Pienamente vivi - Timothy Shriver Introduzione

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Alle mie famiglie – a quella dei miei genitori, a quella che Linda e io abbiamo creato insieme e alle migliaia di famiglie che mi hanno accolto, da New Haven a New Delhi, come uno di loro. La famiglia è una benedizione che chiunque può impartire e il più prezioso dei doni



Timothy Shriver

Pienamente vivi

La scoperta della cosa piĂš importante


Timothy Shriver Pienamente vivi. La scoperta della cosa più importante www.itacaedizioni.it/pienamente-vivi Prima edizione italiana: settembre 2016 Titolo originale: Fully alive: discovering what matters most by Timothy Shriver Copyright © 2014 by Timothy Shriver Published by arrangement with Sarah Crichton Books, an imprint of Farrar, Straus and Giroux, LLC, New York and The Italian Literary Agency © 2016 Itaca srl, Castel Bolognese ISBN 978-88-526-0505-5 Itaca srl via dell’Industria, 249 48014 Castel Bolognese (RA) - Italy tel. +39 0546 656188 fax +39 0546 652098 e-mail: itaca@itacalibri.it in libreria: www.itacaedizioni.it/librerie on line: www.itacalibri.it Traduzione dall’inglese: Stefano Salpietro Cura editoriale: Cristina Zoli Grafica di copertina: Andrea Cimatti Stampato nel mese di settembre 2016 da Modulgrafica Forlivese, Forlì (FC) In copertina Il giovane atleta Michel Kozoris taglia il traguardo ai Giochi mondiali estivi Special Olympics di Atene 2011. (Special Olympics International/Diego Azubel) In quarta di copertina Timothy Shriver. (Richard Corman)


La gloria di Dio è l’uomo pienamente vivo. Ireneo


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Introduzione Una scuola del cuore

Nel 1995 lo Yale Bowl aveva già ottantun anni, ma sembrava averne almeno il doppio. La vegetazione aveva ricoperto i decrepiti muri di cemento, i sedili di legno deformati dal tempo erano stati riverniciati dozzine di volte per nascondere le crepe. Lo stadio non era pronto ad accogliere settantacinquemila fan entusiasti né era stato progettato per una visita presidenziale e per le massicce misure di sicurezza previste, come l’evacuazione delle strade circostanti e la creazione di zone blindate. Il campo da gioco non era sufficiente a contenere settemila atleti con bisogni speciali, insieme ai loro coach e ai volontari, o ad accogliere un palco degno di un grande show. I parcheggi erano sottodimensionati, anche perché erano stati utilizzati in parte per altri scopi, come un campo di atterraggio per l’elicottero presidenziale, campi di calcio improvvisati e un’area di sosta per i pullman. Ciò nonostante scegliemmo ugualmente di svolgere la cerimonia di apertura dei Giochi mondiali Special Olympics nello Yale Bowl. Così, la sera del primo luglio 1995 il Marine 1 con a bordo il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, e la First Lady, Hillary Rodham Clinton, atterrò nel parcheggio, mentre gli atleti provenienti da centocinquanta nazioni scendevano dai pullman e si riversavano nello stadio attraverso l’unico tunnel di ingresso e settantacinquemila spettatori, dopo aver parcheggiato nelle vie circostanti, si affrettavano a prendere posto sulle gradinate di legno per applaudire l’inizio del più grande evento sportivo del mondo. Una vera baraonda, insomma. Ogni atleta ricevette al suo arrivo una macchina fotografica usae-getta per fissare le immagini dei suoi momenti di gloria. Alla


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maggior parte di loro, provenienti da scuole o istituti sperduti, solitari angoli di disperazione sparsi nelle città e nei villaggi di tutto il mondo, l’esperienza di marciare tutti insieme nello stadio tra gli applausi dovette apparire quasi surreale. Nessuno li aveva mai applauditi prima di allora, loro, i reietti della società, smarriti nel cerchio della vita e quasi mai ritrovati. Quante volte, nel numero infinito di lingue che parlavano, si erano sentiti definire «ritardati», «difettosi», «malati», «ottusi» o, forse ancora peggio, «in-abili». Non sapevano che cosa significasse avere successo né erano stati mai trattati con gentilezza dagli estranei. Essere accettati dai loro coetanei era un sogno. «Non sono mai riuscito a sentirmi orgoglioso di mio figlio», confessò tra le lacrime un genitore di un bambino con bisogni speciali. Ma quella era la loro serata, sotto un cielo stellato tutto per loro. Tra le star dello show c’erano Sandra Bullock, Bill Cosby, JeanClaude Van Damme e Louis Gossett Jr. Un coro di mille voci, riunito sotto le bandiere di quasi duecento nazioni, diede il benvenuto agli atleti al momento del loro ingresso nello stadio. Un gruppo di nativi americani percorse al galoppo il perimetro del campo in una solenne parata celebrativa. Uno stormo di caccia passò rombando nel cielo in loro onore. Il più grande calciatore del mondo, Pelé, marciò e si lasciò fotografare con loro migliaia di volte. Hootie & the Blowfish suonarono il loro maggior successo, Only Wanna Be with You. La top model Kathy Ireland non lesinò applausi e incoraggiamenti. Le star hip-hop Naughty by Nature e Run-dmc fecero vibrare lo stadio di energia. Un’eroina di Special Olympics, la podista Loretta Claiborne, era stata scelta per un compito particolarmente importante: annunciare l’arrivo del presidente alla folla riunita nello stadio e al pubblico delle reti televisive nazionali. I responsabili della sicurezza avevano insistito sulla necessità che il presidente pronunciasse il suo discorso dalla tribuna più alta. Il perimetro di sicurezza era troppo poroso e gli atleti non erano stati controllati col metal detector, quindi non era immaginabile che il presidente potesse mescolarsi alla folla o parlare dal palco allestito in mezzo al campo da gioco: i rischi erano troppo elevati. Di conseguenza, era stato scelto un punto dominante, molto in alto rispetto agli atleti, mentre le


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telecamere avrebbero rilanciato la sua immagine dal maxischermo montato sul palco. A metà della cerimonia di apertura, Loretta si alzò in piedi dal suo posto nella gradinata più alta dello Yale Bowl e annunciò con voce squillante, in cui l’eccitazione si mescolava alla gioia: «Signore e signori, il presidente degli Stati Uniti, Bill Clintonnnnnn!». Un urlo di felicità si levò dalla folla. Per la prima volta nella loro storia trentennale, un presidente avrebbe assistito a un’edizione di Special Olympics, dispensando sorrisi, saluti e applausi agli atleti. Lo stadio era vecchio, sì, ma in quel momento viveva l’esperienza più elettrizzante della sua storia. In basso, sul campo da gioco, un fotografo professionista osservava un gruppo di atleti vestiti alla moda africana che puntavano le loro macchine fotografiche usa-e-getta verso il presidente. Ma c’era qualcosa di strano nel modo in cui lo facevano: tutti quanti – e dovevano essere una dozzina – tenevano la macchina al contrario, con l’obiettivo schiacciato contro il naso, e guardavano con un occhio attraverso la finestrella del mirino. Evidentemente, pensò, era la prima volta che usavano una macchina fotografica. Mentre la voce di Clinton rimbombava nello stadio, il fotografo si fece largo tra la folla e si avvicinò agli atleti, per evitare che sprecassero tutta la pellicola riprendendo immagini indistinte dei loro stessi visi. Nessuno di loro sembrava parlare inglese, così fece cenno a uno di abbassare la macchina fotografica. «Stai cercando di fare una foto al presidente?» gli domandò. L’atleta non rispose nulla ma si limitò a guardarlo, apparentemente incapace di parlare o di capire. «Sì, stai cercando di fare una foto a Clinton e lui è lassù in alto, ma devi girare la macchina dall’altra parte. Ti faccio vedere come si fa», e gliela girò nella direzione giusta. «Vedi, devi puntare l’obiettivo verso il presidente, poi guardare nel mirino; è così che si scattano le foto». «Oh» disse l’atleta, in un buon inglese colloquiale. «Grazie, signore. Ma permetta che le mostri una cosa: la macchina funziona lo stesso anche se la si gira al contrario e si guarda attraverso il mirino nell’altra direzione. Funziona come un telescopio e permette di vedere il presidente molto meglio. Stiamo appunto usando queste macchinette per avere una visione ingrandita del presidente. Ma la ringrazio comunque molto per la sua gentilezza».


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Il fotografo rimase attonito, a bocca aperta, incapace di distogliere lo sguardo da quello dell’atleta senza nome che gli stava davanti. Gli aveva solo detto che era possibile usare una macchina fotografica anche rovesciandola – «al contrario, funziona lo stesso». Ma il fotografo non poté evitare di sentirsi stupito e imbarazzato: non aveva capito niente. Era partito dall’idea che le sue cognizioni professionali lo ponessero in una posizione di superiorità, che quegli uomini «disabili» avessero bisogno del suo aiuto. Ma l’uomo che aveva di fronte non era affatto incompetente né stupido. In quel breve attimo sospeso nel chiasso e nella confusione, il fotografo ebbe l’impressione che si trasformasse davanti ai suoi occhi – o meglio, che i suoi occhi si stessero trasformando mentre lo guardavano. Non era l’atleta che doveva essere inquadrato meglio, era il fotografo a dover cambiare obiettivo. In un lampo, vide una persona diversa, non più «ritardata» o disperata. Vide qualcun altro: un giovane intelligente, intraprendente e gentile. L’etichetta era scomparsa, così come il trauma inconscio delle basse aspettative. Cominciò a vedere senza pregiudizi. In parole semplici, cominciò a vedere «da dentro». In questa storia c’è una tensione che mi ha sempre affascinato e mi affascinerà sempre. Chi ne uscì cambiato? Chi dei due era «disabile» e chi «dotato»? Chi ebbe occasione di fare l’esperienza più importante della sua vita e chi gliela offrì? Chi fu a dare e chi a ricevere? A pensarci oggi, la risposta è tanto ovvia quanto difficile da capire a fondo. Sia l’atleta, sia il fotografo diedero qualcosa e ricevettero qualcosa in cambio. Entrambi avevano delle «disabilità», dovute in un caso alla biologia, nell’altro alla mentalità. Entrambi erano dotati, uno di ingegno, l’altro di gentilezza. Entrambi erano stati feriti dai pregiudizi del loro passato ed entrambi erano stati guariti da una rivelazione semplice ma rivoluzionaria: puoi scoprire una visione del mondo diversa girando le tue lenti al contrario. Tieni gli occhi aperti e vedrai ciò che ti è vicino e anche ciò che sembra lontanissimo.


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Nel 1112 Bernardo di Chiaravalle fondò il monastero di Clairvaux. Questo grande riformista e predicatore era intenzionato a insegnare a una nuova generazione di uomini e di donne a vedere e agire in modo diverso. Definiva i suoi monasteri «scuole del cuore» ed esortava i suoi seguaci a scoprire la presenza di Dio nel qui e ora, dove avrebbero incontrato «un amore tanto grande e gratuito». Divenne noto come il «dottore mellifluo». Pur essendo vissuto quasi mille anni fa, Bernardo dovette affrontare sfide non dissimili dalle nostre. Viviamo in un’epoca in cui molti hanno perso la fede in Dio e, con essa, la speranza che esista qualcosa di sacro o non effimero. Il mondo in cui viviamo si trasforma più rapidamente che mai, ma sembra anche andare più che mai alla deriva. Abbiamo fame di stabilità e sicurezza, ma siamo circondati dall’incertezza. Se diamo un valore enorme alla vera amicizia e all’autenticità, in parte è proprio perché sono così difficili da trovare. Ci interroghiamo sulle cose ultime senza sapere neppure se il nostro interrogarci ha un senso. «Riflettete bene al vostro comportamento!» scriveva 2.500 anni fa il profeta Aggeo. «Avete seminato molto, ma avete raccolto poco; avete mangiato, ma non da togliervi la fame; avete bevuto, ma non fino a inebriarvi; vi siete vestiti, ma non vi siete riscaldati; l’operaio ha avuto il salario, ma per metterlo in un sacchetto forato» (Aggeo 1,5-7). Alcuni aspetti della condizione umana non dipendono da fattori contingenti. Come altri, vissuti millenni prima di noi, viviamo tempi di inquietudine. Tuttavia Bernardo, come i mistici di altre religioni, aveva una visione ottimistica della ricerca umana, che può avere successo purché sia indirizzata nella giusta direzione. Bernardo chiamava questa direzione un «amore che è allo stesso tempo grande e gratuito» e cercò in tutti i modi di convincere i suoi simili a vivere per questo. Alcuni – me compreso – indicano questo amore col suo nome più comune: «Dio». Altri lo chiamano «pace» o «nirvana» o «unità» o «illuminazione» ma, in qualsiasi modo lo si definisca, sappiamo tutti di desiderarlo. E se desiderate quel tipo di amore che al mattino vi fa venire voglia di alzarvi dal letto e di vivere; quel tipo di amore che vi fa sentire che qualcuno tiene a voi e vi considera importanti; quel tipo di amore che vi porta a credere alla squi-


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sita bellezza degli altri e alla bontà della vita; quel tipo di amore che non pone condizioni, allora dovete concentrare tutta la vostra attenzione su di esso e lasciar perdere le alternative. Quel tipo di amore è la cosa più importante, ma trovare il modo di raggiungerlo non è affatto facile. O forse sì. Quasi tutti i mistici sono concordi nell’indicarci lo stesso cammino di ricerca: non dobbiamo perdere tempo a cercare di cambiare o di incontrare il/la partner ideale o a girare il mondo o ad apprendere qualche strana abilità. Dobbiamo solo rallentare e risvegliarci al presente. «Chi stai cercando» ha detto Francesco d’Assisi, «è colui che sta cercando». Per trovare «qualcosa di più grande» non c’è bisogno di spostarci da dove siamo. Per ciascuno di noi, ha scritto il poeta Muhyiddin Ibn ‘Arabi, la meta è «più vicina a te di quanto lo sia tu stesso». Anche se può apparire paradossale, credo che le persone con disabilità intellettive siano le più indicate a insegnarci come trovare quel qualcosa di più grande di cui tutti andiamo alla ricerca. Mi hanno guidato alla scoperta di me stesso in un’aula della scuola di Special Olympics, dove il mio cuore è stato colto di sorpresa e si è spalancato. È stato un insegnamento esaustivo, con le sue dolorose ingiustizie, le sue aspre esperienze sul campo, le sue inaspettate tenerezze e la scoperta sconvolgente che tutta la vita è meravigliosa. A dispensarlo erano gli esseri più emarginati del mondo, che conoscevano bene la sofferenza ma erano anche maestri nell’arte di guarirla. Li ho incontrati nei giochi che si svolgevano nel mio giardino, in istituti grondanti disperazione e ingiustizia, negli occhi di madri, padri, fratelli e sorelle affamati di accoglienza e nella mia stessa famiglia. Mi hanno insegnato che siamo tutti assolutamente vulnerabili e al tempo stesso insostituibili. Mi hanno offerto lezioni di amore e di rispetto di cui non credevo potessimo essere capaci. Hanno cambiato completamente il mio mondo. Come tutti i grandi educatori, gli atleti di Special Olympics non mi hanno insegnato tanto cosa vedere, ma come vedere. Ma non c’è un modo solo di vedere? Non è proprio così. Nel corso degli anni ho imparato che esiste un modo alternativo di farlo: dall’interno verso l’esterno. Ho cominciato a capire le cose che i nostri atleti cercavano di insegnarmi


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solo quando ho imparato a vedere il lato interno delle cose. Come molti di noi, pensavo che per vedere fosse sufficiente un semplice sguardo, ma mi sbagliavo. Ho dovuto imparare a vedere non solo ciò che avevo davanti agli occhi ma anche ciò che si celava silenziosamente sotto la superficie delle cose. Ho dovuto imparare a usare la mente per vedere la realtà fisica del mondo che mi circondava ma anche a scacciare tutte le distrazioni create dalla mia mente per vedere la realtà altrettanto presente del cuore che giaceva sotto di essa. Ho dovuto abituarmi a vedere ogni singola, piccola cosa, ma anche ad aprirmi alla totalità delle grandi cose. Ho dovuto imparare a vedere da dentro me stesso per scoprire come avvicinarmi a quel qualcosa di più grande che ero così impaziente di trovare. Rumi, il grande mistico sufi, ha spiegato come questo modo di vedere crei una consapevolezza che permette di scorgere possibilità e realtà destinate altrimenti a rimanere nascoste: L’intelletto dice: «Le sei direzioni sono solo confini, e basta!». L’amore dice: «No, c’è anche una via. Io l’ho percorsa migliaia di volte». Gli atleti di Special Olympics mi hanno insegnato a dar retta a Rumi e alla sua convinzione che esista un altro modo di vedere il mondo, quello dell’amore. Sono partito da presupposti molto differenti, da incontri analoghi a quello tra il fotografo e l’atleta sul campo dello Yale Bowl, a cui arrivavo con l’idea fuorviante che dovessi essere io a servire «loro», ma le mie aspettative sono state completamente rovesciate e ho iniziato a capire che l’imperativo etico di «servire i bisognosi» poteva diventare a sua volta un ostacolo che m’impediva di cogliere la realtà. Ho scoperto così un modo nuovo di vedere degli individui che prima consideravo «deboli», ma che si sono rivelati dotati di un potere di cui non sospettavo neppure l’esistenza. Quante volte mi sono sentito confuso dalla forza di persone che sembravano abituate a sperimentare nello stesso momento il dolore e il trionfo e, in quella confusione, mi sono sentito sbalzato via dal mio modo ristretto di vedere e risvegliato a una visione diversa, che nasce da un luogo silenzioso dell’anima. In molti casi, mi bastava intrattenermi un po’ con gli atleti per aprir-


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mi completamente a un potere che era dentro di loro ma anche dentro me stesso, e che stavo cercando senza saperlo. In breve, gli incontri con molte delle persone di cui parlo in questo libro hanno aperto una finestra nel mio occhio dell’amore, quell’«organo di percezione» che Bernardo cercava di coltivare nella sua scuola del cuore per potersi avvicinare a quell’«amore tanto grande e libero» che era il suo modo di concepire la volontà di Dio. Ho trovato la strada che mi ha portato agli atleti di Special Olympics perché la famiglia in cui sono cresciuto, quella che ho creato insieme a mia moglie Linda e il Dio che ho pregato mi hanno tutti guidato verso di loro. Ero perennemente alla ricerca di ciò che conta veramente e non sapevo che era proprio ciò che stavo facendo. Cercavo e cercavo e cercavo e mi sono trovato a guardare negli occhi le persone più vulnerabili, più deboli e più impotenti della terra. Pensavo di dover essere io a spiegare loro che cosa era importante, ma naturalmente non ne avevo la più pallida idea. Per fortuna, sono stati così pazienti da aspettare che cominciassi ad ascoltare quello che avevano da dirmi. E quando finalmente li ho ascoltati, mi hanno spiegato che cosa dovevo fare con questa «mia vita selvaggia e preziosa»: gettarmi nel mondo con impavido entusiasmo, portando con me il semplice dono di me stesso e offrendolo senza timori, con gratitudine e in modo pacifico ovunque e ogni volta che posso.


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