comunità vennero destinati al libero pascolo.

La macchina a vapore

a. consentì agli imprenditori di risparmiare sui costi di produzione.

b. consentì di azionare più macchinari senza ricorrere all’energia idraulica.

c. consentì agli operai di fare meno fatica.

La produzione del ferro in Inghilterra quadruplicò perché

a. con esso si costruivano armi, strumenti da lavoro, binari, ponti, locomotive e parti di edifici.

b. con esso si alimentavano le macchine a vapore.

c. veniva venduto nelle colonie inglesi d’America.

Le condizioni degli operai in fabbrica erano pessime perché

a. rischiavano di perdere il lavoro in ogni momento.

b. non si adattavano al nuovo lavoro in fabbrica.

c. i salari erano bassi, i turni di lavoro massacranti, le condizioni igieniche malsane.

I luddisti volevano

a. distruggere le macchine, viste come unica causa dei disagi degli operai.

b. migliorare le condizioni di vita degli operai.

c. favorire la crescita delle industrie in Inghilterra.

F

F

Esercizio 4 · Sono di seguito elencati senza un ordine preciso una serie di fenomeni legati all’industrializzazione in Inghilterra. Alcuni sono da considerare cause, altri conseguenze, altri infine fattori del tutto estranei. Scegli quelli che ti sembra vadano inseriti nella mappa sotto riportata e posizionali negli appositi spazi, seguendo l’indicazione data dalle frecce.

enclosures

Inquinamento nelle città industriali

Innovazioni tecnologiche

Invenzione della macchina a vapore

Forte crescita delle città

Grande disponibilità di ferro e carbone

Grande disponibilità di cotone

Libera iniziativa e intraprendenza dei lord inglesi

Fine delle epidemie e delle malattie gravi

Pessime condizioni di lavoro degli operai

Grande sviluppo dei viaggi e delle esplorazioni

Sfruttamento del lavoro di donne e bambini

Luddismo

Rivoluzione industriale

Esercizio 5 · Nell’approfondimento dedicato ai progressi della scienza nel Settecento hai incontrato le figure di molti scienziati. Scegli quello che più ti ha interessato e fai una breve ricerca sulla sua vita, le sue scoperte e le conseguenze che sono derivate da queste scoperte.

L’albero della libertà

Acquerello di Etienne Béricourt (1792), Musée Carnavalet, Parigi

L’albero della libertà era il simbolo della rivoluzione francese. I rivoluzionari ne piantarono uno nella piazza principale di tutti i municipi francesi e, successivamente, durante il periodo napoleonico, anche in molte città europee finite sotto la dominazione di Napoleone.

La rivoluzione francese

Una drammatica svolta epocale

Con la rivoluzione francese scompaiono gli ultimi residui della società medievale e del suo sistema di valori.

Ad essi si sostituisce un progetto sociale del tutto nuovo basato sulla rivendicazione della piena uguaglianza di diritti per tutti i cittadini all’interno dello stato e quindi sulla fine dei privilegi dell’aristocrazia. A questo progetto si accompagna però l’affermazione dello stato come unico ed esclusivo garante e fondamento di tali diritti e ciò, in futuro, darà origine a conseguenze estremamente negative.

In realtà, la rivoluzione francese passò attraverso due fasi cui fece da spartiacque la tentata fuga del re.

La prima vide il ruolo-guida della borghesia che tentò di realizzare una monarchia costituzionale basata sulla divisione dei poteri. La seconda vide invece protagonisti i giacobini di Robespierre che puntarono su un assetto repubblicano e sulla partecipazione popolare alle scelte politiche sia attraverso il suffragio universale sia, soprattutto, mediante l’azione violenta della piazza.

I giacobini erano mossi dalla volontà di costruire un’umanità nuova, sganciata da qualsiasi riferimento ad ogni esperienza precedente e quindi in primo luogo alla tradizione cristiana, in una sorta di radicale ed epocale progetto di salvezza universale, per realizzare il quale non esitarono ad usare anche la violenza e il terrore. Il risultato però fu tragico: gli stessi fautori del terrore finirono per esserne vittime, mentre all’orizzonte si andò profilando un nuovo protagonista, Napoleone Bonaparte, che avrebbe dato alla rivoluzione un esito totalmente imprevisto.

AL TERMINE DEL CAPITOLO

Schede di approfondimento

• Le vignette satiriche

• La ghigliottina: uno strumento di morte creato per motivi umanitari

• La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino

• Perché il re deve morire

• La controrivoluzione in Vandea

• Il calendario rivoluzionario

• Che differenze ci sono tra la rivoluzione francese e la rivoluzione americana?

Raccontiamo in breve

Attività e verifiche

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per non perdere il filo

Perché quella francese era una società ancora in gran parte feudale?

1 · Prima dell’89: la Francia dell’Ancien Régime

Una società ancora in gran parte feudale

La società francese, prima del 1789, conservava ancora in gran parte le caratteristiche di una società feudale. La nobiltà e l’alto clero continuavano a godere di privilegi ormai ingiustificati mentre i contadini erano ancora sottoposti ai vincoli feudali. Accanto a questi due ceti esisteva poi una borghesia molto attiva e intraprendente sul piano sia economico che sociale. Questa borghesia, molto influenzata dalle idee dell’Illuminismo, sempre meno sopportava di essere svantaggiata rispetto all’aristocrazia

Un rigido assolutismo sul piano politico

Questa società fortemente gerarchica era affiancata anche da un rigido assolutismo politico nel quale il sovrano, Luigi XVI, deteneva tutti i poteri. Gli Stati Generali, che raccoglievano i rappresentanti dei tre ceti più importanti, clero, nobiltà e borghesia (chiamata “terzo stato”), avevano perso ogni funzione e non venivano più convocati dal re dal lontano 1614. La ventata di riforme che aveva soffiato sull’Europa con la diffusione dell’Illuminismo in Francia non aveva prodotto nessun risultato. Il vecchio sistema politico e sociale (detto per questo successivamente Ancien Régime) sembrava destinato a continuare a lungo.

Un’economia ricca…

Sul piano economico il paese era prevalentemente agricolo con l’85% della popolazione che viveva in villaggi rurali e che lavorava i campi. Fin verso gli anni ’70 del XVIII secolo la Francia conobbe un notevole sviluppo con raccolti sempre abbondanti, commerci in espansione e un tenore di vita, sia nelle città che in campagna, che andava crescendo. Con i suoi 26 milioni circa di abitanti attorno alla metà del secolo poteva ancora essere considerata la più ricca e potente nazione europea.

Perché si dice che la Francia era un paese ricco con uno stato povero?

Perché le casse dello stato francese erano sempre più vuote?

… ma uno stato povero

Un grave problema si profilava però sul piano più strettamente finanziario. Lo stato francese era fortemente indebitato e le sue casse erano sempre più vuote a causa soprattutto delle ingenti spese militari (più di un quarto del totale) e delle spese di corte di cui era accusata in particolare la nuova regina, Maria Antonietta d’Asburgo, figlia di Maria Teresa e moglie di Luigi XVI, poco amata da gran parte della popolazione

anche per le sue origini austriache. La Francia, per dirla con uno storico contemporaneo, era «un paese ricco con uno stato povero».

Il problema fiscale

L’unica soluzione veramente efficace per ripianare i conti dello stato sarebbe stata quella di aumentare le tasse, ma soprattutto di imporre il loro pagamento anche alla nobiltà e al clero, che ne erano esenti. Fu questo il consiglio dato al re da vari ministri, tra cui il ginevrino Jacques Necker. Luigi XVI si mostrò inizialmente molto restio ad accettare tale consiglio in quanto temeva le dure reazioni dell’aristocrazia e della corte. Per questo licenziò Necker. Dovette però alla fine ricredersi e mettere mano al problema.

La convocazione degli Stati Generali

Si decise perciò a riconvocare l’assemblea degli Stati Generali con lo scopo di ascoltare il parere dei rappresentanti dei tre ordini circa i possibili interventi in materia fiscale. Naturalmente, le intenzioni dei partecipanti erano diverse. I nobili intendevano mantenere i loro privilegi e rafforzare il loro potere, mentre i rappresentanti del terzo stato intendevano chiedere che anche i nobili pagassero

Perché Necker venne licenziato?

L’apertura degli Stati Generali a Versailles ( 5 maggio 1789) stampa d’epoca di Isidore-stanislaus Helman, Bibliothèque Nationale de France, Parigi

Pallacorda

È un gioco simile al tennis, praticato però all’interno di un salone e con la pallina trattenuta da una corda.

Perché il re fece sciogliere l’assemblea degli Stati Generali?

le tasse. Essi erano in gran parte avvocati, notai, intellettuali e commercianti che, conquistati dalle idee illuministiche, intendevano battersi per modificare radicalmente l’assetto della società francese. Anche parroci di campagna e abati facevano parte del terzo stato (il suo portavoce era proprio un abate, il Sieyès) mentre il primo stato, il clero, era rappresentato in gran parte da alti prelati di origine aristocratica. Tra costoro alcuni condividevano le richieste dei borghesi mentre altri erano schierati con i nobili.

I cahiers des doléances

I delegati del terzo stato portarono in assemblea un elenco di richieste raccolte tra i cittadini, i cosiddetti cahiers des doléances (letteralmente “quaderni delle lamentele”), tra cui le più importanti erano una maggiore equità fiscale e la fine dei privilegi della nobiltà. Questi delegati, in numero doppio rispetto a quello degli altri due stati, avrebbero potuto far prevalere tali richieste in una eventuale votazione a patto che essa avvenisse non per singoli ordini separati, ma “per testa” cioè conteggiando i voti di tutti i rappresentanti dei tre stati sommati in un’unica votazione generale.

2 · L’avvio della rivoluzione

Il

Giuramento della pallacorda

Quando la grande assemblea si riunì, il 5 maggio 1789, i contrasti emersero in modo drammatico: era chiaro che sul problema delle tasse non si sarebbe trovata una soluzione unitaria e che, in caso di votazione per testa, i membri del terzo stato avrebbero avuto la meglio, anche perché potevano contare sull’appoggio di esponenti del clero. Preoccupato per la piega che stava prendendo il dibattito e spinto dalla pressione della corte e della regina, il re allora decise di sciogliere l’assemblea, facendo improvvisamente chiudere la sala delle riunioni. I membri del terzo stato però non si persero d’animo. Si radunarono in una sala adiacente, detta della pallacorda, e qui, il 20 giugno, pronunciarono un solenne giuramento: giurarono di scrivere una costituzione che avrebbe cambiato l’assetto politico e sociale della Francia e, per questo, si autoproclamarono successivamente Assemblea Nazionale Costituente.

Con il Giuramento della pallacorda prende avvio la rivoluzione

Fu questo l’atto che diede avvio alla rivoluzione in quanto con esso i membri del terzo stato si assunsero un potere e una funzione, quella di redigere una costituzione, che non appartenevano loro. Nessuno infatti li aveva convocati né scelti per svolgere tale compi­

to e quindi essi si ponevano contro la volontà del re e contro la legge. Con questo atto pienamente rivoluzionario il terzo stato si trasformava in un vero e proprio organo legislativo.

Gli eventi precipitano: la presa della Bastiglia

A questo punto gli eventi precipitarono. Il popolo parigino, fomentato dalla propaganda rivoluzionaria di alcuni agitatori quali Camille Desmoulins, Jean Paul Marat e Georges Danton, ma anche scosso dalla carestia, seguita all’aumento del prezzo del pane, cominciò a protestare contro gli aristocratici, accusandoli di essere i colpevoli di un complotto per danneggiare l’intera società e bloccare le riforme. La protesta assunse forme violente quando, a seguito della notizia che reparti militari inviati dal re stavano marciando su Parigi, un migliaio di esagitati diede l’assalto al carcere della Bastiglia. Questo carcere era il simbolo del potere assolutistico in quanto, in passato, vi erano stati rinchiusi gli avversari politici della monarchia. Ora però era pressoché vuoto, conteneva solo 7 detenuti condannati per lo più per reati comuni. Tuttavia, la furia popolare si scagliò contro questo simbolo. La Bastiglia venne presa (14 luglio 1789), il suo comandante trucidato e il suo corpo trascinato come un trofeo per le strade. Il sovrano allora, spaventato dalle violenze della piazza, concesse che il governo della città fosse affidato a un comitato di rivoluzionari e che si costituisse un reparto armato fatto da cittadini per difendere il lavoro dell’Assemblea; si trattava della Guardia Nazionale, guidata dal marchese Lafayette, già distintosi nella Guerra d’indipendenza americana.

Danton, Marat e Robespierre

Olio su tela di scuola francese (XIX secolo), Musée Lambinet, Versailles

Perché il Giuramento della pallacorda diede avvio alla rivoluzione?

Perché la folla parigina diede l’assalto alla Bastiglia?

La presa della Bastiglia

Acquerello di Jean-Pierre Houël (1789), Bibliothèque

Nationale de France, Parigi

La “grande paura” e i provvedimenti dell’agosto ’89

La notizia di quanto successo a Parigi si estese al resto del paese. Sia nelle campagne che nelle città scoppiarono rivolte il cui bersaglio principale erano le proprietà dei nobili. Contadini inferociti assalivano i castelli e bruciavano i documenti che stabilivano le proprietà dei terreni e i diritti feudali. False e allarmanti notizie, spesso diffuse ad arte, alimentarono questo stato di confusione e di conseguente violenza. In questo clima di “grande paura” l’Assemblea Nazionale Costituente decise di prendere immediati provvedimenti al fine di placare le rivolte popolari. Il 4 agosto 1789 decise l’abolizione degli obblighi feudali per i contadini e, di conseguenza, la fine del feudalesimo. Il successivo 26 agosto promulgò la Dichiarazione

dei diritti dell’uomo e del cittadino, un documento importantissimo che, in linea di principio, sanciva la piena uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e quindi la fine dell’Ancien Régime. Frattanto la folla era sempre più padrona di Parigi: il 5 ottobre una schiera di popolani, fra cui molte donne, diede l’assalto alla reggia di Versailles, costrinse il re ad abbandonarla e a rientrare nella capitale, accettando così la nuova situazione.

Le successive decisioni dell’Assemblea Nazionale Costituente

In questo clima frenetico e confuso l’Assemblea Costituente continuò ad adottare decisioni importanti. Furono abolite le Corporazioni delle arti e dei mestieri, ritenute un ostacolo allo sviluppo dei liberi commerci, e fu proibita qualsiasi altra forma di associazione tra i lavoratori. Si mise poi mano al problema del risanamento del bilancio dello stato. Di fronte al forte deficit che persisteva si pensò di ripianarlo confiscando i beni della Chiesa per venderli all’asta ai cittadini (la proposta venne proprio da un vescovo che aveva aderito alla rivoluzione, Talleyrand). L’operazione fu però più complessa del previsto e si risolse in un completo fallimento. Per una serie di gravi negligenze ed errori di valutazione lo stato non incassò i soldi sperati dalla vendita e nell’operazione molti cittadini persero i loro risparmi e si ritrovarono in povertà.

La Costituzione Civile del clero e lo scontro con la Chiesa Sempre nel 1790 l’Assemblea Nazionale Costituente approvò la Costituzione Civile del clero, un atto col quale si stabiliva la completa sottomissione della Chiesa francese allo stato. In virtù di questo provvedimento, ogni ecclesiastico doveva giurare fedeltà alla costituzione e diventava una specie di funzionario dipendente dallo stato dal quale riceveva anche uno stipendio. In sostanza, si veniva a creare una chiesa nazionale francese simile a quella a suo tempo creata in Inghilterra da Enrico VIII. Naturalmente il papa, Pio VI, si oppose e la stragrande maggioranza degli ecclesiastici francesi si rifiutò di giurare, rimanendo fedele al papa. Per questo vennero chiamati “refrattari”, mentre coloro che giurarono vennero detti “costituzionali”. I preti refrattari, a seguito del loro rifiuto, vennero destituiti dai loro incarichi e, in un secondo tempo, perseguitati, imprigionati e spesso anche, come vedremo, uccisi.

La costituzione del 1791

Il 3 settembre 1791 la costituzione venne finalmente approvata dall’Assemblea Nazionale Costituente. Con essa la Francia si trasformava in una monarchia costituzionale nella quale al re si affiancava un parlamento (detto d’ora innanzi Assemblea Legislativa) eletto a suffragio censitario : era in sostanza la vittoria della ricca

Perché vennero confiscati i beni della Chiesa?

Perché la vendita all’asta di questi beni non ripianò il debito del bilancio dello stato?

Suffragio censitario Tipo di suffragio in base al quale solo i cittadini che possiedono un determinato reddito, generalmente alto, possono partecipare al voto.

Perché la costituzione del 1791 rappresenta una vittoria della ricca borghesia?

borghesia che, fino ad allora, aveva preso in mano la guida della rivoluzione. L’Assemblea Costituente aveva così terminato il suo compito e il paese si apprestava all’elezione della nuova Assemblea Legislativa.

3 · Con la fuga del re scoppia la fase più violenta della rivoluzione

La fuga del re

Perché il re tentò di fuggire?

Perché la fuga del re fece precipitare la situazione?

Club Parola inglese che significava originariamente “bastone, palo”, ma che in seguito è stata utilizzata per indicare “circolo, gruppo di soci”. Nell’antica Inghilterra infatti le assemblee dei vari gruppi si convocavano all’aperto attorno a un palo conficcato al suolo per l’occasione.

Foglianti si staccarono dai giacobini nel 1791. Presero il nome dai foglianti, un ordine monastico del ramo cistercense, nel cui ex convento parigino stabilirono la loro sede.

Giacobini

Nati nel 1789, avevano sede nell’ex convento dei frati domenicani, detti jacobins.

Cordiglieri

Nati nel 1790, erano chiamati così perché si radunavano nell’ex convento dei cordiglieri, un ramo dell’ordine dei frati minori.

In questo clima piuttosto teso avvenne un fatto gravido di conseguenze. Il 21 giugno del 1791 il re, preoccupato per la sua sorte e seguendo molti nobili che già erano espatriati, tentò di fuggire all’estero, in Lorena, dove erano acquartierate le truppe fedeli alla Corona. La fuga venne però scoperta: riconosciuto e bloccato a Varennes, località vicina all’attuale confine belga, egli fu ricondotto a Parigi dove venne costretto a giurare fedeltà alla nuova costituzione che nel frattempo era stata approvata. La condotta del re suscitò grave sconcerto tra i rivoluzionari: il popolo di Parigi, reso sempre più accanito dalla povertà e già profondamente ostile ai nobili, si sentì tradito dal comportamento del sovrano. Tra i rivoluzionari si aprì una discussione riguardante il futuro assetto istituzionale dello stato. Benché la nuova recentissima costituzione prevedesse di mantenere la monarchia, sebbene in forma costituzionale, vi era chi cominciava a chiedersi se non fosse meglio creare una repubblica; in tal caso la sorte di Luigi XVI sarebbe stata segnata.

L’Assemblea Legislativa e i nuovi raggruppamenti politici

L’Assemblea Legislativa iniziò le sue riunioni nell’ottobre del 1791. In essa si formarono nuovi raggruppamenti politici (oggi li chiameremmo partiti, allora si chiamavano club ) che cominciarono ad occupare la scena rivoluzionaria. Oltre a un buon numero di deputati indipendenti che sedevano al centro dell’assemblea, vi erano i foglianti (moderati, favorevoli al mantenimento della monarchia, che sedevano a destra), i girondini (così detti perché provenienti per lo più dalla regione della Gironda, che si trova nel sud ovest della Francia, e che sedevano a sinistra) e i giacobini che sedevano all’estrema sinistra ed erano guidati da un avvocato di Arras, Maximilien Robespierre. Girondini e giacobini erano esponenti della borghesia e sostenitori della repubblica, anche se questi ultimi erano fautori di una linea più estremista. Altro raggruppamento estremista, con molto seguito nel popolo di Parigi, erano i cordiglieri . È da notare come le espressioni destra, sinistra e centro, tuttora in uso nel linguaggio politico di tutto il mondo, nacquero proprio allora in seno all’Assemblea Legislativa francese.

L’entrata in guerra e la rivolta popolare. Una prima grave decisione presa dall’Assemblea Legislativa fu quella di dichiarare guerra all’Impero Austriaco. Questa decisione, presa nell’aprile del ’92, soprattutto per volere dei girondini, fu dettata dalla volontà di anticipare le mosse del nuovo imperatore Francesco II che aveva minacciato di intervenire in Francia per sconfiggere la rivoluzione e ridare pieni poteri al sovrano legittimo. La decisione, però, fu presa anche per distogliere l’attenzione della massa parigina dai problemi interni, indirizzandola verso un nemico esterno, cui attribuire la causa di tutte le difficoltà che la rivoluzione in quel tempo stava incontrando. In realtà la situazione in città stava per esplodere: la popolazione era sempre più scontenta: masse di affamati, affluite anche dal resto della Francia, si accalcavano per le strade pronte ad ogni azione anche violenta. Erano i cosiddetti sanculotti (chiamati così perché non indossavano gli eleganti pantaloncini corti – culottes in francese – tipici dell’abbigliamento degli aristocratici), spesso artigiani e commercianti che si erano impoveriti di recente anche a causa del fallimento della vendita all’asta dei beni ecclesiastici.

Perché fu dichiarata guerra all’Impero Austriaco?

La giornata memorabile di Versailles ( 5 ottobre 1789) Acquerello di scuola francese (1789), Musée national des Châteaux de Versailles et de Trianon, Versailles

Il disegno raffigura il popolo che cammina con le teste delle guardie massacrate infilate in cima alle picche.

Perché

i sovrani europei si coalizzarono contro la Francia?

Una situazione sempre più esplosiva

Così il 10 agosto 1792, guidate da Danton, queste masse di disperati insorsero: la città finì nelle loro mani e fu creato un nuovo governo, chiamato Comune Insurrezionale. Cominciarono allora i massacri: nobili, preti refrattari, ricchi borghesi, tutti coloro che erano sospettati di essere contrari alla rivoluzione o di “affamare il popolo” vennero arrestati e, senza alcun processo, massacrati (questi massacri verranno chiamati “stragi di settembre”). Oramai la rivoluzione stava precipitando verso un esito violento e lo stesso re venne arrestato e incarcerato.

La proclamazione della repubblica e la condanna a morte del re

Sotto la pressione popolare venne sciolta l’Assemblea Legislativa e si creò un nuovo organo, la Convenzione, eletta a suffragio universale maschile con lo scopo di elaborare una seconda costituzione. All’interno della Convenzione sempre più forti stavano diventando giacobini e cordiglieri, chiamati ora “montagnardi” perché occupavano i seggi più alti della sala, mentre numeroso rimaneva il gruppo degli indipendenti (detti con disprezzo “la palude”) che però si schieravano sempre con i più forti. I giorni del 20 e del 21 settembre furono cruciali: il 20 giunse a Parigi la notizia che, dopo una lunga serie di sconfitte, l’esercito francese aveva conseguito a Valmy la prima vittoria contro quello austriaco, sostenuto dai prussiani; il 21 settembre, sull’onda dell’entusiasmo, la Convenzione proclamò l’abolizione della monarchia e la creazione della repubblica. Tra l’altro si decise, e il fatto dice della radicalità del cambiamento in atto, che da quel momento la numerazione degli anni avrebbe dovuto cambiare. L’anno primo non sarebbe più stato quello della nascita di Cristo, ma quello dell’avvento della repubblica in Francia.

Si decise a questo punto anche l’eliminazione del re che, il 21 gennaio del 1793, fu ghigliottinato sulla pubblica piazza davanti a una folla immensa.

La guerra si allarga

L’uccisione di Luigi XVI spinse i sovrani europei a coalizzarsi per fronteggiare la Francia rivoluzionaria e questo portò a un allargamento della guerra sul fronte internazionale (anche l’Inghilterra era scesa in campo in quella che sarà la Prima coalizione antifrancese, alla quale ne seguiranno altre sei fino al 1815). Inoltre, all’interno del paese, in alcuni dipartimenti del nord quali la Vandea e la Bretagna, ma anche in altre aree come quelle intorno a Marsiglia e a Bordeaux, stavano scoppiando insurrezioni controrivoluzionarie.

I moti controrivoluzionari

All’origine di queste rivolte vi erano varie cause. Innanzitutto la popolazione insorgeva per difendere la Chiesa e la libertà di professare la propria fede contro i durissimi attacchi dei rivoluzionari che profanavano e devastavano gli edifici sacri e, soprattutto, si accanivano contro i parroci refrattari, molto amati dai fedeli. In secondo luogo erano ancora diffusi, soprattutto nelle campagne, sentimenti di lealismo nei confronti della monarchia. Infine vi era il rifiuto della leva militare obbligatoria, decisa per far fronte alla guerra, e della politica economica dei rivoluzionari al potere a Parigi. Questi ultimi, infatti, per conservare l’appoggio del popolo della capitale, lo vettovagliavano facendo razzia di frumento e di farina nelle campagne.

Robespierre prende il potere: il “Terrore”

Temendo per le sorti della rivoluzione, la Convenzione a questo punto affidò i pieni poteri a un gruppo ristretto di rivoluzionari, detto Comitato di Salute Pubblica, con a capo Robespierre, che ne divenne il leader incontrastato. Robespierre si rese conto che la rivoluzione era in pericolo e per questo accentuò in maniera decisiva la repressione. Impose la leva militare obbligatoria per fronteggiare la guerra in corso e instaurò quello che fu definito il regime del “Terrore”: veri o presunti avversari della rivoluzione, ma anche co­

Le aree dove si svilupparono moti controrivoluzionari

Aree interessate ai moti controrivoluzionari

Lealismo

Fedeltà nei confronti del sovrano e della dinastia legittima.

Leva militare obbligatoria Obbligo per gli abitanti di uno stato (solitamente uomini di giovane età) di prestare servizio nell’esercito per un certo periodo di tempo. Nel caso del periodo della rivoluzione francese che stiamo esaminando, l’obbligo riguardava tutti i cittadini maschi dai 16 ai 60 anni.

Danubio

Perché fu creato il Comitato di Salute Pubblica?

Perché il Tribunale Rivoluzionario andava contro i diritti dei cittadini?

Genocidio

Termine di origine greca che indica lo sterminio –o il tentativo di sterminio –di un intero popolo (in greco, génos) o di una consistente minoranza etnica. Le persone vengono uccise in modo sistematico sulla base non di specifiche accuse bensì del semplice fatto che appartengono a un certo gruppo etnico, a un certo popolo, oppure perché vivono in un certo territorio. Tragicamente noti sono i genocidi perpetrati nel Novecento, da quello degli armeni ad opera dei turchi nel corso della Prima guerra mondiale a quello degli ebrei ad opera dei nazisti nel corso della seconda guerra mondiale per giungere infine al genocidio dei cambogiani negli anni del regime dei Khmer rossi di Pol Pot (1975-1979).

loro che, pur favorevoli, non condividevano la linea dei giacobini, cominciarono ad essere sistematicamente arrestati e giustiziati. La sentenza veniva eseguita tramite decapitazione a mezzo di una macchina chiamata ghigliottina. Furono ghigliottinate in pochi mesi circa 17.000 persone, a partire dalla regina Maria Antonietta. Vennero via via eliminati i girondini, i cordiglieri con lo stesso Danton (che negli ultimi mesi aveva assunto posizioni critiche verso i giacobini), i moderati e gli estremisti (detti “arrabbiati”) quali Hebert, altro ex collaboratore di Robespierre. Tra le vittime del Terrore ci furono celebri uomini di cultura come il poeta Andrea Chenier e lo scienziato Lavoisier, ma anche molti artigiani, commercianti, contadini e naturalmente preti, frati e suore. Le condanne a morte erano inflitte da un Tribunale Rivoluzionario che rispondeva solo agli ordini di Robespierre e che nel giudicare non rispettava affatto quei diritti dei cittadini così solennemente sanciti nella Dichiarazione dell’agosto dell’89. Bastava infatti un semplice sospetto, basato anche su denunce anonime, perché il tribunale infliggesse la pena capitale.

La repressione in Vandea

Durissima fu poi la repressione delle rivolte antirivoluzionarie nei vari dipartimenti. In particolare, in Vandea, Robespierre ordinò una campagna detta di “spopolamento”, ossia di sterminio sistematico di civili inermi, che per i suoi obiettivi e i suoi metodi anticipò i terribili genocidi del XX secolo e che causò circa 300.000 vittime (su un totale di 500.000 abitanti circa) soprattutto tra la popolazione civile. Al termine di questa campagna la Francia rivoluzionaria riuscì a riprendere il controllo della Vandea, ma solo al prezzo di tale orribile massacro.

La scristianizzazione

Un aspetto particolare della politica del Terrore fu la “scristianizzazione”. Robespierre, da buon illuminista, individuò nella Chiesa Cattolica uno dei principali avversari da sconfiggere e diede così avvio a una feroce persecuzione con l’obiettivo di eliminare ogni presenza del Cristianesimo in Francia. Oltre a eliminare gli ultimi preti refrattari rimasti in circolazione, fece chiudere le chiese cattoliche per trasformarle o in luoghi di divertimento o in templi della “dea ragione”, in una sorta di religione deistica che egli tentò di diffondere nel paese (nella celebre cattedrale parigina di Notre­Dame, ad esempio, venne allestita una cerimonia nella quale una ballerina, finita poi anch’essa sulla ghigliottina, impersonava danzando questa nuova divinità). Conventi e monasteri vennero chiusi, le campane vennero fuse per farne cannoni, le statue dei santi vennero decapitate e frati e monache uccisi. Un gran numero di storiche chiese, santuari, abbazie venne distrutto. Opere d’arte e capolavori archi­

tettonici di ingente valore vennero spazzati via nell’intento di eliminare tutto ciò che ricordava il passato religioso della Francia. Venne cancellata, tra l’altro, anche l’antica abbazia di Cluny, uno dei gioielli dell’architettura medievale, trasformata in cava da cui ricavare mattoni da costruzione. Anche il calendario venne modificato: i nomi tradizionali dei mesi vennero cambiati e la settimana venne sostituita da periodi di dieci giorni in cui la domenica veniva soppressa.

4 · La caduta di Robespierre e il Direttorio

Il 9 termidoro: Robespierre viene giustiziato

Oramai, con il Terrore, tutti si sentivano in pericolo; nessuno era certo di poter evitare la ghigliottina. In questo clima di diffusa paura maturò la reazione contro Robespierre. Il 9 termidoro del 1794 (cioè il 27 luglio) il capo dei giacobini venne assalito all’interno della Convenzione e arrestato. L’indomani, insieme al fido Saint Just e ad altri stretti collaboratori, fu ghigliottinato senza alcun processo, vittima di quella stessa giustizia sommaria che egli aveva più volte applicato contro i suoi nemici. Finiva in questo modo il terrore giacobino, ma non sarebbero finiti i disordini e le violenze.

Perché vennero eliminati chiese, santuari e abbazie?

Perché Robespierre venne giustiziato?

L’esecuzione di Robespierre e dei suoi collaboratori stampa dell’epoca, Bibliothèque Nationale de France, Parigi

Perché si parla di Terrore bianco?

Il “Terrore bianco” e la nuova costituzione

Si scatenò infatti a questo punto la vendetta. Ovunque, soprattutto nelle città di provincia, coloro che avevano subito soprusi e violenze da parte dei giacobini ora li ripagarono della stessa moneta. Ci fu un nuovo terrore, detto stavolta “Terrore bianco” perché messo in atto dagli antigiacobini, che causò centinaia di altre vittime.

All’interno della Convenzione intanto prendevano il sopravvento le forze moderate della “palude” che esprimevano gli interessi soprattutto della grande e media borghesia. Questi approvarono, nel 1795, una nuova costituzione che reintroduceva il voto a base censitaria e che affidava il governo del paese a un nuovo organismo molto ristretto, detto Direttorio, composto da soli 5 membri.

Gli ultimi fuochi prima dell’avvento di Napoleone

Colpo di stato Tentativo di presa del potere mediante la forza.

La fase più acuta e violenta della rivoluzione stava ormai volgendo al termine. Ci furono però ancora alcuni episodi drammatici. Il 13 vendemmiaio del 1795 (cioè il 5 ottobre) vi fu un tentativo di colpo di stato da parte di forze favorevoli al ritorno della monarchia. Quest’azione venne repressa duramente dall’intervento dell’esercito, guidato da un giovane ufficiale di belle speranze, Napoleone Bonaparte. L’anno seguente venne sventato nel sangue un altro tentativo, stavolta messo in atto da ex giacobini di idee comuniste, che, guidati da Gracco Babeuf e dall’italiano Filippo Buonarroti, sostenevano la fine della differenza fra ricchi e poveri e la messa in comune dei beni e delle ricchezze (per questo si parlò di “Congiura degli Eguali”).

Perché fu importante il ruolo dell’esercito nell’ultima fase della rivoluzione?

Nel corso di questi episodi emerse l’importanza dell’esercito, il solo in grado di garantire la sicurezza e la solidità dello stato. E proprio dalle file dell’esercito uscirà Napoleone Bonaparte, colui che, come vedremo, metterà fine alla rivoluzione e aprirà una fase nuova della storia europea e mondiale.

Le vignette satiriche

La satira ha origini antiche

Abbiamo già visto come gli illuministi avessero capito l’importanza di divulgare le loro idee e di conquistare ad esse l’opinione pubblica. Pubblicazioni periodiche, giornali, pamphlets erano gli strumenti usati per quest’opera di convincimento e di propaganda. Negli anni che accompagnarono la rivoluzione francese la propaganda si servì di un nuovo strumento, o meglio uno strumento antico, ma usato con mezzi nuovi. si trattava della satira con cui veniva condotta una critica serrata all’ordinamento sociale e ai potenti che lo governavano. Nell’antichità questo genere di critica era condotto soprattutto attraverso scritti e testi poetici (grandi furono in questo campo i poeti latini Orazio, Marziale e Giovenale che con le loro poesie o i loro epigrammi brevi e sferzanti, ridicolizzavano i potenti o il malcostume dei cittadini romani). Anche nell’età moderna vi erano stati grandi poeti satirici (ricordiamo fra tutti l’irlandese Jonathan swift e in Italia Giuseppe Parini che attaccò spietatamente i comportamenti dei nobili).

Le vignette: una forma semplice e immediata di comunicazione

In Francia nella seconda metà del settecento però la satira cominciò a far uso di vignette e disegni che venivano pubblicati sui giornali e che per la loro immediatezza (erano comprensibili anche a chi non sapeva leggere) raggiungevano più facilmente l’obiettivo. Molte di queste vignette rappresentavano il popolo, la borghesia, schiacciata dagli altri due ordini della società, oppure ridicolizzavano comportamenti del clero o dell’aristocrazia; non infrequenti erano vignette che colpivano la corte e la famiglia reale. Ben presto tali vignette divennero una vera e propria arma politica che favorì l’adesione di molti popolani all’azione rivoluzionaria. Questa tradizione della satira attraverso le immagini è proseguita nei secoli successivi. Negli ultimi decenni del XX secolo sono sorte addirittura vere e proprie riviste interamente dedicate alla satira e inoltre essa si è trasferita ai nuovi mezzi di comunicazione tra cui la televisione e, recentemente, Internet.

Vignetta satirica sulla fuga di Luigi XVI a Varennes nel giugno 1791 dal titolo: «Che fate voi? Io sono in penitenza» Bibliothèque de l'Arsenal, Parigi

NON TUTTI SANNO CHE

La ghigliottina: uno strumento di morte creato per motivi umanitari

Uccidere senza far soffrire
Una ghigliottina della rivoluzione francese

PARTIAMO DALLE FONTI

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino fu votata dall’Assemblea Costituente il 26 agosto del 1789. Di essa ti proponiamo i primi 8 articoli che contengono alcuni dei princìpi fondamentali del pensiero politico moderno. Tra questi il diritto del cittadino a non essere privato della libertà, se non nei casi previsti dalla legge, e a non essere processato se non in base a leggi in vigore quando sono stati commessi i reati di cui viene accusato. Purtroppo, proprio gli sviluppi successivi della rivoluzione avrebbero clamorosamente contraddetto questi princìpi, in misura anche maggiore di quanto non avvenisse con i sovrani assoluti precedenti. un altro elemento da rilevare è il riferimento, nell’articolo 6, al concetto di “volontà generale”, evidente riflesso della dottrina del filosofo svizzero Jean Jacques rousseau, uno dei “padri” della rivoluzione.

«1) Gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune.

2) Il fine di ogni associazione politica è conservare i diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza personale e la resistenza all’oppressione.

3) Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione. Nessuna collettività, nessun individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa.

4) La libertà consiste nel fare tutto ciò che non nuoce ad altri; perciò l’esercizio dei diritti naturali per ciascun individuo non ha altri limiti se non quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento dei medesimi diritti. Questi limiti possono essere determinati solo dalla legge.

5) La legge deve vietare soltanto le azioni nocive alla società. Tutto ciò che non è proibito dalla legge non può essere impedito, e nessuno può essere costretto a fare ciò che la legge non comanda.

6) La legge è espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno il diritto di concorrere alla formazione della legge, personalmente o per mezzo di loro rappresentanti. La legge deve essere uguale per tutti, sia che protegga sia che punisca. Essendo tutti i cittadini uguali dinanzi alla legge, sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, uffici e impieghi pubblici, a seconda della loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e del loro ingegno.

7) Nessuno può essere accusato imprigionato o detenuto se non nei casi e nelle forme prescritte dalla legge.

8) La legge non deve stabilire che pene strettamente ed evidentemente necessarie e nessuno può essere punito se non per una legge stabilita e promulgata prima del delitto e legalmente applicata».

Rappresentazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino Olio su tavola di Jean-Jacques-François Le Barbier (1789 circa), Musée Carnavalet, Parigi Si notino la donna incoronata, con i colori della bandiera francese, che spezza le catene dell’oppressione tirannica e il “genio” della nazione (la figura alata) che tiene in una mano lo scettro del potere puntato verso il triangolo luminoso con l’occhio dello sguardo divino.

PARTIAMO DALLE FONTI

Perché il re deve morire

I due brani che ti presentiamo sono tratti dai discorsi pronunciati da saint Just e da robespierre alla Convenzione, in occasione del dibattito che porterà alla condanna a morte di Luigi XVI, il primo del 13 novembre 1792 e il secondo del 3 dicembre. I due discorsi mostrano una straordinaria sintonia. saint Just, il principale collaboratore e consigliere di robespierre, afferma che a giudicare Luigi dev’essere il popolo, i membri della Convenzione in quanto rappresentanti del popolo, e che tale giudizio non può essere il frutto di un processo di carattere giudiziario, quindi basato sull’accertamento di eventuali colpe, ma deve essere un atto politico del popolo che combatte contro il suo nemico. Lo stesso concetto è ribadito da robespierre: il re non va giudicato in quanto uomo, per le azioni che ha commesso; non va ucciso in quanto ha delle colpe specifiche, ma semplicemente perché è il re, perché la sua esistenza è un danno per la salute della nazione, perché la Francia non ha più bisogno di sottostare a un sovrano. Il confronto di questi interventi con gli articoli della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata solo pochi anni prima, fa emergere in maniera stridente quanto il terrore giacobino si stia allontanando sempre più nettamente da ogni forma di legalità e di rispetto dei diritti.

«Cittadini, il tribunale che deve giudicare Luigi, non è un tribunale giudiziario: è un consiglio, è il popolo, siete voi. […] siete voi che dovete giudicare Luigi, ma voi non potete essere nei suoi confronti una corte giudiziaria, un giurato, un accusatore; questa forma di giudizio civile lo renderebbe ingiusto. sta a voi decidere se Luigi è nemico del popolo francese, se è straniero. Popolo, se il re sarà assolto, ricordati che noi non saremo più degni della tua fiducia, e potrai accusarci di perfidia».

«Qui non c’è da fare un processo. Luigi non è un imputato; voi non siete dei giudici; voi siete e non potete essere altro che uomini di stato e rappresentanti della nazione. Non dovete emettere una sentenza a favore o contro un uomo; dovete prendere una misura di salute pubblica, dovete compiere un atto di provvidenza nazionale. I popoli non giudicano come le corti giudiziarie, non emettono sentenze: lanciano la loro folgore; non condannano i re, li piombano nel nulla. Io vi propongo di decidere seduta stante la sorte di Luigi. Per lui io chiedo che la Convenzione lo dichiari da questo momento traditore della nazione francese e criminale nei confronti dell’umanità: chiedo che essa dia al mondo un grande esempio». Adatt.

Esecuzione di Luigi XVI, 21 gennaio 1793. Olio su legno di scuola danese (XVIII secolo), Musée Carnavalet, Parigi

METTIAMO A FUOCO

La controrivoluzione in Vandea

Perché la Vandea si ribellò

La Vandea era un dipartimento nel nord ovest della Francia, affacciato sull’Atlantico e confinante con la penisola della Bretagna. Allora queste regioni settentrionali si caratterizzavano per forti sentimenti lealistici e una pratica religiosa molto radicata (vi era stata all’inizio del secolo l’intensa attività missionaria del celebre Luigi Maria Grignion de Montfort, poi fatto santo e molto venerato dalla popolazione). Da tempo perciò i vandeani si sentivano minacciati da una rivoluzione che perseguitava i loro parroci, fedeli al papa, e che imponeva pesanti tasse, senza favorire in alcun modo le campagne. La condanna a morte del re e la leva obbligatoria che obbligava tutti i maschi dai 16 ai 60 anni ad arruolarsi nell’esercito repubblicano furono le gocce che fecero traboccare il vaso. Dalla primavera del ’93 il popolo vandeano iniziò a ribellarsi: impugnò le armi (spesso solo forconi e altri attrezzi agricoli) e iniziò a combattere contro le truppe repubblicane.

Una rivolta che partì dai contadini…

I primi a insorgere coraggiosamente furono i contadini e non gli aristocratici. Questi ultimi aderirono alla rivolta solo in un secondo tempo su pressante richiesta dei ribelli che avevano bisogno di capi militari che guidassero il loro esercito. sorse così l’armata controrivoluzionaria della Vandea che combatteva “per Dio e per il re”, questo era il loro motto, e che aveva come stemma un cuore sormontato da una croce (simbolo religioso, che indicava il culto al sacro Cuore di Gesù).

… ma che fu guidata da nobili valorosi

A capo di questa armata, come detto, vi furono alcuni nobili valorosi, veri e propri generali capaci di tenere in scacco l’esercito repubblicano per molti mesi. Tra questi ricordiamo Cathelineau, Lescure, Le rochejacquelein, stofflet, Charette. All’inizio a Parigi i capi rivoluzionari sembrarono non dare troppo peso a questa rivolta e infatti inviarono poche truppe a reprimerla. Ciò permise ai controrivoluzionari di ottenere molti successi. Quando robespierre comprese il pericolo che la Vandea poteva rappresentare, anche per l’esem-

pio che poteva dare ad altre regioni (analoghe rivolte erano nel frattempo scoppiate in Bretagna e non solo), cambiò decisamente linea. Nel gennaio del ’94 fu ordinata la guerra di sterminio.

Con l’arrivo delle “colonne infernali” ci fu un vero e proprio sterminio

In Vandea vennero inviate le cosiddette “colonne infernali” reparti di soldati invasati con l’ordine di massacrare anche la popolazione civile per estirpare definitivamente la rivolta. Ne derivò un vero e proprio massacro. Alcuni storici addirittura non esitano a usare l’espressione genocidio in quanto ci sarebbe stata la deliberata volontà di eliminare un intero popolo. I soldati di Parigi si macchiarono di violenze inaudite contro donne, vecchi e bambini (questi ultimi furono massacrati in quanto, così fu scritto, «i bambini di oggi saranno i controrivoluzionari di domani»). Calcoli attendibili parlano di circa 300.000 morti su un totale di 500.000 abitanti della regione. Lo stesso Gracco Babeuf, un rivoluzionario giacobino di idee estremistiche, dopo aver visitato la regione scrisse un libro in cui denunciava questi orrendi crimini e parlava di “spopolamento” della Vandea.

La Vandea simbolo della controrivoluzione

La rivolta vandeana ebbe fine nel sangue con l’uccisione dell’ultimo comandante ribelle, Charette, fucilato nel 1796 e per molto tempo si è cercato di cancellarne il ricordo. In realtà essa è rimasta nella storia come il simbolo della controrivoluzione di un popolo che si ribella contro ogni imposizione che voglia stravolgere i suoi valori di fede e le sue tradizioni. Da anni ormai, ogni estate, viene organizzato nei villaggi della regione un grande spettacolo notturno, con migliaia di attori e comparse, che ricorda a tutti i tragici eventi di quei giorni.

METTIAMO A FUOCO

Il calendario rivoluzionario

La rivoluzione come nuovo inizio della storia umana

La modifica radicale del calendario operata dai giacobini non è soltanto un particolare curioso; rivela al contrario uno dei tratti principali della mentalità rivoluzionaria: l’idea che con la rivoluzione si abbia un nuovo inizio nella storia dell’umanità, che con essa si chiuda completamente con il passato, considerato del tutto negativo, e si inizi un’era nuova e totalmente diversa. Non per nulla uno dei primi atti rivoluzionari fu proprio la nuova numerazione degli anni che sarebbero stati conteggiati non più a partire dalla nascita di Cristo, ma dall’avvento della repubblica nel 1792. robespierre e i giacobini erano infatti convinti che con la rivoluzione francese fosse iniziato un mondo nuovo, e che essa avrebbe segnato la storia ben più della nascita di Cristo. Più in generale ai loro occhi tutta la vicenda umana precedente perdeva importanza e solo dalla rivoluzione ci si sarebbe dovuti aspettare la felicità per il genere umano.

I nuovi nomi dei mesi

Oltre a questo, si modificò la divisione dei mesi. In omaggio al principio di uguaglianza si divideva l’anno in 12 mesi di 30 giorni ciascuno che sarebbero stati chiamati con nomi nuovi, completamente sciolti dalla tradizione e legati invece agli aspetti climatici o lavorativi. A partire dal capodanno che era il 22 settembre (giorno della proclamazione della repubblica) si sarebbero susseguiti nell’ordine: vendemmiaio, brumaio, frimaio, nevoso, piovoso, ventoso, floreale, germinale, pratile, messidoro, termidoro, fruttidoro. Al termine dell’anno, dopo fruttidoro, si aggiungevano 5 giorni chiamati sanculottidì.

L’eliminazione delle settimane e delle domeniche

I mesi vennero poi divisi in 3 decadi, che sostituivano la divisione in settimane, e i giorni delle decadi venivano chiamati con nomi nuovi quali primidì, duedì, tridì e così via. Come si vede, sparivano i nomi tradizionali, legati in parte alle divinità antiche, e soprattutto spariva la domenica come “giorno del signore”. Aumentavano, invece, i gior-

ni lavorativi. Anche le festività tradizionali legate in gran parte ad avvenimenti religiosi vennero sostituite da nuove celebrazioni dedicate agli anniversari di eventi rivoluzionari o a cerimoniali quali la piantumazione dell’albero della libertà, uno dei simboli della rivoluzione.

Va detto però che questo nuovo calendario, utilizzato nei documenti ufficiali, non riscosse particolare successo presso la popolazione. La maggior parte dei francesi continuò a seguire l’antico calendario e, d’altra parte, non prese neanche sul serio il culto della dea ragione. È vero che durante gli anni della rivoluzione la pratica religiosa del popolo diminuì, ma ciò è dovuto più alle persecuzioni e ai contrasti tra preti refrattari e preti costituzionali che alle misure adottate dai giacobini.

I dodici mesi del calendario rivoluzionario francese

Autunno

Vendemmiaio (22 settembre - 21 ottobre)

Brumaio (22 ottobre - 20 novembre)

Frimaio (21 novembre - 20 dicembre)

Inverno

Nevoso (21 dicembre - 19 gennaio)

Piovoso (20 gennaio - 18 febbraio)

Ventoso (19 febbraio - 20 marzo)

Primavera

Germinale (21 marzo - 19 aprile)

Fiorile (20 aprile - 19 maggio)

Pratile (20 maggio - 18 giugno)

Estate

Messidoro (19 giugno - 18 luglio)

Termidoro (19 luglio - 17 agosto)

Fruttidoro (18 agosto - 16 settembre)

Giorni sanculottidi (17-21 settembre)

SPUNTI DI RIFLESSIONE (PER L’EDUCAZIONE CIVICA)

Che differenze ci sono tra la rivoluzione francese e la rivoluzione americana?

L’interessante analisi di Alexis de Tocqueville

Accade di frequente di sentir paragonare la rivoluzione francese a quella americana, come se si trattasse dell’espressione di esigenze e ideologie identiche. si pensa addirittura che fossero in continuità l’una con l’altra, quasi che la seconda fosse la continuazione e il completamento della prima. Nulla di più sbagliato: tra i due moti insurrezionali vi furono infatti rilevanti differenze e anche dal punto di vista terminologico è improprio definire quella americana una rivoluzione, essendosi trattato più esattamente di una guerra d’indipendenza. Il primo a mettere a fuoco le differenze fondamentali tra i due fatti è stato proprio uno studioso francese del XIX secolo, Alexis de Tocqueville. Questi, dopo un viaggio in America condotto nel 1831, scrisse un saggio poi diventato celebre, La democrazia in America. In questo testo mise in luce due caratteristiche fondamentali della società americana che costituiscono anche le principali differenze tra le due rivoluzioni.

Il diverso atteggiamento verso la religione

Per prima cosa, egli constatò come nella società americana Dio e la religione occupassero un ruolo fondamentale: per gli americani lo spirito di libertà non è in contrasto con la religione; al contrario, religione e libertà possono coesistere e, anzi, rafforzarsi a vicenda. La religione può crescere solo nella libertà e non c’è libertà nella società se non c’è libertà per i suoi membri di professare la religione che desiderano. La rivoluzione americana non è nata perciò con lo scopo di combattere la religione; anzi, nella Dichiarazione di Indipendenza si afferma che i diritti fondamentali dell’uomo derivano proprio da Dio. Al contrario, la rivoluzione francese, anche se non da subito, si caratterizzò proprio per la sua lotta contro la religione vista come uno dei principali ostacoli alla libertà dell’individuo.

La libertà di aggregazione

La seconda caratteristica è la centralità che nella società americana viene attribuita alla libertà dell’uomo. In particolare viene valorizzato un aspetto fondamentale di tale libertà: la possibilità che gli uomini si associno liberamente all’interno della società per dar vita ad aggregazioni di vario tipo, associazioni, gruppi e clubs per svolgere attività che ritengono utili alla loro vita. Questo è possibile e nessuna legge dello stato lo può impedire o ostacolare. La lotta che i coloni americani hanno condotto contro la madrepatria Inghilterra è nata proprio per permettere loro di difendere questa libertà, soprattutto nel campo del lavoro e dell’economia, di fronte alle pretese invasive del parlamento inglese. Anche qui è esattamente il contrario per la rivoluzione francese in cui si sono affermati sì, con solenni dichiarazioni, i diritti umani, ma poi si è fatto di tutto per negarli, negando in particolare all’uomo il diritto ad associarsi indipendentemente dalla volontà dello stato. se gli uomini, così conclude Tocqueville, non possono credere in Dio né associarsi liberamente, allora la libertà è a rischio e il dispotismo totalitario è in agguato. Questo spiega proprio perché una rivoluzione come quella francese, partita con l’intenzione di rendere l’uomo pienamente libero, ha poi realizzato una società tirannica dominata dal terrore della ghigliottina.

Ritratto di Alexis de Tocqueville
Olio su tavola di Théodore Chassériau (1850), Museo Nazionale del Castello di Versailles

RACCONTIAMO IN BREVE

1. La Francia, nella seconda metà del Settecento, si presentava ancora come un paese feudale, che aveva conosciuto un certo progresso economico e sociale, ma che presentava una grave crisi finanziaria, dovuta al crescente deficit del bilancio statale.

2. L’unica soluzione per risanare il bilancio sarebbe stata quella di estendere le tasse anche al clero e alla nobiltà. Ma questi due ordini si opponevano e al re non rimase che, dopo tante titubanze, convocare gli Stati Generali, in cui questi due ordini privilegiati erano rappresentati insieme al terzo stato (coloro che non erano né aristocratici né ecclesiastici). Quando gli Stati Generali si riunirono esplosero però gravi contrasti: il re tentò di sciogliere l’assemblea, ma i rappresentanti del terzo stato si riunirono nella sala della pallacorda autoproclamandosi Assemblea Nazionale Costituente.

3. A Parigi, frattanto, la folla imponeva sempre di più la sua volontà; il 14 luglio del 1789 diede l’assalto alla fortezza della Bastiglia, considerata il simbolo dell’assolutismo, mentre nelle campagne i contadini assalivano i castelli dei nobili. Il Re Luigi XVI riconobbe l’Assemblea Nazionale, che proclamò l’abolizione dei diritti feudali e l’uguaglianza dei cittadini, e fu costretto a tornare nella capitale mentre molti aristocratici emigravano all’estero.

4. L’Assemblea Nazionale adottò in breve tempo molti importanti provvedimenti, come la Costituzione Civile del clero, che sottometteva la Chiesa al controllo dello stato, e la vendita dei beni ecclesiastici. Luigi XVI, preoccupato per quanto si stava verificando, tentò di fuggire, ma fu sorpreso a Varennes, nei pressi del confine e fu riportato a Parigi. Dopo aver emanato la costituzione, l’Assemblea Nazionale si sciolse: la Francia era pronta per trasformarsi in una monarchia costituzionale.

5. Il nuovo parlamento, chiamato Assemblea Legislativa, non ebbe vita lunga. Decretò l’entrata in guerra della Francia contro Austria e Prussia, ma poi, sotto la pressione della folla parigina e dei sanculotti, si sciolse per essere sostituito da una Convenzione Nazionale, eletta a suffragio universale maschile. Al suo interno scoppiò lo scontro tra i girondini, moderati, e i gruppi estremisti rappresentati dai giacobini e dai cordiglieri. Furono questi ultimi a prevalere, instaurando il Terrore, sotto la guida di Robespierre.

6. La Convenzione decretò la condanna a morte del re che fu ghigliottinato nel gennaio del 1793. Iniziò così la fase più acuta del Terrore: oppositori politici, ecclesiastici, semplici borghesi vennero condannati a morte anche solo in base a dei sospetti; furono chiuse le chiese e si iniziò un’opera di “scristianizzazione” del paese. Venne imposto il servizio militare obbligatorio. A questo punto in numerose regioni, e in particolare in Vandea, scoppiarono rivolte controrivoluzionarie che vennero represse nel sangue.

7. Alla fine gli stessi membri della Convenzione si ribellarono alla sanguinaria dittatura di Robespierre. Il 28 luglio del 1794 il capo dei giacobini venne giustiziato. Si pose così fine al Terrore giacobino, ma le violenze continuarono ancora a lungo. Ora erano i moderati a vendicarsi dei seguaci di Robespierre.

8. Nel frattempo, nel 1795 venne approvata una nuova costituzione che ribadiva il voto censitario e attribuiva il governo a un nuovo organismo di soli 5 membri, detto Direttorio. Si trattava della vittoria della borghesia, anche se vi furono ancora tentativi da parte sia dei monarchici sia dei giacobini estremisti, di tendenze comuniste, di prendere il potere e di ribaltare la situazione. Questi tentativi di colpo di stato vennero repressi grazie all’intervento dell’esercito rimasto fedele alla repubblica. Tra le file dei militari si cominciò a distinguere un giovane ufficiale dell’artiglieria, Napoleone Bonaparte.

ATTIVITÀ E VERIFICHE

Esercizio 1 · Rispondi, anche oralmente, alle seguenti domande.

1. Com’era divisa la società francese prima del 1789? In che condizioni si trovava la borghesia?

2. Chi era Necker e che cosa propose al re?

3. Da chi era composto il terzo stato?

4. Che cosa si impegnarono a fare i membri dell’Assemblea Nazionale Costituente costituita dopo il Giuramento della pallacorda?

5. Quali provvedimenti furono adottati dall’Assemblea Nazionale Costituente nell’agosto del 1789?

6. Chi erano i preti refrattari?

7. Chi erano i girondini, i giacobini e i cordiglieri?

8. Chi era robespierre?

9. Che cos’è il Terrore? Quante furono le vittime del Terrore?

10. Che cosa si intende per Terrore bianco?

11. Che cosa fu la Congiura degli Eguali?

Esercizio 2 · Completa la linea del tempo: scrivi il numero del fatto storico sulla data corretta.

20 giugno 1789 14 luglio 1789 26 agosto 1789 20 settembre 1792 21 settembre 1792 9 termidoro (27 luglio) 1794

1. Giuramento della pallacorda

2. Vittoria di Valmy

3. Proclamazione della repubblica

4. Presa della Bastiglia

5. robespierre viene giustiziato

6. Promulgazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino

Esercizio 3 · Indica se l’affermazione riportata è vera o falsa.

La Francia alla metà del XVIII secolo era una nazione ricca e potente V F

I cahiers des doléances erano un elenco delle richieste che i rappresentanti del terzo stato avrebbero dovuto portare all’assemblea degli stati Generali. V F

La maggioranza del clero francese giurò fedeltà alla costituzione. V F

I girondini e i giacobini erano sostenitori della monarchia. V F

Durante il Terrore furono uccisi solo gli aristocratici. V F

Il Direttorio di 5 membri fu la forma di governo prevista dalla costituzione del 1795. V F

Esercizio 4 · Per completare la frase iniziale scegli fra le tre alternative proposte quella che ti sembra oltre che esatta anche precisa e formulata con il linguaggio più appropriato.

L’Ancien Régime era

a. il nome dato all’antico ordinamento politico-sociale francese.

b. il nome dato al sistema economico-fiscale francese prima della rivoluzione.

c. il nome dato all’antica dinastia che governava la Francia.

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino sanciva

a. l’abolizione della monarchia assoluta in Francia.

b. l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e le fine dell’Ancien Régime.

c. l’obbligo per tutti di pagare le tasse.

La Costituzione Civile del clero mirava a

a. sottomettere la Chiesa francese allo stato.

b. garantire un ruolo privilegiato al clero francese all’interno dello stato.

c. far pagare le tasse anche agli ecclesiastici.

I moti controrivoluzionari in Vandea e in altre regioni scoppiarono

a. perché il re era stato ghigliottinato.

b. a causa della politica economica e antireligiosa dei rivoluzionari.

c. per riportare la Francia all’Ancien Régime.

La scristianizzazione mirava a

a. sottomettere la Chiesa Cattolica allo stato.

b. eliminare il Cristianesimo dalla Francia.

c. eliminare il Cristianesimo dalla Francia per sostituirlo con il culto della “dea ragione”.

La costituzione del 1795 rappresenta la vittoria della borghesia perché

a. si stabilisce il ritorno dell’Ancien Régime.

b. si realizza una monarchia parlamentare.

c. si stabilisce l’elezione agli organi di governo su base censitaria.

Esercizio 5 · Sono elencati di seguito senza un ordine preciso alcuni organismi esistenti in Francia o creati durante la rivoluzione. Disponili in ordine cronologico, indicando l’anno di istituzione e la funzione che svolsero.

Convenzione stati generali

Comitato di salute Pubblica

Assemblea Nazionale Costituente

Direttorio

Assemblea Legislativa

Napoleone sul trono imperiale Olio su tela di Jean-AugusteDominique Ingres (1806), Musée de l'Armée, Parigi

Napoleone è raffigurato con i simboli del potere imperiale: lo scettro nella mano destra e la mano della giustizia di Carlo Magno nella sinistra, la corona d’alloro sul capo e l’aquila sui braccioli del trono. Sul collo della pelliccia di ermellino si vede il collare di Gran Maestro della Legion d'Onore, ordine da lui creato nel 1802. Le api che costellano il suo manto rappresentano l’industriosità francese. Si noti, infine, che i suoi piedi non poggiano a terra, ma sono sospesi su un cuscino quasi a raffigurare un’autorità non terrena, ma celeste ed eterna.

Capitolo 13

Napoleone

Un gigante in bilico tra tirannia e libertà

Napoleone Bonaparte si erge come dominatore indiscusso della scena europea a cavallo dei secoli XVIII e XIX.

È però un personaggio estremamente controverso da molteplici punti di vista, e tale venne giudicato anche dai contemporanei. Nei suoi confronti infatti si manifestarono rapidi e incrollabili entusiasmi, ma anche totale ostilità. Egli, per un verso, codificò ed esportò alcune acquisizioni della rivoluzione francese, suscitando incondizionata ammirazione presso coloro che allora si battevano per la libertà e la democrazia. D’altra parte però fu colui che, nella sua patria, affossò definitivamente la rivoluzione, ponendo fine a ogni accenno di libertà democratica e realizzando un potere personale accentrato e dispotico.

Nei vari paesi conquistati si presentò come il paladino della libertà, dell’uguaglianza e della democrazia, ma allo stesso tempo non esitò a perseguire in ogni circostanza gli interessi francesi, se non addirittura quelli della sua famiglia, a danno dei paesi sottomessi e “affratellati”.

Mentre poi da un lato riuscì, per qualche anno, a rendere grande la Francia in Europa, dall’altro finì per renderla piccola nel mondo, indebolendone la presenza nei continenti extraeuropei, e lasciando campo aperto alla crescita impetuosa dell’Impero britannico.

AL TERMINE DEL CAPITOLO

Schede di approfondimento

• La Francia napoleonica: sempre più grande in Europa, sempre più piccola nel mondo

• La nascita del tricolore

• Le rivolte antigiacobine nel sud e i sanfedisti del cardinale Ruffo

• Champollion e la decifrazione dei geroglifici

• La tragica fine dei soldati italiani in Russia

• David: quando l’arte celebra il potere

• Il catechismo napoleonico

Raccontiamo in breve

Attività e verifiche

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per non perdere il filo

1 · Napoleone Bonaparte nuovo dominatore della scena politica europea

Colui che esportò i valori della rivoluzione nel resto d’Europa

Al termine della drammatica e travagliata vicenda della rivoluzione francese si affermò un nuovo grande personaggio, Napoleone Bonaparte, che in breve divenne il dominatore della scena politica europea, almeno fino al 1815, se non anche successivamente. Fu lui ad esportare la rivoluzione, i suoi valori e i suoi princìpi, anche al di fuori dei confini francesi, e fu lui a sconvolgere a lungo gli assetti e gli equilibri degli stati europei.

Un’abile carriera militare e amicizie influenti

Napoleone Buonaparte (il nome venne poi francesizzato in Bonaparte) nacque nel 1769 da una famiglia della piccola nobiltà ad Ajaccio, in Corsica, pochi mesi dopo che l’isola era passata da Genova alla Francia. Intrapresa la carriera militare, si mise subito in luce, come ufficiale di artiglieria, proprio in un momento in cui la Francia rivoluzionaria aveva bisogno di validi comandanti per le sue armate. Fu, ancora giovanissimo, promosso generale anche in virtù di utili appoggi politici (divenne amico fra gli altri del fratello di Robespierre). Dopo il termidoro si legò a Paul Barras, uno dei membri più influenti del Direttorio, e si conquistò ulteriori meriti intervenendo con le sue truppe a sedare un tentativo di colpo di stato filo-monarchico il 13 vendemmiaio (5 ottobre) del 1795. Sposò poi Giuseppina Beauharnais, già legata a Barras, e ottenne dal Direttorio il comando del Corpo d’armata francese in Italia, dove era ancora in corso la guerra contro l’Austria e il suo alleato Regno di Sardegna. Fu questo il trampolino di lancio per la sua scalata definitiva al potere.

La campagna d’Italia lo mostra abile comandante e stratega

In Italia Napoleone trovò truppe male equipaggiate e fortemente demoralizzate, che seppe però riorganizzare e galvanizzare. Riuscì in tal modo, in pochi giorni, a sconfiggere sia l’esercito piemontese che quello austriaco e ad entrare trionfalmente a Milano nel maggio del ’96. Già in questa prima campagna militare egli mise in mostra tutte le sue qualità di abile comandante e stratega. Riusciva infatti a motivare ed entusiasmare le truppe con una sapiente retorica fatta di gesti teatrali e discorsi infiammati. Sapeva legare a sé i propri ufficiali promuovendo ad alti gradi e a posti di comando chiunque dimostrasse valore, indipendentemente della sua classe sociale di origine. Mostrava un indubbio coraggio personale, una costanza nell’affrontare lunghe ed estenuanti ore di lavoro senza interrompersi, e una grande rapidità nel prendere le decisioni.

Genova

Rep. Ligure

Duc. di Parma Rep. Cisalpina (comprendente la ex Rep. Cispadana

Regno di Sardegna (ai

Rep. Romana

Inoltre muoveva rapidamente le sue truppe che non erano, come gli altri eserciti, accompagnate da lenti e pesanti convogli carichi di rifornimenti. Per vettovagliarsi, infatti, non esitava a ricorrere a saccheggi e a requisizioni presso le popolazioni civili, pratica, questa, che in breve tempo renderà le truppe francesi invise a tutte le popolazioni occupate. Da ultimo studiava accuratamente il terreno su cui dovevano svolgersi le battaglie per poter trarne per il proprio esercito tutti i vantaggi possibili.

Nascono le prime repubbliche filo-napoleoniche

Dopo la presa di Milano, Napoleone continuò le sue conquiste: invase il Ducato di Modena e Reggio, dove favorì la costituzione della Repubblica Cispadana (dicembre 1796) che comprendeva i territori di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, in parte sottratti al papa. Questa repubblica fu poi sciolta, qualche mese dopo, per confluire in un’altra e più grande detta Cisalpina che comprendeva anche i territori lombardi a nord del Po con Milano, Como, Bergamo, Brescia.

Queste repubbliche, che verranno chiamate “sorelle” perché strettamente alleate dei francesi, erano guidate da esponenti locali simpatizzanti di Napoleone o di idee filo-giacobine, ma sostenute dalle armi delle truppe francesi.

Le “repubbliche sorelle” in Italia (1799)

Territori ceduti all’Austria dopo Campoformio

Repubbliche sorelle

Territori sotto diretta amministrazione francese

Perché le truppe e gli ufficiali di Napoleone erano molto fedeli al loro comandante?

Perché l’esercito francese era molto rapido nei movimenti?

Roma
Napoli
Cagliari
Palermo
Firenze
Venezia
Milano Torino
Dalmazia
Domini austriaci
Impero Ottomano
Repubblica Partenopea
Regno di Sicilia (ai Borbone)
Toscana
Lombardia
Savoia)
Veneto Iatria

Perché la Repubblica Cispadana e quella Cisalpina furono chiamate repubbliche sorelle?

Conquistata anche Mantova, Napoleone attaccò gli austriaci in Veneto, travolgendo senza difficoltà anche la Repubblica Veneta. A questo punto, però, stipulò un accordo con l’Austria, il cosiddetto Trattato di Campoformio del 17 ottobre 1797, con il quale Venezia e i territori della terraferma, l’Istria e la Dalmazia erano ceduti all’Impero Asburgico; in cambio la Francia otteneva le Fiandre austriache (all’incirca l’attuale Belgio) e il riconoscimento dell’indipendenza della neonata Repubblica Cisalpina.

Le prime delusioni

Perché i patrioti veneziani si sentirono traditi da Napoleone?

Questa pace provocò in molti patrioti veneziani, tra cui il poeta Ugo Foscolo, forte delusione e risentimento: essi infatti avevano salutato Napoleone come un liberatore che avrebbe portato anche nella chiusa società veneziana una ventata di libertà e democrazia. Ora perciò si sentivano traditi in quanto la loro patria finiva nelle mani dell’odiato nemico austriaco, che vedevano come il simbolo dell’autoritarismo e della repressione.

Il dominio francese in Italia si allarga

In breve anche altri territori italiani furono invasi dalle truppe francesi e anche qui sorsero repubbliche “sorelle”. In particolare a Genova sorse la Repubblica Ligure; a Roma, dove il papa Pio VI era stato costretto a fuggire, sorse la Repubblica Romana (1798) che proclamò la fine del potere temporale della Chiesa; a Napoli venne costituita la Repubblica Partenopea (1799).

Nella primavera del ’99 in pratica tutta l’Italia era nelle mani francesi ad eccezione della Sardegna, dove si era rifugiato il re Carlo Emanuele IV di Savoia, della Sicilia dove, in fuga da Napoli, si era stabilito il re Ferdinando IV di Borbone, e del Triveneto, in mani austriache.

Le reazioni alla dominazione napoleonica: le “insorgenze”

Le repubbliche filo-giacobine godettero inizialmente di un certo consenso da parte delle borghesie cittadine, ma anche di frange della nobiltà e del clero, conquistate dalle idee illuministiche. Ben presto però le cose cambiarono: emerse sempre più chiaramente come queste repubbliche fossero sottoposte a un rigido controllo francese. Non per nulla Napoleone vi aveva nominato dei commissari che le controllavano, pensando soprattutto agli interessi della Francia. Ovunque infatti requisivano risorse e imponevano pesanti tassazioni per il mantenimento delle truppe d’occupazione, depredavano le casse dello stato e i patrimoni di chiese e ospedali. Non esitarono anche a impossessarsi dei beni lasciati in pegno dai poveri nei Monti di Pietà. Non ultime vanno ricordate le razzie di opere d’arte conservate in chiese e musei, inviate a Parigi ad arricchire le collezioni del Museo del Louvre. Il motivo però che più rendeva in-

Binasco

Pavia

Genova

Mar Mediterraneo

Bolzano

Schio

Thiene

Valdagno

Verona

Garfagnana

Forlì

Viterbo

Lugo

Ravenna

Rimini

Tevere

L’Aquila

Teramo

visi i francesi e gli esponenti filo-giacobini alla popolazione fu l’atteggiamento ostile che essi mostrarono verso la religione cattolica. Per tutte queste ragioni in molte parti d’Italia, già a partire dal 1796, scoppiarono rivolte antifrancesi, rivolte che videro un’ampia partecipazione della popolazione e che presero il nome di “insorgenze”. Al grido di “Viva Gesù”, “Viva Maria” o anche “Viva il re” o “Viva l’imperatore” (erano presenti nei rivoltosi anche forti sentimenti legittimisti), contadini e popolani insorsero in Lombardia, Liguria, Veneto, Toscana, Romagna, Marche, Umbria, Abruzzo e nella stessa Roma.

La controffensiva sanfedista nel sud

La più forte ondata antifrancese partì nel 1799 dal sud, dove un’armata di contadini, popolani, ex soldati borbonici guidati dal cardinale Fabrizio Ruffo e chiamata “Esercito della Santa Fede” (da qui il nome di “sanfedisti” che fu loro attribuito) mosse alla riconquista di Napoli. I sanfedisti, appoggiati dai popolani napoletani, sconfissero le forze della Repubblica Partenopea e riconsegnarono la città a Ferdinando IV di Borbone. La fine dei principali esponenti filo-giacobini fu tragica. Tra gli altri furono giustiziati per volontà della regina e dell’ammiraglio inglese Orazio Nelson, che aveva appoggiato con la sua flotta i Borboni, Francesco Caracciolo, il giuri-

Le insorgenze antigiacobine

Area delle insorgenze antigiacobine nel 1796

Area delle insorgenze antigiacobine nel 1797

Area delle insorgenze antigiacobine nel 1798

Area delle insorgenze antigiacobine nel 1799

Principali insorgenze antigiacobine

Perché scoppiarono le insorgenze?

Milano
Napoli
Catanzaro
Crotone
Cosenza
Lecce
Matera
Bressanone
Benevento

La caduta

della Repubblica

Partenopea ad opera dei sanfedisti guidati dal cardinale Ruffo

Dipinto dell’epoca, Museo di San Martino, Napoli

sta Mario Pagano, la letterata Eleonora Fonseca Pimentel. Finì in questo modo la vicenda di una repubblica che, come dirà lo storico napoletano Vincenzo Cuoco, non seppe incontrare le esigenze e il sostegno del popolo, che infatti si schierò per lo più dalla parte della monarchia.

In questo stesso periodo le forze controrivoluzionarie, appoggiate da un esercito austro-russo, cacciarono i francesi dalla Toscana, dal Piemonte e dalla Lombardia. Anche Roma fu liberata e il nuovo papa, Pio VII, poté farvi ritorno.

2 · Napoleone allarga i suoi obiettivi

Il fallito attacco alla potenza inglese

Dopo il Trattato di Campoformio Napoleone fece ritorno in Francia da trionfatore. Il Direttorio gli affidò allora il comando di una spedizione contro l’Inghilterra che tra i grandi stati scesi in campo contro la Francia rivoluzionaria era l’unico rimasto indenne da attacchi francesi. Dimostrando di avere ben compreso quale fosse la base della potenza inglese, Napoleone non tentò di invadere l’Inghilterra, conquistandola militarmente, ma mirò piuttosto a indebolirne la base economica, sbarrando la via che la collegava ai suoi possedimenti coloniali in Asia, e in particolare in India. Di questa via l’elemento-chiave era l’istmo di Suez che, seppur non ancora tagliato dal futuro omonimo canale, era ugualmente un punto di passaggio decisivo per le merci inglesi che viaggiavano tra il Mediterraneo e il Mar Rosso. Per impadronirsi dell’istmo, Napoleone attaccò quindi l’Egitto, allora provincia del già declinante Impero Ottomano. Sconfitti inizialmente i turchi in una celebre battaglia ai piedi delle piramidi, Napoleone subì però un imprevisto rovescio: la flotta, dislocata in acque egiziane per proteggere alle spalle il corpo di spedizione francese, venne annientata da quella inglese, guidata dall’ammiraglio Nelson, nella baia di Abukir. A questo punto l’esercito francese si trovò bloccato in Egitto. L’anno seguente Napoleone, accompagnato dai suoi più stretti collaboratori, riuscì a tornare in Francia eludendo la sorveglianza della flotta inglese e abbandonando al loro destino le truppe del suo corpo di spedizione che, decimato tanto dai combattimenti quanto da un’epidemia di peste, riuscì a rientrare in patria soltanto nel 1801. Pur avendo capito che era l’Inghilterra il suo vero grande nemico, da allora in poi Napoleone non tentò più di combatterla. Si impegnò invece in lunghe ed estenuanti guerre con la Prussia, l’Austria e la Russia dissanguando l’intera Europa continentale, proprio mentre l’Inghilterra continuava indisturbata a costruirsi quello che nella seconda metà dell’Ottocento sarebbe divenuto il suo celebre impero coloniale.

Il colpo di stato del 18 brumaio:

Napoleone diventa Primo Console

Una volta tornato in Francia Napoleone decise di rompere ogni indugio: passò all’azione per prendere il potere una volta per tutte. Con un colpo di stato, il 9 novembre 1799 (18 brumaio), egli si presentò al parlamento (si trattava della Camera dei Cinquecento) e dichiarò decaduto il Direttorio. Nella sua azione fu aiutato in maniera decisiva dal fratello Luciano e da Gioacchino Murat, un ufficiale di umili origini, che da questo momento in poi diventerà un suo fedelissimo collaboratore. A questo punto creò un nuovo organismo di governo chiamato Consolato e composto da tre membri:

Istmo Sottile lingua di terra, bagnata su entrambi i lati dal mare, che unisce due territori più estesi.

Perché Napoleone attaccò l’Egitto?

oltre a lui, che si proclamò Primo Console, vi erano anche il vecchio Sieyès (già esponente autorevole del terzo stato nell’assemblea degli Stati Generali di dieci anni prima) e Ducos. Tra i suoi collaboratori Napoleone scelse anche altri esponenti della rivoluzione tra cui Talleyrand, che nominò ministro degli esteri. Con una nuova costituzione assunse poteri quasi dittatoriali: da allora in poi vennero sospese le elezioni, e magistrati e amministratori locali divennero di nomina governativa. Ormai Napoleone era il nuovo signore assoluto della Francia, come lo era stato Robespierre durante la rivoluzione, ma con un’arma in più: l’appoggio incondizionato del suo fedelissimo esercito.

Le riforme interne di Napoleone

Inflazione

Aumento oltre misura della circolazione di carta moneta o di altri mezzi di pagamento che porta alla conseguente diminuzione del potere di acquisto degli stessi. Questo favorisce una continua ascesa dei prezzi dei prodotti.

Negli anni immediatamente successivi Napoleone rafforzò il suo potere con una serie di importanti riforme che avevano lo scopo di consolidare l’unità dello stato e la sua autorità. Innanzitutto istituì la Banca di Francia con lo scopo di regolare l’emissione di carta moneta, ponendo così fine all’inflazione che già aveva indebolito la Francia durante la rivoluzione. Esercitò poi un ferreo controllo sull’attività economica e commerciale. Riorganizzò l’amministra-

zione del paese dividendolo in dipartimenti con a capo un prefetto di nomina governativa, dotato di amplissimi poteri. Promosse l’istruzione pubblica statale, soprattutto media e superiore, creando prestigiosi licei, un istituto di alta specializzazione come la Scuola Normale Superiore, destinata a formare i nuovi docenti, e il Politecnico, con il compito di istruire i tecnici dell’amministrazione civile. Due suoi altri importanti successi furono il Concordato con la Chiesa Cattolica e il nuovo Codice Civile. Con il primo atto, stipulato nel 1801, egli pose fine all’annoso conflitto con la Chiesa e con il papa: il Cattolicesimo venne riconosciuto “religione della maggioranza dei francesi” e la nomina dei vescovi venne lasciata al papa, su indicazione però dello stato. I beni ecclesiastici sequestrati durante la rivoluzione non vennero più restituiti. Si trattava di una soluzione di compromesso a cui Napoleone, che non era personalmente credente ma che riconosceva l’importanza della religione cristiana come elemento di coesione della società, giunse soprattutto allo scopo di ottenere l’appoggio dei cattolici francesi. Il Codice Civile, noto anche col nome di “Codice Napoleone”, sarà una delle più stabili eredità dell’epoca napoleonica. Promulgato nel 1804, è un monumento giuridico di grande rilievo che unisce i princìpi della rivo-

La battaglia delle piramidi

Olio su tela di Louis-François Lejeune (1806), Musée national des Châteaux de Versailles et de Trianon, Versailles

Concordato È l’accordo che il papa stipula con uno stato allo scopo di regolare la posizione giuridica della Chiesa Cattolica in tale stato.

Perché fu istituita la Banca di Francia?

Perché fu importante il Codice Napoleone?

luzione francese (in particolare quello dell’uguaglianza dei cittadini) con la tradizione giuridica romana. Centrali in tale Codice sono la difesa della proprietà privata e l’affermazione del valore della famiglia, nella quale però il ruolo del marito predomina largamente su quello della moglie. Questo Codice verrà in massima parte riconfermato anche dopo l’uscita di scena di Napoleone e ad esso si ispireranno per oltre un secolo molte riforme dei codici civili in tutto l’Occidente e anche altrove.

Verso l’Impero

Perché l’autoincoronazione di Napoleone ha un forte significato simbolico?

All’esterno Napoleone riprese la sua politica di conquiste. Riconquistò in breve tempo l’Italia, sconfiggendo gli austriaci a Marengo (1800) e ricostituendo una repubblica detta stavolta Repubblica Italiana, di cui egli si nominò presidente. Allo stesso modo metteva le mani sulla Svizzera (che trasformò in uno stato unitario chiamato Repubblica Elvetica), il Belgio e il Piemonte. Anche la Toscana fu trasformata in Regno d’Etruria e si costituì in Olanda un’altra repubblica (la Repubblica Batava). Nulla sembrava più fermare il grande condottiero che, nel 1802, si proclamò Console a vita e che era ormai pronto all’incoronazione imperiale. Questa cerimonia avvenne il 2 dicembre 1804 nella cattedrale di Notre Dame a Parigi alla presenza del papa Pio VII; con un gesto dal forte significato simbolico fu, però, lui a togliere la corona dalle mani del papa e a porla sul proprio capo, quasi a indicare che, a differenza di tutti gli imperatori precedenti, si era dato da sé il potere senza l’aiuto di Dio. L’anno dopo si autoproclamò re d’Italia (la repubblica era stata trasformata in regno), affidandone il governo, con il titolo di viceré, al figliastro Eugenio Beauharnais. Oramai il suo potere era solidissimo e per rafforzarlo ulteriormente non esitò a conferire a propri amici, parenti e famigliari, da perfetto sovrano nepotista, importanti cariche di governo in Francia e fuori.

3 · Padrone dell’Europa

Le nuove grandi imprese militari

L’ascesa imperiale di Napoleone rafforzò l’ostilità delle altre monarchie europee nei suoi confronti. Ripresero quindi i durissimi scontri militari con le truppe degli stati coalizzati contro la Francia. Nel 1805 l’imperatore francese ottenne altre folgoranti vittorie, la più celebre delle quali, il suo capolavoro strategico, fu quella di Austerlitz in cui sbaragliò le forze austro-russe guidate dai due rispettivi imperatori Francesco I d’Austria e Alessandro I di Russia (fu detta per questo la “battaglia dei tre imperatori”). Con la successiva Pace di Presburgo indebolì definitivamente la potenza im-

Regno di Spagna

Parigi

Berlino

Granducato di Varsavia

Confederazione del Reno

Confederazione

Elvetica

Milano

Regno d’Italia

Stato

della

Chiesa

Roma

Vienna

Regno di Napoli

periale austriaca che dovette cedere alla Francia l’Istria e la Dalmazia, mentre il Veneto venne annesso al Regno d’Italia. Anche gran parte della Germania fu posta sotto il controllo francese. L’atto simbolico più eclatante fu però un altro: egli impose all’imperatore d’Austria di abbandonare definitivamente il titolo di Sacro Romano Imperatore per sostituirlo con quello, più limitato, di imperatore d'Austria. A poco più di mille anni dalla sua costituzione il Sacro Romano Impero cessò così di esistere anche formalmente (nella sostanza era già venuto meno a seguito dei trattati di Westfalia). Sempre in questo periodo fu conquistato il Regno di Napoli a capo del quale Napoleone pose il fratello Giuseppe. Nel 1806 egli inflisse una durissima sconfitta anche all’esercito prussiano nella battaglia di Jena. A conclusione di questo biennio di successi, stipulò un accordo con la Russia, col quale i due paesi si spartivano l’Europa: alla Francia andava il dominio sulla parte occidentale mentre alla Russia sarebbe andato quello sulla parte orientale.

L’ombra della sconfitta di Trafalgar

In questa catena quasi ininterrotta di successi risulta una sola ombra, sebbene di grandissimo rilievo: il 21 ottobre 1805, a Trafalgar, al largo di Cadice, la flotta francese venne annientata da quella inglese al comando dell’ammiraglio Nelson, che in questo scontro

Domini di Napoleone nella loro fase di massima espansione nel 1812

Impero Francese

Stati satelliti

Perché Napoleone

adottò il blocco navale contro l’Inghilterra?

perse la vita. La consapevolezza della superiorità inglese spinse a questo punto Napoleone ad abbandonare ogni progetto di invasione delle isole britanniche per puntare a indebolire l’Inghilterra con un “blocco navale” che la isolasse commercialmente (era infatti convinto che gli inglesi fossero una “nazione di bottegai” che andava quindi colpita privandola della “clientela”)

I primi errori di Napoleone: la conquista di Spagna e Portogallo

Perché la conquista della Spagna

danneggiò

Napoleone e indebolì il suo esercito?

Il blocco navale consisteva in particolare nell’impedire l’attracco di navi inglesi nei porti dei paesi soggetti al dominio francese per impedirne i commerci. Siccome però spesso il trasbordo di merci tra navi inglesi e navi di altri paesi avveniva nei porti di Spagna e Portogallo, e in tal modo il blocco veniva aggirato, Napoleone, per renderlo efficace, dovette invadere anche la Penisola Iberica. La conquista fu relativamente facile e il Regno di Spagna, una volta preso, venne affidato al fratello Giuseppe che lasciava il Regno di Napoli al fedelissimo Gioacchino Murat. Assai più difficile fu, invece, sottomettere gli spagnoli che diedero vita a una strenua resistenza, alla quale parteciparono non soltanto il clero e la nobiltà, ma anche contadini, artigiani, pastori. Questi ribelli agivano con la tecnica della guerriglia (il termine è proprio di origine spagnola), cioè non affrontavano i francesi in campo aperto, ma li assalivano di sorpresa, con azioni di sabotaggio e imboscate. L’esercito napoleonico si logorò nel tentativo di combattere questa guerriglia (fece ricorso anche a brutali azioni repressive come quella dipinta qualche anno dopo dal celebre pittore Francisco Goya) e quando Napoleone lasciò la Spagna per dedicarsi a nuove imprese militari, dovette lasciare qui un esercito di occupazione di ben 100.000 uomini che non poteva utilizzare per altre necessità.

La definitiva sconfitta dell’Austria

Perché Napoleone

divorziò dalla prima moglie e sposò Maria Luisa d’Austria?

Nel 1809 Napoleone affrontò nuovamente una coalizione antifrancese e anche stavolta ebbe la meglio. Sconfisse l’esercito austriaco a Wagram e inflisse a Francesco I una durissima punizione: lo costrinse a dargli in moglie la figlia Maria Luisa. Così, dopo aver divorziato dalla sua prima moglie Giuseppina, col pretesto che non gli aveva dato figli, l’imperatore francese, sposando la figlia dell’imperatore d’Austria, si imparentava con la più importante e gloriosa famiglia europea. Era ormai giunto all’apice del suo potere. Da Maria Luisa avrà anche un figlio a cui trasferirà il titolo di re di Roma di cui in precedenza egli stesso si era fregiato.

L’arresto del papa

Lo stesso giorno della vittoria di Wagram, Napoleone fece arrestare e tradurre prigioniero a Savona papa Pio VII, che non aveva accettato l’occupazione di Roma da parte francese. Il papa guardava con evidente preoccupazione alla crescente e inarrestabile potenza francese e si opponeva al controllo sempre più stretto che l’imperatore intendeva imporre sulla Chiesa. Condotto in Francia, Pio VII verrà costretto a firmare un nuovo Concordato con condizioni molto sfavorevoli al papato al quale veniva tra l’altro sottratto il potere temporale.

L’evoluzione della situazione in Italia

Nel Regno di Napoli Gioacchino Murat si impegnò in una politica di riforme particolarmente ambiziosa: abolì alcuni privilegi feudali, introdusse un nuovo codice civile, avviò una riforma della burocrazia e dell’esercito; in cuor suo mirava, come vedremo più avanti, a estendere la sua corona su tutto il territorio italiano. Nonostante il tentativo di Murat, il rigido autoritarismo dei governanti e delle truppe di occupazione francesi, unito ad una politica apertamente anticristiana, suscitavano ovunque reazioni ostili. In varie parti della Penisola erano riprese rivolte popolari e si erano formate bande di ribelli (definiti “briganti” dai francesi) che lottavano contro gli occupanti.

I fucilati del 3 maggio 1808

Olio su tela di Francisco Goya (1814), Museo Nacional del Prado, Madrid

È rappresentata la fucilazione di alcuni patrioti spagnoli ad opera dei soldati francesi come rappresaglia per la precedente insurrezione.

Perché papa Pio VII entrò in contrasto con Napoleone?

Anche in Tirolo la popolazione insorse contro le truppe francesi in nome della fede e della legittimità agli Asburgo. A guidare tale rivolta fu un albergatore della Val Passiria (nell’attuale Alto Adige/ SüdTirol), Andreas Hofer, ancora oggi ricordato in queste terre come un eroe della libertà. Hofer condusse una lotta inizialmente efficace, ma fu poi tradito, catturato e giustiziato dai francesi che attuarono una durissima repressione sulla popolazione civile.

4 · La sconfitta e la tragica fine

L’attacco alla Russia: l’inizio della fine

Le relazioni tra Francia e Russia si stavano frattanto deteriorando. Il blocco continentale contro l’Inghilterra finiva infatti per danneggiare la Russia. Lo scontro divenne quindi inevitabile. Napoleone organizzò un imponente corpo d’armata di circa 600.000 uomini, di cui 50.000 erano italiani, con il quale, nelle sue intenzioni, avrebbe sbaragliato facilmente l’esercito russo. Le cose non andarono però secondo i piani. I russi, guidati dal generale Kutuzov, anziché affrontare l’armata francese in campo aperto, ripiegarono verso est, facendo terra bruciata, attirando i nemici nelle immense pianure russe e facendo perdere loro i contatti con le retrovie. Quando i francesi giunsero a Mosca, nel settembre del 1812, trovarono una città deserta e in preda alle fiamme. Nessuno dei russi si fece loro incontro per trattare la resa e allora Napoleone si rese conto di essere caduto in un tranello. Anziché avanzare ulteriormente, ordinò quindi l’immediata ritirata, ma ormai era troppo tardi. Il gelido inverno russo si stava avvicinando. La grande armata dovette marciare nella neve e nel ghiaccio in condizioni proibitive e sotto il fuoco delle imboscate dei soldati russi. Tragica fu la battaglia che si combatté presso il fiume Beresina, dove le truppe francesi, sfinite dal freddo e dalla fame, furono decimate dai cosacchi. Solo 20.000 uomini alla fine riuscirono a mettersi in salvo e a ritornare in patria.

L’esilio all’isola d’Elba Napoleone però non desistette dai suoi propositi bellicosi. Riprese la politica di conquiste, ma subì una nuova pesantissima sconfitta ad opera degli austro-prussiani a Lipsia, il 16 ottobre 1813. Nel marzo dell’anno successivo russi e prussiani entrarono a Parigi. Napoleone era ormai abbandonato da tutti, anche dai fratelli e dal fedelissimo Murat. Fu quindi arrestato e inviato in prigionia all’isola d’Elba mentre sul trono francese veniva ripristinata la dinastia dei Borboni con Luigi XVIII, fratello del re ghigliottinato dai rivoluzionari. A Vienna le potenze vincitrici si radunarono per decidere i nuovi assetti dell’Europa.

I “cento giorni”

Mentre il congresso di Vienna si trascinava stancamente e a Parigi Luigi XVIII non riusciva a consolidare il suo potere e a ottenere l’appoggio dei francesi, Napoleone eluse la sorveglianza e sfuggì alla prigionia. Il 1 marzo 1815 sbarcò sulla costa francese e, accolto dalla folla festante, marciò trionfalmente verso Parigi da dove nel frattempo Luigi XVIII era fuggito. Ripreso il potere, il grande condottiero ricostituì il suo esercito per affrontare di nuovo le forze nemiche. Lo scontro finale avvenne nella località belga di Waterloo il 18 giugno 1815. Qui, le forze anglo-prussiane, guidate dal duca di Wellington, ottennero la vittoria definitiva. Napoleone si arrese: il suo nuovo tentativo era durato 100 giorni. Stavolta però gli inglesi non avevano nessuna intenzione di farselo scappare. Fu perciò relegato in un luogo ancor più lontano, una piccola isola sperduta in mezzo all’Atlantico meridionale, Sant’Elena. Qui il 5 maggio 1821 il grande imperatore morì. A Parigi tornò definitivamente Luigi XVIII, mentre in Italia Gioacchino Murat, che aveva tentato inutilmente di mettersi a capo di un processo di unificazione del paese, venne catturato e ucciso.

Perché Napoleone fu mandato in esilio all’isola di Sant’Elena?

Morte di Napoleone a Sant’Elena Acquatinta di Jean Pierre Marie Jazet (XIX secolo), Library of Congress, Washington, DC

METTIAMO A FUOCO

La Francia napoleonica: sempre più grande in Europa, sempre più piccola nel mondo

Vista dall’Europa la vicenda napoleonica appare senza dubbio grandiosa. In meno di vent’anni Napoleone trasformò radicalmente non solo la mappa dell’Europa continentale, ma anche la sua società e la sua cultura. E anche dopo la sua sconfitta molte trasformazioni da lui introdotte rimasero irreversibili; lo stesso Codice Napoleone segnò una svolta epocale nella storia del diritto europeo. Se invece si guarda a Napoleone avendo per orizzonte il mondo e il ruolo che la Francia aveva e avrebbe potuto avere in esso, la valutazione non può che cambiare. Proprio mentre iniziava il processo di integrazione complessiva dell’economia mondiale, con scambi che si sviluppavano ormai in tutti i continenti (quella che oggi chiamiamo “globalizzazione”), Napoleone scelse di rinchiudere l’orizzonte dello sviluppo della Francia entro i soli confini europei. Questo dopo aver tentato, in un primo momento, con la spedizione in Egitto, di competere con l’Inghilterra sul piano coloniale.

Aumenta fuori dall’Europa la potenza inglese a scapito di quella francese

Quando Napoleone salì al potere, la Francia aveva ancora influenza su circa un terzo dell’India mentre nell’America del Nord, pur avendo dovuto cedere il Canada all’Inghilterra nel 1763, conservava ancora la Luisiana: un vastissimo possedimento (molto più ampio dello stato americano che porta adesso questo nome) che dal golfo del Messico si estendeva verso nord, allargandosi fino a raggiungere, e talvolta superare l’attuale confine tra Usa e Canada. Lo scontro con l’Inghilterra le costò subito l’espulsione dall’India. Poi nel 1803, al culmine della

sua potenza, pensò bene di vendere agli Stati Uniti la Louisiana. Per 15 milioni di dollari, più o meno un centesimo all’ettaro, gli Stati Uniti si assicurarono così quello che oggi è circa il 23 per cento del loro territorio. Inoltre ad ogni sua conquista in Europa corrispondeva l’annessione inglese delle colonie del paese conquistato, e perciò divenuto, in quanto parte dell’Impero Francese, un nemico dell’Inghilterra. Alla conquista dei Paesi Bassi fece seguito, ad esempio, l’annessione inglese della colonia che gli olandesi avevano all’estremità sud dell’Africa, attorno al Capo di Buona Speranza, uno scalo importantissimo sulla via dell’Estremo Oriente, e anche ovviamente l’occupazione delle ricchissime Indie Olandesi (l’odierna Indonesia). Alla conquista della Spagna fece seguito l’avvio del distacco, pilotato e protetto dall’Inghilterra, delle immense colonie spagnole dell’America Latina, che poi pagheranno tale protezione con circa un secolo di dipendenza neo-coloniale da Londra. Il caso del distacco del Brasile dal Portogallo è un po’ diverso, ma comunque anche alla sua origine c’è l’invasione napoleonica della madrepatria. Finita l’epoca napoleonica, la Francia, e tutti gli altri paesi europei che Napoleone aveva conquistato, avevano definitivamente perso ogni possibilità di competere in qualche modo alla pari con l’Inghilterra sullo scenario mondiale. Nonostante tutti questi gravi errori dal punto di vista degli scenari politici, con ammirevole disinteresse, i francesi ritengono ancora oggi il grande còrso il loro massimo eroe nazionale.

Ingresso di Napoleone a Berlino, 27 ottobre 1806I Olio su tela di Charles Meynier (1810), Reggia di Versailles

METTIAMO A FUOCO

La nascita del tricolore

L’atto di nascita della bandiera tricolore italiana avvenne a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, nel corso del congresso dei rappresentanti delle città che costituivano la Repubblica Cispadana, su proposta del delegato di Lugo di Romagna, Giuseppe Compagnoni. Il congresso decretò in quell’occasione di rendere «universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di Tre Colori Verde, Bianco, e Rosso». In realtà il tricolore aveva già fatto la sua comparsa nei mesi precedenti come bandiera della Legione Lombarda, il reparto militare costituito da italiani che aveva affiancato le truppe francesi nella campagna militare contro l’Austria; ora, con il decreto del Congresso Cispadano esso diventava il vessillo della neonata repubblica.

Una scelta che ricalcava il modello francese Ovviamente, la scelta del tricolore a bande verticali è legata al modello del tricolore francese, anche se i colori scelti rimandano ad alcuni precedenti della tradizione italiana. Il bianco e il rosso sono infatti presenti nello stemma di Milano e di parecchi altri comuni italiani (che si fregiano di una croce rossa in campo bianco per lo più in memoria della loro partecipazione alle Crociate, ma questo i promotori del tricolore italiano forse non

lo sapevano). Il verde era il colore delle uniformi della Guardia civica milanese. Dopo la restaurazione e il ritorno degli austriaci, il tricolore rimase un simbolo caro ai patrioti: fu issato sul duomo di Milano nel corso delle Cinque giornate e fu adottato da Carlo Alberto, il re di Sardegna, come bandiera del suo stato, in segno di solenne adesione alla causa del Risorgimento. Sulla banda centrale bianca, egli fece però applicare lo stemma dei Savoia, una croce bianca su campo rosso, bordato di indaco in memoria dell’originario vessillo dei suoi stati (un indaco che, divenuto azzurro, resta oggi nelle uniformi delle squadre sportive nazionali). Dopo l’unificazione nazionale, esso, con lo stemma al centro, diventò la bandiera del Regno d’Italia. Dopo la caduta della monarchia al termine della Seconda guerra mondiale, il tricolore, ovviamente privato dello stemma sabaudo, restò come vessillo della neonata repubblica. La costituzione repubblicana, entrata in vigore nel 1948, all’articolo 12 recita infatti che il tricolore «verde, bianco e rosso, a bande verticali e di eguali dimensioni» è la bandiera della Repubblica Italiana.

Il primo tricolore con l'emblema della Repubblica Cispadana

METTIAMO A FUOCO

Le rivolte antigiacobine nel sud e i sanfedisti del cardinale Ruffo

Molte bande di ribelli

contro la Repubblica Partenopea

La Repubblica Partenopea fin dalla sua costituzione non ebbe vita facile. Ovunque nel suo territorio si formavano bande di ribelli che insorgevano contro i giacobini e le truppe francesi. Questi ribelli, che i francesi giudicavano alla stregua di briganti, godevano dell’appoggio del popolo ed erano guidati da abili comandanti, talvolta ex ufficiali borbonici, che si sapevano muovere con grande abilità in un territorio che conoscevano bene. Tra i più celebri “capimassa”, così erano chiamati questi comandanti, ricordiamo Michele Pezza, detto Fra’ Diavolo, che operò nella zona intorno a Gaeta, Giambattista Rodio (che operò in Puglia), Giuseppe Pronio (che operò in Abruzzo e Molise), Vito Nunziante (che operò nel Salento).

La vittoriosa azione del cardinal Ruffo Mentre erano in corso queste azioni, il cardinal Fabrizio Ruffo, esponente di una delle famiglie aristocratiche più antiche del sud, chiese al re Ferdinando IV, fuggito a Palermo con il suo seguito, il permesso di organizzare un esercito per riconquistare Napoli e abbattere la Repubblica. Il re gli

concesse solo 7 uomini e una nave, ma il prelato non si perse d’animo. Sbarcato in Calabria, laddove erano i possedimenti della sua famiglia, cominciò a chiamare a raccolta i suoi contadini: altri a migliaia accorsero poi da tutte le parti del Regno, accompagnati da numerosi frati e preti, così che il cardinale riuscì a costituire un vero e proprio esercito, chiamato Esercito della Santa Fede. Con questi uomini, i “sanfedisti”, risalì tutto il regno fino a Napoli dove giunse il 12 giugno del 1799. Qui i giacobini erano rimasti da soli a difendere la Repubblica in quanto i soldati francesi avevano abbandonato la città. Contro di loro insorse il popolo, in particolare i più poveri, i cosiddetti “lazzaroni”, ed essi dovettero arrendersi. Nonostante la promessa di aver salva la vita fatta loro dal cardinale, vennero poi tutti giustiziati (circa un centinaio) per volontà di Orazio Nelson, ammiraglio della squadra navale inglese che aveva assediato la città dal mare, e che agì per conto del re Ferdinando e su incitamento della regina Maria Carolina.

Le ragioni della sconfitta della Repubblica Partenopea secondo Vincenzo Cuoco Lo storico napoletano Vincenzo Cuoco, in un lucidissimo saggio pubblicato solo due anni dopo il crollo della Repubblica Partenopea, spiegò le ragioni per le quali, a suo dire, la maggioranza del popolo napoletano si era schierato contro i giacobini e a favore del ritorno dei Borboni. Egli sostenne che quella partenopea era una repubblica fondata su un modello culturale importato dalla Francia, sostanzialmente estraneo al popolo napoletano e imposto dall’alto da pochi intellettuali accusati di essersi venduti a una “nazione straniera” ai danni del popolo. La lotta di massa contro la Repubblica Partenopea condotta dai “lazzaroni” e dai “sanfedisti” fu quindi, secondo questa analisi, una lotta del popolo contro gli intellettuali per la difesa della propria identità e della propria libertà.

Ritratto del cardinale Fabrizio Dionigi Ruffo

METTIAMO A FUOCO

Champollion e la decifrazione dei geroglifici

Nel corso della suo spedizione in Egitto Napoleone si fece accompagnare da numerosi studiosi, archeologi e scienziati, con lo scopo di approfondire la conoscenza dell’antica civiltà egizia, che stava suscitando in quegli anni un crescente interesse. Le sue speranze vennero premiate: durante alcuni lavori di fortificazione, un ufficiale trovò una stele molto interessante che fu detta “di Rosetta” dalla località in cui fu rinvenuta. Questa stele, una pietra di 118 cm di altezza e 77 di larghezza, portava

glifico (la scrittura egizia più antica, quella sacra riservata ai sacerdoti), il demotico (la scrittura più popolare) e il greco. Nel 1824 il geniale studioso francese Jean-François Champollion, comparando questi testi e partendo in particolare dall’identificazione dei nomi di due sovrani che vi erano contenuti, Tolomeo e Cleopatra, riuscì, anche grazie alla sua perfetta conoscenza del greco, a decifrare l’intera iscrizione e con essa l’alfabeto egizio.

La stele di Rosetta British Museum, Londra

NON TUTTI SANNO CHE

La tragica fine dei soldati italiani in Russia

Furono 50.000 (ma qualche storico ipotizza la cifra ancora più ampia di 70.000) gli italiani che combatterono al seguito di Napoleone nella tragica campagna di Russia. Molti di questi, circa 30.000, provenienti dal Regno d’Italia, costituivano il IV Corpo d’Armata, composto da tre divisioni e da una consistente cavalleria; a questi si aggiungevano circa 8.000 uomini forniti dal Regno di Napoli, che rimasero nella retroguardia e molti altri, di numero incerto, provenienti dai territori direttamente annessi all’Impero (Piemonte, Liguria, Toscana, Parma) e inquadrati nei reparti francesi. Di loro e della loro sorte si conosce ben poco. Le uniche testimonianze che ci sono giunte sono costituite in gran parte dalle lettere che alcuni, soprattutto ufficiali, scrissero ai loro congiunti e dai resoconti dei pochi reduci. Da esse emerge un’esperienza estremamente drammatica simile a quella, ancor più tragica, vissuta dai soldati italiani più di un secolo dopo durante la Seconda guerra mondiale.

Un’entusiastica partenza e le prime difficoltà

A dire il vero la partenza di questi soldati, nel febbraio del 1812, fu pressoché entusiastica anche se molti non erano a conoscenza della effettiva destinazione della spedizione. Si facevano varie ipotesi e quei pochi che pensavano alla Russia erano convinti che, grazie al genio militare di Napoleone, sarebbe stata una campagna facile e senza problemi. Lo stesso viceré Eugenio Beuaharnais, comandante dell’armata italiana, scriveva, ancora nel maggio, che la spedizione si sarebbe risolta in “canzoni”, cioè sarebbe finita in una sorta di scampagnata in allegria. Le prime difficoltà cominciarono invece quasi subito, quando le truppe lasciarono i verdeggianti territori tedeschi per inoltrarsi nelle povere pianure della Polonia e poi della Lituania. I viveri cominciavano a scarseggiare e la stanchezza per le lunghe marce si faceva sentire. Anche le popolazioni locali si mostravano sempre più ostili a causa delle devastazioni e delle requisizioni di generi alimentari attuate dalle truppe. I rapporti tra italiani e francesi non erano dei più semplici, dato che si manifestavano rivalità e gelosie. Cominciarono anche le prime fughe

e diserzioni. Crescenti erano infine le preoccupazioni per un nemico sempre temuto, ma stranamente invisibile.

La presa di Mosca

La presa di Mosca, avvenuta dopo la durissima battaglia di Borodino, vinta dalla Grande Armata napoleonica, ma a costo di pesantissime perdite, suscitò comunque entusiasmo. Molte lettere spedite a casa mostrano tutta la fierezza per aver sconfitto il “colosso russo” anche se in realtà fino ad allora i reparti italiani erano stati impiegati marginalmente nei vari scontri militari. La sorpresa arrivò quando ci si accorse che la città era stata quasi interamente abbandonata dai suoi abitanti e devastata da un terribile incendio provocato ad arte dai russi che prima di abbandonarla avevano addirittura asportato o distrutto le pompe per l’acqua. Siamo nel mese di settembre e già alcune lettere inviate a casa cominciano a parlare del freddo mentre le prime nevicate arriveranno a ottobre.

La tragica ritirata

Napoleone, resosi conto del tranello in cui era caduto e temendo la controffensiva russa, diede l’ordine di ritirata tra l’incredulità dei suoi soldati, impreparati a una sconfitta. La marcia a ritroso delle truppe della Grande Armata fu drammatica e desolante, nel freddo pungente e sotto i continui assalti delle preponderanti forze russe (dei 600.000 uomini partiti con Napoleone ne erano arrivati a Mosca circa la metà). Fu nelle prime fasi della ritirata che l’armata italiana ebbe modo di mostrare tutto il suo valore, combattendo eroicamente a Malo-Jaroslav e lasciando sul terreno in un solo giorno di quel tragico ottobre circa 4.000 tra morti e feriti. Le settimane successive furono le più tragiche: ai morti causati dagli attacchi dei cosacchi si aggiungevano quelli per assideramento (si arrivava fino ai 30° sotto zero), sfinimento e fame. Per fronteggiare la fame si mangiavano persino i cavalli morti e si succhiava il sangue di quelli vivi; non mancano testimonianze di episodi di cannibalismo. Tra i soldati in ritirata quelli più compatti erano proprio gli italiani al punto che Napoleone

si affidava a loro per aprire varchi negli accerchiamenti. Drammatici furono i passaggi dei fiumi, tanto che molti annegarono tentando di superarli a nuoto. La Beresina fu oltrepassata anche grazie al lavoro dei pontieri italiani abili a costruire ponti, anche se, al termine della tragica battaglia che vi si svolse, il IV Corpo d’Armata italiano conservava ormai solo 600 uomini in piena efficienza; gli altri erano morti, feriti o mutilati per il congelamento.

La fuga di Napoleone protetto dai cavalleggeri napoletani

Il 5 dicembre Napoleone, dopo aver lasciato il comando dell’esercito al re di Napoli, partì in incognito alla volta di Parigi. Volle rientrare prima che arrivasse la notizia della disfatta in modo da tene-

re in pugno la situazione nella capitale ed evitare tumulti e colpi di mano. Il viaggio fu compiuto in slitta fino a Vilnius, scortato da 300 cavalleggeri napoletani. A causa dell’intensissimo freddo molti di loro morirono nel tragitto. A Vilnius ne arrivarono, dei 300 partiti, solo una trentina e con molti sintomi di assideramento. Da lì fino a Parigi l’imperatore fu poi scortato da altre truppe scelte italiane. L’esito della spedizione in termini di vite umane fu tragico. Dei 600.000 partiti nella Grande Armata solo 20.000 fecero ritorno a casa. Tra essi gli italiani erano solo qualche migliaio.

Dopo la battaglia di Austerlitz, Napoleone e i suoi soldati estraggono soldati nemici dalle acque ghiacciate

Illustrazione di Job (Jacques-Marie-Gaston Onfray de Breville) (1921)

LEGGIAMO L’ARTE

David: quando l’arte celebra il potere

Nato a Parigi nel 1748 e morto a Bruxelles nel 1825, Jacques Louis David, fu il più importante pittore dell’età napoleonica in Francia. Di idee giacobine e legato a Robespierre durante la rivoluzione, finì per diventare, dopo l’ascesa al potere di Napoleone, quasi il pittore ufficiale dell’Impero oltre che il più ammirato e ricercato artista della società parigina. Realizzò celebri dipinti, tra i quali Il giuramento degli Orazi, La morte di Marat, in gran parte conservati al Louvre. La sua fu un’arte celebrativa di impronta classicista, ispirata cioè all’antica arte greca, con opere di grandi dimensioni, raffiguranti episodi della storia antica o anche recente, con personaggi rappresentati in forme imponenti e statuarie. Si tratta di dipinti sicuramente belli da vedere, ma che risultano piuttosto freddi e retorici, e non comunicano par-

ticolari emozioni. Questo è l’esito a cui giunge un artista quando non segue la propria ispirazione, ma si adegua alle mode o alle richieste di chi detiene il potere.

Esempi di quanto detto possono essere i due dipinti che riproduciamo, L’incoronazione di Napoleone e Napoleone al Gran San Bernardo. Il primo rappresenta l’incoronazione dell’imperatore avvenuta nella cattedrale di Notre Dame nel 1804. Il secondo mostra un Napoleone eroico e statuario, sul suo splendido cavallo bianco, in una posa assolutamente irrealistica, mentre valica le Alpi. Ben diversa è l’immagine che dello stesso episodio dà un altro pittore francese, Paul Delaroche, in un quadro estremamente realistico e molto più coinvolgente, realizzato però qualche decennio dopo la caduta di Napoleone.

Dopo aver osservato i due dipinti con Napoleone a cavallo rispondi alle seguenti domande:

1. Come cambia nei due dipinti la rappresentazione della cavalcatura?

2. Come è rappresentata la mano destra di Napoleone nei due dipinti? E come sono gli abiti?

3. Quali sentimenti esprimono le due diverse raffigurazioni di Napoleone?

In basso:

La consacrazione dell'Imperatore Napoleone I e l'incoronazione dell'imperatrice Giuseppina il 2 dicembre 1804

Olio su tela di Jacques-Louis David (1806-07), Musée du Louvre, Parigi

In alto da sinistra:

Napoleone valica il San Bernardo, 20 maggio 1800

Olio su tela di Jacques-Louis David (1802), Musée national des Châteaux de Versailles et de Trianon, Versailles

Bonaparte attraversa le Alpi

Olio su tela di Paul Delaroche (1848), Musée du Louvre, Paris

NON TUTTI SANNO CHE

Il catechismo napoleonico

Nel 1806 Napoleone fece redigere da un teologo di sua fiducia un catechismo che poi fu imposto in tutte le chiese dell’Impero. Il suo contenuto è estremamente significativo: in esso si mostra come l’imperatore francese volesse assumere un’immagine sacrale e divina (“immagine di Dio sopra la terra” e “unto del Signore”) e soprattutto come egli intendesse usare la religione che, a suo avviso, doveva diventare uno strumento per rafforzare il suo potere e per piegare ulteriormente la volontà dei sudditi alla sua potenza. Questo catechismo fu approvato, sotto violente pressioni, anche dal papa.

Ne riportiamo alcune voci redatte sotto forma di domande e risposte:

«Domanda: Quali sono i doveri dei cristiani verso i principi che li governano; e in particolare quali sono i nostri doveri verso Napoleone I, nostro imperatore?

Risposta: I cristiani sono tenuti a prestare ai principi che li governano e noi in particolare a Napoleone I, nostro imperatore, amore, rispetto, obbedienza, fedeltà, il servizio militare, i tributi ordinati per la conservazione e la difesa del trono. A lui dobbiamo inoltre ferventi preghiere per la sua salute, e per la prosperità spirituale e temporale dello stato.

Domanda: Per qual ragione siamo obbligati a questi doveri nei confronti del nostro imperatore?

Risposta: In primo luogo perché Dio, che crea gli imperi e li distribuisce secondo il suo volere, ricolmando il nostro imperatore di doni, tanto in pace quanto in guerra, lo ha costituito nostro sovrano, lo ha reso ministro della sua potenza, e sua immagine sopra la terra. Onorare e servire il nostro imperatore è dunque onorare e servire Dio stesso.

Domanda: Non vi sono motivi particolari, per i quali dobbiamo essere più fortemente attaccati a Napoleone I, nostro imperatore?

Risposta: Sì: perché egli è colui che Dio ha suscitato in circostanze difficili al fine di ristabilire il culto pubblico della santa religione dei nostri padri, e di esserne il protettore. Con la sua profonda

e attiva saggezza egli ha ristabilito l’ordine pubblico e lo ha conservato; col suo braccio potente difende lo stato; è diventato l’unto del Signore per la consacrazione che ha ricevuta dal sommo pontefice, capo della Chiesa universale.

Domanda: Che cosa si deve pensare di coloro che mancassero ai loro doveri verso il nostro imperatore?

Risposta: Secondo l’apostolo san Paolo essi resisterebbero all’ordine stabilito da Dio stesso, e si renderebbero degni della dannazione eterna».

Catechismo ad uso di tutte le Chiese dell'Impero Francese, Vercelli 1807

RACCONTIAMO IN BREVE

1. Napoleone Bonaparte fece una rapida carriera militare, che lo portò, grazie anche a importanti appoggi politici, a diventare il comandante dell’Armata francese in Italia.

2. Geniale condottiero, seppe condurre vittoriosamente la campagna d’Italia, sconfiggendo l’Austria e occupando molti territori. Con il sostegno di italiani favorevoli alle idee rivoluzionarie, vi insediò repubbliche filo-giacobine, in realtà strettamente controllate dalle truppe francesi, impose pesanti tasse e portò in Francia molte opere d’arte. Perciò gli entusiasmi con cui era stato accolto finirono presto e scoppiarono in molte parti della Penisola vaste insurrezioni popolari antifrancesi, chiamate insorgenze. Ovunque gli insorti si battevano in nome della fedeltà alla religione cattolica e ai vecchi sovrani.

3. Dopo una fallimentare spedizione in Egitto, con la quale aveva mirato a tagliare i collegamenti tra l’Inghilterra e le sue colonie in Asia, egli con un colpo di stato, nel 1799, dichiarò decaduto il Direttorio e si proclamò Primo Console, assumendo ampi poteri. Attuò quindi una vasta opera di riforme sia sul piano economico sia su quello giuridico, amministrativo e scolastico che gli garantirono il pieno controllo dello stato. In particolare varò il Codice Civile, che sanciva l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, e stipulò il Concordato con la Chiesa, riconciliandosi coi cattolici. Il 2 dicembre 1804 si autoincoronò imperatore dei francesi.

4. Dopo strepitose vittorie militari, con le quali raggiunse il predominio sull’intera Europa, obbligò l’imperatore d’Austria a rinunciare al titolo di Sacro Romano Imperatore e ne sposò la figlia Maria Luisa. Non riuscì però a sconfiggere l’Inghilterra, nonostante avesse tentato di colpirne l’economia imponendo a tutte le nazioni europee un “blocco continentale” nei suoi confronti. Questo tentativo si rivelò un fallimento e, per farlo rispettare, egli fu costretto a invadere la Spagna, il cui popolo insorse contro gli occupanti francesi. Inoltre, facendo prigioniero il papa, egli perse il consenso dei cattolici.

5. Per obbligare la Russia a rispettare il blocco continentale, Napoleone la invase con una grande armata di 600.000 uomini, ma fu costretto a ritirarsi e successivamente venne sconfitto a Lipsia dagli eserciti delle nazioni europee coalizzate. Fu così confinato all’isola d’Elba, da cui riuscì fortunosamente a sfuggire. Tornato sul trono, governò per soli cento giorni: nuovamente sconfitto dagli anglo-prussiani a Waterloo, fu deportato nella remota isola di Sant’Elena, nell’Atlantico meridionale, mentre a Parigi tornava sul trono la dinastia dei Borbone con Luigi XVIII.

ATTIVITÀ E VERIFICHE

Esercizio 1 · Rispondi, anche oralmente, alle seguenti domande.

1. Quali fattori favorirono l’ascesa al potere di Napoleone?

2. Quali erano le qualità militari e strategiche di Napoleone??

3. Quali territori comprendeva la Repubblica Cisalpina?

4. Come finì la Repubblica Partenopea?

5. Quali poteri assunse Napoleone dopo essere diventato Primo Console e quali riforme attuò?

6. Che cosa stabilì Napoleone con la Pace di Presburgo?

7. Chi era Gioacchino Murat?

8. Chi era Andreas Hofer?

9. Quale strategia adottarono i russi per sconfiggere la Grande Armata francese?

10. Quanti furono i superstiti della spedizione in Russia dell’esercito francese? Quanti erano partiti?

11. Dove fu imprigionato Napoleone dopo la sconfitta di Lipsia?

12. Chi salì sul trono di Francia dopo la sconfitta di Napoleone?

Esercizio 2 · Completa la linea del tempo: scrivi il numero del fatto storico sulla data corretta.

1769 1797 18 brumaio 1799 2 dicembre 1804 1812 18 giugno 1815 5 maggio 1821

1. Colpo di stato col quale Napoleone si proclama Primo Console

2. Battaglia di Waterloo

3. Napoleone si autoincorona imperatore

4. Campagna di Russia

5. Nascita di Napoleone

6. Morte di Napoleone

7. Trattato di Campoformio

Esercizio 3 · Indica se l’affermazione riportata è vera o falsa.

Napoleone fu sempre molto amato dalle sue truppe. V F

Napoleone non considerò mai l’Inghilterra un nemico pericoloso. V F

Napoleone promosse l’istruzione pubblica. V F

Napoleone si fece incoronare dal papa. V F

Ad Austerlitz Napoleone ottenne la sua più straordinaria vittoria. V F

Dopo la sconfitta di Lipsia Napoleone venne mandato in esilio all’isola di Sant’Elena. V F

Esercizio 4 · Per completare la frase iniziale scegli fra le tre alternative proposte quella che ti sembra, oltre che esatta, anche precisa e formulata con il linguaggio più appropriato.

Il Trattato di Campoformio stabilì che

a. i territori della Repubblica Veneta sarebbero andati alla Francia come pure il Ducato di Milano.

b. i territori della Repubblica Veneta sarebbero andati all’Austria mentre la Francia otteneva le Fiandre e il riconoscimento della Repubblica Cisalpina.

c. la Repubblica Cisalpina sarebbe diventata indipendente.

Le insorgenze furono

a. delle rivoluzioni miranti a istituire in Italia repubbliche filo-giacobine.

b. festeggiamenti popolari nei territori ove arrivavano le truppe francesi.

c. rivolte antifrancesi dettate da motivi religiosi e legittimisti.

Con le riforme attuate dopo essere diventato Primo Console Napoleone

a. rafforzò il suo potere e realizzò uno stato sempre più centralizzato.

b. rafforzò il suo comando sull’esercito.

c. diede avvio a una nuova politica di conquiste militari.

Napoleone stipulò il Concordato con la Chiesa Cattolica perché

a. era personalmente credente e voleva favorire la Chiesa.

b. riconosceva l’importanza e l’utilità che il Cattolicesimo aveva per dare coesione alla società e rafforzare il suo potere personale.

c. voleva riconciliarsi col papa.

Il Codice Napoleone stabiliva

a. la salvaguardia della proprietà privata e la centralità della famiglia, ma con un ruolo predominante del marito sulla moglie.

b. la divisone amministrativa della Francia in dipartimenti con a capo un prefetto di nomina governativa.

c. l’abolizione di tutte le riforme attuate durante la rivoluzione francese.

Il blocco navale contro l’Inghilterra fallì perché

a. la flotta inglese sconfisse quella francese nella battaglia di Trafalgar.

b. Napoleone dovette affrontare la guerra contro la Russia.

c. la flotta francese non fu in grado di controllare i porti europei e Napoleone fu costretto a invadere la Spagna e il Portogallo.

Esercizio 5 · Questo brano contiene parecchie inesattezze e imprecisioni storiche ed è scritto con un linguaggio in parte inappropriato. Riscrivilo sul tuo quaderno apportando le dovute correzioni, anche linguistiche.

Dopo aver incendiato Mosca, Napoleone dovette, con le sue truppe, fronteggiare il gelido inverno russo. Decise allora di fare marcia indietro e il suo esercito dovette marciare nella neve incalzato dai soldati russi che inflissero loro molte perdite. Napoleone con circa 500.000 soldati riuscì a mettersi in salvo, ma volle poi vendicarsi contro i suoi nemici, allestendo un nuovo esercito. Fu però sconfitto nella battaglia di Lipsia nell’ottobre del 1814, fu quindi arrestato e imprigionato all’Isola di Sant’Elena. Sul trono francese venne rimessa la dinastia dei Borboni con Luigi XVII, mentre a Vienna le potenze europee vincitrici si riunirono per rimettere a posto le cose in Europa. Napoleone però riuscì a fuggire dalla prigionia e raggiunse di nuovo la Francia dove venne accolto con esultanza. Ripreso il potere, rimise in piedi il suo esercito per affrontare di nuovo le forze nemiche. Lo scontro finale avvenne a Waterloo il 18 giugno 1815. Qui, le forze anglo-prussiane ottennero la vittoria definitiva. Napoleone si arrese: il suo nuovo tentativo era durato 120 giorni. Fu definitivamente imprigionato, questa volta all’isola d’Elba.

I rappresentanti degli stati vincitori su Napoleone si riuniscono nel

Congresso di Vienna nel novembre 1814

Incisione dell’epoca, Museo del Risorgimento, Brescia

Il Congresso di Vienna e gli anni della restaurazione

L’impossibile tentativo di restaurare il vecchio ordine

La sconfitta di Napoleone e il suo conseguente esilio all’isola d’Elba avevano messo fine all’incubo di un conflitto che insanguinava l’Europa da più di dieci anni. Austria, Prussia, Gran Bretagna e Russia si ritrovarono insieme a Vienna, nel tentativo di dare al continente una sistemazione che garantisse per il futuro pace e ordine. In base ai princìpi di legittimità e di equilibrio, i sovrani spodestati da Napoleone ritornarono sui loro troni, mentre una serie di sistemazioni territoriali studiate a tavolino garantiva che nessuno stato potesse essere più potente dell’altro.

Questo tentativo di “restaurare” l’Europa, facendola ritornare indietro nel tempo, non era tuttavia destinato ad essere definitivo. La rivoluzione francese aveva dato il via a trasformazioni troppo rilevanti per poter essere annullate. L’epoca dell’assolutismo monarchico era tramontata per sempre, e in tutti i paesi esistevano ormai gruppi di patrioti impegnati a chiedere ai sovrani delle costituzioni che garantissero i diritti civili e politici dei cittadini.

Se è vero quindi che il Congresso di Vienna riuscì a garantire per alcuni decenni una condizione di pace in Europa, tuttavia non poté impedire che gran parte dei paesi europei venissero agitati da moti rivoluzionari che ne misero a dura prova la stabilità politica.

AL TERMINE DEL CAPITOLO

Schede di approfondimento

• La nascita dell’idea di nazione

• La riscoperta del Medioevo

• Opinione pubblica e libertà di stampa nell’Europa della restaurazione

• Inghilterra, Gran Bretagna e Regno Unito: quale denominazione dobbiamo usare?

• Talleyrand, un uomo sempre pronto a cambiare bandiera

• Il liberalismo

Raccontiamo in breve

Attività e verifiche

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per non perdere il filo

Perché la Francia fu ammessa al Congresso di Vienna?

1 · Il Congresso di Vienna

Le quattro potenze vincitrici di Napoleone sistemano l’Europa

Nel settembre 1814, con l’imperatore francese prigioniero all’isola d’Elba, le potenze europee che avevano contribuito alla sua sconfitta si riunirono in un grande congresso a Vienna con lo scopo di definire il nuovo assetto dell’Europa e di creare le condizioni per una futura pace stabile e duratura. Tale congresso durò parecchi mesi e si concluse nel giugno del 1815, dopo essere stato sospeso per un breve periodo durante i “cento giorni” di Napoleone.

Gli stati che vi parteciparono furono l’Austria, rappresentata dal cancelliere Clemens von Metternich, uno dei più abili politici dell’epoca, la Gran Bretagna, la Russia (con lo zar Alessandro I), e la Prussia, che però vi svolse un ruolo di minor peso. Anche la Francia fu invitata al Congresso, ma ciò non deve stupire: fu l’abile Charles de Talleyrand, ex vescovo ed ex ministro di Napoleone e ora ministro del nuovo Regno di Francia, a convincere le grandi potenze che il suo paese era da considerarsi vittima della politica del còrso e non responsabile di quanto egli aveva prodotto in Europa. Fu sulla base di queste considerazioni che essa venne perciò ammessa al Congresso e poté inoltre conservare la propria integrità territoriale.

Il principio di legittimità e il principio di equilibrio

Perché fu messo sul trono di Francia Luigi XVIII?

Perché furono ridisegnati a tavolino i confini degli stati?

Tutte le principali decisioni prese a Vienna si basavano sui princìpi di legittimità e di equilibrio. Si trattava cioè di rimettere sui troni europei i sovrani spodestati da Napoleone o appartenenti alle dinastie regnanti prima di lui, e per questo considerate legittime. Fu il caso del trono di Francia sul quale venne posto Luigi XVIII, fratello del defunto Luigi XVI (il figlio di quest’ultimo, legittimo erede con il nome di Luigi XVII, era morto durante la rivoluzione). D’altra parte però bisognava fare in modo che nessun paese prevalesse sugli altri per estensione territoriale e potenza militare. Il ricordo della potenza napoleonica era infatti molto forte, e gli stati non volevano correre nuovamente il rischio di cadere sotto un dominio straniero. Le frontiere vennero dunque ridisegnate a tavolino, aggiungendo o togliendo territori in base alla necessità dei singoli stati: la Russia ricevette la Finlandia e parte della Polonia, l’Impero Austriaco ottenne quasi tutto l’antico territorio della Repubblica di Venezia (mai più ricostituita, come pure la Repubblica di Genova), mentre la Prussia si estese con l’annessione della Sassonia e di parte della Polonia, divenendo così il maggiore stato della Germania. Il timore di una futura minaccia francese spinse inoltre a creare il Regno dei Paesi Bassi, ottenuto dall’unione di Belgio e Olanda; il nuovo stato avrebbe dovuto svolgere il ruolo di “cuscinetto” tra la Francia e gli stati austriaco e tedesco.

Regno di Portogallo

Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda

Regno di Norvegia

Regno di Danimarca

Regno dei Paesi

Bassi

Regno di Francia

Regno di Spagna

Madrid

Regno di Svezia

Stoccolma

Regno di Prussia

Stati tedeschi

Confederazione Svizzera

Regno di Sardegna

Regno di Polonia

Impero d’Austria

Impero Ottomano

Impero

Russo

Due strumenti per mantenere l’ordine:

la Santa Alleanza e la Quadruplice Alleanza

Al termine del congresso, lo zar Alessandro I propose la creazione di una “Santa Alleanza”, uno strumento per tutelare l’ordine europeo appena ristabilito. Gli stati membri, Russia, Austria e Prussia, si impegnavano infatti a intervenire con i loro eserciti in quei paesi in cui fosse scoppiata una rivoluzione, allo scopo di sedarla. L’aggettivo “santa” derivava dal fatto che i sovrani aderenti avevano proclamato di voler ispirare la propria azione di governo ai princìpi della religione cristiana. La Gran Bretagna, che proprio per il forte carattere religioso dell’alleanza non vi aveva aderito, partecipò invece alla “Quadruplice Alleanza” con la quale le potenze europee si impegnavano solennemente a risolvere per via diplomatica ogni controversia internazionale e a convocare periodicamente dei congressi per vigilare sulla situazione dell’Europa.

Il Congresso di Vienna assicura all’Europa una grande stabilità politica

Il Congresso di Vienna fu un avvenimento fondamentale per la storia del XIX secolo, e questo per due ragioni principali:

1) Sistemò la carta geografica dell’Europa in modo tale da offrire al continente una grande stabilità che durò per parecchie decine di

L'Europa dopo il Congresso di Vienna

Confederazione Germanica

Regno
delle due Sicilie
Stato della Chiesa
Gibilterra
Lisbona
Londra
Parigi
San Pietroburgo
Mosca
Napoli
Roma

Perché fu importante il Congresso di Vienna?

Perché si parlò di “restaurazione”?

anni. Tale equilibrio finì solo con lo scoppio, nel 1914, della Prima guerra mondiale. Per questo alcuni storici hanno parlato di una “pace dei cento anni”.

2) Fu un tentativo di cancellare completamente le conquiste e i cambiamenti della rivoluzione francese e dell’età napoleonica. Per questo l’epoca inaugurata dal Congresso di Vienna viene ricordata con il nome di “restaurazione”: i sovrani spodestati ritornarono sul trono e ripresero a governare secondo il vecchio principio dell’assolutismo monarchico.

Il liberalismo e le nuove aspirazioni dei popoli

I partecipanti al congresso di Vienna nel 1814-15

Incisione dal dipinto di Jean Baptiste Isabey (prima metà del XIX secolo)

si notano il principe di Metternich (sesto in piedi da sinistra) e il principe di Talleyrand (secondo seduto da destra).

Nonostante sulla carta le lancette della storia fossero state riportate indietro di un centinaio d’anni, gli avvenimenti che si pretendeva di cancellare erano stati troppo grandi perché si potesse semplicemente ignorarli. Tra le élites intellettuali e borghesi d’Europa rimasero vive le aspirazioni a forme di governo liberali e democratiche, basate sulla divisione dei poteri e su una costituzione che garantisse pieni diritti oltreché doveri ai cittadini. In questi anni cominciò ad affermarsi inoltre una nuova idea politica, il cosiddetto “nazionalismo”, secondo cui ogni nazione ha diritto all’indipenden­

za e alla costituzione di un proprio stato nazionale . Si trattava di un’idea destinata ad affermarsi vigorosamente fino a provocare la crisi e poi la fine dei grandi imperi (tedesco, austro­ungarico, ottomano), che erano degli insiemi di popoli diversi, aggregati non da una comune lingua e cultura, ma da ragioni di ordine storico, geografico e geopolitico e dalla lealtà a uno stesso imperatore

2 · L’Europa e l’America Latina nell’età

della restaurazione e i moti del 1820-21

Il ceto borghese non è particolarmente soddisfatto del ritorno al passato

Che la cancellazione totale del passato fosse di fatto impossibile lo si vide soprattutto nel rapporto tra aristocrazia e borghesia: alla prima furono infatti nuovamente affidate nei vari stati tutte le cariche politiche più importanti, ma questo incontrò la contrarietà dei ceti borghesi. Dopo la rivoluzione infatti, questi ultimi avevano un po’ dovunque migliorato la propria condizione, si erano arricchiti acquistando i beni confiscati alla Chiesa e alla nobiltà e avevano intrapreso carriere di successo nella pubblica amministrazione e nell’esercito, due settori che prima erano stati loro preclusi.

I codici napoleonici avevano inoltre soppresso tutti i privilegi giuridici dei quali la nobiltà godeva, stabilendo il principio che tutti i cittadini fossero uguali di fronte alla legge.

È comprensibile dunque che un puro e semplice ritorno al passato non apparisse affatto desiderabile a questi ceti!

Nei principali stati europei riprende vigore l’assolutismo monarchico

Paesi Bassi, Svezia e alcuni piccoli stati tedeschi avevano concesso una costituzione e mantenuto gran parte delle innovazioni napoleoniche. La Gran Bretagna era da secoli una nazione fondata sul liberalismo e sulla divisione dei poteri. Negli altri stati europei però, e in particolare in Francia, Spagna, Prussia e Impero Austriaco, l’assolutismo tornò a essere esercitato con notevole vigore.

Le libertà di stampa e di parola vennero proibite e qualsiasi individuo ritenuto sospetto rischiava di venire arrestato dalla polizia, a quei tempi particolarmente severa.

Soprattutto in Austria, Metternich fu costretto talvolta a ricorrere al pugno di ferro per contenere le agitazioni dei vari popoli che componevano il vasto Impero Asburgico (ungheresi, italiani, cechi, slovacchi, croati, sloveni) sempre più conquistati dall’idea dell’indipendenza nazionale.

Nazione

Comunità di individui che condividono la medesima cultura e lingua indipendentemente dal fatto che siano parte di uno stesso stato oppure no. Ci possono essere infatti stati che contengono più nazioni e nazioni diffuse in più stati. Quando una nazione si costituisce in uno stato, cioè si autogoverna dandosi un’organizzazione politica entro confini ben definiti, si parla di “stato nazionale”.

Perché i ceti borghesi non gradirono il ritorno al passato?

Perché

Russia, Francia e Gran Bretagna sostennero la rivolta dei greci contro la dominazione turca?

Le società segrete e i primi moti rivoluzionari

Le spinte antiassolutistiche non tardarono dunque a farsi sentire: a organizzare azioni concrete furono dapprima membri dell’alta borghesia e ufficiali dell’esercito, riuniti all’interno di società segrete, che avevano l’obiettivo di rovesciare i governi della restaurazione per sostituirli con altri liberali e democratici.

Una prima ondata di moti avvenne nel 1820­21 in alcuni paesi d’Europa. In Spagna, un gruppo di militari si ammutinò e in breve tempo la rivolta si estese a tutto il paese al punto che il sovrano Ferdinando VII fu costretto a concedere una costituzione e a istituire un parlamento elettivo. Il successo della rivolta spagnola ebbe un’eco in Portogallo e soprattutto a Napoli, dove gli insorti fecero analoghe richieste ai loro sovrani.

La guerra per l’indipendenza greca

In Grecia la situazione era più complessa: questo paese dalle grandi tradizioni storiche e culturali era allora una provincia dell’Impero Ottomano. I patrioti greci (radunati attorno alla società segreta Eteria), non chiedevano solo un governo più democratico, ma miravano innanzitutto a liberarsi completamente dall’oppressivo dominio turco.

Nel 1821 l’Eteria organizzò una rivolta che dilagò rapidamente in tutto il paese, grazie all’appoggio dei contadini e della Chiesa Ortodossa. La Grecia ottenne inoltre l’aiuto di Russia, Francia e Gran Bretagna: le potenze europee erano infatti da tempo interessate a penetrare all’interno dell’Impero Ottomano, sempre più debole e ricco di territori dalla grande importanza strategica. In particolare la Russia, priva di sbocchi sul Mediterraneo, intendeva controllare gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, grandi porte del commercio internazionale.

Fu proprio grazie a questo che la causa greca ebbe successo: nel 1827 una flotta di navi francesi, britanniche e greche sconfisse la flotta turca nella battaglia di Navarino. In seguito a ciò la Grecia ottenne la completa indipendenza anche se entro confini più ristretti rispetto a quelli attuali.

Anche le colonie spagnole dell’America Latina ottengono l’indipendenza

I moti iniziati nel 1820 non rimasero confinati alla sola Europa: in America Latina, nei territori da secoli sotto la dominazione spagnola, i numerosi proprietari terrieri ambivano a staccarsi dal dominio della madrepatria. Queste istanze indipendentistiche erano provocate soprattutto dalla dura politica fiscale degli spagnoli, ma anche dalle idee dell’Illuminismo e dall’esempio positivo della rivoluzione americana.

Soffiava inoltre sul fuoco di queste tensioni la Gran Bretagna che

durante le guerre napoleoniche aveva largamente preso il controllo dei commerci tra America Latina ed Europa e che vedeva nell’indipendenza delle colonie americane della Spagna una via per sviluppare ulteriormente il suo dominio su quel promettente mercato: un immenso territorio ricco di materie prima e bisognoso di manufatti come quelli che l’industria britannica produceva. Fu così che tra il 1811 e il 1839, guidati da capi di valore come Simon Bolivar e Francisco de Miranda, tutte le principali colonie spagnole in America ottennero l’indipendenza. Si formarono così numerosi nuovi stati: Argentina, Venezuela, Cile, Messico, Ecuador, Salvador, Honduras, Guatemala, Nicaragua e Costarica.

Diverso fu il caso del Brasile, la grande colonia portoghese. Quando Napoleone aveva invaso il Portogallo, re Giovanni VI vi si era rifugiato, facendolo diventare il cuore del suo regno. Scomparso dalla scena Napoleone nel 1815, il re vi era rimasto e da lì governava anche il Portogallo. Nel 1821 però in Portogallo scoppiò una rivoluzione per sedare la quale egli dovette ritornare in tutta fretta a Lisbona. Lasciò allora il governo del Brasile nelle mani di suo figlio Pedro che nel 1822 lo rese indipendente proclamandosene imperatore.

La battaglia di Navarino durante la guerra per l’indipendenza della Grecia Olio su tela di Ivan Aivazovsky (1846), san Pietroburgo, Russia

Il dipinto mostra lo scontro tra navi russe (con la bandiera bianca e la croce blu trasversale) e navi della flotta ottomana (con la bandiera rossa).

Perché gli stati dell’America Latina non ebbero un grande sviluppo?

Povertà e instabilità dell’America Latina

All’indipendenza dei paesi dell’America Latina aveva dato un sostegno determinante la Gran Bretagna. Volendo però evitare il rischio che sulle ceneri dell’impero spagnolo si formasse in America Latina qualcosa di analogo a ciò che erano gli Stati Uniti nel Nord America, Londra alimentò nella regione rivalità e attriti a causa dei quali gli stati sudamericani nacquero deboli e fortemente instabili. Le prime fragili democrazie lasciarono perciò ben presto il passo a dittature di capi militari, i cosiddetti caudillos. Si formarono vastissimi latifondi, in mano a poche famiglie di grandi proprietari terrieri, mentre la stragrande maggioranza della popolazione viveva in povertà. Nessuno di questi paesi imboccò la via dello sviluppo e, pur essendo diventati indipendenti, finirono per essere soggetti al controllo politico ed economico, prima della Gran Bretagna, poi, come vedremo, degli Stati Uniti. Iniziò così per l’America Latina una lunga stagione di instabilità, dittature, e scarso sviluppo che sarebbe durata a lungo.

Il fallimento dei moti del 1820-21

Il biennio 1820­21 suscitò grandi speranze tra chi in Europa sognava il ritorno a qualche forma di democrazia rappresentativa.

Sembrò allora che l’assolutismo monarchico potesse venire sconfitto e che ci si potesse rimettere sulla via che era stata aperta delle rivoluzioni americana e francese.

L’illusione fu di breve durata: gli eserciti della Santa Alleanza intervennero rapidamente e stroncarono i moti con particolare durezza, compiendo numerosi arresti, condanne a morte, e smantellando di fatto le società segrete che li avevano organizzati. Unica eccezione fu quella della Grecia, ma questo poté accadere perché, nel suo caso, furono le stesse grandi potenze protagoniste del Congresso di Vienna a sostenere la lotta degli insorti contro la dominazione ottomana.

Perché i moti del 1820-21 in gran parte fallirono?

Perché l’insurrezione greca ebbe invece successo?

Questi moti fallirono anche per un altro motivo più profondo. A promuoverli erano state soprattutto le società segrete, composte da poche persone, in gran parte borghesi e aristocratici, sconosciute e quindi poco seguite dal popolo. Tutto questo spiega la loro debolezza e il loro fallimento. Anche quando dei reparti delle forze armate avevano preso parte a questi moti, ciò era accaduto non perché i soldati condividessero i progetti degli insorti, ma semplicemente perché avevano obbedito agli ordini dei loro ufficiali.

Messico

Panama

Ecuador 1830

Haiti

Colombia 1819

Venezuela 1830 Guyana Francese

Perù 1821 Brasile 1822

Bolivia 1825

Paraguay 1811

Argentina 1816

Uruguay 1828

1818

L'indipendenza dell'America Latina

Già dominio spagnolo

Già dominio portoghese

3 · I moti del 1830

Le “gloriose giornate” di Parigi e la fine della dinastia dei Borbone in Francia

Dieci anni più tardi, un’altra ondata di rivoluzioni scosse nuovamente l’Europa, e questa volta con maggiore successo.

Tutto cominciò dalla Francia dove dal 1824 regnava Carlo X, ultimo dei fratelli di Luigi XVI, un sovrano di vecchio stampo che, avendo un terribile ricordo della rivoluzione francese, voleva riportare il paese a com’era prima del 1789, senza però rendersi conto che questa operazione era ormai impossibile.

Nel tentativo di contrastare le opposizioni dei liberali, nel 1830 egli emanò una serie di leggi che limitavano fortemente la libertà di parola, di stampa e di riunione. La reazione fu immediata: la popolazione di Parigi insorse (artigiani e operai costruirono barricate per resistere ai soldati) e costrinse Carlo X a rinunciare al trono, in quelle che sono passate alla storia come le “gloriose giornate”. I parlamentari di orientamento liberale offrirono la corona a Luigi Filippo d’Orléans (1773­1850), che era membro di un ramo cadetto della famiglia reale. Costui, dopo aver accettato, eliminò le misure repressive del suo predecessore, allargò il diritto di voto e diede una maggiore libertà al parlamento. Da ultimo, si nominò “re dei france­

Ramo cadetto discendenza nata da figli non primogeniti di una famiglia reale o nobiliare.

Perché Luigi Filippo d’Orleans si nominò re dei francesi?

si” e non più re di Francia. In questo modo voleva far capire di non considerarsi più sovrano per diritto divino, ma perché voluto dal popolo. L’avvento di Luigi Filippo segnò la fine della dinastia Borbone in Francia: la bandiera bianca venne sostituita da quella tricolore, comparsa per la prima volta nei giorni della rivoluzione.

L’indipendenza del Belgio e la rivoluzione polacca

In Francia era dunque stato sconfitto l’assolutismo: la cosa ebbe comprensibilmente una vasta risonanza in Europa e in molti altri paesi si decise di seguire questo esempio.

Per primo si mosse il Belgio che, nell’agosto 1830, ottenne l’indipendenza dall’Olanda. Abbiamo visto che le esigenze di equilibrio maturate al Congresso di Vienna avevano unito i belgi ai Paesi Bassi, che erano molto diversi dal punto di vista sociale, economico e soprattutto religioso (erano infatti protestanti, mentre il Belgio era cattolico). Ora, questa unione era finita e nacque così il Regno del Belgio, sotto il principe Leopoldo di Sassonia.

Ebbe invece tutt’altro esito la ribellione della Polonia, che scoppiò contro la Russia nel novembre 1830, grazie anche al sostegno di parte dell’esercito. Anche qui, come in Belgio e in Grecia, la rivoluzione ebbe come obiettivo la conquista dell’indipendenza nazionale: la Polonia era stata infatti spartita tra Prussia e Russia nel XVIII secolo e dopo la parentesi napoleonica il Congresso di Vienna aveva riconfermato questa situazione. I patrioti polacchi resistettero eroicamente fino al settembre del 1831, ma alla fine furono sconfitti. L’esercito zarista represse la ribellione con particolare durezza e migliaia di persone furono costrette all’esilio.

La Confederazione Tedesca e l’ascesa della Prussia

Durante il Congresso di Vienna era stata costituita la Confederazione Tedesca: un insieme di 39 stati, formalmente autonomi e indipendenti tra loro, anche se posti sotto la presidenza dell’imperatore austriaco.

All’interno della Confederazione crebbe da subito l’influenza della Prussia, un paese in grande ascesa, arricchito di nuovi territori e dotato di un dinamico ceto di militari e proprietari terrieri che le garantivano stabilità e sviluppo economico.

La Prussia divenne di fatto la padrona incontrastata della Confederazione e il re Federico Guglielmo III la governava come un sovrano assoluto, mentre in alcuni stati (Brunswick, Sassonia e Assia) si verificarono delle agitazioni che avevano come scopo quello di chiedere costituzione e riforme, che furono però concesse solo parzialmente.

La decisione più innovativa fu comunque la creazione dello Zollverein: un’unione doganale che garantiva la libera circolazione di merci in tutti gli stati della Confederazione. Essa ebbe come conse­

guenza quella di far progredire soprattutto i piccoli stati e contribuì a un generale rilancio economico della regione.

Tuttavia, il problema nazionale rimaneva aperto, dato che le élites borghesi avrebbero voluto la nascita di una Germania unita.

La rivoluzione spagnola del 1833

L’ultima rivoluzione scoppiata in questo periodo fu quella spagnola del 1833. Essa fu causata da questioni dinastiche, ed ebbe dunque un carattere completamente diverso da quelle precedenti.

Alla morte del re Ferdinando VII, infatti, il trono sarebbe dovuto andare alla figlia Isabella, che però era poco più di una bambina. A questo punto Don Carlos, fratello del defunto sovrano, si autoproclamò re, puntando sul sostegno della Chiesa spagnola e di regioni da sempre fortemente autonomiste come Catalogna e Paesi Baschi. Più che una rivoluzione si trattò dunque di una vera e propria guerra civile. Dei due schieramenti, i “carlisti” (i sostenitori di Don Carlos) erano composti soprattutto da forze conservatrici, fedeli all’ideale assolutistico della restaurazione; i “cristinisti” (che prendevano il nome dalla regina Maria Cristina, reggente al trono per conto della figlia) si ispiravano invece alle tendenze più liberali. La guerra si concluse nel 1839 con la vittoria di questi ultimi. Tuttavia il paese rimase in preda all’instabilità e ai contrasti tra i due gruppi: Isabella mantenne il trono fino al 1868, ma il suo regno fu nel

Il dipinto rappresenta simbolicamente la rivolta dei parigini nelle gloriose giornate del 1830.

Perché lo Zollverein fu importante?

La libertà che guida il popolo (28 luglio 1830) Olio su tela di Eugène delacroix (1830), Musée du Louvre, Parigi

Perché

la Gran Bretagna nel XIX secolo sviluppò la sua espansione coloniale?

complesso molto debole, segnato da una grave crisi economica. La nazione si ritrovò dunque fortemente indebolita (i giorni gloriosi in cui la Spagna era la nazione più forte d’Europa erano ormai lontani nel tempo!) e costretta a subire l’ingerenza della Gran Bretagna.

La Gran Bretagna tra tensioni sociali ed espansionismo coloniale

La Gran Bretagna non era solamente una delle nazioni più antiche d’Europa, ma anche la prima in assoluto ad aver conosciuto, fin dal 1215, una monarchia in cui l’autorità del re fosse bilanciata e moderata da un parlamento.

Non c’è quindi da stupirsi che il paese fosse rimasto immune dai moti rivoluzionari di questi anni: ciò che negli altri stati appariva come una conquista, qui esisteva già da moltissimo tempo.

Nonostante tutto, però, la società inglese era agitata da molte tensioni: il progredire anche nel XIX secolo della rivoluzione industriale non aveva solo aumentato a dismisura la sua crescita economica, ma anche ingigantito le differenze sociali. La miseria degli operai, già evidente nel secolo precedente, era in molti casi peggiorata, e causava problemi non indifferenti ai governi, come vedremo meglio in seguito.

Questi furono anche gli anni in cui la Gran Bretagna, sempre bisognosa di materie prime per sostenere la sua rapida espansione, divenne definitivamente una grande potenza coloniale: attuò infatti la piena colonizzazione di Australia e Canada e sviluppò sempre più intensamente il suo dominio sull’economia dell’India, paese che divenne la perla dei suoi possedimenti.

Nei decenni successivi, denominati “età vittoriana” in quanto caratterizzati dal lungo regno della regina Vittoria (1837­1901), la Gran Bretagna si espanderà anche in Africa e nel resto dell’Asia.

I moti del 1830 creano una spaccatura tra l’Europa liberale e quella assolutistica

Con i moti del 1830, in particolare con il successo di quello belga e di quello francese, si verificò una spaccatura politica che aveva però anche un carattere geografico: nei paesi occidentali ci si avviava ormai verso istituzioni liberali e il ceto borghese aveva quasi del tutto rimpiazzato l’aristocrazia. A oriente invece, dove si trovavano paesi come Austria e Russia, il peso dell’assolutismo era ancora molto forte. In questa parte d’Europa l’esigenza principale era quella dell’indipendenza dei popoli, dato che tedeschi, ungheresi, polacchi, slavi e altri non avevano ancora un proprio stato.

Non dobbiamo inoltre dimenticare l’Italia, della quale parleremo più avanti. Nel nostro paese, ancora diviso in sette diversi stati, l’aspirazione all’unità politica cominciava a farsi strada.

4

· Il 1848

La “primavera dei popoli”

Nel quadro delle vicende europee della prima metà del XIX secolo, il 1848 fu senza dubbio un anno decisivo. Le rivoluzioni, che in quell’anno scoppiarono in diversi paesi d’Europa, ebbero un carattere piuttosto diverso e innovativo: mentre nel 1820 e nel 1830 infatti erano state soprattutto élites borghesi a prendere l’iniziativa, questa volta tra i protagonisti dei moti ci furono molti artigiani e operai. Proprio per questo il 1848 è anche chiamato dagli storici “la primavera dei popoli”, a sottolineare come quei moti avessero degli obiettivi che interessavano anche i ceti popolari che ne furono in certa misura protagonisti.

Questa novità fece sì che accanto alle solite rivendicazioni liberali (richiesta di una costituzione, istituzione di un parlamento, libertà di stampa e parola) ce ne fossero altre molto più radicali (il suffragio universale e la creazione di repubbliche), simili a quelle dei giacobini durante la rivoluzione francese. Questo avvenne soprattutto in Francia e in Italia.

Perché si parlò di primavera dei popoli?

I moti di Parigi del febbraio 1848

Acquerello di Gaspard Gobaut (prima metà del XIX secolo), Musée Carnavalet, Parigi

I moti di Parigi e la caduta di Luigi Filippo d’Orléans

Gli avvenimenti più importanti ebbero luogo in Francia dove, nei suoi diciotto anni di governo (1830­48), Luigi Filippo d’Orléans aveva portato il paese a diventare una potenza industriale e coloniale di primo livello.

Lo sviluppo industriale aveva ovviamente accresciuto il numero degli operai, tra i quali si erano diffuse le idee socialiste. Essi premevano per un cambiamento delle loro condizioni e avrebbero voluto rimpiazzare la monarchia con la repubblica, una forma di governo che, ritenevano, avrebbe soddisfatto maggiormente le loro richieste.

Negli ultimi anni di regno le contestazioni erano divenute molto numerose e come conseguenza il primo ministro François Guizot aveva inaugurato una politica più dura e autoritaria, che non aveva fatto altro che esasperare il clima di tensione.

Il 22 febbraio 1848, quando il governo proibì una grossa dimostrazione pubblica dell’opposizione, il popolo di Parigi si ribellò, organizzò barricate in vari angoli della città e costrinse così il sovrano ad abdicare.

La Seconda Repubblica francese verso il socialismo

Ancora una volta in Francia cadde dunque la monarchia e fu proclamata la repubblica (la seconda dopo quella attuata durante la rivoluzione). Il governo provvisorio che venne costituito aveva numerosi rappresentati socialisti, sotto la cui influenza si decise di convocare un’Assemblea Costituente da eleggersi con suffragio universale; furono inoltre istituite le “officine nazionali”, fabbriche, costruite a spese dello stato, nelle quali i disoccupati avrebbero potuto trovare un lavoro e un salario equo, risolvendo così il problema della povertà. Venne infine fatta la proposta di abolire il tricolore per sostituirlo con la bandiera socialista.

Di fronte a idee così estremistiche, gli elementi più moderati presenti nel governo cominciarono a preoccuparsi, anche perché il ricordo di ciò che era accaduto dopo il 1792 era ancora vivo nella memoria di tutti.

Dalla Seconda Repubblica al Secondo Impero

All’interno del parlamento i socialisti si trovarono progressivamente isolati finché, sconfitti nelle elezioni per l’Assemblea Costituente, tentarono un’insurrezione per modificare la situazione. Per tre giorni vi fu battaglia nelle strade di Parigi, ma alla fine le truppe del generale Cavaignac ebbero la meglio sugli insorti.

Da quel momento la nuova repubblica si mosse in direzione moderata e liberale: mantenne il suffragio universale, ma concesse grandi poteri al presidente e, in generale, non fece molto per migliorare la situazione sociale.

Le elezioni presidenziali furono indette per il 2 dicembre e vennero vinte da Luigi Napoleone Bonaparte (1808­73), nipote del grande imperatore. Costui si presentò come il campione delle forze più conservatrici e venne eletto con una maggioranza schiacciante: era segno del fatto che, nonostante approvasse la fine della monarchia, la maggior parte dei francesi desiderava l’ordine e la stabilità. Da parte sua, il nuovo presidente non tardò a imitare il comportamento dello zio: il 2 dicembre 1852 infatti, mediante un plebiscito , si fece eleggere imperatore dei Francesi, prese il nome di Napoleone III e diede vita al Secondo Impero.

La rivoluzione dilaga in Austria e in Ungheria, ma non ottiene risultati decisivi

La rivoluzione in Austria fu invece molto diversa, anche perché qui si partiva da una situazione molto più arretrata di quella francese, con i vari popoli dell’Impero desiderosi di ottenere l’indipendenza da Vienna. Il 13 marzo la capitale austriaca fu scossa da una rivolta di stampo liberale, che divampò subito in Ungheria e succes­

Napoleone III

Olio su tela di Alexandre Cabanel (1865), Château de Compiègne, Francia

Perché

Luigi Napoleone ebbe molti consensi tra la popolazione francese?

Plebiscito

Consultazione diretta del popolo, chiamato ad esprimersi su questioni di grande importanza. È il risultato dell’unione dei termini latini plebs (“plebe”) e scitum (“decisione, deliberazione”) e significa letteralmente “decisione del popolo”.

Perché Metternich diede le dimissioni?

Perché i moti del 1848 nell’Impero Asburgico fallirono?

sivamente a Milano e Venezia (di queste ultime vicende ci occuperemo più avanti).

Gli insorti chiesero all’imperatore Ferdinando I la concessione di una costituzione e di maggiori libertà per le varie etnie dell’Impero. In seguito a questi avvenimenti, il cancelliere Metternich diede le dimissioni: pareva un simbolo del fatto che la situazione europea fosse destinata a cambiare.

La rivoluzione in Ungheria ebbe come protagonisti l’avvocato Lajos Kossuth, appartenente alla piccola nobiltà, e il giovanissimo poeta Sandor Petöfi, che era già allora considerato un eroe nazionale. Dopo una serie di scontri con le truppe austriache a Budapest, gli ungheresi si proclamarono indipendenti. Quasi contemporaneamente insorse anche Praga, ma questa volta l’esercito austriaco intervenne con successo.

Purtroppo i vari popoli che chiedevano l’indipendenza erano tra loro fortemente ostili e questo fu un vantaggio per l’Impero che seppe approfittare di queste divisioni.

Alla lunga anche gli ungheresi, lasciati soli nella loro rivolta, dovettero soccombere: nell’agosto 1849, grazie anche al fondamentale aiuto della Russia, l’esercito austriaco ridiventava padrone della situazione.

In Austria la primavera dei popoli si concluse così con un fallimento totale: la dinastia degli Asburgo rimaneva saldamente al potere senza fare concessioni liberali, fatta eccezione per l’abolizione della servitù della gleba.

La rivoluzione in Germania e l’Assemblea di Francoforte

In quegli stessi giorni la rivoluzione dilagò in Germania: a Berlino, capitale della Prussia, i patrioti si sollevarono e chiesero una costituzione di stampo moderato, che il re Federico Guglielmo IV (sul trono dal 1840 al 1861) fu costretto a concedere. Contemporaneamente anche gli altri stati tedeschi si ribellarono e avanzarono le medesime richieste unitamente a quella di formare tra loro un unico stato indipendente.

Proprio per questo, a Francoforte venne riunita un’Assemblea Costituente che avrebbe avuto il compito di realizzare questo progetto. I partecipanti all’assemblea chiesero solennemente a Federico Guglielmo di Prussia di mettersi a capo di uno stato tedesco unitario. Costui rifiutò, dicendo che, in quanto sovrano “per grazia di Dio”, non avrebbe mai potuto accettare la corona dalle mani del popolo.

Perché Federico Guglielmo rifiutò di mettersi a capo dello stato tedesco?

A differenza di quanto accaduto in Francia nel 1830, la Prussia non era ancora disposta a riformare la propria monarchia in senso liberale. La Germania avrebbe raggiunto la propria unificazione dall’alto, alcuni decenni dopo, grazie all’iniziativa politica e militare di Bismarck.

Il 1848 svolse un ruolo importante nel futuro mutamento politico dell’Europa

Quale bilancio, in conclusione, è possibile fare del 1848? Certamente la quasi simultaneità dei moti nelle varie nazioni e la grande somiglianza delle rivendicazioni portate avanti dai patrioti dimostrarono che l’assolutismo aveva ormai fatto il suo tempo e che occorreva che i sovrani mutassero forma di governo. Inoltre, in tutta Europa fu altissima la partecipazione dei ceti popolari, a dimostrazione del fatto che questi problemi erano avvertiti dall’intera società, non più solo da poche élites. Dall’altra parte però è anche vero che, fatta eccezione per la Francia, tutte le altre rivoluzioni andarono incontro al fallimento e in alcuni casi furono soffocate nel sangue. Ciononostante si era messo in moto un processo che non si sarebbe fermato e che di lì a pochi anni avrebbe condotto all’unificazione politica sia dell’Italia che della Germania.

Scena dei moti rivoluzionari del 1848 in Germania

Olio su tavola di scuola tedesca, nationalgalerie, staatliche Museen, Berlino

METTIAMO A FUOCO

La nascita dell’idea di nazione

Il XIX secolo può essere giustamente identificato come il periodo in cui prese definitivamente forma un concetto che in precedenza era quasi sconosciuto, quello di nazione. Che cos’è esattamente una nazione? secondo i teorici del nazionalismo, si può parlare di “nazione” quando su un determinato territorio vive un popolo che parla la stessa lingua, ha la stessa religione e condivide il medesimo passato, del quale si evidenziano in particolare i periodi più gloriosi.

Nel passato gli stati non necessariamente erano “nazioni” sin dall’antichità i popoli sono stati consapevoli delle loro diversità, e fin dal XVI secolo erano sorte formazioni politiche dotate di confini definiti e di apparati di governo (si pensi all’Inghilterra, alla Francia e alla spagna). Tali stati, però, si fondavano essenzialmente sul potere del re: i sudditi appartenevano allo stato solo in quanto vivevano su un territorio che era soggetto all’autorità del sovrano, anche se magari tra loro parlavano lingue e avevano tradizioni culturali differenti. Il mutamento decisivo avvenne nel XIX secolo, quando cominciò a diffondersi l’idea che persone dotate di una lingua e di un passato comune avessero il diritto di distinguersi dagli altri e di affermare la loro particolarità anche dal punto di vista politico, creando un proprio stato. Questa idea, valida in linea teorica, sarebbe stata però nel tempo causa di numerosi conflitti perché nella realtà dei fatti quasi mai esistevano territori sui quali vivesse un’unica popolazione che parlasse la medesima lingua; al contrario molti territori erano abitati da popolazioni che parlavano lingue differenti e che vivevano fianco a fianco. dividere queste popolazioni creando confini tra di loro, come purtroppo sarebbe avvenuto in molti casi, avrebbe comportato scontri e conflitti.

L’importanza dell’esaltazione del proprio passato È proprio la libertà ad essere in questo periodo al centro dell’idea di nazione, tale idea si struttura come consapevolezza dell’esistenza di un popolo che possiede delle caratteristiche uniche da di-

fendere. da questo punto di vista, fu importantissimo per tali popoli il recupero di certi episodi del proprio passato in funzione nazionale, soprattutto per quei territori che erano ancora posti sotto il dominio straniero.

Fu così che la Germania mitizzò i popoli barbari che nei primi secoli dopo Cristo avevano invaso l’Europa; in Italia venne invece esaltato il periodo della civiltà comunale, visto come un’epoca in cui le varie città affermarono la loro identità specifica, contro la dominazione tirannica degli imperatori germanici.

Il ruolo del Romanticismo

Al diffondersi dell’idea di nazione contribuì anche il Romanticismo, un movimento artistico che esaltava le passioni umane, i sentimenti, in contrapposizione all’Illuminismo, che poneva invece l’accento sulla razionalità. I romantici, tra l’altro, rivalutarono il Medioevo, che era visto come il periodo in cui le varie nazioni europee avevano preso forma insieme con le loro lingue, e che gli illuministi avevano invece oscurato in favore delle civiltà classiche greca e romana. L’amor di patria e l’identità dei singoli popoli vennero dunque riscoperti e tornarono alla ribalta, offrendo spunti per opere d’arte, ma anche per concreti programmi politici.

Dall’idea di nazione al nazionalismo

È indubbio infatti che gran parte dei moti rivoluzionari scoppiati in questo periodo abbiano avuto una componente nazionale e abbiano visto il coinvolgimento di importanti personalità della cultura (basti pensare a Petöfi in Ungheria e a Chopin in Polonia). nei decenni successivi, però, il sentimento nazionale si esaspererà sempre più, e tenderà a voler esaltare indiscriminatamente la forza del proprio paese in contrapposizione agli altri. nascerà così il nazionalismo estremo, una degenerazione dell’amor di patria che avrà una grossa responsabilità nello scoppio della Prima guerra mondiale.

METTIAMO A FUOCO

La riscoperta del Medioevo

Contro l’Illuminismo

Gli illuministi del settecento avevano svalutato il Medioevo, considerandolo come un periodo di barbarie, dominato dalle ingiustizie dei signori feudali e pervaso dalle superstizioni popolari e dall’irrazionalità. nella loro volontà di emarginare il Cristianesimo, in particolare, non potevano vedere di buon occhio un’età come questa, in cui la fede cristiana e le culture che ne derivarono avevano avuto un ruolo preminente. Al contrario, gli intellettuali e gli artisti del XIX secolo che si riconoscevano nella grande corrente del Romanticismo ebbero una ben diversa considerazione di quest’epoca. Le attribuirono infatti una straordinaria importanza, fino quasi a farne un culto e a celebrarla in molte loro opere. La vedevano come un’età di grandi e affascinanti passioni e di mirabolanti avventure, rifacendosi in ciò ai poemi cavallereschi, soprattutto a quelli legati al mito della Tavola Rotonda e alla ricerca del santo Graal o a quello germanico di sigfrido, ripreso a quei tempi anche in importanti opere dal grande musicista tedesco Richard Wagner. Lo scrittore che più ha mostrato interesse per questi aspetti avventurosi del Medioevo è sicuramente lo scozzese Walter scott, autore di diversi romanzi storici tra cui il fortunato Ivanhoe, che ha influenzato anche il nostro Alessandro Manzoni.

Nel Medioevo nacque l’Europa dei popoli e delle nazioni

C’era anche un altro aspetto che rendeva quest’epoca interessante agli occhi degli intellettuali romantici; essa era infatti vista come il periodo in cui, dalla dissoluzione dell’Impero Romano e grazie all’arrivo delle popolazioni barbariche, nacquero e conquistarono un’identità i popoli europei, con le loro lingue e la loro cultura. sono evidenti in questo caso gli intenti politici: si voleva sottolineare l’importanza e la grandezza di questi popoli proprio nel momento in cui la gran parte di loro stava lottando per la libertà e l’indipendenza, prima nei confronti della dominazione napoleonica, poi di quella dei grandi imperi come quello austriaco e quello russo. In Italia, in particolare, scrittori e poeti esaltavano nelle loro opere quegli

episodi della storia medievale che facevano emergere la grandezza e il coraggio degli italiani nella lotta contro i dominatori stranieri. Il poeta milanese Giovanni Berchet dedicò una poesia al giuramento di Pontida e alla lotta dei comuni italiani contro il Barbarossa, mentre lo scrittore torinese Massimo d’Azeglio scrisse un romanzo dedicato alla celebre “disfida” di Barletta nella quale i cavalieri italiani sconfissero in un epico scontro quelli francesi.

Richard Wagner

Olio su tela di Cäsar Willich (1862 circa)

Reiss-Engelhorn-Museen, Mannheim, Germania

METTIAMO A FUOCO

Opinione pubblica e libertà di stampa nell’Europa

della restaurazione

Il grande sviluppo della stampa e dell’editoria

A partire dalla prima metà dell’Ottocento, in Europa si verificò uno sviluppo dell’editoria e della stampa che ebbe del prodigioso. Tanto per fare un esempio, in Germania il numero di libri pubblicati ogni anno crebbe da 4.000 e 12.000 in soli vent’anni! La stessa cosa accadde nell’Impero Austro-Ungarico e soprattutto a Milano, che divenne presto la capitale editoriale d’Italia. Aumentò anche il numero e la tiratura delle riviste, e si sviluppò enormemente la produzione di dizionari, enciclopedie, collane di classici, che soddisfacevano l’appetito culturale della borghesia europea.

La richiesta di maggiore libertà

L’incremento della stampa andò ovviamente di pari passo all’aumento del numero dei lettori: in quegli anni molta più gente riusciva a frequentare le scuole superiori, migliorando di conseguenza il proprio livello culturale, e anche le persone in grado di leggere e scrivere adesso erano molte di più. Tale fenomeno non poteva non preoccupare i governi dei paesi della restaurazione: dovunque, una delle richieste principali dei movimenti liberali e indipendentisti era proprio la piena libertà di stampa e la totale abolizione della censura. Infatti, le polizie segrete dei vari governi tentavano in tutti i modi di controllare la pubblicazione e la diffusione di tutti quei contenuti che venivano giudicati dannosi per il loro potere.

Cresce il peso dell’opinione pubblica stava avvenendo un cambiamento importantissimo: l’enorme diffusione della stampa accresceva in molti paesi d’Europa il ruolo dell’opinione pubblica. Con tale termine, nato in Inghilterra già sul finire del XVIII secolo, si indicava l’insieme delle idee e delle opinioni che si formavano tra i cittadini, attraverso la libera discussione, e che erano il più delle volte indipendenti dalla volontà dei governi. si trattava di un fenomeno nuovo, che le autorità non erano in grado di comprendere, e che tentavano dunque di ostacolare. Infatti, mentre i liberali erano convinti che la circolazione e il confronto

delle idee avrebbe potuto favorire la crescita della società, che sarebbe divenuta così più libera e democratica, i governi assolutisti vedevano nell’opinione pubblica solamente una fonte di dissenso, che alla lunga avrebbe scardinato il loro potere. Gli sviluppi della storia diedero ragione ai primi: con il tempo, crebbe sempre di più il numero delle persone disposte a comprendere il mondo in cui vivevano, attraverso idee e opinioni proprie non influenzate dal potere. In breve tempo sorsero le prime libere associazioni (circoli, leghe di mutuo soccorso, società culturali e ricreative), tramite le quali i cittadini trovarono modo di esprimere le loro esigenze e far sentire la loro voce. di fronte a tutto questo, il sistema politico della restaurazione risultava sempre più inadeguato, e di lì a poco in tutta Europa sarebbero avvenuti grandi cambiamenti politici.

Il N. 1 del mensile «L'Illustrazione», uscito a Roma nel 1874 per sei numeri

IL PERCORSO DELLE PAROLE

Inghilterra, Gran Bretagna e Regno Unito: quale denominazione dobbiamo usare?

Inghilterra e Scozia: due regni per molto tempo divisi

La storia della denominazione dei regni britannici è piuttosto complessa e riflette antiche vicende politiche che risalgono molto indietro nel tempo. Per limitarci all’età moderna ricordiamo che fino al 1707 i Regni di scozia e d’Inghilterra erano ancora formalmente distinti. Con Giacomo I stuart, prima re di scozia e successivamente re d’Inghilterra (1603), le due corone erano state unite nella sua persona, ma si trattava di un’unione puramente dinastica e non politica. La scozia continuava ad essere un regno indipendente con un proprio parlamento, anche se occupata militarmente dalle truppe inglesi di Cromwell e politicamente assoggettata all’Inghilterra.

Nel 1707 nasce il Regno di Gran Bretagna nel 1707 i due parlamenti di scozia e di Inghilterra decisero di fondersi e di unificare i due regni. nacque così il Regno di Gran Bretagna. Analoghe furono le vicende riguardanti l’Irlanda. Anche in questo caso ci fu una dominazione militare inglese, risalente al periodo di Cromwell, ma il Regno d’Irlanda rimase formalmente distinto da quello inglese fino al 1800.

Le complesse vicende dell’Irlanda

In quell’anno, con l’Atto di Unione deliberato dai due parlamenti, il Regno d’Irlanda e quello di Gran Bretagna si fusero formando il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda. successivamente, nel corso del XX secolo, la parte centro meridionale dell’isola d’Irlanda si è staccata dal Regno costituendosi in repubblica indipendente (Eire), con capitale dublino. da allora, e questo è il nome tuttora in uso, si parla del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del nord, che si estende sull’isola britannica e sulla parte settentrionale dell’Irlanda. È quindi del tutto improprio utilizzare, per designare questo regno, il termine Inghilterra. I termini Inghilterra, scozia, Irlanda del nord e Galles, tuttora usati in ambito sportivo, indicano le quattro nazioni che costituiscono il Regno Unito, non il regno nel suo

insieme. È vero altresì che per comodità, e così faremo anche noi, si preferisce all’espressione Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del nord, quella più sintetica di Gran Bretagna.

La bandiera britannica (Union Jack)

Nei suoi colori e nei suoi disegni racchiude le tappe essenziali della storia inglese. Le varie croci soprapposte di cui

la “Union Jack” si compone sono: croce di San Giorgio (per l'Inghilterra), croce di Sant'Andrea (per la Scozia), croce di San Patrizio (patrono dell'Irlanda).

Croce di sant'Andrea XVI secolo - scozia
Croce di san Giorgio XVI secolo - Inghilterra
Union Flag 1606 - Gran Bretagna
Croce di san Patrizio XVI secolo - Irlanda
Union Flag 1801 - Gran Bretagna

PROTAGONISTI

Talleyrand, un uomo sempre pronto a cambiare bandiera

Un uomo per tutte le stagioni

Probabilmente nessun uomo politico più di Charles Maurice Talleyrand è riuscito ad attraversare cambiamenti epocali come quelli intercorsi tra la rivoluzione francese, il regime napoleonico e l’età della restaurazione, riuscendo sempre a trarre vantaggio da ogni circostanza, e senza mai perdere il ruolo da protagonista che era stato capace di costruirsi nel corso degli anni. nacque nel 1754 da una importante famiglia della nobiltà francese. zoppo dalla nascita (non si sa se a causa di una malattia o di un incidente), per camminare dovette sempre ricorrere ad una ingombrante protesi metallica e a causa di questo non poté intraprendere la carriera militare, come avrebbe desiderato. I famigliari decisero dunque di avviarlo alla carriera ecclesiastica, dove, secondo loro, avrebbe avuto una vita più facile.

Ecclesiastico dal comportamento non certo irreprensibile nel 1779 venne ordinato sacerdote e grazie al suo alto rango ricoprì da subito posizioni di grande importanza: fu dapprima nominato abate di saint-Remy a Reims, e successivamente, nel 1788, divenne vescovo di Autun. Tutto questo, nonostante il suo comportamento fosse tutt’altro che irreprensibile: egli amava infatti la bella vita, frequentava i salotti dell’aristocrazia e intratteneva regolarmente rapporti amorosi con diverse donne sposate. successivamente, anche le sue scelte politiche contrasteranno notevolmente col ruolo da lui ricoperto: allo scoppio della rivoluzione francese, egli entrò a far parte dell’Assemblea nazionale Costituente. Fu proprio lui a proporre e a far approvare la decisione di confiscare i beni della Chiesa (grazie ai quali si arricchì notevolmente) e fu anche uno dei promotori della Costituzione

Charles Maurice de Talleyrand, primo ministro di Francia Olio su tela di Pierre-Paul Prud'hon (1817) Metropolitan Museum of Art, New York

Civile del clero che, in pratica, faceva dei preti che l’accettavano dei dipendenti dello stato. Egli consacrò anche i primi due vescovi fedeli alla Costituzione, e proprio per questo, nel 1791, venne scomunicato da papa Pio VI. successivamente, fu accusato di complicità con Luigi XVI e condannato a morte dalla Convenzione.

Passa indenne attraverso la rivoluzione decise così di fuggire negli stati Uniti, dove rimase per alcuni anni, guadagnandosi da vivere facendo l’agente immobiliare. Ritornò in Francia nel 1796, grazie all’intervento dei suoi amici, che convinsero la Convenzione ad annullare la sua condanna. dopo la morte di Robespierre e la fine del Terrore, ottenne un posto come ministro degli esteri nel nuovo governo del direttorio. nello stesso periodo conobbe napoleone: tra i due nacquero subito stima e simpatia, così, dopo la presa di potere di quest’ultimo, Talleyrand ricoprì un ruolo molto importante tra i collaboratori del generale. dopo l’incoronazione di napoleone a imperatore (1804) però, i due cominciarono ad allontanarsi, per divergenze politiche e personali.

Prende le distanze, al momento giusto, da Napoleone

Il suo intuito politico gli fece inoltre prevedere che, continuando su quella strada, napoleone si sarebbe rovinato; cominciò così ad accordarsi segretamente coi suoi nemici (in particolare con lo zar di Russia Alessandro I) in modo da poter uscire indenne da una sua eventuale sconfitta. da questo momento, egli diventerà uno dei principali oppositori dell’imperatore. Ciononostante, egli stette bene attento a non rompere definitivamente; anzi, quando il sovrano chiamava, Talleyrand era sempre pronto a rispondere e ad elargirgli i suoi consigli!

nel 1814 dopo che napoleone, ormai sconfitto, aveva dovuto firmare l’atto di resa, egli riuscì di nuovo a rimanere sulla cresta dell’onda: fu eletto infatti tra i cinque membri del consiglio che avrebbe avuto il compito di preparare una nuova costituzione per la Francia.

Protagonista del Congresso di Vienna

A maggio salì sul trono Luigi XVIII. Il nuovo sovrano, vista la mancanza di politici dotati dell’abilità necessaria, offrì a Talleyrand il ruolo di ministro degli esteri, con lo specifico incarico di negoziare con le potenze vincitrici le condizioni per la pace. Ecco che, all’apertura del Congresso di Vienna, un personaggio dal passato così compromettente si ritrovò invece tra i protagonisti assoluti di questa nuova fase della storia europea.

Fu grazie al suo abile operato che il principio di legittimità divenne uno dei cardini del Congresso, e in forza di esso la Francia borbonica poté evitare sanzioni e sedere al tavolo dei vincitori. nel febbraio 1815, a Congresso ancora in corso, napoleone fuggì dall’Elba e cominciò a radunare un esercito per riprendersi il potere. subito il generale offrì a Talleyrand il ministero degli esteri, ma quest’ultimo rifiutò.

Morì nel 1837, dopo aver ricoperto vari incarichi per il nuovo governo monarchico. nei suoi ultimi istanti ricevette i sacramenti religiosi, tanto che la nobiltà parigina commentò ironicamente che era riuscito a negoziare anche il suo ingresso in Paradiso.

non c’è dubbio che la figura di Talleyrand sia fortemente discutibile dal punto di vista morale. Tuttavia, si deve riconoscere che, nonostante tutto, egli è stato sicuramente uno dei più grandi politici della sua epoca.

IL PERCORSO DELLE PAROLE

Il liberalismo

Un termine che ha subito parecchie trasformazioni

nel linguaggio comune, “liberale” è un aggettivo che si usa per definire una persona aperta, tollerante verso le idee degli altri e generosa nei confronti del prossimo. diverso, più complesso e specifico è invece il significato che questa parola ha assunto nella storia dove ha conosciuto svariate trasformazioni nel corso dei secoli. Per “liberalismo” si intende, sul piano storico, una teoria filosofica, politica ed economica, che afferma l’importanza del singolo individuo e la difesa della sua libertà, contro ogni potere che possa limitarla. dal punto di vista politico, questa libertà viene garantita dalla divisione dei poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario), che è stata teorizzata da Montesquieu nel settecento, ma che è un concetto molto più antico, presente già nel mondo greco e romano, oltre che nei Comuni medievali. In economia, essere liberali significa invece rispettare la proprietà privata e favorire la libera concorrenza nelle varie attività, come mezzo per favorire la prosperità e lo sviluppo.

Le radici storiche del liberalismo Ma quali sono le origini storiche di questo modo di pensare? Potremmo dire che l’esigenza di libertà è radicata nell’uomo e che da sempre esso si è battuto contro i poteri dispotici e tirannici che cercavano di soffocarla. Più concretamente, le radici del liberalismo possono essere individuate in Inghilterra, nella formulazione di due documenti importantissimi: la Magna Charta Libertatum concessa da re Giovanni senza Terra nel 1215, che garantiva le autonomie dei nobili contro le pretese della Corona, e la costituzione del 1688, emanata a seguito della Gloriosa Rivoluzione, che

la trasformava in una monarchia “parlamentare”, ovvero una monarchia nella quale il potere del sovrano e quello del parlamento si fronteggiavano ormai da pari a pari.

A questi precedenti si sono poi richiamati i coloni americani, che nel XVIII secolo si ribellarono alla madrepatria proprio perché questa limitava la loro libertà di azione.

Il liberalismo tra Settecento e Ottocento nel resto del continente, sono stati chiamati liberali coloro che hanno lottato contro lo stato assolutista dell’Ancien Régime (in questo senso, si può dire che la prima fase della rivoluzione francese avesse caratteristiche liberali), e successivamente quei politici e intellettuali che hanno combattuto il progetto restauratore elaborato dal Congresso di Vienna. I patrioti europei chiesero infatti ai loro governi costituzioni che limitassero il potere dei sovrani (introducendo ad esempio dei parlamenti) e concedessero la partecipazione politica dei cittadini, mediante il sistema del voto.

Oggi: un significato alquanto controverso negli anni seguenti, il termine ha però assunto significati diversi a seconda di chi ne faceva uso, così che parlare oggi di liberalismo può ingenerare molta confusione: ad esempio, negli stati Uniti i liberali hanno idee che potrebbero essere definite di sinistra; in Italia invece, nel periodo repubblicano, come vedremo, il Partito Liberale era schierato a destra. Ancora più particolare la vicenda dei liberali tedeschi, che contrariamente ai loro colleghi inglesi, hanno sempre propugnato un forte ruolo del potere statale.

Un dettaglio della Magna Charta Libertatum (1215)

RACCONTIAMO IN BREVE

1. Nel settembre del 1814 le quattro potenze vincitrici di Napoleone (Austria, Gran Bretagna, Prussia e Russia) si riunirono a Vienna per definire il nuovo assetto dell’Europa. In questo congresso, le principali decisioni prese si basarono su due importanti princìpi: quello di “legittimità” (in base al quale tornarono sui rispettivi troni i sovrani un tempo spodestati da Napoleone) e quello di “equilibrio” (secondo il quale le frontiere degli stati europei vennero ridisegnate a tavolino per impedire che uno stato divenisse più potente degli altri). Per mantenere tale assetto questi stati si diedero due strumenti, la Santa Alleanza e la Quadruplice Alleanza, che avrebbero dovuto impedire, anche con le armi, che l’integrità degli stati ricostituiti venisse minacciata. Il Congresso di Vienna tentò così di riportare indietro le lancette della storia, cancellando gli eventi degli ultimi decenni, ma questa operazione si dimostrò troppo irrealistica per poter funzionare.

2. Negli stati europei tornò così in vigore l’assolutismo monarchico e le libertà di stampa, di parola e di associazione vennero proibite. Non tardarono però a farsi sentire i primi moti di protesta. Nel giro di pochi anni, a partire dal 1820, esplosero molte rivolte, alcune con successo (la Grecia si liberò dalla dominazione turca, le colonie spagnole dell’America Latina ottennero l’indipendenza dalla madrepatria, il Belgio si costituì in regno indipendente dai Paesi Bassi cui era stato in precedenza unito) altre stroncate nel sangue, come quella polacca.

3. La Francia conobbe due successive rivoluzioni: nel 1830 quando l’autoritario Carlo X dovette rinunciare alla corona a favore del più liberale Luigi Filippo d’Orléans, e nel 1848 quando cadde la monarchia per fare posto alla Seconda Repubblica e successivamente al Secondo Impero costituito da Napoleone III.

4. A seguito del Congresso di Vienna fu creata la Confederazione Tedesca, un insieme di 39 stati in cui la Prussia assunse subito un ruolo preminente.

5. Il 1848 fu in molte parti d’Europa un anno di grandi fermenti e di rivoluzioni, tanto che venne chiamato la “primavera dei popoli”. Oltre alla rivoluzione scoppiata in Francia, nell’Impero Asburgico scoppiarono moti, poi repressi, e prese avvio il processo di unificazione italiana di cui parleremo più avanti.

6. In generale, gli avvenimenti del ’48, anche se non portarono, ad eccezione della Francia, a consistenti cambiamenti politici, dimostrarono che l’assolutismo aveva fatto il suo tempo e che le spinte per un cambiamento di sistema politico erano ormai molte.

ATTIVITÀ E VERIFICHE

Esercizio 1 · Rispondi, anche oralmente, alle seguenti domande.

1. Quali scopi di prefiggeva il Congresso di Vienna?

2. Che cosa si intende per principio di equilibrio? E per principio di legittimità?

3. Che scopi si proponeva la Quadruplice Alleanza?

4. Che cosa si intende per nazionalismo?

5. Che cos’era l’Eteria?

6. Chi era Carlo X?

7. Che cos’erano le officine nazionali?

8. Chi era il generale Cavaignac?

9. Chi erano Lajos Kossuth e sandor Petöfi?

Esercizio 2 · Completa la linea del tempo: scrivi il numero del fatto storico sulla data corretta.

1. diffuse rivoluzioni in Europa (la primavera dei popoli)

2. Le gloriose giornate di Parigi

3. Conclusione del Congresso di Vienna

4. Con Luigi napoleone nasce il secondo Impero in Francia

5. Moti in spagna e nel Regno di napoli

Esercizio 3 · Indica se l’affermazione riportata è vera o falsa.

La Gran Bretagna aderì alla santa Alleanza. V F

Il Congresso di Vienna garantì un periodo stabilità e sicurezza in Europa. V F

Le idee di indipendenza nazionale si diffusero in modo particolare fra i popoli dell’Impero Asburgico. V F

Tra il1811 e il 1839 molti stati dell’America Latina ottennero l’indipendenza dalla spagna.

Luigi Filippo d’Orleans fu un sovrano dispotico e assolutista.

La Polonia nel 1831 ottenne l’indipendenza dalla Russia. V F

nel XIX secolo la Gran Bretagna conobbe una grande espansione coloniale. V F

I moti del 1848 furono organizzati da ristrette élites. V F

nel 1848 Luigi Filippo fu costretto ad abdicare da una insurrezione popolare. V F

Luigi napoleone costituì il secondo Impero francese. V F

Esercizio 4 · Per completare la frase iniziale scegli fra le tre alternative proposte quella che ti sembra, oltre che esatta, anche precisa e formulata con il linguaggio più appropriato.

La restaurazione fu

a. il tentativo di ridare potere ai vecchi sovrani.

b. il tentativo di cancellare le conquiste della rivoluzione francese e di ripristinare i vecchi ordinamenti pre-rivoluzionari.

c. il tentativo di garantire una lunga pace in Europa.

Il principio di legittimità stabiliva che

a. dovevano tornare sui troni europei esponenti delle dinastie che governavano prima di napoleone.

b. dovevano tornare sui troni europei esponenti delle dinastie che avevano sconfitto napoleone.

c. dovevano salire sui troni europei esponenti di dinastie imparentate con quella francese.

La Santa Alleanza si proponeva di

a. indebolire la Francia e riportare sui troni europei i sovrani legittimi.

b. intervenire in quei paesi in cui fosse scoppiata un’eventuale rivoluzione, allo scopo di sedarla.

c. difendere i popoli europei dai governi dispotici.

Lo Zollverein

a. sanciva l’unificazione della Confederazione Tedesca sotto la dominazione prussiana.

b. sanciva l’indipendenza della Confederazione Tedesca dalla dominazione austriaca.

c. sanciva l’unione doganale che garantiva la libera circolazione di merci in tutti gli stati della Confederazione Tedesca.

Luigi Napoleone

a. guidava le forze conservatrici e venne eletto presidente con una schiacciante maggioranza.

b. fu il legittimo erede di Luigi Filippo d‘Orléans al trono di Francia.

c. prese il potere con un colpo di stato sostenuto dal generale Cavaignac.

I moti del 1848 pur in gran parte falliti furono importanti perché

a. videro perla prima volta la partecipazione di grandi masse popolari.

b. affermarono i princìpi del liberalismo e del socialismo.

c. portarono all’indipendenza molti stati europei.

Esercizio 5 · Completa il testo sotto riportato inserendo negli spazi vuoti i termini che ritieni più appropriati.

nel Congresso di le potenze vincitrici riportano sul trono i sovrani precedenti secondo il principio di . Cercano inoltre di cancellare i cambiamenti introdotti nei vari paesi da napoleone. Questo processo prende il nome di . Anche i confini tra gli stati vengono ridisegnati e si creano degli stati ; si intende così garantire un equilibrio tra le maggiori potenze europee. Per vigilare su questo nuovo ordine Russia, e costituiscono la . Questo processo però sarà destinato a fallire perché . Molte nazioni sottomesse all’Impero Austriaco o ad altri stati aspirano alla e a diventare degli stati . Tra questi ottengono l’ Grecia e . Anche gli ideali di libertà diffusi dal liberalismo fanno breccia soprattutto tra le fila della . Ovunque si rifiuta l’assolutismo e si chiede una che limiti i poteri del sovrano. Per tutte queste ragioni, soprattutto a partire dall’anno si parla di primavera dei .

Eretta a Berlino nel 1873 per celebrare la vittoria nella guerra contro la Danimarca, è diventata successivamente il simbolo della potenza prussiana.

Colonna della vittoria, particolare

Le potenze europee nella seconda metà del XIX secolo

Verso un’Europa delle grandi potenze

La seconda metà del XIX secolo fu caratterizzata innanzitutto dallo sviluppo e dalla crescita di Francia e Gran Bretagna.

La prima, sotto la guida di Napoleone III, riuscì a ritrovare l’ordine, appianando i conflitti sociali degli anni precedenti, e realizzò un notevole sviluppo industriale e urbanistico.

La Gran Bretagna, sotto la regina Vittoria, si avviò a diventare la più grande potenza economica e commerciale del mondo. “L’età vittoriana”, come venne chiamato dagli storici il lungo periodo di regno di questa sovrana, si può annoverare tra i periodi più fortunati della sua storia. Diverso fu il caso dell’Impero Asburgico, alle prese con le rivendicazioni delle varie nazionalità al suo interno, e della Russia ancora decisamente arretrata dal punto di vista economico e sociale.

Ma l'avvenimento più importante che si verificò in questo periodo fu costituito dall’unificazione tedesca attuata dalla Prussia di Bismarck. Essa avvenne mediante una serie di guerre di conquista che unirono i vari stati tedeschi a formare un unico stato, la Germania. Questo avvenimento fu importante perché modificò l’equilibrio europeo, con la nascita al centro del continente di una grande potenza industriale e militare.

AL TERMINE DEL CAPITOLO

Schede di approfondimento

• Bismarck e il dispaccio di Ems

• Francesco Giuseppe

• Florence Nightingale, “the lady of the lamp”

• Parigi e Vienna grandi capitali europee

• Quando l’espressione diretta del voto popolare è veramente democratica?

Raccontiamo in breve

Attività e verifiche

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per non perdere il filo

La trasformazione di Parigi sotto il

Secondo Impero:

Boulevard Montmartre

Olio su tela di Camille Pissarro (1897), museo

statale Ermitage, san Pietroburgo

1 · La Francia del Secondo Impero

Napoleone III vuole dare stabilità alla Francia

Abbiamo già visto come Napoleone III, grazie ad abili manovre politiche e al ricorso al voto popolare, fosse riuscito a farsi eleggere imperatore e a fare rinascere il Secondo Impero. C’è una curiosa somiglianza tra questo avvenimento e quello di un secolo prima: come durante la rivoluzione il governo di Napoleone era arrivato a riportare l’ordine dopo gli eccessi dei giacobini, così ora suo nipote voleva dare alla Francia quella stabilità che i rivoltosi del 1848 sembravano minacciare.

Un sovrano autoritario, con una grande attenzione alle masse

Perché si dice che Napoleone era un sovrano autoritario?

Napoleone III fu un sovrano autoritario, poiché non concesse tutte le libertà ai cittadini e utilizzò anche la forza della polizia per conservare il proprio potere. Dall’altra parte però, contrariamente ai precedenti monarchi assoluti, si dimostrò attento e sensibile alle masse: per ottenerne il favore fece spesso ricorso allo strumento del plebiscito. Ricordiamo anche che la Francia era stato il primo paese europeo a introdurre il suffragio universale maschile.

Un’importante opera di modernizzazione e industrializzazione

Con Napoleone III la Francia si avviò a diventare una delle potenze più importanti d’Europa. Egli diede il via a un’imponente opera di modernizzazione e di industrializzazione del paese: incrementò le ferrovie, costruì un efficiente sistema di banche e soprattutto diede il via alla ristrutturazione urbanistica di Parigi, grazie alla quale la città prese l’aspetto che possiamo ammirare oggi.

Inoltre vennero investiti ingenti capitali nella costruzione del canale di Suez, porta importantissima del commercio marittimo verso l’Estremo Oriente. Interessante e innovativa fu la sua politica sull’istruzione con la quale vennero posti i primi limiti al monopolio statale in campo scolastico introdotto dalla rivoluzione francese: nel 1850 firmò infatti un accordo con la Chiesa in base al quale l’istruzione elementare obbligatoria poteva essere offerta non solo da scuole statali, ma anche da scuole cattoliche.

Una politica estera particolarmente avventurosa

In politica estera egli si impegnò innanzitutto ad allargare i domini coloniali della Francia, organizzando per questo, tra il 1858 e il 1863, spedizioni vittoriose in Indocina, Siria e Cina. In questo stesso periodo aiutò il Piemonte dei Savoia a guidare il processo di unificazione politica dell’Italia, arrivando cosi a scontrarsi con l’Austria e rompendo di fatto il principio d’equilibrio sancito nel Congresso di Vienna.

La tragica fine di Massimiliano d’Asburgo in Messico

Negli anni successivi, travolto dal suo desiderio di grandezza, si imbarcò in una serie di avventure spericolate e rischiose, che alla lunga gli costarono il trono. Nel 1862 cercò di prendere il controllo del Messico (che aveva con la Francia numerosi debiti non pagati) facendogli guerra e insediando sul trono Massimiliano d’Asburgo, uno dei fratelli dell’imperatore d’Austria. La cosa finì però tragicamente: i francesi furono sconfitti dalla guerriglia messicana e Massimiliano venne fucilato.

La sconfitta contro la Prussia e la fine del Secondo Impero

Questo episodio diede il via al rapido declino dell’Impero francese. I rapporti con l’Italia si raffreddarono, a causa dell’appoggio che Napoleone III aveva offerto al papa contro le pretese del nuovo regno, che voleva fare di Roma la sua capitale. Successivamente egli tentò di espandersi in Belgio e Lussemburgo, ma fu fermato dalla Prussia, decisa a impedire che i francesi divenissero troppo potenti. La rivalità con la Prussia sfociò infine in una guerra (1870) che terminò in una disfatta totale: Napoleone fu costretto a dimettersi e per la terza volta in Francia venne proclamata la repubblica.

Perché Napoleone III in politica estera ruppe l'equilibrio stabilito dal Congresso di Vienna?

Perché fu importante l’allargamento del suffragio?

2 · Le altre nazioni europee: Gran Bretagna, Impero Asburgico e Russia

La riforme sociali in Gran Bretagna

Sotto il lungo regno della regina Vittoria, la Gran Bretagna conobbe un enorme sviluppo economico e commerciale, ponendo le basi per diventare, alla fine del secolo, la più grande potenza coloniale del mondo. Rimasta estranea ai moti rivoluzionari del 1848, la sua rapida industrializzazione era stata però accompagnata da un sempre più grave sfruttamento degli operai nelle fabbriche e i governi del tempo tentarono ben presto di affrontare il problema con una serie di leggi di riforma sociale. Questa attenzione ai bisogni delle classi popolari trovò riscontro anche in un allargamento del suffragio, ossia del diritto di voto. Nel 1867 venne varata una legge che, in pratica, raddoppiava il numero degli elettori, portandoli a 2 milioni e mezzo. È vero che, rispetto al totale della popolazione, si trattava di una cifra piuttosto bassa (circa l’8%), tuttavia ciò equivaleva a estendere i diritti politici alla piccola borghesia e agli operai più qualificati e meglio remunerati, e questo era sicuramente garanzia per futuri cambiamenti sociali.

La difficile questione irlandese

Una delle questioni più difficili da risolvere per la corona britannica era invece rappresentata dai rapporti con l’Irlanda, che dal 1800 (Union Act) era parte integrante del Regno Unito, ma aspirava all’indipendenza. Questo non solo per motivi religiosi (gli irlandesi sono infatti cattolici, mentre gli inglesi protestanti), ma anche culturali e sociali: la popolazione irlandese era infatti fortemente discriminata e una buona parte di essa era stata costretta a lasciare le proprie terre per favorire l’emigrazione britannica sull’isola. Di qui il frequente scoppio di rivolte, che spesso venivano represse nel sangue e con le deportazioni

Perché gli irlandesi aspiravano all’indipendenza dalla Corona britannica?

Nel 1848, a causa di una gravissima carestia provocata dalla perdita del raccolto delle patate, allora principale alimento della massima parte degli irlandesi, il paese perse, tra morti per fame e persone che emigrarono in America alla ricerca di migliori condizioni di vita, circa due milioni di abitanti su un totale di otto milioni. La lotta degli irlandesi per l’indipendenza sarebbe continuata nei decenni successivi e si sarebbe conclusa solo al termine della Prima guerra mondiale.

L’Impero Austriaco e il “compromesso” con l’Ungheria

Nonostante avesse superato con successo la prova dei moti rivoluzionari del 1848, l’Impero Asburgico continuava ciononostante a declinare. Grosse tensioni sociali venivano ulteriormente complicate dall’annoso problema dei rapporti tra i molti e diversi gruppi nazionali di cui l’Impero si componeva.

Tedeschi ucraini ungheresi sloveni

Cechi Croati, serbi slovacchi rumeni

Polacchi Italiani

Nel 1867 Francesco Giuseppe dovette cedere alle pressioni degli ungheresi, insieme agli austriaci una delle due nazionalità principali dell’Impero. A seguito del cosiddetto “compromesso”, l’Ungheria divenne un regno distinto e autonomo rispetto all’Austria, dotato di un proprio governo e di un proprio parlamento. Francesco Giuseppe rimaneva però imperatore e sovrano di entrambi i regni, mentre i ministeri più importanti (esteri, guerra e finanze) restavano in comune. Da questo momento si iniziò perciò a parlare di “Duplice Monarchia” oppure di “Impero Austro-Ungarico”, e non più semplicemente di Impero Austriaco.

Una soluzione positiva, ma insufficiente

Da una parte questo cambiamento fu positivo, poiché diede all’Impero un assetto più stabile, che gli permise di sopravvivere altri cinquant’anni. Dall’altra però, non risolse per nulla il problema delle nazionalità: anche le altre minoranze avrebbero desiderato un trattamento di favore come quello riservato agli ungheresi, e negli anni successivi non tardarono le proteste, spesso anche violente. Questa fu comunque un’epoca di grande crescita culturale, e la città di Vienna venne sottoposta a un rinnovamento urbanistico e architettonico che la rese una delle più belle d’Europa.

I popoli presenti nel territorio dell’Impero Asburgico all’inizio del Novecento

Perché dal 1867 si comincia a parlare di Impero Austro-Ungarico?

Perché il compromesso con l’Ungheria non fu sufficiente?

Budapest
Leopoli
Trieste Zagabria
Vienna
Trento
Praga
Sarajevo
Romania
Serbia
Italia
Impero tedesco
Impero russo
Boemia
Moravia
Austria
Tirolo
Carniola
Bosnia
Banato
Ungheria
Galizia
Transilvania
Croazia - Slavonia
Dalmazia
Erzegovina
Bucov ina

Autocrazia

Forma di governo in cui chi comanda detiene un potere assoluto. Pur ricevendo l’aiuto e la consulenza di collaboratori per le questioni più importanti, le decisioni definitive spettano solo a lui; anzi, il vero autocrate può, in qualsiasi momento e per qualunque motivo, rimuoverli dalla loro carica, anche facendoli imprigionare o addirittura condannare a morte.

Perché sotto il governo degli zar la Russia era un paese fragile e arretrato?

La Russia zarista: una potenza fragile

Dopo aver contribuito in maniera decisiva alla sconfitta di Napoleone, la Russia era diventata una grande potenza. In seguito, sotto il regno dello zar Alessandro I, aveva cominciato a espandersi in Medio Oriente (dove si era scontrata con Persia e Impero Ottomano), nel Caucaso e nell’Asia centrale, fino ad arrivare ad affacciarsi sul Pacifico (dove qualche decennio più tardi arriverà a scontrarsi con Giappone e Cina).

Nonostante questi disegni di grandezza, la Russia era un paese fragile: il suo territorio era troppo ampio per essere controllato in maniera efficiente, soprattutto perché mancava una rete stradale adeguata.

L’arretratezza era evidente anche dal punto di vista politico e sociale: la Russia era un’autocrazia di vecchio stampo, in cui lo zar deteneva tutti i poteri, appoggiato da ministri e da funzionari a lui totalmente fedeli.

Non esisteva una classe borghese numerosa e produttiva, e la maggior parte della popolazione viveva nelle campagne, dove le proprietà agricole erano ancora organizzate secondo un modello feudale.

Alessandro II abolisce la servitù della gleba

Nel 1861 lo zar Alessandro II prese la decisione rivoluzionaria di abolire la servitù della gleba, dato che la Russia era l’unico paese d’Europa a conservare ancora questo sistema.

Perché l’abolizione della servitù della gleba non produsse gli effetti sperati?

Egli lo fece per cercare di modernizzare il paese e di portarlo a competere con gli stati più progrediti, ma tale riforma non sortì gli effetti sperati: la distribuzione delle terre non fu infatti attuata in maniera efficiente, agli ex servi non vennero forniti aiuti per l’acquisto di appezzamenti di terreno e furono dunque molti coloro che tornarono a lavorare per i vecchi padroni, in condizioni non molto diverse da prima.

La fine dell’equilibrio: aumenta il numero delle guerre

Uno dei mutamenti più importanti avvenuti dopo il 1848 nei rapporti tra le nazioni fu che il principio di equilibrio cominciò a venire disatteso. La concorrenza per la ricerca delle materie prime nonché dei mercati di sbocco della produzione industriale cominciò a provocare nuovi attriti tra le maggiori potenze europee. Questa fu la ragione per cui la seconda metà del XIX secolo, pur rimanendo in confronto a quella napoleonica un’epoca ancora relativamente pacifica, conobbe un numero maggiore di guerre rispetto al passato.

La Guerra di Crimea

Di tale nuovo stato di cose la Guerra di Crimea (1854-56) fu una dimostrazione evidente. L’anno prima del suo scoppio la Russia, approfittando dell’ormai cronica debolezza dell’Impero Ottomano,

aveva occupato i due principati della Moldavia e della Valacchia, che erano posti sotto la sua sovranità. Lo scopo di tale mossa era di cominciare ad aprirsi la via verso il Mediterraneo, cosa che Francia e Gran Bretagna intendevano impedire ad ogni costo. Corsero pertanto in aiuto dell’Impero Ottomano e dichiararono guerra alla Russia. In un secondo momento anche il Regno di Sardegna scese in campo contro la Russia, a fianco della Francia e della Gran Bretagna, con l'intento di farsele alleate nella guerra che intendeva muovere contro l'Impero Asburgico per arrivare all'unificazione italiana.

La prima guerra moderna

Le truppe russe, meno equipaggiate e organizzate di quelle dei loro avversari, vennero duramente sconfitte. L’Impero zarista perse alcuni territori e alla sua flotta fu impedita la navigazione nel Mediterraneo. Dal punto di vista territoriale il principale esito di questa guerra fu l’indipendenza dall’Impero Ottomano dei principati di Moldavia e di Valacchia che si unirono a formare la Romania. Insieme alla Guerra di secessione americana quella di Crimea è considerata da molti storici una delle prime guerre moderne, combattute cioè con armi che erano frutto della nuova tecnologia industriale: delle “macchine per uccidere” che fecero diventare i conflitti sanguinosi come mai prima erano stati.

La carica della brigata della cavalleria leggera inglese guidata dal generale conte di Cardigan durante la Guerra di Crimea Litografia colorata di William simpson (1855), Library of Congress, Washington, DC

Questa battaglia, svoltasi nell’ottobre 1854 e passata alla storia come la “carica dei seicento”, finì in un massacro per gli inglesi.

Perché scoppiò la Guerra di Crimea?

Perché la Guerra di Crimea è considerata una delle prime guerre moderne?

Perché si dice che Bismarck fu un politico duro e autoritario?

3 · L’unificazione tedesca

L’ascesa di Bismarck

In Prussia era stata soffocata la rivoluzione del 1848, ma Federico Guglielmo IV aveva comunque deciso di non eliminare la costituzione e il parlamento da lui concessi in quell’occasione.

Alla sua morte (1861) salì al trono Guglielmo I e l’anno dopo divenne cancelliere (cioè capo del governo) Otto von Bismarck (18151898).

Egli apparteneva al ceto degli junker, vale a dire della nobiltà terriera prussiana tradizionalmente dedita al mestiere delle armi. «I grandi problemi della nostra epoca non si risolvono con discorsi né con le delibere della maggioranza, ma col sangue e col ferro», dichiarò appena nominato, chiarendo subito quali fossero le sue intenzioni. In questa frase stava racchiusa infatti tutta la sua strategia d’azione, che in breve tempo portò la Prussia a unificare sotto di sé tutti gli stati tedeschi e a far diventare la Germania il paese più potente dell’intera Europa continentale.

Un politico duro e autoritario che sa dare voce al sentimento nazionalistico del popolo Il suo modo di governare rispecchiò da subito il suo carattere autoritario: egli infatti non tenne in nessun conto il ruolo del parlamento, dato che le leggi venivano scritte e approvate direttamente da lui e dall’imperatore. Dall’altra parte, però, volle sfruttare al massimo i sentimenti delle masse, che grazie al miglioramento dell’istruzione e alla diffusione dei giornali cominciavano a interessarsi alla vita politica: promosse il nazionalismo, esaltando la grandezza della Prussia e del popolo tedesco, che da tempo aspirava a riunirsi in un unico stato.

Un progetto politico da realizzare attraverso la guerra

Il progetto politico di Bismarck era chiarissimo: egli voleva riunire tutti i paesi della Confederazione Tedesca sotto l’autorità del re di Prussia. Tale disegno andava per forza di cose contro gli interessi dell’Impero Austriaco, tanto più considerando che l’imperatore d’Austria era presidente onorario della Confederazione. Fedele alla sua politica militarista, nel 1864 Bismarck dichiarò guerra alla Danimarca, per strapparle i ducati dello Schleswig e dell’Holstein, la cui popolazione era in maggioranza di lingua tedesca. Questa guerra fu vinta rapidamente dalla Prussia e suscitò anche la benevola neutralità dei principali stati europei, ai quali faceva comodo che il ruolo dell’Austria nell’Europa centrale venisse contrastato dalla crescente potenza prussiana.

Schleswig

Regno di Württemberg

Gr. di Mecklenburg

Regno di

Regno di Baviera

Bismarck dichiara guerra all’Austria

La marcia di Bismarck poté così proseguire indisturbata: nel 1866 egli dichiarò guerra all’Impero Asburgico, e in questa occasione ebbe come alleata l’Italia, che intendeva completare la propria unità nazionale tramite l’acquisizione del Veneto. Il conflitto mostrò per la prima volta di che cosa fosse capace l’esercito prussiano: i suoi soldati erano ottimamente equipaggiati e molto più addestrati e disciplinati di quelli degli altri paesi d’Europa. In più, erano guidati dal generale Helmuth von Moltke (1800-1891), uno dei più grandi geni militari del XIX secolo.

Dopo appena un mese di guerra l’esercito prussiano ebbe ragione degli avversari. La Confederazione Tedesca venne sciolta e gli stati del nord vennero uniti alla Prussia, sotto l’autorità di Guglielmo I. L’unificazione della Germania era così per metà completata.

La Guerra Franco-Prussiana

Bismarck avrebbe voluto annettersi immediatamente anche gli stati tedeschi del sud, ma Napoleone III glielo impedì: la sconfitta dell’Austria lo aveva favorito, ma se la Germania si fosse unificata totalmente per la Francia sarebbe stato sicuramente un problema avere come confinante uno stato grande e potente!

Il cancelliere tedesco capì dunque che per realizzare totalmente

La formazione dell'Impero tedesco

Il regno di Prussia nel 1864

Territori annessi alla Prussia nel 1865-66

Territori annessi alla Prussia nel 1870

Confini dell'Impero tedesco nel 1871

Perché Francia e Prussia entrarono in conflitto?

il suo progetto avrebbe dovuto avere ragione di Napoleone III. Il pretesto per una guerra si presentò nel 1868: in Spagna c’era stato un colpo di stato militare e la regina Isabella II era stata allontanata dal trono. Si era instaurato un governo provvisorio, il quale aveva offerto la corona al principe prussiano Leopoldo Hohenzollern. Ovviamente Napoleone III non avrebbe potuto permettere che questo avvenisse, così inviò un telegramma a Guglielmo I, invitandolo a non accettare la candidatura del suo parente.

Bismarck vide in questo episodio l’occasione migliore per scatenare un conflitto con la Francia e, grazie a una sottile astuzia diplomatica, fece infuriare l’imperatore francese, che subito dichiarò guerra alla Prussia.

Con la vittoria sulla Francia, l’unificazione della Germania è completa

Ancora una volta l’esercito agli ordini di von Moltke dimostrò la propria schiacciante superiorità e il 1 settembre 1870, nella battaglia di Sedan, la Francia fu rovinosamente sconfitta e lo stesso Napoleone venne fatto prigioniero. La Francia venne anche privata dell’Alsazia e della Lorena, due regioni ricchissime di materie prime, che la Prussia voleva per sé in quanto abitate da una consistente popolazione tedesca.

Per la Francia questa guerra significò la fine del Secondo Impero, mentre per Bismarck fu il trionfo e la nascita dello stato tedesco.

Nasce il Secondo Reich

Reich

Parola tedesca che significa “regno”, ma che fu utilizzata da Bismarck col significato di “impero”. Più tardi fu Hitler a riprendere questo termine, ricollegandosi direttamente a questo periodo della storia tedesca, e chiamando “Terzo reich” il regime nazista da lui fondato.

Nel gennaio 1871, all’interno della reggia di Versailles, i sovrani dell’ex Confederazione Tedesca incoronarono Guglielmo I imperatore di Germania: era nato il Secondo Reich , che si pretendeva fosse l’erede del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica fondato da Ottone di Sassonia nel 962.

La nascita della Germania rappresentò indubbiamente l’avvenimento più importante verificatosi in Europa dopo il Congresso di Vienna.

Con esso venne inferto un duro colpo al principio di equilibrio, con la nascita al centro del continente di uno stato forte e sicuramente intenzionato ad aumentare la propria potenza. In secondo luogo, tale fatto contribuì a indebolire notevolmente l’Austria la quale, non avendo più spazio nel centro dell’Europa, si volse sempre più verso i Balcani.

Perché la nascita del Secondo Reich mise in crisi l’equilibrio europeo?

Infine, va detto che questa guerra fu la prima in cui i sentimenti delle masse furono esaltati e utilizzati in funzione nazionalistica. Questo contribuì a scavare un solco incolmabile tra Francia e Germania, creando una rivalità che nel corso degli anni sarebbe divenuta sempre più accesa e che avrebbe rappresentato una delle cause della Prima guerra mondiale.

NON TUTTI SANNO CHE

Bismarck e il dispaccio di Ems

Bismarck: un politico abile e spregiudicato Otto von Bismarck fu un politico abile e spregiudicato, che seppe sempre sfruttare a suo vantaggio le circostanze che di volta in volta gli si presentavano davanti. La sua trovata più astuta fu indubbiamente lo stratagemma che escogitò per provocare quella guerra contro la Francia che, come abbiamo visto, considerava necessaria ai fini del completamento dell’unità nazionale tedesca. Nel luglio del 1870 l’ambasciatore francese a Berlino riferì all’imperatore Guglielmo I che Napoleone III non solo era contrario alla candidatura di un parente del sovrano prussiano al trono di spagna, ma si attendeva scuse ufficiali e un impegno a che operazioni del genere non venissero più tentate nel futuro. Guglielmo I, che si trovava in quei giorni in vacanza nella località termale di Ems, in renania, oppose un rifiuto fermo, ma cortese. Espose quindi in un breve dispaccio i contenuti del colloquio, e lo affidò a Bismarck affinché fosse comunicato alla stampa.

Il dispaccio modificato

Il cancelliere, accorgendosi che non era nei piani del sovrano dichiarare guerra alla Francia, modificò lo scritto in modo da renderlo molto più duro e sfacciato, e lo trasmise ai giornalisti in questa forma. L’effetto sull’opinione pubblica di entrambi i paesi fu immediato e dirompente: Napoleone III si indignò e non trovò altra soluzione che dichiarare guerra alla Prussia.

Questo episodio mette in luce la straordinaria abilità di Bismarck nel comprendere il peso che i giornali cominciavano ad avere nella società europea e nel saperli utilizzare a proprio vantaggio. Egli comprese che i tempi stavano cambiando, che le masse stavano entrando sempre di più nella vita politica, e che una guerra di conquista come quella che era intenzionato a scatenare, sarebbe stata più efficace se fosse stata giustificata e approvata dall’opinione pubblica.

Il suo calcolo si rivelò esatto: non solo la Prussia entrò in guerra accompagnata dall’entusiasmo popolare, ma anche dall’immagine di paese che si sente aggredito nella sua dignità nazionale e che, per difendere il proprio onore, reagisce.

Otto Eduard Leopold Bismarck
Illustrazione di Paul Rieth per la copertina n. 13 del 1915 del settimanale “Jugend” (Giovani) pubblicato a Monaco di Baviera

PROTAGONISTI

Francesco Giuseppe

Salì giovanissimo sul trono imperiale

Come sappiamo, all’unificazione politica dell’Italia si arrivò lottando principalmente contro l’Austria. È perciò comprensibile che Francesco Giuseppe, imperatore dal 1848 al 1916, non sia un personaggio generalmente ben visto nel nostro paese. In realtà, se si ragiona in maniera obiettiva, si vedrà che è difficile esprimere un giudizio negativo dell’operato di questo sovrano. Egli nacque nel 1830 ed era figlio dell’arciduca

Francesco Carlo, fratello dell’imperatore Ferdinando I. Nonostante ciò, fu da subito considerato erede al trono, poiché era noto che l’imperatore non poteva avere figli. Dopo la rivolta del 1848, che portò alle dimissioni di metternich, anche

Ferdinando decise di abdicare. Il suo posto fu così preso dal giovane Francesco, che divenne imperatore all’età di soli diciotto anni. Da quel momento, egli regnò ininterrottamente per sessantotto anni, gestendo in prima persona il potere, senza delegarlo a nessun cancelliere onnipotente, come era accaduto in precedenza.

Il difficile rapporto con la moglie Elisabetta Nel 1854 sposò Elisabetta, figlia del duca massimiliano di Baviera, che era anche sua cugina di primo grado. Il fatto curioso è che gli accordi tra le famiglie prevedevano che il sovrano avrebbe dovuto sposare la sorella maggiore Elena; il caso volle però che egli incontrasse le due ragazze nello stes-

so momento e che si innamorasse perdutamente della minore. Non fu però un matrimonio felice: Elisabetta (nota ben presto con il nome di sissi) era una donna irrequieta e indipendente, e non si trovava molto a suo agio nel rigido ambiente della corte di Vienna. Col tempo, si allontanò sempre di più dal marito, che pure continuò ad amarla, e si mise a viaggiare per il mondo, divenendo una protagonista della cronaca mondana dell’epoca.

Le sue scelte politiche

Tutto il regno di Francesco Giuseppe fu dominato dal tentativo non pienamente riuscito di costruire un rapporto più equilibrato con le varie etnie dell’Impero: con gli ungheresi fu raggiunto un accordo nel 1867, che istituiva una “doppia monarchia”; agli altri popoli vennero in seguito concesse alcune autonomie, ma in generale il governo di Vienna rimase centralistico.

Furono questi gli anni in cui Francesco Giuseppe cercò di portare avanti anche una politica estera attiva, alleandosi con Germania e Italia nel tentativo di rinforzare il suo ruolo nei Balcani.

Una vita costellata

da gravissime tragedie famigliari

Il suo regno fu anche costellato da gravi lutti: suo fratello massimiliano, divenuto imperatore del messico, fu fucilato dai rivoluzionari; il suo primogenito rodolfo, erede al trono, si uccise nel 1889 assieme all’amante, in circostanze che non sono mai state chiarite. Il colpo più grave fu però senza dubbio la morte di sua moglie Elisabetta, pugnalata da un anarchico nel 1898, mentre si trovava sul lago di Ginevra.

Da ultimo, arrivò l’omicidio del cugino Francesco Ferdinando, che porterà alla dichiarazione di guerra alla serbia e allo scoppio della Prima guerra mondiale.

Uomo saggio ed equilibrato, amante della pace, ma costretto a vivere in un’epoca di guerra

L’imperatore aveva all’epoca già ottantaquattro anni: dopo la rivolta del 1848 aveva fatto di tutto per risparmiare al suo popolo le sofferenze di un conflitto; tuttavia, la situazione internazionale era troppo confusa e tormentata e il ricorso alle armi divenne l’unica soluzione.

Il sovrano, vecchio e malato, non avrebbe visto la fine del conflitto: morì il 21 novembre 1916 e fu pianto a lungo dagli antichi sudditi.

Nonostante abbia guidato l’Impero Austriaco nel periodo più drammatico della sua storia, Francesco Giuseppe seppe governare con grande saggezza ed equilibrio, impegnandosi sempre per svolgere al meglio la sua funzione. Era noto che si alzava tutte le mattine alle quattro e dopo una colazione frugale iniziava immediatamente a lavorare. Teneva moltissimo al contatto personale coi sudditi: una volta alla settimana concedeva udienza a chiunque avesse fatto espressamente richiesta. Ascoltava ciò che le persone avevano da dirgli, e concludeva ogni colloquio con la frase: «È stato un piacere parlare con voi».

L’imperatore Francesco Giuseppe a un ballo di corte Acquerello di Wilhelm Gause (1900) Historisches Museum der Stadt, Vienna

PROTAGONISTI

Florence Nightingale, “the lady of the lamp”

Una ragazza coraggiosa

Florence Nightingale nacque nel 1820, da una famiglia anglicana dell’alta borghesia britannica (il padre era un famoso scienziato) che le fornì una approfondita istruzione classica. sviluppò ben presto forti attitudini per la matematica, ma la famiglia non la sostenne in questi studi in quanto tale disciplina era giudicata allora superflua per una giovane dell’alta società destinata sposarsi e a mettere al mondo dei figli.

A diciassette anni sentì la chiamata di Dio, che la invitava a servirlo attraverso la cura dei bisognosi. Per tale ragione rinunciò a sposarsi e decise di dedicarsi all’assistenza dei malati; fu una scelta particolarmente inusuale e coraggiosa per quei tempi in quanto quella dell’infermiera non era considerata allora una vera e propria professione. Chi vi si dedicava non aveva una specifica preparazione e spesso non godeva neanche di buona reputazione. Tutto ciò non le impedì di dedicarsi con impegno a tale attività.

Dopo diverse esperienze in Europa volte all’apprendimento dei rudimenti della scienza infermieristica, nel 1853 il ministro della guerra del governo britannico le affidò l’incarico di occuparsi della formazione delle infermiere.

Una donna al fronte

La vera svolta avvenne con lo scoppio della Guerra di Crimea nel 1854. Venne inviata al fronte nella località di turca di scutari alle porte di Costantinopoli, dove era stato allestito un ospedale da campo nei pressi del quartier generale britannico: 6 chilometri di corridoi lunghi e sporchi, infestati dai topi, senza acqua, in cui i soldati, spesso malnutriti, per carenza di posti letto dovevano coricarsi per terra e morivano più che per le ferite riportate in battaglia, per le pessime condizioni igieniche in cui versavano. Con 226 infermiere che lasciarono l’Inghilterra per seguirla e che verranno, soprannominate la “banda degli angeli”, riuscì, al fronte, a ridurre la mortalità dei feriti dal 42 al 2%.

Florence Nightingale, fondatrice dell’infermieristica moderna

Scatto fotografico di di Henry Hering (1856-57)

Nasce la moderna professione di infermiera

Dopo la Crimea, la Nightingale si recò in India e in seguito si dedicò agli ospedali civili. La sua attività di riforma della scienza infermieristica e dell’organizzazione ospedaliera fu sostenuta da studi rigorosi che vennero diffusi in diversi volumi, il più celebre dei quali Notes on nursing, pubblicato nel 1860, tradotto in varie lingue e ancora oggi studiato in vari ospedali. Florence Nightingale morì nel 1910, all’età di novant’anni.

“The lady of the lamp” (la signora della lanterna), come fu chiamata in una sua poesia dal poeta John Henry Longfellow poiché di notte visitava i pazienti, facendosi luce con una lanterna, rimarrà per sempre nella storia come colei che ha saputo unire il rigore delle nuove discipline scientifiche come la statistica (fu l’inventrice dei “grafici a torta”), a una dedizione totale e commovente nei confronti dei suoi pazienti. Come ebbe a dire una volta: «L’assistenza è un’arte, richiede una devozione totale e una dura preparazione, come per una qualunque opera di pittore o scultore; con la differenza che non si ha a che fare con una tela o un gelido marmo, ma con il corpo umano, il tempio dello spirito di Dio». La sua data di nascita, 12 maggio 1820, è tuttora celebrata in tutto il mondo come la Giornata internazionale dell’infermiere.

VISITIAMO I LUOGHI DELLA STORIA

Parigi e Vienna grandi capitali europee

Due grandi città in pieno sviluppo

Capitali di due grandi imperi, Parigi e Vienna si affermarono, nel corso della seconda metà dell’Ottocento, come le due maggiori città d’Europa e conobbero uno straordinario sviluppo che riguardava sia la loro struttura urbanistica, sia la vita artistica e culturale che in esse si svolgeva. La Parigi di Napoleone III assunse in questo periodo un aspetto imponente e maestoso, grazie in particolare all’opera del prefetto e urbanista Georges-Eugène Haussmann. Questi fece smantellare interi quartieri vecchi e degradati per far posto a parchi e giardini e realizzò una rete di arterie a pianta stellare con al centro piazze e monumenti nonché i tipici boulevards, grandi viali tripartiti con una via principale al centro e due controviali laterali costruiti apposta per permettere un facile accesso alla forza pubblica in caso di sommosse popolari. sempre in questo periodo venne realizzata, utilizzando nuovi materiali quali il ferro e il vetro, la grande stazione ferroviaria detta Gare du Nord

La Tour Eiffel, simbolo di Parigi

A conferma dell’importanza e del prestigio della città nel 1889 vi venne allestita una grande esposizione universale, una rassegna aperta a tutti gli stati del mondo, nella quale venivano esposte al pubblico le scoperte e le innovazioni tecnologiche più recenti. Fu in questa occasione che venne eretta la celebre Tour Eiffel che divenne ben presto il simbolo della città. Alta 300 metri, realizzata con 18.000 barre di ferro tenute assieme da 2 milioni e mezzo di bulloni, era in realtà destinata ad essere smantellata dopo soli vent'anni, e invece, visto il successo che riscontrò presso i visitatori, è rimasta nel tempo come la più grande attrazione di Parigi.

Vienna, grande capitale della “Felix Austria” Anche la Vienna asburgica conobbe una grande fioritura. Vennero realizzati in questo scorcio di secolo molti imponenti edifici che si rifacevano a stili del passato, dalla neogotica Chiesa Votiva, costruita per assolvere un voto fatto dall’imperatore in seguito a un attentato dal quale era uscito miracolosamente illeso, al neoclassico Palazzo del Parlamento, dal Palazzo dell’Opera ai celebri

musei di storia Naturale e di storia dell’Arte. soprattutto venne realizzato un grande viale circolare, la Ringstrasse, che racchiudeva in un anello (in tedesco Ring) e collegava tra loro tutti gli edifici del centro, compreso il Palazzo Imperiale.

Città del valzer, della cultura e della tradizione

Come Parigi, anche Vienna ebbe un grande sviluppo artistico e culturale: in essa operarono infatti artisti, scrittori, musicisti che innovarono con la loro creatività il panorama europeo. La città divenne anche il simbolo della vita spensierata e serena, dell’ordine e della sicurezza garantiti da un ormai secolare Impero che poggiava su solidi valori e tradizioni e che sembrava non dovesse mai tramontare. Proprio Francesco Giuseppe, con la sua moderazione, il suo equilibrio e il suo paternalismo, andava confermando e consolidando questa immagine. simbolo della spensieratezza della “Felix Austria”, così venne definita, sono i celebri valzer che allietavano le serate galanti presso la corte e i palazzi aristocratici, primo fra tutti Il bel Danubio blu di Johann strauss.

La Tour Eiffel, Parigi

SPUNTI DI RIFLESSIONE (PER L’EDUCAZIONE CIVICA)

Quando l’espressione diretta del voto popolare è veramente democratica?

I plebisciti e la democrazia “diretta”

Abbiamo visto come Napoleone III ricorresse allo strumento del plebiscito per ottenere il consenso delle masse. Lo stesso accadde quando si volle giustificare col consenso popolare l’annessione dei territori del regno delle Due sicilie al Piemonte o analogamente il passaggio di Nizza e della savoia alla Francia. I plebisciti (dalle parole latine plebs “plebe” e scitum “deliberazione”, quindi deliberazione, decisione della plebe) sono un’espressione della democrazia diretta. Attraverso di essi infatti il popolo è chiamato a esprimersi o su una legge o su una decisione importante riguardante l’assetto dello stato direttamente, senza affidare tale decisione a suoi rappresentanti eletti in precedenza in un parlamento (in questo secondo caso si parla di democrazia “indiretta”) e può sembrare la massima forma di democrazia. Che cosa c’è infatti di più democratico di cittadini che esprimono in prima persona, senza intermediari, il loro voto?

Eppure se si guarda la storia può sorgere qualche dubbio. spesso infatti è accaduto che i plebisciti siano stati usati per ratificare decisioni già prese in anticipo o per consolidare il potere di qualche governante o addirittura dittatore che se ne era prima impossessato con altri mezzi poco “democratici”. Come valutare dunque tutto ciò?

Le condizioni che rendono veramente libero il voto

In generale possiamo dire che non basta che il popolo possa esprimersi perché la sua scelta sia libera. Il voto libero deve essere il frutto di un pensiero e di un’opinione che si sono formati altrettanto liberamente. Devono esserci quindi delle condizioni che consentano ciò. se la scelta è condizionata da una propaganda tambureggiante e a senso unico, se chi si oppone non ha possibilità di comunicare le proprie ragioni ai cittadini, se chi deve votare non ha gli strumenti per informarsi, per leggere e approfondire, per maturare una decisione consapevole, allora la libertà di scelta non esiste e la libertà di voto è

solo formale. I plebisciti diventano in tal caso uno dei tanti strumenti con cui chi ha il potere lo rafforza a danno dei cittadini. C’è però un ulteriore aspetto molto interessante da considerare e che riguarda anche il nostro impegno di studenti. se gli strumenti per favorire il maturare di una scelta libera ci sono, ma i cittadini non sono in grado di utilizzarli (ad esempio perché sono analfabeti e non sanno leggere libri e giornali, o perché non hanno una cultura adeguata per vagliare in modo critico i messaggi che ricevono) allora anche in questo caso le decisioni a cui giungono possono non essere del tutto libere. Come diceva uno dei grandi esponenti politici dell’Italia dell’Ottocento, Carlo Cattaneo: «L’istruzione è la più valida difesa della libertà». Da qui l’importanza, anche per noi, di studiare, in particolare la storia.

Lo strumento del referendum nella costituzione italiana Nell’ordinamento politico del nostro paese è oggi ammessa una forma di democrazia diretta di cui forse avrai sentito parlare: è il referendum, previsto nell’art. 75 della Costituzione. si tratta, però, di uno strumento che ha molte limitazioni: esso infatti può essere solo abrogativo di leggi esistenti e non è ammissibile su questioni di carattere fiscale e tributario e su trattati internazionali in cui è coinvolto il nostro paese. referendum a carattere consultivo, fatti soprattutto a livello locale, possono essere messi in atto, ma non hanno valore vincolante. Il fatto che questo strumento sia regolamentato sul piano legislativo dà sicuramente, rispetto ai plebisciti ottocenteschi, maggiori garanzie di democraticità anche se l’abuso che talvolta se ne fa può generare nei cittadini disaffezione e sfiducia. Nella storia recente del nostro paese il referendum più importante è stato quello tenutosi il 2 giugno del 1946 con il quale gli italiani vennero chiamati a scegliere se mantenere la monarchia o dar vita a una repubblica. Come saprai la scelta della maggioranza degli italiani fu proprio quest’ultima.

RACCONTIAMO IN BREVE

1. Napoleone III fu un sovrano autoritario, ma anche molto attento agli interessi delle masse. Diede vita a un’imponente opera di modernizzazione e industrializzazione della Francia; investì grosse somme di denaro nella costruzione del Canale di Suez, per collegare il Mar Rosso al Mar Mediterraneo; portò avanti una politica estera aggressiva con diverse spedizioni nell’Estremo Oriente e favorendo l’unificazione italiana ai danni dell’Austria. La sconfitta di Sedan, nella guerra contro la Prussia (1870), provocò la fine dell’Impero Francese e per la terza volta in Francia venne proclamata la repubblica.

2. Sotto il lungo regno della regina Vittoria la Gran Bretagna andò incontro a un grande sviluppo economico e divenne la maggiore potenza coloniale. Tutto ciò non fu senza conseguenze: le condizioni sociali dei lavoratori erano infatti abbastanza pesanti e da più parti si avvertì l’esigenza di riforme. Grossi problemi diede anche l’Irlanda dove, nel 1848, una gravissima carestia causò la morte o la fuga in America di due milioni di persone.

3. Grandi cambiamenti si verificarono nell’Impero Asburgico, alle prese con le spinte autonomistiche dei suoi popoli. Nel 1867 venne varato il cosiddetto “compromesso”: l’Ungheria divenne un regno distinto e autonomo e da quel momento si iniziò a parlare di Impero Austro-Ungarico. Nonostante alcuni riflessi positivi, il cambiamento non fu sufficiente a risolvere i gravi problemi che affliggevano lo stato.

4. Dopo la sconfitta di Napoleone, la Russia era divenuta una grande potenza. Tuttavia era ancora un paese molto arretrato, sia dal punto di vista economico sia da quello sociale (solo nel 1861 venne abolita la servitù della gleba). Approfittando della debolezza dell’Impero Ottomano, lo zar Alessandro II decise di occuparne alcuni territori, per puntare al tanto agognato sbocco sul mar Nero. Gran Bretagna e Francia corsero però in aiuto dei turchi e scoppiò la Guerra di Crimea (1854-56), dalla quale la Russia uscì sconfitta e fortemente ridimensionata.

5. In Prussia nel 1861 salì al trono Guglielmo I e l’anno seguente divenne cancelliere Otto von Bismarck, un politico duro e autoritario che non tenne in alcun conto il ruolo del Parlamento e che era intenzionato a realizzare l’unificazione della Germania mediante una politica estera aggressiva. Fu così che, tra il 1864 e il 1870, con una serie di guerre contro Danimarca, Austria e Francia, la Prussia realizzò l’unificazione tedesca e la nascita del Secondo Impero (1871). Per la prima volta, in questa guerra emersero i sentimenti nazionalistici delle masse che qualche decennio dopo esploderanno nella Prima guerra mondiale.

ATTIVITÀ E VERIFICHE

Esercizio 1 · Rispondi, anche oralmente, alle seguenti domande.

1. Quali obiettivi si proponeva Napoleone III?

2. Quali furono le opere di modernizzazione avviate da Napoleone III?

3. Chi era massimiliano d’Asburgo?

4. Che cosa si intende per autocrazia?

5. Quali stati europei parteciparono alla Guerra di Crimea?

6. Come si concluse la Guerra di Crimea?

7. Chi erano gli junker?

8. Qual era il progetto politico di Bismarck?

9. Quali territori perse la Francia in seguito alla sconfitta nella guerra contro la Prussia?

10. Dove si indirizzò la politica austriaca una volta sorto il secondo reich?

Esercizio 2 · Completa la linea del tempo: scrivi il numero del fatto storico sulla data corretta.

1. Guerra Austro-Prussiana

2. L’Impero Asburgico si trasforma in Impero Austro-ungarico

3. Guerra di Crimea

4. Guerra Franco-Prussiana

5. Nasce il secondo reich

6. Alessandro II abolisce la servitù della gleba in russia

Esercizio 3 · Indica se l’affermazione riportata è vera o falsa.

Napoleone avviò una grande opera di modernizzazione della Francia. V F

In Inghilterra scoppiarono molti moti rivoluzionari. V F

La russia zarista era un paese estremamente fragile e arretrato. V F

Lo zar Alessandro II abolì la servitù della gleba. V F

Bismarck governò con l’appoggio del parlamento. V F

Nella battaglia di sedan ci fu una schiacciante vittoria francese sui prussiani. V F

Il secondo reich rappresentò la ripresa del sacro romano Impero della Nazione Germanica creato nel medioevo.

F

Esercizio 4 · Per completare la frase iniziale scegli fra le tre alternative proposte quella che ti sembra, oltre che esatta, anche precisa e formulata con il linguaggio più appropriato.

La Gran Bretagna rimase sostanzialmente estranea ai moti rivoluzionari che investirono gli altri paesi europei perché

a. era un paese ancora poco industrializzato.

b. aveva un sistema politico stabile e flessibile e si erano attuate alcune importanti riforme tra cui quella elettorale.

c. gli operai vivevano in condizioni decisamente migliori rispetto agli altri paesi.

Nel 1867 a seguito di un “compromesso”

a. l’ungheria ottenne l’indipendenza dall’Impero Asburgico.

b. l’ungheria ottenne maggiori poteri, tra cui quello di nominare i ministri più importanti.

c. l’ungheria divenne un regno distinto e autonomo rispetto all’Austria, dotato di un proprio governo e di un proprio parlamento pur rimanendo all’interno dell’Impero.

In Russia lo zar

a. deteneva tutti i poteri appoggiato da ministri e da funzionari a lui totalmente fedeli.

b. governava con l’ausilio del parlamento e di una forte aristocrazia.

c. deteneva scarsi poteri ed era in posizione di inferiorità rispetto alla borghesia.

Nella seconda metà del XIX secolo aumentarono i conflitti tra gli stati europei perché

a. ognuno mirava ad allargare i propri confini.

b. vi era concorrenza per la ricerca delle materie prime e di mercati di sbocco dei prodotti industriali.

c. vi erano rivalità legate a problemi di successione al trono nei vari stati.

La nascita del Secondo Reich

a. indebolì la russia e portò la Germania a controllare tutta l’Europa orientale.

b. portò alla nascita al centro dell’Europa di uno stato forte e minaccioso, indebolì l’Austria e alimentò la rivalità tra Francia e Germania.

c. rafforzò gli equilibri nati col Congresso di Vienna.

Esercizio 5 · Metti a confronto l’azione di governo dei grandi capi di stato della potenze europee del tempo, completando la tabella seguente. Prepara poi oralmente una relazione nella quale evidenzi le somiglianze e le differenze che hai riscontrato.

carica rivestita e tipo di governo riforme sociali interventi in campo economico politica estera

III

Francesco Giuseppe

Alessandro I

Bismarck

Napoleone

I quattro protagonisti del Risorgimento italiano:

Vittorio Emanuele II, Giuseppe Garibaldi, Camillo Benso di Cavour e Giuseppe Mazzini

Walter Molino, Domenica del Corriere, 1 gennaio 1961

Copertina realizzata in occasione del centenario dell’unità d’Italia.

Il Risorgimento italiano

La rapida conclusione di un lungo e complesso percorso

Con la parola Risorgimento si indica generalmente quell’insieme di avvenimenti che tra il 1820 e il 1870 ha portato alla nascita dello stato italiano, nella forma di Regno d’Italia sotto la dinastia dei Savoia, attraverso la graduale e successiva annessione ai loro domini degli altri stati in cui fino ad allora il nostro paese era diviso. Per essere compreso pienamente il Risorgimento va inserito nel contesto più ampio dei rapporti tra gli stati europei nel XIX secolo. Cavour, il primo ministro del Regno di Sardegna, infatti, artefice principale dell’unificazione, fu molto abile a inserire il problema italiano all’interno del più generale contesto europeo, sfruttando le rivalità tra i vari stati in modo da ricevere l’aiuto necessario a realizzare il proprio progetto.

In un’epoca sempre più dominata dai grandi stati nazionali, anche il popolo italiano, raccogliendosi in larga misura in un suo stato unitario, poté giungere alla piena indipendenza, e questo fu un fatto storicamente necessario. Il Risorgimento tuttavia non fu soltanto gloria e luce; ci furono anche aspetti oscuri, contraddittori o problematici.

L’unità politica dell’Italia si sarebbe potuta realizzare in modo diverso da come fu fatta, dando al nuovo stato una forma federale, rispettando le peculiarità degli stati pre-unitari e prestando maggiore attenzione ai problemi delle aree più povere del Meridione. Nel corso del capitolo, questi e altri aspetti problematici verranno messi a fuoco e analizzati con la dovuta ampiezza.

AL TERMINE DEL CAPITOLO

Schede di approfondimento

• Garibaldi, l’eroe dei due mondi tra realtà storica e mito

• Una realtà poco nota: la caduta di Roma nel racconto di un ufficiale irlandese

• I plebisciti per l’annessione

• Il non expedit

• Vittorio Emanuele II: secondo re di Sardegna o primo re d’Italia?

Raccontiamo in breve

Attività e verifiche

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per non perdere il filo

Regno di Sardegna

I Savoia avevano acquisito il titolo di re di Sardegna nel 1720, dopo essere diventati sovrani di quest’isola che avevano ottenuto cedendo in cambio all’Austria la Sicilia. Fino ad allora avevano potuto fregiarsi solo del titolo di duchi, che avevano ottenuto nel 1416. Dall’acquisizione della Sardegna in poi, pur restando il Piemonte il fulcro del loro stato, il termine Regno di Sardegna verrà usato per designare complessivamente tutti i loro domini.

1 · L’Italia dopo il Congresso di Vienna

Una penisola ancora politicamente frammentata

Il Congresso di Vienna aveva confermato la situazione di frammentazione in cui l’Italia versava ormai da secoli, stabilendo il ripristino di quasi tutti gli stati esistenti prima delle invasioni napoleoniche e il ritorno sul trono dei loro legittimi sovrani. Solo le due antiche repubbliche di Genova e di Venezia non furono ricostituite, e i loro territori vennero annessi rispettivamente al Piemonte e all’Austria. Quest’ultima, con il territorio del Ducato di Milano già sotto il suo dominio e con i territori italiani dell’estinta Repubblica di Venezia, creò il Regno Lombardo-Veneto come parte integrante del suo Impero. La dinastia dei Savoia regnava su un insieme di stati che costituivano il Regno di Sardegna e che andavano dalla Savoia e dalla Contea di Nizza, ora francesi, al più sviluppato e popoloso Piemonte e alla Valle d’Aosta cui si aggiunsero, come detto, Genova e il resto della Liguria. Rinacquero invece nei loro confini il Ducato di Parma e Piacenza, quello di Modena e Reggio, lo Stato della Chiesa, il cui sovrano era il papa, il Granducato di Toscana, il Ducato di Lucca e il Regno delle Due Sicilie.

Perché l’agricoltura nell’Italia centro-meridionale era arretrata?

Un paese arretrato: scarso sviluppo dell’agricoltura… Mentre altrove in Europa la rivoluzione industriale era già cominciata, in Italia l’economia e la società erano ancora quelle di un tempo. L’agricoltura rimaneva l’occupazione della maggior parte dei suoi abitanti, e si trattava di un’agricoltura spesso arretrata. Solo in Piemonte e nel Lombardo-Veneto essa veniva praticata con tecniche più avanzate e con numerose colture destinate all’esportazione. Nell’Italia centrale, dove i poderi venivano affittati dai proprietari per lo più mediante contratti di mezzadria, rimaneva una miseria diffusa. Nel Regno delle Due Sicilie infine predominavano i latifondi di proprietà di famiglie della nobiltà o anche della borghesia le quali, anche per mancanza di capitali oltre che di spirito di iniziativa, li lasciavano in parte incolti o scarsamente utilizzati. I latifondisti, che di solito risiedevano in città, affidavano la gestione delle loro terre a dei fattori spesso senza scrupoli che cercavano di guadagnare tutto il possibile sfruttando i contadini. L’unica eccezione a questo quadro complessivo di arretratezza era costituita da alcune aree della Sicilia dove si praticava un’efficiente coltivazione di agrumi destinati all’esportazione.

… e vie di comunicazione inadeguate

Un altro motivo di arretratezza era costituito dalla scarsa qualità delle comunicazioni. Le strade che collegavano tra loro i vari stati, infatti, erano poche e mal tenute, mentre la maggior parte di quelle interne risultavano impraticabili nel periodo invernale. Per non

parlare delle ferrovie: in un’epoca in cui il treno si stava imponendo ovunque come il principale mezzo di trasporto, nella penisola italiana c’erano meno di 2.000 chilometri di strade ferrate. Sulle lunghe distanze gli spostamenti erano ancora prevalentemente via mare (ad esempio per andare da Torino a Roma conveniva imbarcarsi a Genova dirigendosi a Civitavecchia e da lì, via terra, per Roma).

Tutto ciò aveva ripercussioni sul commercio interno. Non esisteva infatti un vero e proprio mercato italiano e per i vari stati era più facile commerciare con il resto dell’Europa e, via mare, con i paesi del Mediterraneo. E ovviamente i più avvantaggiati da questo punto di vista erano quelli del nord, più vicini ai ricchi mercati della Francia e dell’Europa renana e danubiana.

La Carboneria e i moti del 1820-21 in Sicilia

Nonostante tutte queste difficoltà, il sentimento antiassolutista tipico degli anni della restaurazione si diffuse anche in Italia, e venne incarnato soprattutto dalla Carboneria. Si trattava della più importante tra le società segrete; i suoi membri appartenevano soprattutto alla borghesia e alla nobiltà, o erano ex ufficiali che avevano già servito nelle armate napoleoniche. Il loro obiettivo era di provocare moti insurrezionali che avrebbero costretto i sovrani assoluti a concedere una costituzione e delle riforme democratiche. Nel 1820, quando gran parte dell’Europa fu attraversata da moti

Perché in Italia non era sviluppato il commercio interno?

Corteo navale di papa Gregorio XVI da Civitavecchia alle Saline di Corneto (23 maggio 1835)

rivoluzionari, anche la Carboneria si diede da fare per inserirsi in questi fermenti.

Diploma di affiliato

alla carboneria

Regno delle Due Sicilie, 1820

Perché fallirono

i moti carbonari

nel Regno delle

Due Sicilie?

La prima scintilla scoppiò nel Regno delle Due Sicilie: qui il generale Guglielmo Pepe passò all’azione ispirato dagli avvenimenti accaduti in Spagna e costrinse il re Ferdinando I di Borbone a concedere una costituzione. La situazione venne però complicata dall’insorgere della Sicilia, che chiedeva di potersi rendere autonoma dal resto del regno. A quel punto Ferdinando I, notevolmente preoccupato, finse di voler accettare le richieste dei patrioti, ma poi, in segreto, sollecitò l’intervento delle potenze della Santa Alleanza. Nel marzo del 1821 l’esercito austriaco penetrò nel Regno delle Due Sicilie e in breve tempo ebbe ragione degli insorti. La costituzione fu così abrogata e Ferdinando I poté tornare sul trono come sovrano assoluto.

I moti in Piemonte

Nel frattempo in Piemonte aveva preso l’iniziativa un gruppo di nobili liberali guidati da Santorre di Santarosa (1783-1825). La novità di questo gruppo stava negli obiettivi: essi non intendevano solo convincere Vittorio Emanuele I a concedere una costituzione, ma anche sollecitarlo a muovere guerra all’Austria per cacciarla dal Nord Italia. Per questo motivo, avevano in precedenza preso contatto con Carlo Alberto di Savoia, appartenente a un ramo cadetto della dinastia, il quale era stato educato in Francia ed era noto per le sue simpatie patriottiche. C’erano stati un paio di incontri segreti, durante i quali il principe si era espresso in maniera piuttosto favorevole al progetto, pur non avendo promesso nulla di preciso.

Le indecisioni di Carlo Alberto fanno fallire i progetti dei patrioti

L’insurrezione partì da Alessandria nel marzo 1821, proprio mentre le truppe austriache entravano a Napoli, e si estese in breve tempo a tutto il regno. Vittorio Emanuele I si trovò costretto ad abdicare e consegnò il trono a suo fratello Carlo Felice. In quei giorni però costui si trovava a Modena. Nominò allora reggente Carlo Alberto fino al suo ritorno a Torino. Questi concesse la costituzione che gli insorti gli avevano chiesto e giurò di esserle fedele, ma poi non se la sentì di porsi direttamente a capo della rivolta. Questa indecisione permise a Carlo Felice di riorganizzarsi e di chiamare in aiuto gli austriaci, che nel giro di poche settimane sbaragliarono gli insorti.

Per i patrioti fu una grave sconfitta, soprattutto per il comportamento di Carlo Alberto, che considerarono un vero e proprio traditore della causa nazionale e che poi bollarono con il soprannome di “re tentenna”, alludendo al suo comportamento incerto in quei giorni cruciali.

Diversi modi di pensare l’unità d’Italia: liberali, democratici, federalisti, neoguelfi

Il fallimento dei moti del 1820-21 non aveva però spento l’ardore di chi sosteneva che il popolo italiano dovesse giungere all’unità nazionale. Negli anni successivi attorno a questo tema si svilupparono lunghi e appassionati dibattiti: il problema fondamentale non era tanto se l’unità d’Italia andasse fatta o meno, bensì in quale modo la si dovesse fare.

A tale proposito, esistevano opinioni e correnti contrastanti: – I liberali. Fu una corrente che si sviluppò in Piemonte e in Lombardia e che ebbe tra i suoi principali esponenti Cesare Balbo, lo scrittore Massimo D’Azeglio, e il futuro primo ministro piemontese Camillo Benso, conte di Cavour. Essi volevano l’unità e l’indipendenza dell’Italia attraverso un’azione politica e militare condotta dalla dinastia dei Savoia, che avrebbe poi dovuto mettersi a capo del nuovo regno che sarebbe nato. Come vedremo, sarà questa corrente a imporsi e ad assumere la guida del processo di unificazione nazionale.

– I democratici. Facevano capo a Giuseppe Mazzini (1805-1872), il quale sosteneva la necessità di creare un’Italia unita e repubblicana attraverso continue insurrezioni che avrebbero dovuto avere il popolo come protagonista. La sua era una proposta piuttosto avanzata: la repubblica a quel tempo era una forma istituzionale praticamente inesistente in Europa e sicuramente i vari sovrani italiani non sarebbero stati disposti a farsi mettere da parte con facilità. Fortissimi erano inoltre i suoi richiami alla rivoluzione francese che, dopo l’abbattimento della monarchia, non aveva certo preso

Perché fallirono i moti piemontesi del 1821?

Il primo incontro fra Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi a Marsiglia nell’estate del 1833

Incisione del XIX secolo, Museo nazionale del Risorgimento italiano, Torino

una direzione moderata. Fu per questo che Mazzini e i suoi seguaci vennero piuttosto isolati e lasciati ai margini dell’azione politica.

– I federalisti. Più che una vera organizzazione politica questa fu una corrente di pensiero che non riuscì mai a trasformarsi in una forza politicamente organizzata. I federalisti erano convinti che, essendo i vari stati italiani diversissimi per economia, politica, lingua e cultura, si dovesse puntare non tanto a unificarli in un solo stato nazionale quanto piuttosto a raccoglierli in una federazione o confederazione, allo scopo di far coesistere al meglio queste differenze. Tra i federalisti la personalità di maggior rilievo era il lombardo Carlo Cattaneo.

– I neoguelfi. Ebbero come principale esponente il sacerdote piemontese Vincenzo Gioberti, che espose le sue idee in un saggio di notevole successo, Il primato morale e civile degli italiani. I neoguelfi erano dei cattolici che condividevano il progetto federalista, ma

miravano a fare dell’Italia una confederazione di stati presieduta dal papa, nella quale ogni stato avrebbe mantenuto il suo sovrano legittimo. Questo progetto, a loro avviso, aveva maggiori possibilità di riuscita in quanto avrebbe coinvolto direttamente la Chiesa nel processo di unificazione nazionale e avrebbe ottenuto il favore della stragrande maggioranza del popolo italiano che era di sentimenti cattolici. Va detto che per un certo periodo questa proposta sembrò riscuotere un notevole successo; per potersi realizzare però necessitava di una condizione: che il papa fosse d’accordo. Ma, come vedremo, questa condizione non si realizzò e il progetto neoguelfo fallì.

I pensatori antirisorgimentali

Non tutti gli intellettuali erano favorevoli all’unificazione italiana. Nel dibattito su questo tema emersero anche le idee opposte di chi giudicava molto negativamente il processo risorgimentale. Si trattava di un gruppo molto ristretto di pensatori, in gran parte di origine aristocratica, che esprimevano una visione antiliberale, tradizionalistica e legittimistica. Fra questi ricordiamo il napoletano Principe di Canosa, il conte Monaldo Leopardi, padre del celebre poeta, Clemente Solaro Della Margarita, già primo ministro del Regno di Sardegna ai tempi di Carlo Alberto, e poi da questi licenziato. Da ultimo, va ricordata la rivista La Civiltà Cattolica che in quegli anni assunse una posizione fortemente critica nei confronti delle idee risorgimentali e liberali e difese con grande decisione le posizioni del papa.

2 · Il 1848 in Italia

L’elezione di Pio IX suscita molte speranze nei patrioti italiani

Anche l’Italia nel 1848 fu scossa dalla stessa ventata rivoluzionaria che animò il resto d’Europa. Già negli anni precedenti la maggior parte dei sovrani aveva concesso delle riforme volte a migliorare la qualità della vita dei sudditi e a moderare l’assolutismo introducendo alcune limitate libertà. Particolare entusiasmo aveva inoltre suscitato l’elezione al soglio pontificio del cardinale Giovanni Mastai Ferretti, divenuto papa col nome di Pio IX (1846-1878). Egli, che sembrava sensibile alle istanze dei liberali, cominciò a introdurre una serie di interessanti riforme politiche all’interno dello Stato della Chiesa, suscitando molte speranze nei patrioti. Si fece anche promotore di un progetto di unione doganale tra i vari stati italiani che avrebbe dovuto portare a una loro integrazione economica, primo passo per una successiva unione politica in senso confederale. Il progetto ottenne l’adesione, oltre che dello Stato Ponti-

Perché le idee di Mazzini non ebbero grande successo?

Perché inizialmente le idee di Gioberti ebbero invece successo?

Federazione e confederazione

Per Federazione (dal latino foedus, “patto”, “alleanza”) si intende uno stato suddiviso in diversi territori con organi di governo propri e poteri di decisione su materie di interesse territoriale quali l’istruzione, la sanità, l’urbanistica. Ad essi si affiancano un governo e un parlamento federali cui competono decisioni in materie di interesse comune (politica estera, commercio con l’estero, difesa).

Confederazione è invece un’associazione di stati sovrani che, in base a un trattato sempre revocabile, affidano compiti, stabiliti di volta in volta, a un governo che sta sopra di loro e che viene chiamato confederale. Sono federazioni il Belgio, la Germania, o gli Stati Uniti mentre non esistono significativi esempi di confederazioni a parte forse l’Unione Europea. La stessa Svizzera, nata e tuttora denominata come Confederazione, è in realtà anch’essa una federazione.

Perché Pio IX suscitò molto entusiasmo tra i patrioti italiani?

ficio, anche del Granducato di Toscana e del Regno di Sardegna, ma venne poi abbandonato in seguito al precipitare degli eventi nei primi mesi del 1848.

Una nuova insurrezione in Sicilia

Il 12 gennaio 1848 scoppiò a Palermo una vasta ribellione che si estese ben presto anche a Napoli. Il re Ferdinando II, nel tentativo di placarla e non potendo contare sull’aiuto dell’Austria alle prese a sua volta con i disordini che dilagavano nei suoi territori, concesse una costituzione. L’esempio fu contagioso: per prevenire lo scoppio di analoghe rivolte nei loro domini anche gli altri principali sovrani italiani concessero delle costituzioni: prima il Granduca di Toscana, poi Carlo Alberto, re di Sardegna (la sua costituzione fu nota come “Statuto Albertino”), infine il papa. In tal modo si lasciavano definitivamente alle spalle l’assolutismo.

Le “Cinque Giornate di Milano”

Frattanto, approfittando delle difficoltà che l’Austria stava incontrando nelle sue province d’Oltralpe, anche i patrioti del Lombardo-Veneto scesero in campo. Il 17 marzo insorsero a Venezia dove, liberati dal carcere i loro due leader Niccolò Tommaseo e Daniele Manin, proclamarono la repubblica. Il giorno successivo fu la volta di Milano. Qui i liberali formarono un consiglio di guerra sotto la guida di Carlo Cattaneo, vennero erette barricate per le strade e la popolazione ingaggiò battaglia con gli austriaci. Al termine di cinque giorni di furiosi combattimenti, poi passati alla storia col nome di “Cinque Giornate di Milano”, l’esercito austriaco comandato dal feldmaresciallo Radetzky lasciò la città ritirandosi nel Quadrilatero, un sistema difensivo che aveva come vertici le fortezze di Mantova, Peschiera, Verona e Legnago.

La Prima guerra d’indipendenza

Carlo Alberto, che era succeduto al defunto Vittorio Emanuele I, si era ormai lasciato alle spalle le esitazioni di ventisette anni prima ed era pronto a prendere su di sé la causa italiana. Approfittando del momento, decise dunque di dichiarare guerra all’Austria. A lui si unirono sia truppe regolari sia corpi di volontari provenienti dalla Toscana, da Napoli e dallo Stato Pontificio. Riguardo alle truppe pontificie va detto che il papa aveva ordinato loro di limitarsi a presidiare il confine dello stato, ma il generale Durando, che le comandava, trasgredì gli ordini e, varcato il Po, si unì ai combattimenti. I piemontesi e i loro alleati conseguirono una serie di vittorie iniziali, ma successivamente la situazione cambiò: l’Austria, che aveva nel frattempo represso i moti nei suoi territori d’oltralpe, era ora in grado di opporre nelle sue province italiane una più efficace resistenza; inoltre il re di Napoli decise di richiamare indietro le pro-

prie truppe. In pochi mesi l’esercito austriaco operò una brillante controffensiva e sconfisse gli avversari a Custoza (luglio 1848). A questo punto Carlo Alberto si vide e costretto a sospendere le operazioni militari e a firmare un armistizio.

I motivi del ritiro del papa e degli altri sovrani

La Prima guerra d’indipendenza (così venne chiamata successivamente dagli storici) era finita in malo modo, ma il peggio doveva ancora venire. Quando in aprile Pio IX aveva ritirato le sue truppe,

Combattimento a palazzo Litta durante le cinque giornate di Milano Olio su tela di Baldassare Verazzi (1849 circa), Museo del Risorgimento, Milano

Perché le sorti della guerra dopo una prima fase favorevole ai piemontesi cambiarono?

Perché il papa

e gli altri sovrani

italiani si ritirarono dalla guerra?

non lo aveva fatto perché ostile alla causa italiana, ma perché si era reso conto che, in quanto capo della Chiesa, non poteva continuare a portare guerra all’imperatore d’Austria, il più importante tra i sovrani cattolici, tanto più che dall’Austria erano giunte minacce di uno scisma dei cattolici austriaci nel caso il papa avesse continuato ad appoggiare il Regno di Sardegna. Inoltre, essendo divenuto sempre più chiaro che Casa Savoia intendeva costruire la nuova Italia attorno a sé, anche gli altri sovrani italiani avevano cominciato a diffidare della politica del Piemonte.

Nasce la Repubblica Romana

A questo punto furono i democratici a prendere l’iniziativa: organizzarono una insurrezione a Roma, uccisero il capo del governo Pellegrino Rossi e si impadronirono della città. Pio IX, temendo per la sua vita, riuscì a fuggire e si rifugiò a Gaeta, nel territorio di Ferdinando II di Borbone. A Roma venne proclamata la repubblica a capo della quale si pose Giuseppe Mazzini con due suoi stretti collaboratori (triumvirato). Con la Repubblica Romana, largamente ispirata alle idee giacobine emerse durante la rivoluzione francese, i democratici riuscirono per la prima e unica volta a dare attuazione al loro progetto politico e si trattò indubbiamente di uno tra gli episodi più gravi e violenti dell’intero Risorgimento. Nei pochi mesi in cui furono al potere, essi vararono pesanti leggi antireligiose e lasciarono libera la folla di compiere atti vandalici contro le chiese e le proprietà del clero.

La guerra riprende, ma i piemontesi sono di nuovo sconfitti Malgrado l’armistizio tra il Regno di Sardegna e l’Austria, la situazione sul campo rimaneva drammatica. A Venezia la repubblica guidata da Daniele Manin resisteva valorosamente all’assedio austriaco mentre anche in Toscana il granduca aveva dovuto cedere il potere a un triumvirato. A questo punto Carlo Alberto si lasciò convincere dal suo governo a riprendere le ostilità. Questa ripresa durò però molto poco. Il 23 marzo 1849, l’esercito piemontese venne rovinosamente e definitivamente sconfitto dagli austriaci a Novara. La Prima guerra d’indipendenza si chiuse così con un fallimento totale per il re sabaudo che, sperando di evitare al suo regno delle condizioni di pace troppo dure, decise di abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II (1820-1878).

La sconfitta della Repubblica Romana e di Venezia

A questo punto le uniche due città ancora in mano agli insorti erano Roma e Venezia. La Francia di Napoleone III, che era in buoni rapporti con la Chiesa e quindi non poteva lasciare il papa al suo destino, scese in guerra contro la Repubblica Romana. Gli insorti, comandati da Giuseppe Garibaldi, da poco arrivato in città, re-

sistettero valorosamente all’attacco delle truppe francesi, ma alla fine furono sconfitti. Pochi giorni dopo anche Venezia fu costretta alla resa e venne occupata dalle truppe austriache. Come nel resto d’Europa, le rivoluzioni del 1848 si erano concluse anche in Italia con un nulla di fatto. Tuttavia, l’ampiezza degli avvenimenti era stata tale che non si poteva fare finta che nulla fosse avvenuto: la strada dell’unificazione era quindi ormai aperta, e sarebbe toccato nuovamente al Regno di Sardegna portarla a compimento.

Scontro tra truppe piemontesi e austriache nella battaglia di Novara Civica Raccolta Stampe Bertarelli, Castello Sforzesco, Milano

Perché Cavour fece realizzare grandi opere pubbliche?

3 · Cavour e la Seconda guerra d’indipendenza

Due nuove figure alla ribalta nel Regno di Sardegna: Vittorio Emanuele II e Cavour

Benché la situazione gli consentisse di farlo, il nuovo re Vittorio Emanuele II non abrogò lo Statuto concesso da suo padre. Ciò gli assicurò la simpatia dei patrioti di tutta la Penisola, che in larghissima maggioranza cominciarono a guardare con speranza al regno sabaudo, convinti che l’unificazione nazionale non sarebbe potuta venire che da lì.

La vera svolta politica per il Regno fu però l’entrata in scena di Camillo Benso, conte di Cavour (1810-61) che nel 1850 divenne ministro dell’agricoltura e due anni dopo fu nominato capo del governo. Egli era di idee liberali, ed era dotato di una grandissima abilità politica: avendo viaggiato in lungo e in largo per l’Europa, si era reso conto delle condizioni di arretratezza in cui versava il Piemonte. Decise dunque che, prima ancora di fare guerra agli austriaci, era necessario che il suo stato si modernizzasse, seguendo il più possibile da vicino il modello inglese, di cui era un grande ammiratore. In poco tempo avviò dunque un vasto programma di opere pubbliche: costruì canali per l’irrigazione, meccanizzò l’agricoltura e favorì lo sviluppo delle ferrovie, per costruire le quali in Piemonte e in Liguria nacquero le prime moderne ferriere e industrie meccaniche. Dopo il 1858 si impegnò anche nella realizzazione del traforo del Frejus, un tunnel che collegava la Francia e l’Italia. In tal modo, non solo rese più avanzato il regno, ma fece nascere una nuova classe borghese intraprendente e dinamica, che avrebbe avuto un ruolo importante nella gestione del futuro stato italiano.

Il Piemonte partecipa alla Guerra di Crimea

Cavour dimostrò la sua genialità anche in politica estera: egli comprese infatti che la causa italiana avrebbe avuto speranze di successo solo se fosse stata sostenuta da qualche grande potenza europea. Il Piemonte infatti non era abbastanza forte per poter affrontare da solo l’Impero Austriaco.

Perciò quando tra Francia e Gran Bretagna da un lato e Russia dall’altro scoppiò la guerra poi detta di Crimea, Cavour decise di cogliere al volo l’occasione: inviò un piccolo contingente di truppe a combattere a fianco di Francia e Gran Bretagna. In Crimea i piemontesi parteciparono all’assedio della fortezza russa di Sebastopoli, atto finale del conflitto, e si distinsero particolarmente per il loro coraggio. Questo permise al primo ministro sabaudo di essere invitato alla conferenza di pace che si tenne a Parigi nel 1856. In questa sede, egli poté parlare per la prima volta della situazione italiana, alla quale venne dedicata addirittura un’intera seduta dei la-

vori. Non ottenne nessun risultato immediato, ma le grandi potenze, e soprattutto Napoleone III, gli fecero capire che approvavano e desideravano sostenere la nascita di uno stato italiano dall’alto, sotto la guida dei Savoia.

Cavour e Napoleone III firmano gli accordi di Plombières

Nel luglio 1858 Cavour e Napoleone III decisero che era venuto il momento dell’azione, e si incontrarono segretamente a Plombières, in Francia. Qui vennero stipulati degli accordi molto importanti per il futuro dell’Italia. Innanzitutto si stabilì che, in caso di attacco austriaco al Piemonte, la Francia sarebbe corsa in suo aiuto. In caso di vittoria poi, l’Italia settentrionale a nord del Po, insieme ai due ducati di Parma e Piacenza e di Modena e Reggio sarebbe confluita in un unico regno; un secondo regno sarebbe nato invece in Italia centrale dalla fusione tra Granducato di Toscana e di parte dello Stato Pontificio (la parte restante con Roma e dintorni sarebbe rimasta al papa) mentre il Regno delle Due Sicilie sarebbe rimasto intatto nei suoi confini, ma tolto ai Borboni e affidato a Luciano Murat, figlio di Gioacchino e cugino di Napoleone III. In cambio dell’aiuto venutogli da Napoleone III il Regno di Sardegna avrebbe dovuto cedere alla Francia il Ducato di Savoia e la Contea di Nizza, i due suoi dominî al di là delle Alpi, il primo totalmente di lingua francese e il secondo mistilingue francese e italiano. Tutto questo fa capire come l’appoggio di Napoleone III alla causa italiana non fosse (né avrebbe potuto) essere disinteressato. Egli sosteneva il

Perché Cavour decise di inviare truppe piemontesi a combattere nella Guerra di Crimea? Vittorio Emanuele II e Camillo Benso, conte di Cavour, in una cartolina d’epoca

Perché Napoleone III si decise a sostenere il Regno di Sardegna nella sua lotta contro l’Austria?

Piemonte nel suo tentativo di cacciare l’Austria dall’Italia, ma solo perché sognava che la Francia ne prendesse il posto nel ruolo di potenza dominante negli affari italiani. In questa prospettiva un’Italia comunque divisa in tre stati era per lui preferibile. Inoltre dei guadagni territoriali come quelli di Nizza e della Savoia gli erano in ogni caso necessari per giustificare il sangue francese che sarebbe stato versato nell’imminente guerra.

La Seconda guerra d’indipendenza

La battaglia di Magenta

Olio su tela di Gerolamo Induno (1861), Museo del Risorgimento, Milano

Napoleone III aveva inserito la clausola difensiva all’interno degli accordi perché non voleva apparire davanti all’intera Europa come l’istigatore di un attacco all’Austria. Cavour aveva dunque il problema di provocare il nemico, in modo da costringerlo a dichiarare guerra; a tale scopo, inviò un ingente numero di truppe sul confine a compiere manovre di esercitazione. Nel frattempo nella Penisola si era diffuso un enorme entusiasmo: per combattere contro l’Austria più di 20.000 volontari stavano affluendo in Piemonte da ogni parte d’Italia. Una parte di essi fu organizzata nel famoso corpo dei Cacciatori delle Alpi da Giuseppe Garibaldi (1807-1882), un rivoluzionario di idee mazziniane che in precedenza aveva partecipato valorosamente ad alcune guerre per l'indipendenza combattute in vari stati dell'America del Sud. L’Impero Asburgico cadde nella trappola

e lanciò un ultimatum al sovrano sabaudo, intimandogli di sospendere immediatamente le manovre. Ovviamente Vittorio Emanuele non accettò e nell’aprile 1859 le armate austriache varcarono il confine, entrando in territorio piemontese: la Seconda guerra d’indipendenza era cominciata.

I successi iniziali dei franco-piemontesi e l’improvvisa uscita di scena di Napoleone III

Le operazioni militari andarono subito per il meglio: dopo la vittoriosa battaglia di Magenta i franco-piemontesi occuparono Milano e nel mese di giugno, nelle due battaglie di Solferino e di San Martino, sbaragliarono l’esercito austriaco respingendolo sempre più ad est. Nel frattempo le popolazioni della Toscana e dei Ducati, eccitate per l’andamento della guerra e guidate da esponenti politici filo-piemontesi, erano insorte e avevano costretto alla fuga i loro sovrani, chiedendo a gran voce di essere annesse al Regno di Sardegna. Era decisamente più di quanto Napoleone III si aspettasse: egli temette che l’iniziativa italiana sarebbe potuta sfuggire al suo controllo e firmò così con l’Austria l’Armistizio di Villafranca, proprio mentre i Cacciatori delle Alpi stavano avanzando trionfalmente verso il Veneto.

La Lombardia, la Toscana e i Ducati dell’Italia centrale vengono annessi al Piemonte

In Piemonte le reazioni furono furibonde: Cavour in un primo momento rassegnò le dimissioni in segno di protesta, ma fu poi convinto da Vittorio Emanuele II a tornare sui suoi passi. Nemmeno il re era contento della situazione, ma non c’era altra soluzione se non quella di adeguarsi alla volontà del più potente alleato.

Al Regno di Sardegna andò comunque la Lombardia, mentre Nizza e la Savoia furono regolarmente consegnate alla Francia. Rimaneva ancora incerta la situazione in Toscana e nei due Ducati di Parma e Piacenza, e di Modena e Reggio ma attraverso dei plebisciti anche questi tre territori aderirono al Regno di Sardegna. I piani di Cavour si erano realizzati solo in parte; in particolare la mancata annessione del Veneto costituiva un grave insuccesso. Per il momento però lo statista piemontese si rassegnò e non volle andare oltre. Riteneva infatti che il Regno delle Due Sicilie fosse piuttosto arretrato e temeva perciò che una sua eventuale annessione al Piemonte avrebbe avuto in quel momento conseguenze negative sul piano economico. Apparve comunque chiaro, con questa azione, che il progetto liberale di unificazione italiana guidato dal Piemonte era quello che si andava affermando a danno del progetto neoguelfo e di quello democratico mazziniano.

Vittorio Emanuele II non era però soddisfatto di come si era conclusa la guerra e meditava altre azioni.

Perché Cavour organizzò manovre militari lungo il confine?

Perché Napoleone III firmò l’armistizio con l’Austria?

Perché

la Gran Bretagna appoggiò l’azione militare di Garibaldi?

4 · Garibaldi e la spedizione dei Mille

L’iniziativa di Garibaldi in Meridione incontra il favore del re, ma non quello di Cavour

Ferdinando II, re delle Due Sicilie, era morto nel 1859; gli era succeduto suo figlio, il ventitreenne Francesco II, inesperto e privo del forte carattere del padre. Questo accentuò la crisi in cui da tempo si trovava il regno. A ciò va inoltre aggiunto il fatto che la Sicilia, decisa a rendersi indipendente da Napoli, aveva approfittato del cambio del sovrano per fomentare nuovi disordini. Era il momento giusto per organizzare una spedizione militare al Sud per conquistarlo e annetterlo al Regno di Sardegna. Questa iniziativa venne presa da Garibaldi, il quale, ispirato dalle idee di Mazzini, era convinto che il processo di unificazione italiana andasse completato con i territori meridionali. Il re Vittorio Emanuele II lo incoraggiò, anche se non poté appoggiarlo apertamente per non contravvenire alle indicazioni di Napoleone III. L’impresa incontrò invece il pieno favore della Gran Bretagna, che pensava così di controbilanciare il potere della Francia in Europa. Per quanto riguarda Cavour, abbiamo già visto come egli fosse del tutto contrario ad una annessione del Regno delle Due Sicilie al nuovo stato che andava formandosi, tuttavia, non appena seppe dell’appoggio inglese al progetto, decise di non opporsi. Ordinò anzi di far seguire la spedizione di Garibaldi da una nave militare della Marina sarda, così da aiutarlo in caso di difficoltà. Se invece il condottiero fosse stato sconfitto, il primo ministro era pronto per non compromettersi a disconoscere ufficialmente l’impresa. Il 6 maggio 1860 Garibaldi, con un migliaio di volontari accorsi da ogni parte d’Italia, salpò con due navi dal porto di Quarto, presso Genova. L’11 maggio i “Mille” sbarcarono a Marsala, in Sicilia. Due vascelli da guerra britannici si erano messi in mezzo tra le navi di Garibaldi e i cannoni borbonici, impedendo così alla flotta di Francesco II di sparare.

Le ragioni del rapido successo di Garibaldi

Nonostante lo scarso numero di uomini a sua disposizione, per Garibaldi la conquista della Sicilia non si rivelò difficile: gli abitanti della regione non vedevano di buon occhio il governo borbonico, ragion per cui si schierarono dalla parte degli assalitori. Inoltre molti ufficiali meridionali, una volta compreso che i garibaldini avevano il sostegno della Gran Bretagna, si scoraggiarono e opposero una fiacca resistenza. Occorre anche dire che Garibaldi era un abile stratega e un condottiero valoroso, che sapeva infondere entusiasmo nelle truppe. Man mano poi che la campagna militare andava avanti, veniva raggiunto da volontari provenienti da ogni parte d’Italia, desiderosi di partecipare a un’impresa che sarebbe passata alla storia.

I garibaldini conquistarono quindi Palermo e Messina, passarono lo Stretto e, dopo aver vinto il grosso delle truppe borboniche nella battaglia del Volturno (1-2 ottobre 1860), giunsero a Napoli senza incontrare ulteriori resistenze. Francesco II si rifugiò allora con la moglie nella fortezza di Gaeta e qui, con quello che restava del suo esercito, oppose un’ultima resistenza ai piemontesi. Venne però costretto alla resa definitiva nel febbraio 1861 e dovette prendere la via dell’esilio. Al confine nord del regno l’ultimo baluardo delle forze borboniche, la fortezza di Civitella del Tronto (Teramo), resistette ancora fino al 20 marzo.

Perché la spedizione di Garibaldi ebbe un facile successo?

Giuseppe Garibaldi aiuta Vittorio Emanuele II a indossare lo stivale dell’Italia Vignetta di John Tenniel tratta dalla rivista satirica inglese Punch, 17 novembre 1860

Perché Cavour invia l’esercito piemontese incontro a Garibaldi?

Garibaldi consegna a Vittorio Emanuele II i territori conquistati

Garibaldi era così divenuto padrone del Regno delle Due Sicilie. La situazione rischiava però di complicarsi: i continui successi garibaldini avevano allarmato Cavour, il quale temeva che il generale, dopo aver assunto il controllo dell’intero Meridione, potesse marciare alla conquista di Roma, per farne la capitale di un nuovo stato indipendente dal Piemonte. Mazzini, che come si sa non aveva affatto simpatia per il progetto politico piemontese, era giunto in Sicilia proprio per convincere il condottiero a giocare questa carta. Cavour decise allora di intervenire inviando al Sud l’esercito piemontese che nella sua marcia di avvicinamento, invase lo Stato Pontificio e occupò le Marche e l’Umbria, dopo aver sconfitto l’esercito del papa nella battaglia di Castelfidardo.

Alla fine Garibaldi decise di interrompere la sua marcia verso nord e di consegnare al Piemonte i territori che aveva conquistato: il 26 ottobre 1860 si incontrò con Vittorio Emanuele II a Teano, vicino a Capua, e salutandolo “Re d’Italia” mise il Regno delle Due Sicilie nelle sue mani.

Nasce il Regno d’Italia, ma rimangono irrisolti i rapporti con la Chiesa

I territori del Sud furono annessi al Regno di Sardegna mediante plebisciti, esattamente come era avvenuto nel caso della Toscana e dei Ducati. Il 17 marzo 1861, il parlamento nazionale appena costituito e radunato a Torino dichiarò solennemente Vittorio Emanuele II di Savoia re d’Italia.

Il Regno d’Italia era ormai ufficialmente nato, anche se mancavano all’appello alcuni territori: il Veneto, il Trentino e il Friuli, Trieste e l’Istria, rimasti sotto la sovranità dell’Impero Austriaco, e il Lazio (tranne l’attuale provincia di Rieti), che faceva ancora parte dello Stato Pontificio.

Rimaneva così aperto il problema dei rapporti con la Chiesa: i liberali avrebbero voluto fare di Roma la capitale d’Italia, per evidenti ragioni di prestigio storico. Tale progetto si scontrava però con l’ostilità di Pio IX: il pontefice non era contrario per principio alle conquiste del Risorgimento, ma non aveva approvato la violenza con cui esse erano state portate avanti, specialmente nel proprio stato. Gli eventi della Repubblica Romana pesavano ancora molto su di lui; inoltre egli percepiva i sentimenti anticattolici di una parte degli uomini politici che avevano realizzato l’unificazione e che aderivano alla Massoneria e ricordava come Cavour, quando era a capo del governo del Regno di Sardegna, avesse promosso leggi contro la Chiesa con la chiusura di conventi e monasteri e lo scioglimento di ordini religiosi per incamerarne i beni. Per questo era convinto che con i governanti liberali del nuovo Regno d’Italia non sarebbe stato possibile

Vittorio Emanuele II incontra Giuseppe Garibaldi a Teano

Affresco di Pietro Aldi (1886), Palazzo Pubblico, Siena

raggiungere un accordo pacifico sulle sorti della sua città. In effetti il progetto politico dei Savoia era chiaro: Roma sarebbe divenuta capitale d’Italia con o senza il consenso del pontefice. La cosiddetta “questione romana” sarebbe divenuta presto uno dei punti caldi della politica del regno nei suoi primi anni.

I limiti del processo di unificazione nazionale

Il Risorgimento ebbe il merito indubbio di unificare un insieme eterogeneo di sette stati complessivamente deboli, che da soli non avrebbero potuto resistere a lungo in un’Europa che stava lentamente mutando. Il modo in cui però si giunse all’unità politica dell’Italia e la forma che essa assunse furono all’origine di problemi che ancora oggi pesano sul nostro paese.

In primo luogo l’unità politica dell’Italia non fu l’esito di un movimento di popolo, se non nelle sue primissime fasi, bensì dell’iniziativa di una ristretta cerchia di persone, la borghesia “laica” che era tanto influente quanto esigua. Il popolo non vi fu coinvolto salvo che in plebisciti organizzati in modi tali da garantire a priori la vittoria dei “sì” sui “no”.

In secondo luogo il Regno d’Italia nacque non come nuovo stato bensì come puro e semplice ampliamento dello stato sabaudo. L’eventualità di una nuova carta costituzionale per il nascente stato venne infatti del tutto esclusa e lo Statuto Albertino fu esteso a tutto

Perché il papa non era favorevole a fare di Roma la capitale d’Italia?

1850

Il cammino verso l’unità d’Italia

il Regno. La legislazione vigente negli stati annessi venne abrogata e sostituita con quella piemontese anche là dove questa era meno progredita (si pensi ad esempio che nel Granducato di Toscana era stata abolita la pena di morte che la legislazione piemontese reintrodusse). Venne infine attuata una forte politica di centralizzazione: ovunque i sindaci e i vari funzionari politici venivano nominati da Torino e spesso si trovavano a esercitare la loro autorità su una popolazione che era loro completamente estranea per linguaggio, cultura e mentalità.

In terzo luogo il processo di unificazione dell’Italia fu realizzato da esponenti politici in gran parte laici e ostili alla Chiesa, che ignorarono la tradizione cattolica che era da sempre il tratto comune più rilevante del popolo italiano. Essi cercarono in tutti i modi di indebolire o limitare il ruolo della Chiesa nella società italiana (ad esempio con la chiusura di congregazioni religiose e la confisca di beni ecclesiastici, accompagnate dall’arresto di vescovi e sacerdoti). Il più significativo esempio di questa condotta politica fu, come vedremo, la risoluzione della questione romana attraverso l’uso della forza e non della trattativa diplomatica. Tutto ciò accentuò il dissidio tra la Santa Sede e Regno d’Italia e, soprattutto, rese ostile gran parte del popolo cattolico nei confronti del nuovo stato e delle sue istituzioni.

Roma
Milano
Genova
Napoli
Modena Firenze Venezia Torino
Palermo
Nizza
Stato della Chiesa
Granducato di Toscana
Ducato di Parma
Ducato di Modena
Regno Lombardo-Veneto
Regno di Sardegna
Regno delle Due Sicilie
Roma
Milano
Genova
Modena Firenze Venezia Torino
Palermo
Napoli
Regno delle Due Sicilie
Regno di Sardegna
Stato della Chiesa
Marzo 1860

Il Regno d’Italia al momento della sua proclamazione il 17 marzo 1861

Il Regno d’Italia dopo la Terza guerra d’indipendenza e la presa di Roma (20 settembre 1870)

Un'unità più formale che concreta

Per tutte queste ragioni, l’unità del Regno d’Italia si dimostrò ben presto più formale che concreta: emerse una distanza tra il paese “legale” (la monarchia, il governo, l’amministrazione statale) e il paese “reale” (la società e soprattutto la massa di persone, appartenenti alle classi sociali più basse, per le quali l’unificazione del paese non aveva significato quasi nulla). Questa distanza era accentuata anche dal fatto che solo poche persone (circa il 2% della popolazione) potevano partecipare al voto. Solo infatti coloro che possedevano un reddito abbastanza elevato potevano godere di tale diritto. Non potendo nemmeno recarsi a votare, la stragrande maggioranza della popolazione finiva per sentirsi estranea alle vicende del nuovo Regno. Questa lontananza delle masse dalle istituzioni è un problema che, nonostante il trascorrere dei decenni e i cambiamenti avvenuti a livello sociale e culturale, continua, a detta di molti, a sussistere ancora oggi.

Perché si parla di distanza tra paese legale e paese reale?

Roma
Milano
Genova
Modena Firenze Venezia
Torino
Palermo
Napoli
Stato della Chiesa
Roma
Milano
Firenze
Torino
Palermo
Napoli Venezia
Stato della Chiesa Acquisito nel 1870 Regno d’Italia
Veneto Acquisito nel 1866

Perché fu introdotta la tassa sul macinato?

5 · Il completamento dell’unità nazionale: la Terza guerra d’indipendenza e la presa di Roma

La tormentata situazione del Sud: le tasse…

Le guerre d’indipendenza appena concluse avevano aumentato le spese dello stato e lasciato dietro di sé una lunga scia di debiti, per colmare i quali si decise innanzitutto di aumentare le tasse; questa misura provocò il malcontento soprattutto della popolazione del Meridione, che sotto i Borbone non era abituata a tributi così alti. A scatenare le rivolte fu in particolare la “tassa sul macinato”, introdotta nel 1869. Essa prevedeva che si dovesse pagare una certa somma di denaro, a seconda della quantità dei cereali macinati che si calcolava mediante un contatore meccanico applicato ad ogni singolo mulino. Tale provvedimento causò l’aumento del prezzo del grano e quindi del pane, che in quell’epoca era l’alimento principale soprattutto dei ceti popolari. Inoltre le promesse ai contadini di distribuire loro le terre non furono mantenute: i grandi latifondisti mantennero i loro possedimenti e tutta la loro influenza politica.

… e il brigantaggio

Perché scoppiò il fenomeno del brigantaggio?

Perché si diffuse, soprattutto al Sud, l’emigrazione?

Tra il 1861 e il 1865, il Sud Italia fu scosso dal fenomeno del cosiddetto “brigantaggio”. Così venne chiamata ufficialmente dai primi governi italiani del tempo una diffusa rivolta popolare, capeggiata spesso dalla nobiltà locale ostile ai Savoia. A provocarla fu innanzitutto l’immediata introduzione in quei territori della leva militare obbligatoria, che nel vecchio Regno delle Due Sicilie esisteva, ma in forma molto attenuata. Il servizio militare, che allora durava da tre fino anche a sette anni, pesava duramente in particolare sulla vita delle famiglie contadine per cui molti giovani vi si ribellavano e, anziché arruolarsi, fuggivano sulle montagne per unirsi in bande di “briganti”. Questi, che spesso sostenevano e invocavano il ritorno dei Borboni, godevano dell’appoggio della popolazione, ragion per cui riportare l’ordine fu particolarmente difficile. Al culmine della rivolta infatti queste bande contavano decine di migliaia di persone: si trattava in pratica di una vera e propria guerriglia, per reprimere la quale il governo piemontese si trovò costretto a proclamare lo stato d’assedio e ad inviare sul posto più di 120.000 soldati. A ordine ripristinato, dopo cinque anni di duri scontri, si contarono circa 20.000 morti.

Da queste lotte il Mezzogiorno uscì ulteriormente impoverito e il divario economico e sociale con il Nord non solo non diminuì, ma anzi aumentò. Molti contadini meridionali, impossibilitati a migliorare le proprie condizioni, scelsero allora la via dell’emigrazione anche verso terre lontane, come l’America e, molto più tardi, l’Australia.

Il fallito tentativo di conquistare Roma e la Convenzione di settembre

In politica estera il governo del Regno adottò una linea aggressiva, nel tentativo di conquistare quei territori che ancora mancavano per completare l’unità nazionale. Per prima cosa si tentò di prendere Roma: il nuovo primo ministro Urbano Rattazzi (Cavour era morto improvvisamente il 6 giugno 1861, pochi mesi dopo la proclamazione del Regno d’Italia) pensò di poter ripetere la strategia della spedizione dei Mille e nel 1862 incaricò ufficiosamente Garibaldi di marciare sulla città anche se, ufficialmente, si sarebbe dovuto far credere che il generale stesse agendo di sua iniziativa. Le truppe di Napoleone III presidiavano infatti Roma per proteggere il papa, e il governo italiano non poteva rischiare di inimicarsi l’imperatore francese.

Napoleone III però non si lasciò ingannare. Intimò a Rattazzi di richiamare indietro Garibaldi, minacciando altrimenti di dichiarare guerra all’Italia. Rattazzi non solo fermò Garibaldi, ma si vide anche costretto a firmare con Napoleone III, la “Convenzione di settembre” (1864) un patto con il quale si stabiliva che il Regno d’Italia si sarebbe impegnato a non aggredire più lo Stato Pontificio, e in cambio la Francia avrebbe ritirato le sue truppe da Roma. A conferma di ciò, venne spostata la capitale del Regno da Torino a Firenze, quasi a voler dimostrare l’intenzione del governo italiano di rinunciare definitivamente a Roma. In realtà questo non era vero: nell’intenzione italiana Firenze rappresentava solo una tappa di avvicinamento a Roma. Si sarebbe dovuto aspettare solo l’occasione propizia per conquistarla.

Viaggiatori attaccati dai briganti

Acquerello d’epoca di Bartolomeo Pinelli

Perché Rattazzi fermò la spedizione di Garibaldi su Roma?

Perché la sconfitta francese nella guerra contro la Prussia favorì la presa militare di Roma da parte del Regno d’Italia?

La Terza guerra d’indipendenza

Nel frattempo si prospettò per il Regno d’Italia la possibilità di procedere alla conquista del Veneto e del Friuli. La Prussia di Bismarck, impegnata nel processo di unificazione della Germania, aveva infatti dichiarato guerra all’Austria e l’Italia colse l’occasione: si alleò con essa per combattere quella che venne chiamata la Terza guerra d’indipendenza. Le nuove forze armate italiane però, ancora poco organizzate e non sufficientemente motivate, passarono di sconfitta in sconfitta. L’esercito uscì battuto dalla battaglia di Custoza, ma ancor più grave fu l’esito della battaglia navale combattuta nelle acque dell’isola dalmata di Lissa. In questo scontro la flotta italiana uscì distrutta, avendo perduto anche due delle sue migliori corazzate.

L’annessione del Veneto

La Prussia era però un ottimo alleato e riuscì a vincere rapidamente la guerra: il Regno d’Italia ottenne così, nonostante le sconfitte militari subite, il Veneto, ma non il Trentino e nemmeno Gorizia e Trieste. Garibaldi, che era penetrato nel Trentino alla testa dei suoi volontari, battendo gli austriaci a Bezzecca, dovette ancora una volta ritornare sui propri passi.

L’unificazione totale della penisola avrebbe dovuto aspettare: il Trentino, il Friuli orientale e la Venezia Giulia furono da quel momento definite “terre irredente”, in quanto non ancora “redente”, cioè salvate, tramite la liberazione dal dominio austriaco. Si apriva in questo modo un’altra importante questione politica, che avrebbe condizionato non poco i decenni successivi.

La sconfitta francese a Sedan offre ai piemontesi

l’occasione di conquistare Roma

Nel 1867 Garibaldi tentò di nuovo di invadere Roma, ma venne sconfitto a Mentana dall’esercito pontificio. Napoleone III decise a questo punto di riportare le sue truppe nella città, convinto che il governo italiano non fosse disposto a rispettare la Convenzione di settembre.

Nel 1870 però, la Francia, a seguito della guerra ingaggiata con la Prussia, subì una pesante sconfitta nella battaglia di Sedan; Napoleone III fu costretto ad abdicare e il Secondo Impero crollò. Era l’occasione che il Regno d’Italia aveva atteso per anni: Roma era nuovamente indifesa e nessuna potenza straniera sarebbe venuta in suo soccorso.

La mattina del 20 settembre 1870 gli italiani comandati dal generale Raffaele Cadorna presero a cannonate le mura della città nei pressi di Porta Pia, vi entrarono e occuparono il palazzo del Quirinale, che era la sede ufficiale del papa.

Roma, tolta al papa con la forza delle armi, diviene capitale d’Italia

Pio IX si era reso conto che non c’era più nulla da fare, e aveva intimato ai propri generali di arrendersi alle truppe italiane allo scopo di evitare inutili spargimenti di sangue. Si ritirò nel palazzo del Vaticano e da lì condannò apertamente l’occupazione avvenuta, scomunicando il re e i membri del governo italiano. Agli inizi dell’anno successivo, Vittorio Emanuele II si trasferì al Quirinale e Roma divenne ufficialmente la capitale d’Italia.

Il contrasto con la Chiesa rimaneva più aperto che mai: per sanarlo il governo italiano emanò la “Legge delle Guarentigie”, con cui garantì al pontefice l’incolumità fisica e la possibilità di esercitare la sua missione di capo religioso. Pio IX però non accettò questa legge, considerando totalmente illegittima l’occupazione della città. Per reazione più avanti impedirà ai cattolici di partecipare alla vita politica del paese, secondo la celebre formula del non expedit.

L’unità nazionale lascia aperti numerosi problemi

Lo stato italiano avrebbe ripreso il processo di ampliamento raggiungendo il massimo della sua estensione solo al termine della Prima guerra mondiale, ma all’alba del 1871 il Risorgimento poteva dirsi concluso. Come abbiamo visto, si trattò di un processo portato avanti con coraggio e determinazione, ma anche con scelte che avrebbero pesato molto negativamente sul futuro.

Combattimenti in occasione della presa di Roma Affresco di Raffaele Pontremoli (1892 circa), Torre di San Martino della Battaglia, Desenzano del Garda (Brescia)

L'opera raffigura il maggiore cremonese Giacomo Pagliari colpito a morte dall'esercito papalino mentre guidava il 34° Battaglione Bersaglieri. Egli divenne per il Regno d'Italia l'eroe di Porta Pia. In realtà la conquista di Roma avvenne in modo piuttosto incruento, avendo il papa dato ordine ai suoi soldati di non opporre che una resistenza simbolica, e pochissime furono le vittime dell’attacco.

PROTAGONISTI

Garibaldi, l’eroe dei due mondi tra realtà storica e mito

Una vita avventurosa

Giuseppe Garibaldi nacque a nizza nel 1807 quando la città, antico sbocco sul mare degli stati dei Savoia, apparteneva all’impero napoleonico. Era figlio di un capitano della marina mercantile, e come tale manifestò sin da bambino l’inclinazione alla vita marinara. Si imbarcò sulla sua prima nave nel 1824, a soli sedici anni, e da allora girò ininterrottamente per mare, vivendo numerose

avventure e soggiornando persino quattro anni a Costantinopoli (dal 1828 al 1832), dove rimase bloccato a causa della guerra tra Russia e Impero Ottomano e si guadagnò da vivere insegnando italiano, francese e matematica. Divenuto capitano di seconda classe, riprese il mare per un’altra serie di viaggi. Fu in questo periodo che, attraverso i colloqui con alcuni dei suoi passeggeri, venne in contatto con le idee so-

Ritratto fotografico di Giuseppe Garibaldi (1865-70 circa)

cialiste di Saint Simon e con quelle di Giuseppe Mazzini. In particolare, il pensiero di quest’ultimo lo colpì profondamente e gli cambiò la vita. I due si conobbero a Londra nel 1833, e Garibaldi decise di iscriversi alla Giovine Italia, abbandonando la carriera mercantile per abbracciare la causa rivoluzionaria dell’unità italiana. Il soggiorno a Londra fu un capitolo importante del suo itinerario sia culturale che politico. Affiliato alla massoneria, egli conserverà sempre stretti contatti con l’Inghilterra e in particolare col mondo massonico inglese da cui in molte occasioni riceverà cospicui finanziamenti.

La causa rivoluzionaria lo porta in Sud America

L’anno successivo, dopo aver partecipato ad una fallita insurrezione a Genova, riuscì per un soffio a sfuggire alla cattura. Da quel momento fu costretto a vivere da fuggiasco, in quanto il suo nome era conosciuto dalla polizia e, processato, su di lui pendeva addirittura una condanna a morte. nel 1835 partì così alla volta del Sud America, dove partecipò alla guerra che il Rio Grande do Sul stava combattendo per separarsi dal Brasile. nel 1842 si spostò in Uruguay, e prese parte a una guerra contro l’Argentina. In quell’occasione comandò una propria brigata di volontari, tutti vestiti con le camicie rosse che sarebbero presto diventate famose. Durante la campagna uruguaiana conobbe Ana Maria de Jesus Ribeiro, detta Anita, che sposò nel 1842 e che gli diede quattro figli.

Lo accompagna un’aura di leggenda

Allo scoppio della Prima guerra d’Indipendenza, nel 1848, tornò in Europa, accompagnato dall’aura di combattente leggendario che gli avvenimenti sudamericani avevano contribuito a creare. Organizzò una legione di volontari per combattere contro gli austriaci, ottenendo anche due piccoli successi nella zona del varesotto (Luino e Morazzone). Successivamente, dopo la sconfitta piemontese a novara, si recò a Roma per partecipare alla difesa della Repubblica Romana, di cui il suo amico Mazzini era uno degli organizzatori. Alla caduta della città, fuggì per evitare la cattura dirigendosi alla volta di Venezia, che ancora resisteva. Lungo il cammino, nelle paludi di Comacchio, morì spossata dalla fatica sua moglie Anita, in avanzato stato di gravidanza.

Rifugiatosi all’estero, tornò in Italia nel 1854, comprò una parte dell’isola sarda di Caprera e vi costruì una tenuta agricola, dove visse ritirato per cinque anni, prima di partecipare in veste di generale alla Seconda guerra d’Indipendenza, al comando del corpo volontari dei Cacciatori delle Alpi.

La spedizione dei Mille: il suo capolavoro L’anno successivo organizzò la spedizione dei Mille, probabilmente la sua impresa più famosa, quella che lo fece passare alla storia. Tentò poi di nuovo di marciare su Roma, ma il governo italiano inviò a fermarlo delle truppe che ebbero un breve scontro con i suoi volontari nella battaglia dell’Aspromonte, nel corso della quale egli stesso venne ferito ad una gamba. In quel periodo la sua fama di combattente abile e valoroso arrivò fin negli Stati Uniti, che erano allora impegnati nella Guerra di Secessione. Pare che il presidente Lincoln arrivasse ad offrire a Garibaldi la somma di 40mila dollari perché prendesse il comando delle forze dell’Unione, ma alla fine la trattativa non andò a buon fine.

L’uscita di scena

Dopo l’unità d’Italia, comandò il Corpo Volontari Italiani nella Terza guerra d’Indipendenza e prese parte anche alla Guerra Franco-Prussiana, combattendo a fianco della Francia. Al termine del conflitto, salutò con entusiasmo la nascita della Comune di Parigi, nella quale vedeva un’anticipazione di quella società socialista di cui da tempo era un sostenitore. nel 1880 si sposò con la piemontese Francesca Armosino, sua compagna da quattordici anni, e da lei ebbe tre figli. nei suoi ultimi anni fu deputato al parlamento, ma il suo ruolo politico fu molto marginale. Deluso dall’esito del Risorgimento («Tutt’altra Italia io sognavo!», ebbe a dire nella sua vecchiaia), morì a Caprera il 2 giugno 1882.

PARTIAMO DALLE FONTI

Una realtà poco nota: la caduta di Roma nel racconto di un ufficiale irlandese

Patrick Keyes O’ Clery nacque nel 1849 a Limerick, in Irlanda. Era figlio di un ricco proprietario terriero, per cui poté accedere al prestigioso Trinity College di Dublino. Già nel 1867 però manifestò una vocazione per la vita militare. Irlandese e cattolico, preferì arruolarsi non nell’esercito britannico, ma in quello pontificio. E come zuavo pontificio combatté nella battaglia di Mentana. Successivamente, al termine del suo servizio militare, emigrò negli Stati Uniti. All’inizio del 1870 si trovava nel Far West, quando gli giunse la notizia che l’esercito italiano si apprestava a invadere quel che restava dello Stato della Chiesa e ad occupare Roma. Immediatamente tornò in Italia, per partecipare alla difesa della città.

A guerra finita fece ritorno in Gran Bretagna dove, come deputato alla Camera dei Comuni, si batté per l’autonomia politica dell’Irlanda. nell’ultima parte della sua vita, ritiratosi dalla politica, esercitò la professione di avvocato. Morì il 22 maggio del 1913.

Avendo partecipato da vicino al Risorgimento, se pure nello schieramento avverso a quello dei Savoia, O’ Clery decise di raccontare gli eventi nel libro Come è stata fatta l’Italia, apparso per la prima volta in Inghilterra nel 1893. Tale opera è particolarmente interessante, in quanto narra la storia del nostro paese attraverso gli occhi degli sconfitti, migliaia di volontari accorsi da tutto il mondo in difesa del papa, e da un punto di vista lontano dalla versione ufficiale dei fatti. Proprio per questo motivo, essa è rimasta per più di un secolo sconosciuta in Italia, ed è stata tradotta nella nostra lingua solamente nel 2000. Ti proponiamo un brano di tale testo, che racconta l’evacuazione di Roma da parte dell’esercito papale, dopo la conquista piemontese:

«Al tramonto, tutta Roma era stata evacuata dall’esercito pontificio e occupata dagli italiani. I papalini si radunarono nei pressi di San Pietro, dove ammucchiarono le proprie armi nell’immensa piazza di fronte alla grande basilica. Col calare della notte, molti soldati si distesero per dormire, mentre altri, che non si erano più incontrati du-

rante le ultime settimane o addirittura dal 1867, passeggiavano su e giù per la piazza, trascorrendo in veglia la loro ultima notte a Roma. Tutti parlavano, in tono sommesso, ma accalorato, del disastro di quella mattina. Era facile leggere sui loro volti, e negli sguardi che lanciavano sul Vaticano, quanto profondamente soffrissero per l’oltraggio e l’afflizione che quel giorno avevano colpito il Santo Padre.

L’ora fissata per l’evacuazione delle truppe pontificie da Roma era a mezzogiorno del 21. Quella mattina numerosi cittadini romani e stranieri si recarono in piazza San Pietro per salutare le truppe papali, e offrendo spesso ai soldati i propri servigi per custodire oggetti rimasti nelle caserme, oppure per portare in città i loro messaggi. Poco prima di mezzogiorno le trombe suonarono per l’ultima volta dando il segnale di adunata, e le truppe formarono i ranghi. Quando tutti i soldati furono schierati, rivolti verso il Vaticano e pronti a partire, il colonnello Allet fece un passo avanti e, con la voce rotta dall’emozione gridò: “Mes enfants! Vive Pie neuf!” (“Ragazzi miei! Viva Pio IX”). Un poderoso evviva proruppe dalla truppa. Proprio in quel momento il papa apparve al balcone, e, levando le mani al cielo pregò: “Che Iddio benedica i miei figli fedeli!”. L’entusiasmo di quel momento supremo fu indescrivibile. Uno zuavo ungherese sfoderò la spada e subito, con un simultaneo struscio di acciaio, migliaia di spade sguainate brillarono al sole. La scena fu assolutamente commovente. Al pensiero di lasciare il Santo Padre, lacrime di amarissimo rimpianto solcarono le guance di quegli uomini, che avevano sfidato la morte in tante disperate battaglie».

P. Keyes O’Clery La rivoluzione italiana, adatt.

METTIAMO A FUOCO

I plebisciti per l’annessione

Le preoccupazioni di Cavour

In tutti i territori che il Regno di Sardegna occupò nel corso delle guerre d’indipendenza, tra marzo e novembre 1860, vennero organizzati dei plebisciti allo scopo di dimostrare agli altri stati europei e all’opinione pubblica internazionale che quanto stava avvenendo aveva il consenso e quindi la legittimazione della popolazione. Tuttavia, Cavour sapeva benissimo che non tutti erano favorevoli all’annessione diretta di questi territori al Piemonte: molti erano infatti fedeli ai vecchi sovrani, altri avrebbero preferito un’Italia federale. Per evitare sorprese a lui sgradite non esitò perciò a… pilotarne i risultati.

Un esito sospetto e uno svolgimento poco regolare Innanzitutto bisogna dire che solo una piccola parte della popolazione partecipò al voto: tre milioni di persone, su una popolazione di quasi 22 milioni. Il risultato finale fu comunque eclatante: il 98 per cento dei votanti si espresse infatti per il “sì”. È una cifra chiaramente poco realistica, e questo è confermato dal fatto che, appena pochi mesi dopo, il Meridione verrà scosso da una durissima ribellione antipiemontese.

Per spiegare questo risultato occorre prendere in considerazione le condizioni in cui la votazione era avvenuta. Per prima cosa il voto non era segreto: c’erano infatti due urne distinte, una per il “sì” e l’altra per il “no”, e quindi tutti potevano vedere in quale urna l’elettore deponeva la propria scheda e conoscere così la sua scelta. In tal modo, i contadini che votavano non se la sentirono, in molti casi, di andare contro le indicazioni dei loro padroni, che in genere avevano comunque scelto di schierarsi con i vincitori. Vi furono poi varie intimidazioni da parte dei funzionari inviati dal governo a controllare le operazioni di voto e che spingevano a votare per il “sì”. non mancarono neppure brogli veri e propri: in certi luoghi si riscontrarono più voti che votanti poiché molti deponevano nell’urna più di una scheda o votavano più volte, oppure perché votavano anche i soldati piemontesi e i garibaldini che presidiavano il seggio che, non risiedendo sul posto, non avevano diritto al voto.

Un testimone d’eccezione di tali irregolarità fu l’ambasciatore britannico Henry George Elliot, che così scrisse al proprio ministro degli esteri: «Con regolamenti come questi sono convinto che un plebiscito per suffragio universale non possa essere considerato come un’autentica rappresentanza dei sentimenti reali di una nazione». Il racconto di questo plebiscito e la conferma della sua irregolarità ci viene anche dal celebre romanzo Il gattopardo dello scrittore siciliano Tomasi di Lampedusa, ambientato proprio nei mesi in cui accaddero tali avvenimenti e basato su memorie dirette della famiglia del suo autore.

Vignetta satirica del tempo che illustra l’esito del plebiscito in Sicilia

METTIAMO A FUOCO

Il non expedit

L’espressione non expedit viene dal latino e significa “non è conveniente”, “non è opportuno”. Con questa formula papa Pio IX impose ai cattolici il divieto di partecipare alla vita politica del nuovo stato italiano. Egli affermò che i cattolici non dovevano essere “né eletti né elettori”, poiché riteneva che il parlamento del nuovo Regno fosse dominato da forze ostili alla Chiesa, e che quindi essi avrebbero potuto fare ben poco per portarvi il loro contributo.

Il pontefice permise invece la partecipazione alle elezioni amministrative: a livello locale, infatti,

poteva essere molto più facile per un cattolico portare la propria visione del mondo per contribuire a migliorare il proprio paese.

Il non expedit rimase in vigore fino al 1919, quando fu revocato da papa Benedetto XV. A partire dai primi anni del XX secolo, come vedremo, i cattolici avrebbero avvertito infatti l’esigenza di entrare attivamente in politica, e anche i liberali italiani si sarebbero convinti della loro importanza.

Per tutto il XIX secolo però, il contrasto tra la Santa Sede e il Regno d’Italia perdurò e caratterizzò duramente le vicende del nostro paese.

Francesco II di Borbone è accolto da papa Pio IX ad Anzio, dopo la sua fuga dalla fortezza di Gaeta (1862)

METTIAMO A FUOCO

Vittorio Emanuele II: secondo re di Sardegna o primo re d’Italia?

Uno dei segni evidenti del fatto che il Regno d’Italia era considerato dalla classe politica piemontese sostanzialmente come una continuazione e un ampliamento di quello sabaudo, fu la questione del nome del sovrano. Vittorio Emanuele infatti era “secondo” re di Sardegna, in quanto nella dinastia dei Savoia vi era già stato un re che portava il nome di Vittorio Emanuele I. A rigor di logica invece, con la nascita del nuovo Regno, egli avrebbe dovuto cambiare la numerazione e nominarsi “primo”, in quanto mai prima l’Italia aveva avuto un re con tale nome. Scelse al contrario di mantenere invariato il suo titolo, segno che egli consi-

derava l’Italia non molto diversa dai domini su cui già regnava in precedenza. Un altro elemento indicativo a tale proposito è quello relativo al parlamento: quando i deputati e i senatori si riunirono a Torino per la prima volta dopo la proclamazione dell’unità, si considerarono all’ottava legislatura, invece che alla prima, poiché tennero conto delle sette precedenti del parlamento sardo. Sembrerebbe sottili questioni di forma, ma non lo sono: indicano invece con chiarezza con quale spirito la classe politica sabauda guardasse alla nuova Italia unita.

L’aula del Primo Parlamento Italiano a Palazzo Carignano, Torino

RACCONTIAMO IN BREVE

1. All’indomani del Congresso di Vienna, l’Italia era ancora un paese politicamente frammentato e con un’economia prevalentemente agricola. Poco praticabili erano le strade e le ferrovie erano nel complesso poco sviluppate. Anche qui si diffuse lo spirito antiassolutista tipico degli anni della restaurazione. Nel 1820-21 moti organizzati dalla Carboneria scoppiarono nel Regno di Napoli e in quello di Sardegna, ma furono duramente repressi dall’esercito austriaco.

2. L’idea che la Penisola Italiana dovesse essere unificata sotto un unico stato rimase però viva e negli anni seguenti si sviluppò un largo dibattito che ebbe quattro posizioni principali: i liberali (che sostenevano la necessità di far nascere uno stato italiano sotto la guida dei Savoia), i democratici (che erano a favore di una repubblica che si estendesse su tutto il territorio nazionale, da ottenere attraverso insurrezioni popolari), i federalisti (che volevano La creazione di una confederazione per superare le differenze regionali) e i neoguelfi (che avrebbero voluto fare dell’Italia una confederazione o una federazione sotto la presidenza del papa).

3. Nel 1848, a seguito di un’insurrezione scoppiata nel Regno delle Due Sicilie, il re Ferdinando II concesse la costituzione; il suo esempio fu seguito dal papa Pio IX e in Piemonte dal re Carlo Alberto (Statuto Albertino). Nel frattempo a Milano una rivolta popolare durata cinque giorni portò al ritiro dell’esercito austriaco dalla città.

4. I fatti di Milano furono il preludio alla Prima guerra d’Indipendenza che il Regno di Sardegna combatté contro l’Austria, con l’aiuto di altri stati italiani. Il conflitto si rivelò disastroso per i Savoia, che persero la battaglia decisiva a Custoza. Nel frattempo a Roma un’insurrezione promossa dai democratici portò alla fuga di Pio IX e alla proclamazione della Repubblica, che però ebbe vita breve. La guerra con l’Austria riprese, ma la battaglia di Novara segnò la definitiva sconfitta delle truppe piemontesi. A seguito di ciò Carlo Alberto abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele II.

5. Negli anni successivi il Regno di Sardegna si riprese grazie all’operato del primo ministro Camillo Benso conte di Cavour. Egli intraprese un’efficace opera di modernizzazione economica costruendo canali e opere di infrastruttura come il traforo del Frejus. Inoltre si rese conto che l’unificazione dell’Italia non sarebbe stata raggiunta senza il contributo delle grandi potenze. Nel 1854 partecipò dunque alla Guerra di Crimea a fianco di Francia e Gran Bretagna. Durante la conferenza di pace che seguì, a Parigi, riuscì a coinvolgere Napoleone III nella causa italiana.

6. Nel 1859 Cavour e Napoleone III siglarono un accordo segreto a Plombières, con il quale il sovrano francese si impegnava a far guerra all’Austria in caso questa avesse attaccato il Piemonte. In cambio, avrebbe ricevuto i territori di Nizza e della Savoia. La guerra scoppiò nell’aprile del 1859. Dopo una serie di vittorie, Napoleone III si ritirò, temendo che il Piemonte potesse guadagnare più di quanto lui si aspettasse. Il conflitto terminò con l’annessione della Lombardia. Poco dopo, con una serie di plebisciti, anche la Toscana e gli altri Ducati dell’Italia centrale (Parma e Piacenza e Modena e Reggio) vennero uniti al Piemonte.

7. Successivamente, Garibaldi organizzò una spedizione militare per conquistare il Regno delle Due Sicilie. Tale iniziativa, anche grazie all’appoggio britannico, ebbe successo e nell’ottobre 1860 i Borboni furono sconfitti definitivamente. Durante il famoso incontro a Teano, il 26 ottobre 1860, Garibaldi consegnò i territori conquistati a Vittorio Emanuele II. Il 17 marzo 1861 il parlamento nazionale appena eletto dichiarò il sovrano “re d’Italia”.

8. Lo stato italiano era nato, ma l’unità era più formale che concreta: essa era stata infatti realizzata dall’alto e diretta dal Regno di Sardegna, senza un grande coinvolgimento del popolo. Inoltre, la gestione politica e amministrativa del paese fu affidata completamente a funzionari piemontesi, cosa che non favorì affatto un amalgama effettivo della popolazione. Le tasse erano inoltre molto alte, per ripagare le spese della guerra. In particolare, fu la tassa sul macinato a scatenare le ire della popolazione soprattutto nel Sud, dove le tradizioni locali erano molto forti e la presenza dei Savoia era mal tollerata. Sempre il Sud fu il teatro del fenomeno del cosiddetto “brigantaggio”, che nacque anche per protestare contro il duro servizio militare che veniva imposto ai cittadini.

9. L’unificazione politica del territorio italiano non era ancora terminata: Roma rimaneva la capitale dello Stato Pontificio ed era saldamente difesa dalla Francia, mentre il Veneto era ancora nelle mani dell’Austria. Nel 1866 il Regno d’Italia si alleò con la Prussia di Bismarck e fece guerra all’Impero Austro-Ungarico in quella che in Italia fu chiamata Terza guerra di indipendenza. Il conflitto si concluse con la vittoria prussiana e permise all’Italia di liberare il Veneto. Nel 1870, in seguito alla sconfitta francese nella battaglia di Sedan ad opera dei prussiani, l’Italia ebbe campo libero per attaccare Roma, che venne presa il 20 settembre e divenne finalmente capitale d’Italia. Il Risorgimento si chiudeva così con un successo, ma lasciava aperti numerosi problemi, come si sarebbe visto nei decenni successivi.

ATTIVITÀ E VERIFICHE

Esercizio 1 · Rispondi, anche oralmente, alle seguenti domande.

1. Come si presentava l’Italia dopo il Congresso di Vienna?

2. Che cos’era la Carboneria e chi ne faceva parte?

3. Qual era il progetto dei neoguelfi? In cosa si distingueva da quello dei federalisti?

4. Che cos’era il Quadrilatero?

5. Quali provvedimenti adottò Cavour per sviluppare l’economia del Regno di Sardegna?

6. Che cosa stabilivano gli accordi di Plombières?

7. Come si concluse la Seconda guerra d’indipendenza?

8. Com’era il sistema elettorale piemontese imposto a tutta l’Italia?

9. Che cosa stabiliva la Convenzione di settembre?

10. Quali territori rimasero irredenti dopo la Terza guerra d’indipendenza?

11. Che cosa stabiliva la Legge delle Guarentigie?

Esercizio 2 · Completa la linea del tempo: scrivi il numero del fatto storico sulla data corretta.

1820-21

1. Terza guerra d’indipendenza

2. Prima guerra d’indipendenza

3. Accordi di Plombierès

4. Elezione di Pio IX

5. Spedizione dei Mille

6. Seconda guerra d’indipendenza

7. Presa di Roma

8. Moti nel Regno delle Due Sicilie e nel Regno di Sardegna

9. nasce il Regno d’Italia

Esercizio 3 · Indica se l’affermazione riportata è vera o falsa.

Cavour e i liberali erano favorevoli ad una Italia unificata dai Savoia. V F

Pio IX suscitò molto entusiasmo fra i liberali e i patrioti italiani. V F

nei primi mesi del ’48 molti sovrani italiani concessero la costituzione. V F

La Prima guerra d’indipendenza si concluse con una schiacciante vittoria del Regno di Sardegna. V F

Cavour guardava con grande favore all’impresa di Garibaldi. V F

L’unificazione dell’Italia fu condotta con entusiasmo e partecipazione dalle grandi masse popolari e contadine. V F

Pio IX condannò l’occupazione militare di Roma da parte dell’esercito italiano. V F

Esercizio 4 · Per completare la frase iniziale scegli fra le tre alternative proposte quella che ti sembra, oltre che esatta, anche precisa e formulata con il linguaggio più appropriato.

La Carboneria si proponeva di

a. rovesciare i sovrani e trasformare le monarchie italiane in repubbliche.

b. favorire lo sviluppo economico dell’Italia.

c. provocare moti insurrezionali per ottenere dai sovrani assoluti una costituzione e delle riforme democratiche.

D’Azeglio, Balbo e Cavour si proponevano di

a. costituire un’Italia federale sotto la guida del Regno di Sardegna.

b. costituire un’Italia unificata dai Savoia, che avrebbero poi dovuto mettersi a capo del nuovo regno che sarebbe nato.

c. costituire una confederazione di stati italiani guidati dal papa.

Vincenzo Gioberti si proponeva di

a. costituire un’Italia federale sotto la guida del Regno di Sardegna.

b. costituire un’Italia unificata dai Savoia, che avrebbero poi dovuto mettersi a capo del nuovo regno che sarebbe nato.

c. costituire una confederazione di stati italiani guidati dal papa.

La grande intuizione politica di Cavour fu

a. di coinvolgere nella causa dell’unificazione italiana alcune grandi potenze europee.

b. di sviluppare l’economia piemontese per rendere il Regno di Sardegna uno stato moderno ed efficiente al pari degli altri stati europei.

c. di rinforzare l’esercito inviandolo a combattere in Crimea.

Pio IX

a. pur senza essere ostile al progetto di unificazione italiana non accettava il modo con cui era stata realizzata ed era preoccupato dei sentimenti anticattolici dei politici liberali.

b. guardava con entusiasmo al progetto di unificazione italiana.

c. avrebbe preferito fare dell’Italia una confederazione di stati da lui presieduta.

L’unificazione dell’Italia fu piuttosto un ampliamento dello stato sabaudo perché

a. fu l’esito di guerre combattute dal Regno di Sardegna.

b. la legislazione piemontese sostituì quella degli stati preunitari e funzionari piemontesi vennero inviati ad amministrare tutti i territori.

c. il Regno di Sardegna era il più ricco e potente tra gli stati preunitari e impose la sua economia su tutti gli altri.

Indice delle definizioni a margine del testo

A

Abuso 84

Ascetismo

Ateo 204

Autocrazia 362

C

Classici 6

Club 282

Colpo di stato 288

Conciliarismo 104

Concordato 309

Confisca 215

Contrabbando 240

Cordiglieri 282

Corsari 145

Cosacchi 215 D

Dazio 207

Decime 88

Diocesi 83

Dispotismo 212 E

Ecatombe 66

Élite 12

Emancipazione 213

Epicureismo

Federazione e confederazione 383

Foglianti 282

Foyer 209

G

Genocidio

Gesuiti

Giacobini

Nobiltà di toga e nobiltà di spada

Indice

Capitolo 1

La civiltà del Rinascimento 5

1 · Le corti: nuovi luoghi in cui si produce cultura 6

2 · L’Umanesimo 10

3 · Che cosa si intende per Rinascimento 13

4 · La diffusione della cultura umanistico-rinascimentale 17

METTIAMO A FUOCO

La stampa a caratteri mobili: un’invenzione che ha cambiato la storia 20

METTIAMO A FUOCO

C’è modo e modo di leggere i libri antichi: la nascita della filologia 21

NON TUTTI SANNO CHE

Nel Rinascimento ricompare il pensiero magico 22

PROTAGONISTI

Studiare il corpo umano: con Andrea Vesalio nasce l’anatomia 23

PARTIAMO DALLE FONTI

Due testimonianze della nuova cultura umanistico-rinascimentale 24

METTIAMO A FUOCO

È fondata la critica al Medioevo? 26

Capitolo 2

Finisce l’indipendenza italiana mentre si rafforzano gli stati nazionali 31

1 · Gli stati italiani perdono la loro indipendenza 32

2 · In Europa si affermano gli stati nazionali 38

3 · Le vicende dei principali stati europei 40

METTIAMO A FUOCO

Che cosa fu veramente l’inquisizione 44

METTIAMO A FUOCO

La condizione degli ebrei in Spagna 46

NON TUTTI SANNO CHE

I monti di pietà: un modo creativo di fare la carità 47

METTIAMO A FUOCO

La Svizzera: uno stato molto particolare 48

Capitolo 3

Le scoperte geografiche: i confini del mondo si allargano 53

1 · Le prime esplorazioni ad opera dei portoghesi 54

2 · L’impresa di Colombo: buscar el Levante por el Ponente 57

3 · Le civiltà precolombiane 62

IL CAMMINO DELLA TECNICA E DELLA SCIENZA

Migliorano le tecniche e gli strumenti di navigazione 70

NON TUTTI SANNO CHE

Chi ha inventato il nome America? 71

PROTAGONISTI

Magellano, l’esploratore dell’ignoto 72

PARTIAMO DALLE FONTI

La pratica dei sacrifici umani presso gli Aztechi 74

PROTAGONISTI

Bartolomeo de Las Casas e non solo 75

SPUNTI DI RIFLESSIONE (PER L’EDUCAZIONE CIVICA) I diritti dell’uomo secondo de Vitoria 76

Capitolo 4

La rivoluzione protestante 81

1 · Il pensiero di Martin Lutero 82

2 · L’elaborazione della dottrina di Lutero 85

3 · Le conseguenze sul piano storico 87

4 · Le altre confessioni protestanti 91

PROTAGONISTI

Erasmo da Rotterdam, uomo di moderazione in un’età drammatica 94

PARTIAMO DALLE FONTI

Il linguaggio veemente di Lutero 95

METTIAMO A FUOCO

La caccia alle streghe: un fenomeno sostanzialmente moderno 96

VISITIAMO I LUOGHI DELLA STORIA

Le chiese protestanti… apparentemente simili, ma molto diverse da quelle cattoliche 98

Capitolo 5

La risposta cattolica 103

1 · Anche nella Chiesa Cattolica vi erano aspirazioni al cambiamento 104

2 · Il Concilio di Trento 106

3 · L’attuazione del Concilio 108

PROTAGONISTI

Ludovica di Guastalla: educatrice sapiente e instancabile amante della bellezza 113

METTIAMO A FUOCO

La civiltà del Barocco 114

LEGGIAMO L’ARTE I Sacri Monti delle Alpi 116

PARTIAMO DALLE FONTI

Il senso della disciplina e dell’obbedienza per i gesuiti 118

Capitolo 6

Il sogno di Carlo V 123

1 · L’ascesa di un grande sovrano 124

2 · Le lunghe guerre di Carlo V 126

3 · Un progetto fallito? 130

METTIAMO A FUOCO

Giovanna la pazza, una madre poco amata e infelice 132

METTIAMO A FUOCO

La rivalità tra Carlo V e Francesco I 133

PARTIAMO DALLE FONTI

Il sacco di Roma 134

Capitolo 7

Spagna, Francia e Inghilterra tra Cinquecento e Seicento 139

1 · Lo scisma anglicano 140

2 · L’Inghilterra nell’età elisabettiana 142

3 · La Spagna di Filippo II 146

4 · La Francia delle guerre di religione 151

5 · La Guerra dei Trent’Anni 155

METTIAMO A FUOCO

Dagli eserciti mercenari a quelli nazionali 159

VISITIAMO I LUOGHI DELLA STORIA

L’Escorial 160

METTIAMO A FUOCO

La battaglia di Lepanto 161

NON TUTTI SANNO CHE

Il massacro della notte di San Bartolomeo 162

Capitolo 8

L’Europa del Seicento 169

1 · L’Inghilterra dalla guerra civile alla “Gloriosa Rivoluzione” 170

2 · La Francia di Luigi XIV 174

3 · L’ingresso della Russia nelle vicende europee 176

4 · La vittoria europea sotto le mura di Vienna 178

5 · L’Italia sotto il dominio degli spagnoli 180

METTIAMO A FUOCO

La “peste del Manzoni” 185

METTIAMO A FUOCO

Luci e ombre del dominio spagnolo sullo stato di Milano 186

NON TUTTI SANNO CHE

Il trionfo cristiano sotto le mura di Vienna 188

PROTAGONISTI

Galileo Galilei: il padre della scienza moderna 190

PROTAGONISTI

Jean Baptiste Colbert, il principale collaboratore del re 192

VISITIAMO I LUOGHI DELLA STORIA

La reggia di Versailles 193

Capitolo 9

Il secolo dei lumi

1 · L’età dei lumi 200

2 · La lotta contro la Chiesa 204

3 · Il pensiero politico, economico e giuridico e la sua diffusione 206

4 · Gli illuministi cambiano la società: le riforme dei sovrani “illuminati” 211

5 · Le guerre dei sovrani illuminati 215

6 · L’Illuminismo in Italia: un illuminismo moderato 218

PARTIAMO DALLE FONTI

La critica all’assolutismo nell’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert

NON TUTTI SANNO CHE

I durissimi attacchi di Voltaire contro gli ebrei 222

PARTIAMO DALLE FONTI

La riforma del diritto penale di Cesare Beccaria 223

PROTAGONISTI

Maria Teresa d’Austria: una donna di grande energia alla guida di un impero difficile 224

METTIAMO A FUOCO La tratta degli schiavi 226

METTIAMO A FUOCO Le missioni dei gesuiti in Paraguay 228

SPUNTI DI RIFLESSIONE (PER L’EDUCAZIONE CIVICA) Che cosa significa essere tolleranti? 229

IL PERCORSO DELLE PAROLE

Dalla summa medievale a Wikipedia, passando per l’Enciclopedia 230

Capitolo 10

La Guerra d’indipendenza americana 237

1 · La colonizzazione dell’America settentrionale 238

2 · I difficili rapporti con la madrepatria 240

3 · Lo scoppio del conflitto 243

4 · La nascita degli Stati Uniti d’America 246

PROTAGONISTI Benjamin Franklin 248

PARTIAMO DALLE FONTI

La Dichiarazione d’Indipendenza 250

SPUNTI DI RIFLESSIONE (PER L’EDUCAZIONE CIVICA)

La Dichiarazione d’Indipendenza e la schiavitù 251

Capitolo 11

La rivoluzione industriale 257

1 · La crescita dell’agricoltura 258

2 · Il grande sviluppo industriale in Inghilterra 260

3 · Le conseguenze della rivoluzione industriale 263

METTIAMO A FUOCO

La divisione del lavoro secondo Adam Smith 265

IL CAMMINO DELLA TECNICA E DELLA SCIENZA

I progressi della scienza nel Settecento 266

IL CAMMINO DELLA TECNICA E DELLA SCIENZA

La forza del vapore 268

PARTIAMO DALLE FONTI

Le dure condizioni del lavoro di fabbrica 270

Capitolo 12

La rivoluzione francese 275

1 · Prima dell’89: la Francia dell’Ancien Régime 276

2 · L’avvio della rivoluzione 278

3 · Con la fuga del re scoppia la fase più violenta della rivoluzione 282

4 · La caduta di Robespierre e il Direttorio 287

LEGGIAMO L'ARTE

Le vignette satiriche 289

NON TUTTI SANNO CHE

La ghigliottina: uno strumento di morte creato per motivi umanitari 290

PARTIAMO DALLE FONTI

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino 291

PARTIAMO DALLE FONTI

Perché il re deve morire 292

METTIAMO A FUOCO

La controrivoluzione in Vandea 293

METTIAMO A FUOCO Il calendario rivoluzionario 294

SPUNTI DI RIFLESSIONE (PER L’EDUCAZIONE CIVICA)

Che differenze ci sono tra la rivoluzione francese e la rivoluzione americana?

1 · Napoleone Bonaparte nuovo dominatore della scena politica europea

2 · Napoleone allarga i suoi obiettivi

3 · Padrone dell’Europa

4 · La sconfitta e la tragica fine

METTIAMO A FUOCO

La Francia napoleonica: sempre più grande in Europa, sempre più piccola nel mondo

METTIAMO A FUOCO

La nascita del tricolore

METTIAMO A FUOCO

Le rivolte antigiacobine nel sud e i sanfedisti del cardinale Ruffo

METTIAMO A FUOCO Champollion e la decifrazione dei geroglifici

NON TUTTI SANNO CHE

La tragica fine dei soldati italiani in Russia

LEGGIAMO L’ARTE David: quando l’arte celebra il potere

Capitolo 14 Il Congresso di Vienna e gli anni della restaurazione

Il Congresso di Vienna

2 · L’Europa e l’America Latina nell’età della restaurazione e i moti del 1820-21

3 · I moti del

A FUOCO Opinione pubblica e libertà di stampa

della restaurazione

IL PERCORSO DELLE PAROLE

Inghilterra, Gran Bretagna e Regno Unito: quale denominazione dobbiamo usare?

PROTAGONISTI

Talleyrand, un uomo sempre pronto

Capitolo 15

seconda metà del XIX secolo

La Francia del Secondo Impero

2 · Le altre nazioni europee: Gran Bretagna, Impero Asburgico e Russia

PROTAGONISTI

Francesco Giuseppe 368

PROTAGONISTI

Florence Nightingale, “the lady of the lamp” 370

VISITIAMO I LUOGHI DELLA STORIA

Parigi e Vienna grandi capitali europee 371

SPUNTI DI RIFLESSIONE (PER L’EDUCAZIONE CIVICA)

Quando l’espressione diretta del voto popolare è veramente democratica? 372

Capitolo 16

Il Risorgimento italiano 377

1 · L’Italia dopo il Congresso di Vienna 378

2 · Il 1848 in Italia 383

3 · Cavour e la Seconda guerra d’indipendenza 388

4 · Garibaldi e la spedizione dei Mille 392

5 · Il completamento dell’unità nazionale: la Terza guerra d’indipendenza e la presa di Roma 398

PROTAGONISTI

Garibaldi, l’eroe dei due mondi tra realtà storica e mito 402

PARTIAMO DALLE FONTI

Una realtà poco nota: la caduta di Roma nel racconto di un ufficiale irlandese 404

METTIAMO A FUOCO I plebisciti per l’annessione 405

METTIAMO A FUOCO Il non expedit 406

METTIAMO A FUOCO

Vittorio Emanuele II: secondo re di Sardegna o primo re d’Italia? 407

Indice delle definizioni a margine del testo 412

Referenze fotografiche

Archivio fotografico, museo di Roma: 406 · Archivi Alinari-archivio Alinari, Firenze: 402 · Biblioteca Centrale Nazionale di Firenze: 74 · Bibliothèque nationale de France, département Réserve des livres rares (RESP-Z-2464): 229 · The British Library, Londra: 96, 230/2 · Alfredo Dagli Orti/Scala, Firenze: 52 · De Agostini Picture Library/Scala, Firenze: 34, 39, 41, 75, 124, 109, 111, 143, 162, 184, 211, 217, 274, 328, 341, 371, 379, 382 · Foto Ann Ronan/Heritage Images/Scala, Firenze: 86, 214, 292 · Foto Austrian Archives/ Scala, Firenze: 161, 224-225 · Foto Scala, Firenze: 8-9, 71b, 102, 105, 107, 150, 387 · Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin: 155, 156, 345, 368-369 · Foto Scala Firenze/Heritage Images: 64 · Foto Scala, Firenze - su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali: 4, 7, 407 · Fotolia: Erica Guilane-Nachez 44, 263; mbpicture 88 · Lessing/Contrasto: 80 · Library of Congress, Washington, DC: 242, 315 · Mary Evans/Scala, Firenze: 259, 267, 367 · National Gallery of Art, Washington, DC: 84-85, 94, 152, 183, 192 · National Portrait Gallery, London: 171, 248, 370 · NTPL/Scala, Firenze: 256 · Rijksmuseum, Amsterdam: 90-91 · RMN-Grand Palais, Château de Versailles: 283 · Shutterstock: andersphoto copertina; Maurizio De Mattei 220; anotherwork91 371 · White Images/Scala, Firenze: 30, 128, 138, 149, 200, 202, 207, 261, 289, 300, 306, 321, 332, 385, 393 · 123RF.COM: Luisa Puccini 251; Sergiy Rudenko 290.

L’editore resta a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare e per le eventuali omissioni.

Le correzioni di eventuali errori presenti nel testo sono pubblicate nel sito www.itacascuola.it/narrare-la-storia.

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Abbiamo dedicato le copertine dei tre volumi a delle celebri piazze (Piazza del Popolo a Todi, Trafalgar Square a Londra, Downtown Dubai, la piazza antistante il Dubai Mall e il Burj Khalifa) perché le piazze, pur con caratteristiche, forme e strutture urbanistiche diverse, sono state e sono tuttora dei luoghi importanti per la vita degli uomini. Nelle piazze, fin dall’antichità, l’uomo si incontra, discute, si confronta. Le piazze sono il luogo della politica, dove chi comanda mostra il suo potere, ma anche dove il popolo fa sentire la sua voce. Sono il luogo della religione grazie ai templi e alle chiese che su di esse si affacciano. Sono i luoghi del mercato e dei commerci, dell’attività sempre più frenetica dell’economia. Con le loro statue, le loro colonne, i loro edifici pubblici, le loro bandiere sono il luogo dei simboli che cementano l’unità del popolo. Sono quindi tra i luoghi principali dove si snoda la storia. Ripercorrere il cammino delle piazze, con le loro evoluzioni nel tempo, ci permette di riconoscere almeno una parte, certo significativa, del cammino dell’umanità.

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