"Si può essere un buon padre?" di Roberto Laffranchini

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R O B E RTO L A FFR A N C H I N I

SI PU Ã’ ES SER E U N B U O N PA D R E ?



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si può essere un buon padre?


Roberto Laffranchini

Si può essere un buon padre? Prefazione di Luca Botturi


e impresso, robabilmente resterà passionati. Nicolò, socio in questo progetto, grado di realizzare questo mio sogno. a a lui per aver “sposato” Nelle edizioni Itaca sso Roberto Laffranchini

Il rischio della libertà tutti gli intervistati messo di incontrare Angelo Scola, Franco Anelli, Francesco Valenti Bisogno educativo e compito della scuola colare Pietro Manganoni, gi Soldano, François-Xavier Bellamy I diseredati ovvero l’urgenza di trasmettere ha fornito la maggior parte delle Valter Izzo cazione. Il tranviere che suonava il clarinetto pre sostenuto soprattutto di sempre che ancora prima di aver servargli ralmente.

Roberto Laffranchini

Si può essere un buon padre? www.itacaedizioni.it/si-puo-essere-un-buon-padre Prima edizione: novembre 2020 © 2020 Itaca srl, Castel Bolognese Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-526-0661-8 Stampato in Italia da Modulgrafica Forlivese, Forlì (FC)

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Prefazione

L’educazione oggi appare come una sfida già persa, tanto che le istituzioni che se ne occupano hanno scelto altre parole: la scuola, ad esempio, insegna, cura, istruisce, fa crescere, sviluppa competenze, fa didattica, ma non educa. Anche i genitori e le famiglie sembrano aver gettato la spugna: le regole non funzionano, l’amicizia coi figli nemmeno, e anche la relazione tra i genitori stessi sembra solo raramente riuscire a resistere al tempo e alle asperità della vita. Se ci guardiamo in giro, siamo circondati da persone bene educate, ma non da educatori. Noi stessi siamo e ci sforziamo di essere persone bene educate e politicamente corrette (anche per sopravvivere, senza malizia!), ma educatori no, ci sembra troppo, e forse non sapremmo nemmeno da che parte cominciare. Eppure tutti abbiamo la sensazione che, di fronte a virus, cambiamenti climatici, nuove dittature, terrorismo e globalizzazione, proprio nell’educare si giochi la grande partita del nostro tempo. Forse questo sentimento di sconfitta deriva da un’interiorizzazione massiccia di quello strabismo generazionale che accompagna l’umanità attraverso i secoli, per il quale “ai miei tempi” era sempre meglio, mentre oggi… Ma forse davvero oggi per educare abbiamo bisogno un argine capace di resistere a un’ondata impetuosa come mai prima. Ma perché è così difficile (o addirittura impossibile) educare? La risposta a questa domanda, se mai fosse possibile formularla definitivamente, potrebbe riempire un voluminoso sag-


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gio. Nel breve spazio di questa prefazione vorrei però cercare di mettere a fuoco almeno un elemento che ritengo rilevante e che anche l’autore di questo libro riprende in diversi passaggi. Agli occhi di ognuno di noi il mondo è sicuramente diventato più complesso, perché alle soglie della preadolescenza non si vive più solo in una casa, in un quartiere o in paese, ma si è proiettati nel mondo: internet ha virtualmente spalancato le porte dell’esperienza, offrendoci l’opportunità di avere per ogni domanda milioni di risposte. Oltre che un’opportunità, questo è un onere per il singolo, e per l’educatore rappresenta una grande sfida. L’educazione dei giovani non avviene più in un ambiente definito e limitato, come una sala da concerto nella quale sia possibile ascoltare buona musica; avviene in piazza, dove anche il miglior quartetto deve pigiare sugli archetti per riuscire a sovrastare lo schiamazzo dei passanti, il volo dei piccioni, lo stridio delle frenate, il chiacchiericcio delle comitive, ecc. Oggi ogni educatore – genitore o maestro – deve fare i conti con le mille voci che contrastano con la sua, non tanto per imporre la propria idea, ma per permettere a chi impara – figlio o allievo – di ascoltare e verificare seriamente la sua proposta. L’educazione, sia quella formale della scuola che quella informale della famiglia e degli amici, si è come rarefatta: ogni azione educativa sembra diventata debole e viene relativizzata nel marasma del villaggio globale. Nei discorsi da bar, le scuole insegnano meno, i ragazzi imparano poco, i giovani sono impreparati al mondo del lavoro. Le istituzioni e gli esperti si sono allora messi al lavoro per sviluppare modelli didattici innovativi, profili di competenze sempre più dettagliati, metodiche che garantiscano la sicurezza, approcci di insegnamento che mettano l’allievo al centro, consigli per sviluppare l’educazione parentale, e molto altro. Questa ricchezza ha forse reso ancora più complesso il panorama nel quale cerchiamo di muoverci, offrendo molteplici strumenti senza riuscire a identificare un centro, un punto che ricolleghi tutto quanto in un’immagine intellegibile.


Prefazione

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*** In questo libro si incontrano tante parole che sembrano non trovare molto spazio nel vocabolario dell’ortodossia pedagogica di oggi: imprevisto, tradizione, fatica, legge, compito, responsabilità, testimone, desiderio… Inoltre, queste parole non sono organizzate in una limpida struttura razionale, in un modello organizzato che illustri sistematicamente le sfide dell’educazione odierna; queste parole, già poco consuete, si trovano annodate l’una all’altra in un percorso scandito da piccoli fatti e ricordi dell’autore. Roberto Laffranchini, ricco di una vita da padre e da docente, per parlarci di educazione e paternità ha scelto il racconto e la riflessione. Credo sia una consapevole scelta di metodo (e non unicamente di stile) legata alla natura dell’oggetto, o quantomeno agli aspetti che l’autore ritiene importanti di questo oggetto, cioè dell’educare. Mentre mi addentravo nel testo cercando di farmene un’idea complessiva, mi sono trovato a descriverlo come organico. Noi siamo quasi sempre in grado di distinguere un organismo naturale da un oggetto creato dall’uomo, non solo perché è vivo, ma anche perché ne osserviamo alcune differenze strutturali. Riusciamo a immaginare il pensiero di chi ha progettato un cavatappi, mentre non riusciamo a spiegare nello stesso modo una conchiglia. Anche lo sviluppo della conchiglia si rifà alle leggi fisiche del nostro mondo, eppure porta una specie di “firma” che ce la fa percepire come organica e non come progettata. Una realtà organica ha una sua logica strutturale, ma questa logica ci sfugge, non riusciamo a carpirla completamente. Io credo che Laffranchini abbia scelto di narrare l’educare per non eliminare questo punto di fuga, questo principio organico che percepiamo ma non possediamo. Ma non è un libro ingenuo: tra le sue pagine non troverete racconti di magie o miracoli educativi. È un libro che parte da esperienze e poi si confronta, anche estesamente, con i pensieri dei grandi,


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e cerca onestamente di capire quel che si è vissuto – ma senza la pretesa di esaurirlo, fossilizzarlo, etichettarlo e inscatolarlo tra le cose che sappiamo già. Perché l’educare non procede da schemi, modelli e strumenti, ma nasce continuamente da persone che vivono e si incontrano (e che magari troveranno utile anche creare e usare schemi, modelli e strumenti!). Per questo preferisco parlare dell’educare (un atto in movimento), che dell’educazione (un concetto statico). Si può anche non essere d’accordo con alcune pagine di questo libro. Come lettori, non possiamo evidentemente negare le esperienze raccontare dall’autore, ma possiamo non ritrovarci in qualche passaggio o collegamento con le riflessioni che le accompagnano. Ma non è questo il punto. Il punto è che queste esperienze aprono delle domande, degli spazi, quasi delle crepe nel nostro fare educativo – e proprio in quelle crepe possiamo riscoprire delle opportunità per il nostro cammino di educatori. Perché tutti, così come siamo stati figli e allievi, siamo chiamati a educare chi ci è affidato, chi per mestiere, chi per vocazione, chi per contingenza. In realtà questo libro testimonia che è possibile educare. Non possiamo rimandare questo lavoro perché, come scrive Laffranchini in uno dei momenti-scintilla di questo testo, «la realtà in cui siamo ci aspetta impaziente». Luca Botturi


Prefazione

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A mia moglie Ornella e ai miei figli, cercando di ricambiare ogni giorno l’affetto che ricevo A mia mamma Eugenia e a mio papà Tonino che aveva scritto questa filastrocca sul matrimonio Il matrimonio non è una rotonda dove si esce quando ci pare ma è un’unione molto profonda che ci permette di litigare. E se la barca deve viaggiare il metà tempo dovete scordare poiché con la pioggia e con il sereno tutto va fatto a tempo pieno.


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Introduzione. Narrazione e ricerca del senso

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Introduzione.

Narrazione e ricerca del senso

In questo libro ho voluto raccogliere alcune riflessioni sulla famiglia scaturite soprattutto dalla mia esperienza di genitore e dalle molte occasioni che ho avuto e che ho professionalmente di incontrare altri genitori. Anche in ambito educativo, le vicende che più hanno inciso e incidono nella mia vita sono quasi sempre riconducibili a fatti, episodi, momenti che sono diventati paradigma esistenziale, esempi con cui paragonare tanti altri eventi e vicende successe e che continuano a succedere. Un ambito di cambiamento dell’io e di conoscenza della realtà Se penso alla famiglia, che è per me l’ambito in cui vivo adesso e ho vissuto prima di sposarmi, mi viene in mente quanto dice la Bibbia: «Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una stessa carne» (Gn 2,24). In questo versetto, stupefacente per la sua semplicità e chiarezza, è descritto il momento, l’atto con cui si costituisce la famiglia. Nasce una realtà nuova e generatrice: l’uomo e la donna diventano «una stessa carne», mettono al mondo dei figli e vivono la condizione unica di essere a loro volta ri-generati attraverso un atto libero (diverso in questo senso rispetto a quello naturale che lega, per esempio, genitori e figli). Infatti nel rapporto che


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si stabilisce può iniziare una delle esperienze di conoscenza e di trasformazione del proprio io più straordinarie che si presentano all’uomo e alla donna. Si costituisce una relazione in cui il proprio io supera sé stesso e conosce in modo nuovo la sua stessa realtà. Una frase di Romano Guardini, che mi è stata spesso ricordata e che mi accompagna da anni, esprime con mirabile efficacia questa esperienza di ri-generazione nel rapporto di coppia: «Nell’esperienza di un grande amore tutto il mondo si raccoglie nel rapporto Io-Tu, e tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito» (Guardini, 2007, pp. 11-12). Scrive Ratzinger: «[…] il mio io personale è il luogo del più profondo superamento di me stesso e del contatto con ciò da cui provengo e verso cui sono diretto» (Ratzinger/Benedetto XVI, 2018, p. 25). L’io non viene descritto in una prospettiva di adattamento, ma di continuo cambiamento nella relazione sostanziale con la realtà, in una trama che assume una valenza educativa per la persona. Non basta la gestione dell’informazione, occorre un’apertura alla realtà Crescere significa cambiare e cambiare in profondità. Oggi per gestire il cambiamento ci si affida a conoscenze ridotte per lo più a istruzioni e a operazioni – procedure e tecniche di gestione – quando non si cade nel soggettivismo superficiale, dimenticando che non coincidiamo né con le nostre prestazioni né con le nostre emozioni. Prevale decisamente la preoccupazione dell’adattamento, con un obiettivo di compromesso tra sé e le circostanze che si rivela inevitabilmente parziale. Così diventa un problema essere una coppia, una famiglia e di conseguenza ancor più essere genitori. Come relazionarsi? Come comunicare? Il processo di formazione di sé, di crescita, nella sua complessità, non dipende soltanto dagli strumenti predisposti per gestire informazio-


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ni e dati. La stessa informazione è costituita da un insieme di elementi quantitativamente finiti. Grazie soprattutto alle nuove tecnologie, riusciamo a controllarne sempre di più, ma rimangono un numero limitato. L’essere umano, per sua natura, è apertura a ciò che non si esaurisce mai. Siamo sempre più informati, abbiamo imparato a decifrare gli aspetti che ci danno il profilo dell’altro, disponiamo di molte strategie per convivere con lui, per educarlo e formarlo, ma l’incontro paradossalmente diventa sempre più un affare complicato. Oggi è da tutti riconosciuto il problema relazionale e educativo: è difficile vivere insieme, educare, parlarsi. Niente di nuovo. Piuttosto mi sembra che si stia diffondendo una nuova forma di disagio. Penso a un disagio esistenziale dovuto alla fatica di guardare l’altro, di condividere semplicemente la vita con altri e non solo qualche obiettivo o problema. C’è spesso un’attesa vaga, oscura, indefinita nello sguardo reciproco fra genitori e fra genitori e figli che appesantisce e non diventa motivo di incontro. Desideriamo tutti essere in relazione con l’altro e con le cose; e ci sembra impossibile. Non crediamo a noi stessi, ci sembra impossibile cedere a questa nostra esigenza. Se c’è qualcosa che tutti avvertiamo al fondo di noi stessi è questa attesa che continuamente interpella la realtà per avere risposte convincenti. Guardiamo il mondo inevitabilmente attraverso evidenze ed esigenze originali, come le definisce Luigi Giussani: «[…] talmente originali che tutto ciò che l’uomo dice o fa da esse dipende» (Giussani, 2010, p. 9). Rimaniamo tuttavia sopraffatti dal «vivere che taglia le gambe» (Pavese, 1979, p. 166). La riduzione dell’educazione (di cui è responsabile una certa informazione, prima che gli stessi genitori) a una gestione calcolata di risorse, strumenti e istruzioni, tende per lo meno a limitare questa apertura originale dell’io. Rende soprattutto imbarazzante l’imprevisto e genera soggetti sprovveduti di fronte al complesso sistema di significati a cui il vivere continuamente rimanda.


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L’imprevisto sfugge, per definizione, agli strumenti di gestione dei dati seppur sofisticati e in evoluzione. La vita dell’essere umano continuamente eccede ogni possibile sistema codificato di controllo. Il modo di vivere viene elaborato e tramandato attraverso l’interazione degli individui che liberamente assumono i dati di realtà. Le conseguenze di un’educazione che si vorrebbe controllata da procedure sono, da un lato, l’assenza di stupore, e perciò l’angoscia di fronte ai problemi non risolvibili secondo gli schemi a disposizione e, dall’altro, un individualismo autoprotettivo che indebolisce, fino ad annullare, la capacità di concepirsi dentro una storia e dentro una comunità; non sappiamo più raccontare la storia in evoluzione della propria identità; abbiamo disimparato ad ascoltare e interagire con altre storie (cfr. Botturi, 2010, pp. 65-69). Viviamo separati, come osserva MacIntyre: «L’io così separato […] non può avere alcuna storia» (MacIntyre, 2009, p. 267). Generiamo attraverso narrazioni In una prospettiva individualista, senza altri, senza memoria e senza eredità non è possibile generare. Se non so che cosa ho ricevuto, qual è la mia origine, chi sono gli altri con cui posso condividere la mia storia non resta molto da testimoniare, da offrire alle nuove generazioni, da lasciare in eredità. Comunichiamo anzitutto noi stessi e lo facciamo attraverso dei racconti. Scrive MacIntyre: È perché noi tutti viviamo delle narrazioni e intendiamo la nostra vita in base alle narrazioni che viviamo, che la forma della narrazione è adatta per comprendere le azioni degli altri. (Ivi, p. 257)


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Ciò avviene in modo particolare in famiglia, nell’ambito della coppia e tra genitori e figli e tra figli e genitori e poi con i figli dei figli. Anche la scuola, almeno quella per i più giovani, avrebbe molto da guadagnare, sia sul piano educativo che didattico, se la comunicazione fosse narrazione, per condividere un dono ricevuto, liberamente accolto per un compito. […] io eredito dal passato della mia famiglia, della mia città, della mia tribù, della mia nazione, una molteplicità di debiti, di retaggi, di legittimi obblighi e aspettative. Essi costituiscono il dato della mia vita, il mio punto di partenza morale. È in parte questo a conferire alla mia vita la sua particolarità morale. (Ivi, p. 266)

L’etimologia stessa della parola comunicazione contiene queste valenze. Communicatio, in latino, indica uno scambio di munera, e munus è allo stesso tempo “dono” e “compito” (incarico). “Comunicare” significa mettere in comune un “bene”, “mettere a disposizione di un altro” (cfr. Rigotti, 2003, p. 4; Rigotti, Cigada, 2004, pp. 1-3). La comunicazione si rivela così molto vicina alla natura della persona; non un’opzione, ma una sua dimensione ordinata ad essa per il suo riconoscimento nello spazio e nel tempo. Un racconto sgorga da una memoria viva fatta di volti, voci, gesti che, mentre ci interroghiamo su come agire, come rispondere a ciò che urge nella vita in cui siamo immersi, si risvegliano e diventano presenze a cui guardare, ipotesi per rispondere, per esercitare una responsabilità. Non forniscono e non possono fornire né soluzioni né modelli per risolvere il problema che ci sta di fronte ora; non costituiscono la risposta prestabilita e racchiusa nel passato che deve essere ripetuta nel presente. Queste presenze sono parte della nostra visione della realtà a partire dalla quale continuiamo (perché si tratta di un processo che è sempre in corso) la ricerca di un qualche bene «che ci consenta di ordinare gli altri beni» (MacIntyre, 2009,


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p. 265). «È nel corso della ricerca, e solo affrontando e superando i vari mali, pericoli, tentazioni e distrazioni particolari che forniscono alla ricerca i suoi episodi e i suoi incidenti [il corsivo è mio], che la meta della ricerca può essere compresa in modo definitivo» (Ibid.). La meta è il bene, «la vita buona» (Ivi, p. 266) che ci permette tendenzialmente di abbracciare ogni aspetto dell’esistenza, con anche i suoi mali, perché tutto ci spinge verso la ricerca del bene. L’esistenza, se le andiamo incontro, con semplicità e giudizio, riconoscendo ciò che vale, ci guida in questo cammino. Il mio racconto Nel libro ho voluto raccontare alcuni episodi che sono riaffiorati nella mia memoria – talvolta in modo sorprendente – come parte di quella visione della realtà che continuamente si riattualizza nella mia esperienza soprattutto di genitore a contatto con altri genitori. I titoli dei capitoletti del libro rappresentano e sintetizzano lo spunto narrativo attorno al quale si è sviluppata una riflessione sull’essere genitore. Questi titoletti sono piccolissime finestre che si sono aperte attorno a varie sollecitazioni e temi che mi sono trovato ad affrontare. Oggi queste circostanze sono più o meno lontane nel ricordo e per lo più dimenticate, ma sono rimaste queste narrazioni con il loro patrimonio di riflessioni. Rappresentano per me un’eredità, ben focalizzata, nel cammino in divenire dell’esperienza. Quell’episodio, quella vicenda, quell’immagine restano come particolari di una visione del reale che accompagna la ricomprensione di ciò che accade e di ciò che è accaduto. Tutt’altro che rimedio nostalgico per vivere l’oggi. Piuttosto riferimento talvolta ironico per rimanere saldamente attaccati al presente. I capitoli del libro non hanno una logica precisa perché


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sono stati suggeriti da parole ed espressioni sentite o assimilate e depositate sul fondo della memoria, per emergere, talvolta sorprendentemente, grazie a richiami scaturiti dalle circostanze della vita. Rimandi e nessi che rendono più intelligibile la realtà nelle sue molteplici sfaccettature per la forza che hanno di orientarmi dentro l’avventura della memoria e della scoperta giorno per giorno del futuro. Non vi è perciò in queste pagine nessun intento di analizzare il tema dell’educazione dei figli e nessuna pretesa di esaminare le molte problematiche sull’argomento. È certo che la vita non offre all’esperienza un repertorio esauriente di situazioni pratiche a cui attingere per orientarsi, nemmeno in un delimitato campo. Eppure l’esperienza che viviamo costituisce il dato più significativo per essere proprio quel che siamo, non “intimamente”, ma in rapporto al reale; per coglierne e svilupparne, con intelligenza, volontà e adeguati mezzi, le promesse di bene che contiene. Il nostro essere nella realtà, da un lato, moltiplica gli imprevisti, dall’altro rende inesauribili le possibilità nell’esperienza «di ricongiungersi consapevolmente (e parzialmente), al movimento profondo del desiderio» (Botturi, 2011). Il desiderio infatti invoca sempre qualcosa di noto e ignoto che non può possedere e che è la sorgente del suo rinnovarsi continuo. Sono proprio questi episodi che ci permettono nella normalità di incontrare, conoscere e dialogare con altre persone perché sono tra le prime esperienze che desideriamo e speriamo di condividere con altri. Non ho mai visto svilupparsi un confronto fra genitori sull’educazione dei figli partendo da una teoria. Si parla o si finisce per parlare di abitudini, comportamenti, esperienze, problemi in questa o quella situazione, in fondo sempre per scoprire somiglianze e differenze rispetto agli altri e trovare il proprio spazio di pensiero e di azione. Di fronte all’imprevisto, che incide e destabilizza poco o tanto anche la normalità più consolidata, il desiderio cerca sempre il con-senso.


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Chiunque, sia chi è nato in una tradizione culturale diversa dalla propria, sia chi appartiene alla stessa tradizione culturale, ha una memoria viva di avvenimenti o situazioni che porta dentro in modo indelebile come i tratti più significativi del proprio carattere, assieme a una propria proiezione verso il futuro. Ognuno vive in una tradizione fatta di storia, vicende, relazioni, abitudini, che nel tempo certamente cambiano e vivono nel confronto continuo con il presente. Il racconto può allora diventare testimonianza che suscita ascolto e immediato confronto tra esperienze. Succede nei contesti più diversi. Ho detto altrove (Laffranchini, 2015, p. 108) del cambiamento avvertito da tutti i partecipanti a un master per professionisti, nelle lezioni di un certo docente di marketing, che spesso legava il suo discorso, piuttosto tecnico, con vicende che lo avevano segnato e, si capiva, avevano orientato la sua stessa ricerca accademica. Molti di noi ricordano forse l’esperienza di un’ipotesi significativa per guardare il mondo e magari anche per impostare l’educazione dei figli, associata a un primo fondamentale nesso con un episodio, un volto, una sensazione vissuta, un ambiente, un pensiero, un interrogativo appartenenti alla storia personale o comunitaria. Esperienze emerse nella nostra memoria e rimaste impresse, così come potrebbero poi scomparire, ma anche ripresentarsi attraverso un’altra circostanza della vita. Fatti e interpretazioni assumono così il valore di ipotesi per cogliere nuovi nessi, nuove ipotesi che risveglino «il senso del vero» «che sonnecchia in ogni uomo», come scriveva la filosofa Jeanne Hersch parlando dell’insegnamento di Socrate (Hersch, 2002, pp. 17;19). «Fatti e interpretazioni sono dunque parole che si offrono ad altri racconti possibili che ci consentono di pensare meglio chi siamo e il valore della nostra esistenza» (Bertola, 2014, p. 79).


Riferimenti bibliografici

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Indice

Prefazione Luca Botturi

p. 5

Introduzione Narrazione e ricerca del senso

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1. Adam, “dove sei?”

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2. «E mia mamma lo disse a me»

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3. Segreti scolastici e segreti famigliari

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4. La storia di Ernestina

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5. C’è qualcuno che è felice?

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6. Io ti ho fatto

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7. La colpa morì fanciulla

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8. Davanti allo specchio

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9. L’ubriacone e la prostituta

» 133

10. Le mamme vanno in Paradiso

» 141

11. Voi non mi credete!

» 149

12. Marocaine

» 163

13. San Giuseppe era un buon padre?

» 171

Riferimenti bibliografici

» 185


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si può essere un buon padre?

Io eredito dal passato della mia famiglia, della mia cittĂ , della mia tribĂš, della mia nazione, una molteplicitĂ di debiti, di retaggi, di legittimi obblighi e aspettative. Essi costituiscono il dato della mia vita, il mio punto di partenza morale. Alasdair MacIntyre


Oggi tutti riconoscono che è difficile convivere, educare, parlarsi, ma senza altri, senza memoria e senza eredità non è possibile generare. Se non so che cosa ho ricevuto, qual è la mia origine, chi sono gli altri con cui posso condividere la mia storia non resta molto da offrire alle nuove generazioni. Comunichiamo anzitutto noi stessi e lo facciamo attraverso dei racconti. Ciò avviene in modo particolare in famiglia. Un racconto sgorga da una memoria viva fatta di volti, voci, gesti che, mentre ci interroghiamo su come agire, come rispondere a ciò che urge nella vita in cui siamo immersi, si risvegliano e diventano presenze a cui guardare.

Roberto Laffranchini Roberto Laffranchini (Bellinzona, 1955) ha diretto le scuole gestite dalla Fondazione San Benedetto di Lugano, di cui è attualmente consulente pedagogico-didattico. Insegna Storia ed Etica presso il liceo della Diocesi di Lugano. Ha pubblicato Il rischio della libertà. Un’esperienza di scuola. rlaffranchini@gmail.ch

€ 16,00 itacaedizioni.it


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